INDICE 1. PER UN SERVIZIO SOCIALE ALTERNATIVO 1.1. Il welfare italiano, chi l’ha visto? 1.2. L’evoluzione dell’assistenza sociale in Italia 1.3. L’evoluzione del ruolo professionale 1.4. La questione del mondo del lavoro 1.5. Una professione in evoluzione 1.6. Imprenditori di se stessi 1.7. L’autonarrazione del professionista 1.8. Il bilancio di competenze 1.9. Comunicare se stessi 1.10. Intervistare gli assistenti sociali 2. Intervista a Lina Daniela Bevacqua 3. Intervista a Luigi Colaianni 4. Intervista ad Andrea Giuseppe Denaro 5. Intervista a Nicola Martinelli 6. Intervista ad Antonietta Paglia 7. Intervista a Sergio Pascuzzo 8. Intervista ad Ilaria Staffulani 9. Intervista a Marzia Trugli 10. Intervista a Gabriele Zen 11. Due righe per ognuno
Luigi Colaianni Se il percorso del servizio sociale verso la direzione di scienza richiede una sistematizzazione epistemologica dello stesso sapere, è naturale che vada fatta ricerca in quella direzione. “All’orizzonte nulla di nuovo”, direbbe un cowboy dei film western rintanato nel fortino nell’attesa dell’attacco degli indiani, ed infatti per espugnare il fortino (di cartone), ci vuole un po’ di coraggio e quella sana temerarietà del rivoluzionario. Ecco Luigi Colaianni, assistente sociale specialista presso il Dipartimento di neuroscienze e salute mentale della Fondazione Policlinico – Ospedale Maggiore di Milano, attualmente ricercatore presso l’Università di Padova. Ho avuto occasione di intervistarlo e devo dire che è davvero interessante confrontarsi con lui; è un onore che volentieri condivido con i colleghi. Si tratta di un’intervista non facile, perché questa tocca aspetti molto profondi della nostra stessa disciplina, è quindi un’intervista da gustare a piccole dosi, con un invito alla profonda riflessione e all’autocritica costruttiva. Albano Che il servizio sociale si possa collocare come disciplina scientifica, ciò è una realtà che non deriva solo da un dettato legislativo, quale è quello del D.M. Università n. 599 del 1999, in cui viene creata la classe VI della “laurea in scienze del servizio sociale”, ma deriva da un lungo percorso storico, un percorso ancora in divenire. Il servizio sociale italiano è nato come “funzione organizzativa” e si sviluppa solo dopo come “professione”, ma ciò richiede, oggi come non mai, la definizione del proprio obiettivo, delle teorie che permettono di definire l’oggetto conoscitivo e quindi come ricaduta del ruolo dell'assistente sociale per riempire di significato – vero e non solo formale – il suo profilo al cospetto delle altre aree scientifiche e professionali. Il tutto, poi, con le logiche ricadute sulle prassi. Non è per nulla scontato che il servizio sociale abbia pari dignità con le altre aree disciplinari, tant’è che per lo stesso mondo accademico il servizio sociale proviene da più campi disciplinari e non ha un suo corpus: l’allocazione dei suoi insegnamenti nell’area sociologica SPS 07, almeno per quanto riguarda il nostro ordinamento universitario, la dice lunga su questa annosa fatica. Si tratta di un onere demandato a tutto il gruppo professionale, nella cui impresa, però, iniziano a cimentarsi i diversi (e pochi) ricercatori in servizio sociale: sono loro che stanno gettando le basi per una “sistematizzazione” della teoria che possa supportare il servizio sociale come prassi operativa scientificamente fondata. Uno di questi è Luigi Colaianni, assistente sociale presso la
Fondazione Policlinico – Ospedale Maggiore di Milano, attualmente ricercatore presso il Laboratorio di Metodologia di Analisi dei Dati Informatizzati Testuali dell’Università di Padova. Professor Colaianni, si presenta alla platea degli assistenti sociali a cui ci rivolgiamo? E, prima di tutto, ci diamo del Lei o del Tu? Colaianni Il tu va benissimo. Voglio ringraziarti per l’attenzione che poni al mio lavoro e per la possibilità di questa conversazione. Ho sessantadue anno, sono, come si dice oggi, assistente sociale specialista, mi sono perfezionato in alcologia presso l’Università di Bari, ho conseguito il dottorato di ricerca in servizio sociale e sociologia – XVI ciclo – presso il dipartimento di Scienza dell’educazione di RomaTre nel 2004 e il master in valutazione della qualità dei servizi socio–sanitari presso UNIBO nel 2009. Ho iniziato a misurarmi con le possibilità che questa professione offriva alla fine degli anni ’70, quando, incuriosito nei miei giri in libreria da una rivista con la copertina in carta da pacco, i “fogli di Informazione”, è incominciata quest’avventura: vi si trattava di una nuova psichiatria critica, con articoli firmati da Paolo Tranchina, Franco Basaglia, Antonio Slavich, Nicoletta Goldschmidt, Agostino Pirella, Vieri Marzi, Cesare Bondioli, Paolo Serra e tante altre persone che attestavano sul campo la possibilità di