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IL RACCONTO
by CNA
IL RACCONTO
POST FATA RESURGO
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ELINA MEDEA
Rimasi immobile fra la polvere della banchina mentre il treno riprendeva sbuffando la sua corsa verso paesi ancora più a sud. Ero senza fiato, lo stomaco serrato, le mani tremanti che stringevano l’unica valigia che mi ero trascinata dietro. “Sei tornata al punto di partenza” mi pungolò una vocina maligna, occupante indesiderata di qualche angolo della mia testa. “Ti sbagli” la rimbeccai. “Sono qui per mettere a posto le cose, per correggere il percorso…” Il primo passo fu quello più duro, poi mi avviai veloce verso l’uscita e sbucai sullo stradone assolato e deserto che divideva in due le campagne. L’aria era immobile e il frinire delle cicale tanto intenso da sovrastare per un attimo ogni pensiero, il cielo blu cobalto privo di nuvole e i filari di grano dorato che crescevano silenziosi e si estendevano per miglia in ogni direzione. “Il tempo non esiste” pensai con un nodo in gola, avviandomi lungo lo stesso sterrato che vent’anni prima mi ero lasciata alle spalle senza voltarmi. Il sole era cocente, il soprabito troppo pesante e a ogni passo affondavo coi tacchi per metà nel terreno pietroso. Mi fermai dopo poche centinaia di metri e piantai la valigia al centro della strada, cercando di ricompormi. La aprii e ne soppesai il contenuto cercando di deglutire il nodo che tentava di soffocarmi da quando ero scesa da quel treno. Le mie cose, almeno quelle che mi ero portata dietro dalla vita precedente, scappata da un matrimonio che mi aveva depersonalizzata, resa dipendente e schiava, ridotta all’ombra di me stessa, mi apparvero in tutta la loro miseria. Avevo ammucchiato delle camicette e dei jeans, forse due gonne e un paio di Nike, svuotato la beauty coi trucchi fra gli slip e infilato 200 euro fra le pagine di un libro. Fissai per qualche istante quella che d’un tratto ai miei occhi divenne robaccia, solamente un impiccio, e scossi la testa disgustata. «Non mi serve niente di tutto questo» mormorai alla strada che mi si srotolava davanti potente, vasta, libera. Come risposta le cicale frinirono più forte, io respirai a fondo e finalmente mi calmai. Tutto quello che non doveva essere, non era più. Avevo mollato la presa, liberato i fantasmi e compreso che non avevo vissuto altro che illusioni. Il silenzio delle notti senza sonno, dei giorni trascorsi a fissare in lontananza il profilo di una fontana, domandandomi se lasciarmi affogare in poche dita d’acqua avrebbe potuto in qualche modo lenire il dolore insopportabile che mi dilaniava, erano finiti. Senza perdere altro tempo, tirai fuori dalla valigia le scarpette da ginnastica e mi liberai di quelle laccate, lasciandole cadere fra la polvere; sfilai anche il soprabito e mi assicurai le banconote nel reggiseno. Abbandonai tutto in mezzo alla strada e mi sentii subito più leggera. Il paese che sorgeva oltre i filari di grano distava parecchio, ma io non avevo fretta. Ero ansiosa di raggiungerlo, tuttavia sapevo che il percorso da compiere valeva quanto la meta e da quel momento in poi ne assaporai ogni passo: divenne il mio pellegrinaggio. Avevo lasciato cadere la valigia e poco più avanti mi sfilai gli orecchini e la collana, e così l’orologio, e mentre quelle cianfrusaglie senza valore cadevano fra le pietre, immaginai di strapparmi dalle carni decine di chiodi, di vomitarne a fiotti, tutti i chiodi che negli anni avevo ingurgitato senza capire, fino a quando l’aria era diventata rovente nei polmoni, insopportabile dentro, ogni ricordo distorto, ogni illusione, paura, dubbio, ogni immane sforzo di comprensione che avevo compiuto e che mi era rimasto conficcato dentro
