LA COMPETENZA AD AGIRE. AGENCY, CAPABILITIES E SERVIZIO SOCIALE

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Indice

Prefazione, di Roberto Cipriani

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1. Introduzione: il perché della ricerca

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2. Rilevanza teorica e pratica del concetto di agency 2.1. Metodologia della ricerca sociale e della ricerca sul servizio sociale 2.1.1. Le giustificazioni etiche per la ricerca e la deontologia professionale, attinenti al social work 2.1.2. La rilevanza del case study 2.1.3. La valutazione 2.1.4. La focalizzazione sull’azione professionale 2.2. Lo sviluppo del problema di ricerca: agency e vita quotidiana 2.3. L’idea di agency nella letteratura e nella pratica professionali 2.4. L’oggetto del servizio sociale nella percezione degli assistenti sociali 2.5. Riassumendo

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3. Approssimazioni all’idea di competenza ad agire 3.1. L’idea di azione in Hannah Arendt 3.2. Il problema della finalità cosciente 3.3. Unitarietà del soggetto e consapevolezza: commento a Hogget, ovvero sull’ambiguità del soggetto 3.4. Consapevolezza e «modernità liquida»: la forma dell’acqua 3.5. Le voci di dentro, le voci di fuori 3.6. Il sé tra soggetto e oggetto, tra azione riflessiva e azione non riflessiva 3.6.1. Decapacitazione e limiti imposti dalla natura

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3.6.2. Decapacitazione e dominio 3.6.3. Azione e ambivalenza 3.6.4. Un modello per l’azione 3.7. Osservabilità dell’azione 3.8. Il contesto 3.8.1. Le “capabilites” secondo A. Sen e M. Nussbaum 3.8.2. La natura incorporata dell’azione 3.9. La competenza ad agire 3.9.1. Un evento cosmologico 3.9.2. La “buona” mappa 3.9.3. Competenza ad agire ed emozioni 3.9.4. Competenza ad agire e immaginazione 3.10. La competenza ad agire nelle situazioni problematiche 3.10.1. La «capacità negativa» e organizzazioni effimere 3.11. Riassumendo

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Conclusioni

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Riferimenti bibliografici

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4. Storie diverse per gente normale, storia comune per gente speciale 4.1. Alcuni problemi della ricerca: influenzamento e selffulfilling prophecy 4.2. Le metafore del passaggio 4.3. La situazione problematica come interruzione di un’aspettativa di vita 4.4. Evento cosmologico e dissolvimento del contesto dell’azione 4.5. Resa-e-cattura 4.6. Azione generativa, organizzazione effimera e «negative capability» 4.6.1. Fiducia negli altri, onestà, rispetto di sé 4.6.2. Il passaggio al compito 4.7. Fiducia e asimmetria/reciprocità 4.7.1. Le tre facce della fiducia 4.7.2. «Un omino con le ruote, contro il vento…» 4.7.3. Competenza ad agire e aiuto professionale 4.8. Un modello operativo per la competenza ad agire 4.8.1. Il coaching: consulenza, guida e sponsorship 4.9. Riassumendo