una diversa prospettiva di lavoro con le persone generalmente definite “folli”. Ma le parole non bastavano per comprendere, e così mi iscrissi al corso in servizio sociale dell’allora Scuola Superiore di Servizio e Sicurezza Sociale dell’Amministrazione provinciale di Bari e nel giro di un anno ero ad Arezzo, per un tirocinio presso l’Ospedale psichiatrico provinciale, allora diretto da Vieri Marzi, per acquisire di prima mano cosa significasse pratica anti–istituzionale e lavorare per l’apertura (e la successiva chiusura) di un’istituzione totale come il manicomio. In quegli anni di studio ho poi incontrato uno di quei libri che ti rovinano la vita per sempre e da cui non c’è ritorno: “come si fa ricerca” (Oscar Mondadori, oggi introvabile) di Gian Antonio Gilli: da allora la mia traiettoria biografica ha preso una direzione che negli anni si è precisata e che non ha – ancora – trovato ripensamenti radicali: l’approccio critico e decostruttivo alle pratiche sociali, viste come prodotto delle interazioni comunicative, a livello micro e macro, e degli apparati dei dispositivi disciplinari. Ho condiviso quei giorni di formazione e di vivace dibattito con persone come Livia Palazzi e Milena Cassano, e, non ultimo, è motivo ancora di ricordo piacevole la disponibilità e l’interesse per i temi della formazione dell’allora Presidente della Provincia di Bari, Gianvito
Mastroleo, con cui spesso abbiamo discusso per migliorare la formazione, le possibilità e le occasioni che la scuola poteva fornire. Terminato il percorso formativo nel 1980, ho partecipato a una selezione pubblica della Provincia di Genova per operatori sociali nei servizi di salute mentale, intesa a rafforzarli nelle attività a loro delegate in favore delle persone con comportamenti a rischio (consumo di sostanze tossiche psicoattive). Ho vissuto e lavorato in quella città schietta e ventosa che mi ha ripulito di tutti gli orpelli e le cose inutili; per me è stato come il Vietnam, un luogo in cui o si migliora, o si soccombe: io sono cambiato – nel bene e nel male, visto che non mi sono perso – e porto con me ancora tutto questo, insieme all’amicizia delle persone con cui ho condiviso quel percorso di vita: Nadia Schichter, Euri Predonzani, Luigina Mariani. Nel 1988 sono “tornato” a Bari, e ho lavorato in quello che sarebbe diventato un Ser.T. (allora si chiamavano C.M.A.S.) e insieme a Maria Teresa Salerno della clinica Medica dell’Università di Bari abbiamo sviluppato la rete territoriale dei Club degli Alcolisti in Trattamento: un’esperienza di grande densità professionale – dove ho compreso che ciò che fa la differenza è la competenza delle persone e la qualità delle interazioni anche nel lavoro – e di grande amicalità con le famiglie e le persone che, da essere considerate e considerarsi motivo di vergogna per se stesse e impresentabili, hanno ripreso in mano la loro vita (recovery) e oggi costituiscono una risorsa indispensabile per promozione della salute e del benessere nelle loro comunità locali. Durante quel periodo è incominciata la mia esperienza di insegnamento con il DUSS dell’Università di Lecce, prima con “Politica dei servizi sociali” a Lecce, e poi, fino al 1996, con “Metodi e tecniche del servizio sociale” nella sede di Taranto. Ma la vita stava per portarmi lontano, e alla fine del 1996 mi sono trasferito a Milano, dove ho lavorato nei servizi di salute mentale (denominati “Centri Psico Sociali”), prima della ASL 41, servizio trasferito poi all’A.O. Sacco. Da quel servizio nel 1999 me ne sono andato “scuotendo la polvere dai miei calzari” perché ho subito un tentativo di mobbing (in quegli anni ancora non se ne parlava un gran che), fronteggiato con efficacia, generatosi in virtù di un conflitto sorto con il responsabile del servizio che riteneva di non contemplare per il ruolo di assistente sociale l’autonomia “di giudizio” sancita dalla normativa e dal codice deontologico. Oggi lavoro nel C.P.S. di Zona 10 di Milano. Anche a queste latitudini ho svolto attività di docenza, prima presso l’Università del Piemonte Orientale, nelle sedi di Novara e Asti, per la mia materia (M.T.S.S. I e II), poi presso UNITO dove ho fatto parte del gruppo di ricerca sulle transizioni biografiche; presso la Lumsa di Roma;