avvelenandomi l’anima. Finalmente mi liberavo. Perché dopo il miracolo della rinascita, dopo essere uscita dal baratro freddo e nero della depressione, la strada mi portava dalla donna che ero e che avevo boicottato per una vita che, alla fine, non era mai stata la mia, per una vita che, alla fine, mi aveva rifiutata e nella quale, a distanza di tempo e nel pieno delle mie facoltà, non mi sarei mai più riconosciuta. Raggiunsi la pompa di benzina alle porte del paese quando il sole era un disco perfetto a picco sulla mia testa. Ero fradicia di sudore, spettinata, e quando cercai il mio riflesso nella vetrina della tavola calda mi sorpresi nell’accorgermi che stavo sorridendo. Allora sorrisi più forte ed entrai. Dietro al bancone ci ritrovai Bon, forse più grigio, ma grasso e con le sopracciglia cespugliose come me lo ricordavo. «Buongiorno bella signora» mi salutò, osservandomi. «Come posso aiutarla?» Per un attimo temetti che non mi venisse fuori la voce, e invece risposi con scioltezza. «Può cominciare col darmi un tramezzino e una bottiglietta d’acqua naturale.» «Sissignora. Vuole accomodarsi?» Dissi di no e abbassai lo sguardo a fissarmi le scarpe. Il cuore aveva preso a martellarmi nel petto, il ricordo di me che da ragazzina scappavo da me stessa e dal giudizio che tutte quelle persone timorate di Dio avrebbero potuto muovermi contro, mi fece veramente tenerezza. Solo tenerezza, nessun dolore. La ragazzina in fuga, la moglie maltrattata dal marito narcisista, la larva umana accartocciata sulla panchina del cortile della clinica riabilitativa non esistevano più; al loro posto c’era una donna libera, pronta a riprendersi il suo ultimo pezzo per tornare intera. «Bon, lei non si ricorda di me» iniziai, alzando lo sguardo sull’omone e cercando i suoi occhi. «Sono passati vent’anni, ma sono la figlia del pastore Armeno, Hirene, e sto cercando Vera. Ho saputo della morte di sua madre, ho saputo anche che diversi anni fa lavorava alla scuderia. Potreste dirmi se abita ancora nei dintorni?» Contro ogni previsione, Bon mi concesse un enorme sorriso e annuì. «Certo che la signora dei cavalli abita ancora a Red Stone. Diamine, la scuderia è sua e anche la tenuta. Ha rilevato tutto. Ha fatto un gran lavoro. Organizza escursioni, arrampicate, esplorazioni…» «Dove posso trovarla?» lo interruppi, senza fiato. «Sempre alla scuderia. Eh, bella signora, non mi sono certo dimenticato di lei. Neanche Vera, immagino.» Avvampai e sorrisi. Lasciai una banconota sul bancone, lo ringraziai e scappai prima che il mio tramezzino fosse piastrato perché non potevo aspettare. Non misi piede nel paese, mi inerpicai diretta lungo il sentiero che portava alla tenuta senza neanche guardare le indicazioni, affidandomi ai ricordi. Percorsi quasi di corsa la via che si diramava fra gli alberi e sbucai improvvisamente di fronte al cancello di ferro che la delimitava. Lo trovai spalancato e il prato che costeggiava il sentiero scintillava sotto gli spruzzi degli innaffiatori. Il sole era accecante, il blu del cielo e lo smeraldo dell’erba mi abbagliarono, ma non mi fermai. Oltrepassai l’ingresso e mi sentii riempire di grazia, quasi iniziai a correre. Il recinto utilizzato per addestrare i cavalli era ancora sul lato est della tenuta e allora, per fare prima, abbandonai il sentiero e attraversai il prato chiedendomi quanti anni fossero passati dall’ultima volta che l’avevo fatto. Una donna atletica, coi capelli rossi cortissimi teneva le briglie di un cavallo pezzato. Si accorse della mia presenza e si riparò gli occhi dal sole cercando probabilmente di capire chi fossi. Pochi istanti e lasciò cadere le briglie del cavallo per corrermi incontro.