Imprenditori Lavorazione del cacao. A sinistra, lo spettacolare mare di São Tomé e Príncipe e Claudio Corallo nella sua piantagione.
La sua Africa
Cioccolataio era sarcastico per il torinese Gianni Agnelli, simbolo del capitalismo di relazione. Nell’era della globalizzazione è un merito per chi fa il mestiere come Claudio Corallo, il migliore del mondo. Che racconta qui la sua storia avventurosa | Alessandra Gerli
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e del cacao, l’ha incoronato Der Spiegel, il settimanale tedesco più venduto, definendolo «un perfezionista ossessionato dal sapore e dai risultati». È un «outsider eccentrico che ha reinventato tutte le fasi della lavorazione», l’ha descritto il National Geographic. Il suo cioccolato è stato acclamato «il migliore del mondo» da intenditori e addetti ai lavori. «Quasi disorienta con il suo potente impatto, per poi rapirci in una dolce inesauribile persistenza», lo ha magnificato il Seminario permanente LuigiVeronelli, associazione per la cultura del vino e del cibo intitolata al grande enologo italiano. «Difficile dichiararlo il migliore del mondo: è fuori categoria», ha scritto L’Express: «Non si può dire di conoscere il cioccolato, se non si è gustato quello di Corallo». Difficile anche dire cioccolataio per sprovveduto, mediocre, come piaceva a Gianni Agnelli quand’era in vena di sarcasmo. Con Claudio Corallo, cioccolataio è diventato sinonimo di imprenditoria seria: «Il nostro non è un cioccolato migliore degli altri. È un’altra storia, un’altra strada, un’altra maniera di interpretare il cacao che comincia in piantagione», dice. Corallo ha 65 anni, è nato a Sesto Fiorentino ed è un uomo schivo.Vive sobriamente, abita in una casa modesta ed è l’unico al mondo a coltivare il cacao e a produrre il cioccolato nello stesso posto: da vent’anni vive tra São Tomé e Príncipe, due isole vulcaniche del Golfo di Guinea, sulla linea dell’Equatore, che costituiscono il secondo più piccolo stato africano dopo le Seychelles. Là si sveglia all’alba per andare «a lavorare 42
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in piantagione con la mia gente» e tira fino a sera controllando ogni fase della produzione. Dal campo alla tavoletta di cioccolato, ha messo a punto un metodo unico, provando e riprovando. Indifferente allo spirito competitivo, impermeabile ma non insensibile alle celebrazioni, cerca anzitutto di migliorare la qualità, osservando, sperimentando, correggendo, con la stessa meticolosità dei viticoltori nella sua Toscana. «C’è poco da fare, ogni attenzione, ogni cura, ogni cosa che fai la ritrovi nel finale, anche gli errori», dice. Ma un segreto, per ottenere tanti apprezzamenti, l’avrà... Non ha incertezze: «È la passione. Come per chi fa il vino, o l’olio, o le barche, prima di tutto deve piacerti quello che fai». A volte non basta... «Sì, ci vuole anche il sapere, che cresce con la passione. Se fai le cose con amore, migliori, impari, sviluppi. Si dice così?», domanda, aspirando la c col suo indelebile accento fiorentino: qualche dubbio su una parola ogni tanto gli viene, dopo una vita vissuta lontano dall’Italia. La storia del re del cioccolato, però, comincia con il caffè. Un fiorentino in Congo È il 1974, Corallo ha appena compiuto 23 anni. Con un diploma in agraria e la specializzazione in agronomia tropicale dell’Istituto per l’oltremare di Firenze, più un contratto per un progetto di cooperazione in tasca, parte per lo Zaire, come l’allora presidente dittatore Mobutu Sese Seko aveva ribattezzato l’odierna Repubblica democratica del Congo. Per quel
paese il 1974 è un anno speciale. La Nazionale di calcio gioca al Mondiale in Germania, prima squadra dell’Africa subsahariana ad agguantare la qualificazione. A Kinshasa, la capitale, Muhammad Ali sconfigge George Foreman e riconquista la corona dei pesi massimi in The rumble in the jungle, uno degli incontri più celebri della storia del pugilato. Nonostante gli enormi giacimenti di materie prime e le miniere di diamanti, però, lo Zaire resta uno dei paesi più poveri del mondo, con un livello di disoccupazione intorno al 45% e un tasso di inflazione prossimo al 500%. Entusiasta, il giovane Corallo partecipa a uno studio sulla piccola agricoltura semitinerante dei villaggi nell’interno e, per la prima volta, entra «nella foresta vergine che avevo sempre sognato». Un colpo al cuore: «Dopo un anno do le dimissioni. Avevo visto abbastanza», dice, sorvolando sulle delusioni, sull’inutilità di missioni di aiuto che portano idee impraticabili e denaro che finisce nelle tasche sbagliate. «Penso di tornare in Italia, ma siccome conosco l’interno del paese, parlo il francese e il lingala, una lingua locale, mi offrono un contratto da broker di caffè in Zaire», ricorda Corallo. Così per oltre due anni compra, trasforma ed esporta caffè: «E lì è bellino, perché posso comparare i piccoli campi veduti il primo anno in foresta con le grandi piantagioni che usano prodotti fitosanitari». Il responso? «Non mi piacciono né gli uni né gli altri. Ma sono incuriosito, scopro che negli stessi terroir, dalle stesse varietà di piante, si producono caffè diversissimi: buoni, profumati, o banali, o proprio cattivi.A quel punto decido che
voglio fare il mio caffè». Compra due piantagioni abbandonate da anni nella zona di Lomelà, al centro dello Zaire, isolate nel mezzo della foresta pluviale. Per arrivarci da Kinshasa deve percorrere 1.650 chilometri in piroga a motore, risalendo i fiumi che Joseph Conrad ha raccontato in Cuore di tenebra. A piedi nudi nella foresta Nel 1979 Claudio Corallo sposa Bettina, la bella figlia diciottenne di un diplomatico portoghese. Il giorno dopo si trasferiscono insieme nelle piantagioni, 15 chilometri quadrati quasi completamente reinghiottiti dalla foresta. «Piano piano, con tantissimi errori, cominciamo a ripulirle, a lavorare in grande sintonia con l’ambiente e le persone del posto, che sono super: vivono di caccia, pesca e piccola agricoltura, traendo dalla foresta tutto quello che serve». Che cosa attira due sposini nel cuore dell’Africa nera nei primi anni Ottanta? «Quello è un posto bello da impazzire, in due è da non sapere che cosa scegliere di meglio. Non c’è il mare, ma una foresta favolosa nella quale entriamo ogni volta che possiamo.Andare in foresta vuol dire spogliarsi, levarsi le scarpe, rimanere con un paio di pantaloncini corti, cose leggere, che non fanno rumore, lavate nell’acqua dei fiumi e dunque senza odore, per seguire gli animali: leopardi, bufali, elefanti... roba da pelle d’oca». E glissa sulla fatica, le difficoltà di rifornimento, il caffè che impiega settimane di navigazione per arrivare alla capitale, i crolli improvvisi del prezzo sui mercati globali. E sugli assalti dei
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