l’Università di Cassino, l’Università di Padova dove oggi coopero con le attività del Laboratorio MADIT (Metodologia di Analisi dei Dati Informatizzati Testuali). Negli anni mi sono occupato anche di formazione extra accademica, nei programmi alcologici, in quelli per la promozione di esperienze di auto aiuto e di mutualità, e nella consulenza formativa (formazione e supervisione) dei professionisti assistenti sociali; oggi sono formatore accreditato dal CNOAS e autorizzato dal Ministero della Giustizia, secondo quanto previsto dalla corrente normativa. Culturalmente sono stati e sono miei riferimenti i testi di Franco Basaglia e di Annah Harendt; di Gregory Bateson, di Michel Foucault e di Erving Goffman (il costrutto di stigma è cruciale nella nostra prassi operativa); ho un debito di riconoscenza verso Augusto Ricciardi, studioso e formatore bioniano, che mi ha permesso di apprendere tutto ciò che è importante circa i gruppi e di distogliermi dalla psicodinamica, e verso Gianfrancesco Lanzara (come prescindere dalla Negative capability?). Negli ultimi dieci anni, a partire dal dottorato, la mia linea di ricerca ha operato quello che definisco uno “scarto paradigmatico”, necessario per dare risposta alle sfide che la contemporaneità pone, da modalità conoscitive che in sostanza facevano riferimento al senso comune, verso modalità discorsive – quella che gli anglosassoni chiamano “rhetorical turn” – il cui alveo fertile ha portato a rimettere in corretto rapporto teoria e prassi grazie al contributo di quanto la scienza dialogica (Turchi 2009) offre, sia in termini di modello teorico, sia applicativo spendibile nell’intervento sociale sia in fase di assessment, sia di counselling, sia di evaluation. Ciò ha permesso di poter offrire alla comunità professionale e accademica la descrizione del counselling biografico dialogico, quale strategia che permette di generare cambiamento nelle biografie degli utenti (o clienti) (Colaianni, Ciardiello 2012, Cambiamo discorso. Diagnosi e counselling nell'intervento sociale secondo la scienza dialogica, Franco Angeli). E domani? Non so… la mia età mi dice che non è più il “mio” momento, che altri sono chiamati a disporre degli “attrezzi per migliorare, che cominciano dove finisco io e sanno come continuare”, come scriveva in una sua canzone Flavio Giurato. Tuttavia ricordo sempre a me stesso il detto per cui “se non si va, non si vede…”. Albano Il tuo è certo un curriculum di tutto rispetto, non tanto per l’insieme in sé delle esperienze, quanto per il tuo costante atteggiamento di ricerca. Colpisce infatti il tuo approccio critico e decostruttivo delle pratiche sociali, il che, suppongo, ha certamente contaminato il tuo
percorso di dottorato di ricerca in servizio sociale, o sbaglio? Colaianni Schön scrive che il professionista «quando riflette nel corso dell’azione, diventa un ricercatore operante nel contesto della pratica. Non dipende dalle categorie consolidate della teoria e della tecnica, ma costruisce una nuova teoria del caso unico. [...] Poiché la sua sperimentazione rappresenta una sorta di azione, l’implementazione è costruita nell’ambito dell’indagine» (Schön D., 1993, Il professionista riflessivo. Per una nuova epistemologia della pratica professionale, Bari: Edizioni Dedalo, 94). Siamo costantemente sul fronte della ricerca, perché siamo costantemente “gettati” nell’azione e in presenza di interrogativi cognitivi che al tempo stesso sfidano la teoria e richiedono una sua corroborazione, e questo carisma permette di asserire che si è in presenza di una professione “riflessiva”: a patto che tale riflessività (mettersi fuori da sé, porsi in posizione “terza” rispetto al proprio agire comunicativo) si compia in virtù di criteri scientificamente fondati e non di teorie personali di senso comune. Nel primo caso si sarà in presenza di una prassi e l’errore risulterà fertile in quanto comunque riferito a una filiera conoscitiva terza; nel secondo si avrà mera pratica, e lo sbaglio sarà imputato a “proprietà” disposizionale dell’errante. Il punto critico è che spesso manca la formalizzazione di tutto ciò che scopriamo/costruiamo con le persone e le famiglie nei vari contesti, in modo che possa essere trasmesso al mondo professionale e al mondo scientifico, in particolare nella formazione dei nuovi assistenti sociali; ciò in virtù dell’assunzione fallace che la pratica di per sé generi teoria. Per dirla con una frase, se si pecca in qualcosa, è nel passaggio dal “fare” al “dire”, cosa non secondaria per una professione. Per questo – perché senza costante ricerca e quindi senza teorie fertili che generino strategie applicative non si può svolgere quel ruolo di “agente di cambiamento”, definizione così pregnante per la nostra professione – quando la situazione formativa si è aperta con la laurea sperimentale di Trieste (e della LUMSA) ho conseguito il titolo (2000), cosa che ha permesso di concorrere per un dottorato di ricerca in servizio sociale (l’unico in Italia, allora, ad avere questa precisa definizione), conclusosi con una tesi sul costrutto comune alla sociologia e alla psicologia sociale che è stato definito «competenza ad agire», ovvero sul processo per cui le persone mobilitano le proprie competenze nel fronteggiano eventi inediti e spesso inattesi – e quindi spiazzanti – e su come il servizio sociale può supportarle (Colaianni, 2007, La competenza ad agire: agency, capabilities e servizio sociale. Come le persone fronteggiano eventi inediti