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Questo libro è l’esito di un lavoro di ricerca che ha potuto contare su molte persone che mi hanno aiutato e agevolato nella sua realizzazione. Certamente il mio primo ringraziamento va a coloro che sono stati disponibili a costruire le interviste, informants e testimoni qualificati; tra i molti voglio ricordare Maura Arena, Graziella Bartolozzi, Elisabetta Berta, Emilio Cesareo, Grazia Contessa, Roberto D’Alessandro, Maria Grazia Donno, Francesca Lanfranco, Valeria Lombardi, Francesca Merlini, Livia Palazzi, Tiziano Roascio, Nadia Schichter, Cristiano Tardito e Ferdinando Valerio. Ringrazio gli amici dei gruppi di auto aiuto «Entrata libera» di Milano e «Un Giovedì da leoni» di Carcare, e Marcello Macario che mi ha facilitato l’accesso a esso. Voglio ringraziare Francesco Maria Battisti, che è stato mio tutor di ricerca, e Consuelo Corradi e Annarosa Favretto per i loro consigli nella revisione del lavoro. Molte delle idee generate nella ricerca hanno passato il vaglio della critica degli studenti con i quali ho condotto i corsi di Metodi e tecniche del servizio sociale in questi anni: spesso è avvenuto che abbia terminato la lezione con qualche certezza in meno e qualche apertura in più. Infine mi piace ricordare l’amicalità di Ugo Albano e di Mauro Ferrari, e last, but not least, Patrizia Ciardiello - a cui devo molto, tra cui l’intuizione del concetto di «atteggiamento rispondente» - che ha letto e riletto quanto andavo scrivendo, e nonostante questo continua a voler vivere con me.

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Prefazione di Roberto Cipriani

Il circolo virtuoso ipotizzato in questo testo appare come un modello ideale di intervento nel sociale: l’operatore-assistente sociale ha delle competenze apprese, consolidate e sperimentate, che pone al “servizio” dell’interlocutoreutente affinché questi possa acquisire a sua volta capacità autonome di azione per risolvere situazioni problematiche non prevedibili. Fondamentale appare nello sviluppo del discorso il concetto di agency, ma rilevanti appaiono anche quelli di “azione” (ed “agire”), “competenza”, capability, “atteggiamento rispondente”. Il tutto è accompagnato, anzi preceduto ed assecondato da una precipua disamina teorica che dà peso, consapevolezza e coerenza alle proposte avanzate nel saggio, che si avvale di adeguati supporti empirici, a loro volta creatori di un altro circolo virtuoso, quello fra approccio metametodologico e procedura tecnica applicativa. Si tratta di un lavoro che indubbiamente induce a considerare il servizio sociale una prassi di livello ancora più sostenuto di quello corrente. Anzi favorisce un salto di qualità epistemologica ed analitica tale da porre l’autore in grado di dialogare scientificamente con la letteratura internazionale del settore, sia nell’ambito della prospettiva sociologica che in quello del social work. Questa sprovincializzazione è in qualche modo un anticipo di quanto potrebbe costituire il futuro delle scienze del servizio sociale in Italia, realmente al confronto con altre correnti attive in Europa o negli Stati Uniti. L’esito di questo studio di Luigi Colaianni è visibilmente (e leggibilmente) il frutto di una elaborazione attenta e travagliata, come del resto ha da essere ogni ricerca, ogni processo conoscitivo che meriti l’attenzione sia degli studiosi che degli operatori impegnati nel sociale. La stessa struttura del testo è esemplare nelle sue tappe di avvicinamento al risultato finale. Sembra quasi di assistere ad un’unica, lunga lezione, che tiene conto dei dati di volta in volta emergenti, adatta il “linguaggio”, calibra l’impatto interattivo, modifica le intenzioni iniziali, pone interrogativi, forni-