e il servizio sociale può supportarle, Franco Angeli). È stata una esperienza bellissima; pensa: per tre anni non ho fatto altro che leggere, studiare, apprendere, sperimentare, fare domande, definire ipotesi e costrutti, discuterne con docenti, persone e colleghi; e poi scrivere le 326 pagine di tesi, e mettere in luce, formalizzandoli, aspetti che tutti più o meno pratichiamo, ma che spesso non sappiamo definire nominare. È un lavoro che certamente ho fatto per me, perché mi sono molto divertito; l’ho fatto anche per restituire qualcosa alle persone e alle famiglie con cui ho avuto professionalmente a che fare in questi anni e da cui tanto ho appreso, e anche per offrire «una versione del mondo», quale quella che deriva dalla mia ricerca qualitativa, alla comunità professionale e scientifica, perché se «nella scienza è la teoria che alimenta l’immaginazione» (Silverman D., 2002, Come fare ricerca qualitativa, Roma, Carocci, 345), allora è mia speranza che da questa configurazione discorsiva di realtà possa generarsi un modo di fare – e quindi un modo di vedere e di narrare – in cui l’immaginazione possa spingersi oltre e rendere, presto, tutto ciò obsoleto. Albano Se quindi interpreto bene il tuo pensiero, l’invito che rivolgi ai colleghi è quello di dover/poter formalizzare tutto ciò che essi scoprono/costruiscono nel lavoro sociale. Non credi però che il “problema della non formalizzazione delle prassi” derivi anche da una debolezza intrinseca del servizio sociale in senso epistemologico (nel senso che esso viene considerato come mera pratica applicativa di un sapere altrui)? Il riferimento ad approcci “clinici”, per esempio, o ad approcci “mutuati” da altre scienze, rischia di confermare il servizio sociale come “non scienza”. Che direzione pensi di indicare ai colleghi – lo chiedo a te come ricercatore – per una “(ri)fondazione scientifica” del servizio sociale, per un riferimento identitario–applicativo (parlo di sviluppo di “senso interno”, di ricerca e di prassi conseguenti) più che necessario per la professione? Colaianni La mia non è una osservazione sul piano della volontà o del dover essere; valuto piuttosto che serva partire dalla constatazione che il servizio sociale, come anche altre professioni “deboli” (Glazer) come l’insegnamento, risente, nell’essere una prassi operativa, da una parte del forte legame con l’azione (il fare), dall’altra della debolezza dello statuto fondativo su cui poi si basano i suoi approcci metodologici, spesso declinati nel loro aspetto meramente procedurale (il colloqui, la visita
domiciliare, etc). Il primo aspetto appare certamente come un vincolo, ma è anche il carisma della professione (agente – chi agisce; scriverei: gestisce), e non nel senso prosaico che l’assistente sociale è sempre “sommerso” dalle cose da fare, ma nel senso che è proprio l’azione – gli anglosassoni parlano di agency – il costrutto proprio dell’intervento, a partire dal quale giustificare metodi efficaci e best practices. E si dà azione solo se c’è narrazione, discorso, testo. La debolezza dello statuto fondativo è un problema che può trovare risposta, a patto di distogliersi da paradigmi e quindi da modelli che appartengono ad altri statuti professionali, come il paradigma meccanicistico che è alla base del modello medico (adottato in modo improprio anche dalla psichiatria e dalla psicologia clinica) che postula legami tra enti di tipo causa–effetto e che ne giustifica l’operatività. Certamente, se non si risolve questo aspetto, la professione è condannata a un ruolo ancillare verso altre come innanzitutto quella del medico, dello psicologo e dello psichiatra, e tutte quelle che utilizzano un modello clinico e che, pur senza una reale verifica di efficacia, ovvero la falsificabilità delle ipotesi di cui scrive Popper, tuttavia sono titolate a definirsi come professioni terapeutiche, forti delle etichette linguistiche quali la diagnosi genera. Al di là di cosa si voglia intendere con “terapeutico”, è evidente che la sua accezione praticata e normata è quella relativa all’esercizio di prassi e tecniche terapeutiche, riconosciute e validate da specifica formazione, cosa che gli assistenti sociali – in Italia, ma anche più in generale in Europa – non apprendono nel loro corso di studi e che quindi, correttamente, non sono vocati a fare. Ma, allora, perché fare i “clinici” (qualcuno scrive di “servizio sociale clinico”) quando questo non è necessario per la costituzione della professione, e in più ne tradisce la vera vocazione? Distogliersi da tutto questo è possibile, evidentemente, se si riesce a dare una definizione chiara e distinta del fondamento conoscitivo del servizio sociale come prassi operativa e quindi scientificamente fondata; così come il “corpo” è il fondamento della medicina, l’atomo della chimica, la relazione numerica per la matematica, la figura geometrica per la geometria, qual è il fondamento del servizio sociale? Per comprendere meglio ciò di cui sto parlando, riporto l’esperienza fatta nella mia ricerca, in merito alle risposte date da testimoni qualificati assistenti sociali alla domanda: “Se dovessi spiegare a tuo figlio/a cosa fa l’assistente sociale, cosa diresti?”. Se noi chiedessimo a un ortopedico di rispondere ad una domanda simile per la sua professione, probabilmente risponderebbe, in modo semplificato ma efficace, che aggiusta le ossa; un idraulico, che aggiusta i tubi, un musicista, che sa
eseguire una partitura con uno strumento musicale, etc.; ma un assistente sociale? Cosa “aggiusta”? Le risposte date dai professionisti – vari per genere, età, esperienza professionale e tutti di qualità apprezzata e condivisa – ricordano quelle date dalla simpatica ragazza in “Ecce bombo” di Moretti, alla domanda: cosa fai nella vita? “Giro… faccio cose, vedo gente…”; risposte che indicavano modalità operative, aspetti metodologici, oppure vaghe finalità. Questo significa che gli assistenti sociali non fanno niente? Certamente no, significa che non sono disponibili e facilmente spendibili formalizzazioni sinottiche che partano, appunto, dal fuoco cognitivo dell’intervento sociale, a partire dalla definizione dell’obiettivo generale e operativo; e tale fondamento deve essere, in più, esclusivo della professione, perché altrimenti non ci sarebbe bisogno degli assistenti sociali. Allora, di cosa si occupa l’assistente sociale, per cui ha una vocazione esclusiva, e per cui è preparato e affiliato ad una specifica professione? Questa domanda, credo, dovrebbe trovare risposta da parte dell’intera professione, ma non in essa in quanto tale, ovvero nella mera esperienza. Per quanto ho potuto offrire, attraverso l’analisi delle interviste, l’estrazione dei costrutti relativi alle teorie personali agite sul campo e la loro computazione con costrutti derivati da altre ricerche e dalla riflessione teorica, è stato possibile generare un modello descrittivo per quello che rappresenta in termini sociologici sia il costrutto–cardine del servizio sociale e per il suo assessment: la competenza ad agire delle persone. Essa può essere definita come la tendenza–possibilità–libertà che tutte le persone hanno di: - immaginare e desiderare qualcosa che ancora non è dato; - individuare obiettivi per realizzarla, a partire da quanto è a disposizione; - dare incominciamento a qualcosa di nuovo; - costruire strategie e finalità in modo imperfetto. Di per sé essa non esiste (è un oggetto cognitivo), e si configura come la risultante dell’interazione e dell’integrazione di tre componenti: - dell’immaginazione, come possibilità di rappresentarsi (rappresentazione mentale iconica) qualcosa che non è attualmente presente o non è ancora dato; - delle competenze della persona (skills) e delle capabilities, nel loro insieme interrelato, sintetizzabile con il costrutto di capitale sociale; - dell’adozione da parte della persona di un atteggiamento rispondente. Se questi tre aspetti appaiono integrati in modo ottimale, la persona e il suo
contesto, per quanto messi alla prova dall’intervento di un evento inedito e spesso inaspettato che costituisce l’interruzione di una aspettativa di vita, ne subiranno meno gli effetti spiazzanti e mostreranno maggiore resilienza, ovvero l’impiego di competenze gestionali efficaci. Il problema è che tali eventi hanno la caratteristica di produrre proprio una riduzione delle tre aree descritte, come appare attraverso l’analisi delle interviste e delle ricerche analizzate nella ricerca: si riduce il capitale sociale disponibile, si riduce la possibilità di immaginare una prospettiva di vita nuova e quindi di produrre discorsi differenti e diminuisce la responsività ovvero si verifica il tendenziale mantenimento della coerenza narrativa degli individui. Dunque, pertinenti al servizio sociale e costrutto e oggetto di intervento sono le competenze dell’individuo definibili come competenza nella generazione di configurazioni discorsive del mondo differenti e quindi delle loro ricadute pragmatiche che in precedenza non erano date; ciò in virtù di criticità correlate alla gestione – spesso inefficace – di eventi che hanno avuto l’effetto di ridurre l’azione e quindi la possibilità di scelta delle persone – in ambito individuale e collettivo; compito professionale dell’assistente sociale è focalizzare gli aspetti conoscitivi e operativi dell’intervento sulle tre aree influenti sulla competenza ad agire – occasioni sociali, competenze personali, responsività – perché, attraverso un assessment accurato, si possa orientare l’azione professionale verso un loro “allargamento”, attraverso un direzionamento efficace e condiviso. Quanto proposto è un modello cognitivo, né più, né meno vero di altri; il punto è che ad oggi non ne sono disponibili altri, che rispondano ai criteri di descrivibilità, chiarezza ed esclusività, e soprattutto di applicatività affinché: - si possano definire gli strumenti concettuali e gli indicatori per un assessment accurato; - si possano rendere confrontabili i metodi di intervento, dal punto di vista della valutazione di processo e degli esiti; - possano essere favoriti il percorso di riflessività ed il vai–e–vieni tra teoria e prassi, la reciprocità cognitiva e l’implementazione del «contratto riflessivo» (Schön 1993, 293–354); - possano essere ridefiniti gli approcci delle policy verso l’obiettivo della capacitazione delle persone e dei contesti vitali; si possa produrre un incremento nella definizione del ruolo professionale; - i professionisti del servizio sociale possano confrontarsi in modo più agevole con altre professioni, a partire da un proprio fondamento specifico, da propri elementi descrivibili e da competenze esclusive;
- tutto ciò sia comunicabile chiaramente e trasmissibile in ambito formativo. La svolta discorsiva che poi la scienza dialogica ha permesso ha offerto la precisazione di tale costrutto – meramente sociologico – in virtù della definizione dell’obiettivo generale dell’intervento di servizio sociale, sintonico con quanto definito dall’IFSW e dal Codice deontologico: – promozione delle competenze dell’utente, in ambito individuale e collettivo, affinché la richiesta (o l’invio) sia gestita in modo adeguato e quindi venga meno; – offrire consulenza per la definizione delle politiche sociali. L’obiettivo operativo, che permette di impiegare strategie di cambiamento biografico e di asserire anche in questa sede come il cambiamento sia sempre possibile si definisce come: a) generare con le persone che si rivolgono al servizio sociale (utente diretto del servizio e utente indiretto dello stesso) o che sono inviate processi discorsivi efficaci per la gestione della richiesta iniziale verso un cambiamento che comporta l’estinzione della richiesta stessa. b) generare processi discorsivi di cambiamento nei resoconti della matrice organizzativa e/o della comunità (sistema–Paese) per anticipare risposte efficaci rispetto al benessere della persona (promozione della salute). Tali definizioni degli obiettivi, oltre che generare strategie applicabili, è sintonica con la definizione della mission del ruolo “assistente sociale” come “agente di cambiamento”: in essa è contenuto il concetto di agency e di cambiamento, ovvero sia di azione (comunicativa) che origina il cambiamento (enactment), sia di cambiamento verso l’azione (sensemaking); il fuoco del processo metodologico è posto sui discorsi che le persone nel loro reticolo sociale (comunità dei parlanti) producono; quindi non il corpo, né un insieme di atomi, né la psiche (qualunque cosa ciò voglia dire), o la “persona” (costrutto filosofico), né il “bisogno”, ma le competenze dell’utente, come pertinenti nella gestione delle criticità che la vita presenta; in virtù di ciò si giustifica lo slittamento – per altro presente in nuce in gran parte della letteratura professionale italiana dagli anni ’50 ad oggi – dalla coppia bisogni/diritti alla coppia esigenze/competenze– diritti/capabilities. Infine ci permette di rispondere ai nostri figli: l’assistente sociale lavora per aumentare la competenza delle persone di agire verso (quello che esse considerano) il loro benessere. Oppure con le
parole di una testimone qualificata: P.R. (figlio) afferma che da grande vuole fare «autista autobus», «Autista guida autobus»… l’assistente sociale potrebbe essere “guida persone a guidare autobus” (Sandra). Tutto il resto non ci riguarda professionalmente, se non come strumento per realizzare questa mission e l’obiettivo professionale:potete portare il cavallo all’abbeveratoio, ma non potete costringerlo a bere: il bere è faccenda sua. Ma anche se ha sete, il cavallo non può bere se non lo portate all’acqua: portarcelo è faccenda vostra (Bateson G. 1984, Mente e Natura. Un’unità necessaria, Milano: Adelphi, 139–40); noi abbiamo il compito di portare il cavallo all’acqua, né di più, né di meno. E questo non è poco, perché spesso il punto è che le persone, quando si trovano in situazioni di paralisi dell’azione, non riescono neanche a intravedere un qualunque obiettivo e una differente configurazione della situazione. Per “portare il cavallo all’acqua” sono necessarie cruciali competenze professionali strategiche, altro che dare la casa e il lavoro alle persone o dare sussidi (come scrive Derrida, «il dono è sempre veleno»). Le pratiche professionali che spesso è possibile esaminare presentano una grande ricchezza di approcci, che però scontano la mancanza di un fuoco per poter essere formalizzate – mancano di teoria – e quindi per poter diventare, nel loro complesso, trasmissibili e validabili. È tempo di pensarci. Con il lavoro di ricerca e di applicazione sul campo stiamo offrendo un contributo in tal senso. L’esito di tale lavoro di esame critico, di teorizzazione e di valutazione nell’applicatività ha permesso di formalizzare una strategia di consulenza sociale (ciò che proceduralmente viene spesso indicato come “colloquio”) valutabile, monitorabile e rendicontabile, il Counselling Biografico DialogicoÓ, che stato registrato nel 2015 presso l’uffico Brevetti e Marchi dello Stato, con la seguente declaratoria: «Il marchio «Counselling Biografico Dialogico» designa attività di consulenza (counselling) alla persona, alla famiglia e a gruppi miranti a generare, nelle interazioni sociali, processi di promozione delle competenze con l’obiettivo di ampliare le possibilità di scelta degli individui e quindi di incrementare l’autonomia in favore dell’autorealizzazione (promozione della salute), della gestione efficace delle criticità correlate alle traiettorie biografiche e della coesione sociale, nei vari cicli di vita. Il marchio – con il termine dialogico – fa riferimento esplicitamente alla teoria tracciata in virtù della scienza dialogica (Marchio registrato: In Dialogo Rigor Scientiae) e delle metodologie applicative che
essa permette, fondando l’oggetto della conoscenza (e della propria ricerca) nelle produzioni discorsive generate nelle comunità umane e che consentono di configurare la realtà da parte degli interagenti. Il Counselling biografico dialogico impiega la strategia della trasformazione biografico–discorsiva per incrementare l’efficacia nella gestione dei problemi umani e per promuovere la responsabilità condivisa nelle diverse stratificazioni delle aggregazioni umane sia che si tratti di organizzazioni (pubbliche e private) sia di istituzioni. Il Counselling Biografico Dialogico può essere esercitato da un soggetto che presenti competenze certificate di tipo accademico e abbia svolto un adeguato e specifico iter formativo definito dai titolari detentori del marchio, che fa riferimento alla teoria e ai modelli generati dalla scienza dialogica». Albano Quindi tu teorizzi che l’oggetto generale del servizio sociale sono le competenze delle persone (intese come tendenza–possibilità–libertà che tutte le persone hanno di immaginare se stessi, individuare obiettivi, agire azioni e anticipare scenari possibili) e che quindi mission dell’assistente sociale possa essere quello di aumentare/sostenere la competenza delle persone ad agire verso (quello che esse considerano) il loro benessere. È senz’altro una prima definizione esaustiva del servizio sociale su cui occorre però che il gruppo professionale inizi a cercare un consenso, non credi? Oltre a ciò c’è pure il bisogno di “imparare” questo approccio. Puoi fornire bibliografia? Sei disponibile a essere contattato dai colleghi? Colaianni Non vorrei generare fraintendimenti: quello che viene proposto non è una definizione del servizio sociale, tanto meno esaustiva, ma la definizione di un paradigma, di una modalità conoscitiva differente da quella del senso comune o dei paradigmi meccanicistici; e di un oggetto di conoscenza – i discorsi che vengono generati nelle comunità umane – per l’intervento, come emergono dal lavoro di ricerca che li estrae e abduce dai resoconti delle persone che vivono un breakdown della loro esistenza, e dagli assistenti sociali che lavorano nei vari ambiti professionali, ma anche dalla letteratura scientifica e professionale nazionale e internazionale, e dalla teoria e dalle sue ricadute metodologiche e applicative. Il servizio sociale, in modo simile ad altre professioni, non si definisce come scienza; è una prassi operativa disciplinata che ha un suo proprio obiettivo, un suo fondamento conoscitivo (che deve essere esplicitato in modo chiaro e distinto), che utilizza suoi specifici saperi (practice theory) e saperi che derivano da altre scienze, come avviene, per
esempio, per la medicina che, in quanto prassi operativa, si fonda sul concetto di soma (come insieme di organi, apparati e sistemi, ed oggi anche come mappatura genetica), ha un suo assetto disciplinare e trae conoscenze dall’anatomia patologica, dalla fisiologia, dalla biologia, dalla biochimica; e ciò non toglie nulla alla sua “autonomia” disciplinare che appare legata al modello clinico con “anamnesi–diagnosi–prognosi– terapia”. In modo simile il servizio sociale si fonda sulle competenze delle persone per produrre trasformazioni discorsive e quindi cambiamenti biografici; ha un proprio assetto disciplinare validato nella prassi e nella riflessione metodologica a partire dalla loro aderenza a una teoria scientificamente fondata, e trae conoscenze da altre scienze come la sociologia, la psicologia, l’antropologia culturale, etc. Non si tratta dunque di rifondare alcunché; non si è venuti “ad abolire la legge, ma a perfezionarla”; si tratta di esplicitarne l’alveo paradigmatico in cui si colloca e quindi di sviluppare le ricadute operative per quanto riguarda l’assessment e l’intervento; certamente tutto questo si riverbera generando un incremento della definizione del ruolo e anche la revisione critica di alcuni costrutti come la coppia bisogni/diritti, o gli aspetti di asimmetria informativa e cognitiva che sono propri della relazione tra sistema esperto– professionista e sistema ingenuo–utente e in definitiva anche un ripensamento sulla “romanza” dell’empatia come costrutto strategico elettivo, Nei resoconti delle persone sembra che condizione perché possa esserci un migliore fronteggiamento sia lo sviluppo di relazioni di reciprocità anche con il professionista, reciprocità che è stata definita “cognitiva”: ciò significa che non si lavora “su” o “per”, ma “con” le persone e con le loro configurazioni del mondo, il loro sapere, considerati sempre ignoti e non riducibili a quelle del professionista. La pre–posizione indica, appunto, una posizione di reciprocità “simmetrica e paritaria” tra saperi che possono incontrarsi e generare una realtà–terza solo se si costruiscono contesti di apprendimento/cambiamento nei quali tutti per la loro parte, persone, famiglie e professionisti, possano “cambiare discorso”; ciò comporta che il cambiamento per definizione sia sempre possibile e permette di definire la professione come “la professione delle possibilità”, di ciò che non è ancora dato e del divenire. Ciò può avvenire solo se non si opera retoricamente il “mettersi nelle scarpe dell’altro”, e quindi la riduzione dell’altro a ciò che è conosciuto in quanto appartenente a se stessi (l’empatia), ma il considerare l’altro “perfettamente sconosciuto” e irriducibile alla propria esperienza: quella che Bachtin chiama exotopia. Schön definisce tale contesto come «contratto riflessivo» (op. cit.) e la ri–
flessione, il ri–piegamento avviene in virtù del senso scientifico e quindi di una teoria terza e non di teorie personali di senso comune. Venendo a ciò che dici circa la condivisione di tutto ciò, valuto di avere fatto la mia parte, con l’intento di offrire alla discussione quanto prodotto, come ricercatore, insieme agli informants e ai testimoni qualificati. Sono per altro convinto che ci sono sempre più cose tra il cielo e la terra di quante ne possa sognare la nostra filosofia, e che pertanto ogni costruzione è sempre e solo una delle configurazioni possibili che ciò che chiamiamo realtà può prendere in virtù dell’interazione sociale; valuto che tale costruzione (e la “realtà” è sempre una costruzione sociale”) sia coerente, plausibile, applicabile e che soprattutto apra una prospettiva differente, piuttosto che chiuderla in una sterile adesione a uno specifico modello esclusivo. Nel mio percorso di ricerca, inoltre, ho appreso che anche in una impresa conoscitiva ci vuole coraggio, perché spesso avviene che il filo della scoperta ci porti lontano dal senso comune (diciamo tutt’oggi che il “sole sorge e tramonta”, ma sappiamo tutti che tale configurazione linguistica è fallace rispetto a quanto il Nuncius Sidereus ha osservato), dalle nostre credenze, e spesso anche dal comune e accettato senso scientifico, e ciò può produrre un sentimento di solitudine e di soverchiante responsabilità per le proprie idee; solo uno sforzo di autenticità ha permesso di andare avanti con il lavoro e di renderlo pubblico, affidandomi alle parole di Glaser e di Strauss: When the researcher is convinced that his analytic framework form a systematic substantive theory, that is it reasonably accurate statement of the matters studied, and that it is couched in a form that others going into the same field could use – then he can publish his results with confidence (Glaser B.G., Strauss A.L. (1967), The Discovery of Grounded Theory: Strategies for Qualitative Research, Chicago: Aldine, 113). Mi “affido”, pertanto, ai testi che, in quanto tali, non mi appartengono più; essi hanno preso una loro autonomia in una sorta di distanziamento, e sarò felice di discuterne, io come uno tra i tanti, con chi sarà interessato. * I riferimenti ai libri contenuti nel testo sono: Colaianni L. 2004/2007, La competenza ad agire. Agency, capabilities e servizio sociale. Come le persone fronteggiano eventi inediti e il servizio sociale può supportarle, Milano: Franco Angeli. Colaianni L. e Ciardiello P. 2008/2012, Cambiamo discorso. Diagnosi e counselling nell‘intervento sociale secondo la scienza dialogica, Milano:
Franco Angeli.