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sce interpretazioni provvisorie, tiene a freno gli empiti ideologici, mette alla prova la propria onestà intellettuale. Ma forse quel che può maggiormente impressionare il lettore è la passione etica rintracciabile quasi ad ogni voltar di pagina del libro. Ne sono testimonianza sia l’incipit (l’introduzione sul perché della ricerca) sia la scelta del riferimento ad una coppia concettuale (“resa e cattura”) di derivazione wolffiana, certamente molto discussa (o discutibile, per taluni) eppure così strategica per l’indagine sociologica da meritare la definizione di “classica” alla pari di altre suggestioni weberiane o mertoniane. Il procedimento seguito dall’autore è esemplare anche nella sua gradualità: si passa dalla disamina degli aspetti teorici all’analisi delle informazioni raccolte sul terreno della ricerca, per poi proporre “un modello per la competenza ad agire”. Insomma in questo modo chi lavora nel campo del servizio sociale ha a sua disposizione le basi teoriche, i concetti, i dati empirici, le indicazioni concrete per l’intervento, senza che tutto questo vada ad inficiare la qualità scientifica né quella dell’agire sociale nel sociale. In effetti non vi è una giustapposizione indebita fra conoscenza ed azione, ma l’una è premessa all’altra, come è corretto che sia. C’è infine un elemento che impreziosisce ancora più questo contributo. Esso risponde in pieno alle quattro funzioni mertoniane per lo sviluppo della teoria sociale (Robert K. Merton, “The Bearing of Empirical Research upon the Development of Social Theory”, American Sociological Review, XIII, 1948, pp. 505-515): il famoso modello della serendipity (un dato imprevisto, anomalo e strategico esercita una pressione per dare inizio alla teorizzazione), la rifondazione della teoria (i nuovi dati esercitano una pressione per l’elaborazione di uno schema concettuale), la rifocalizzazione dell’attenzione teoretica (i nuovi metodi della ricerca empirica esercitano una pressione per nuovi centri di interesse teorico), la chiarificazione dei concetti (la ricerca empirica esercita una pressione per la produzione di concetti chiari). A Luigi Colaianni del resto piace molto questa espressione: “niente si sa, tutto si immagina…”. Il suo studio, invero, aiuta a sapere qualcosa di più ma al tempo stesso non impedisce di guardare verso futuri orizzonti di conoscenza ed azione. Roberto Cipriani

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1. Introduzione: il perché della ricerca

Nel 1909 Robert F. Stroud uccise un uomo che aveva aggredito una prostituta; nel 1911 fu condannato a nove anni di prigione e rinchiuso nel penitenziario federale di McNeil Island, nello stato di Washington, quindi trasferito al «Circo», come era chiamata la prigione di Leavenworth nel Kansas1. Stroud appariva un uomo indurito dalla vita, sulla difensiva, chiuso, ostile e aggressivo verso tutto e verso tutti. Al direttore del carcere che gli chiedeva come mai si comportasse «come se odiassi tutto il mondo...» egli rispose che «In un letamaio si agisce in modo adeguato...». Il capo delle guardie aveva consigliato al direttore di stare attento a quel detenuto, perché «è come un porco selvatico... è uno squilibrato... è pericoloso»; infatti, per un’infrazione commessa durante il trasferimento, il comandante lo costrinse a trenta giorni di cella di rigore e, quando ne venne fuori, non gli permise di vedere il fratello - che aveva fatto 2000 miglia per incontrarlo. Per questo la pagò cara: Stroud lo accoltellò alla gola nella sala mensa affollata nell’ora del rancio. Il 28 Giugno del 1918 venne processato per il secondo omicidio e condannato a morte per impiccagione; la sentenza disponeva che attendesse l’esecuzione della condanna in isolamento. Dopo ripetute suppliche della madre al Presidente degli Stati Uniti, Woodrow Wilson, nel 1920 ricevette la grazia e la pena fu convertita nell’ergastolo. Ergastolo cui il Procuratore generale mantenne la prescrizione dell’isolamento perpetuo: Stroud, dal 1916, anno in cui Guglielmo II ordinò l’affondamento del Lusitania, non avrebbe incontrato altri detenuti, né mangiato con altre persone per i quarantatre anni successivi, di cui diciassette passati nel penitenziario di Alcatraz. In un giorno della sua detenzione, durante l’ora d’aria, si scatenò una burrasca. Nonostante la pioggia, Stroud continuò a camminare nel cortile, quando un ramo di un albero si staccò e cadde ai suoi piedi. Stroud sentì un lieve 1

Gaddis Thomas E. (1989), Birdman of Alcatraz: The Story of Robert Stroud, (US Edition): Comstock Publishing.

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cinguettio, si fermò e tornò sui suoi passi; sul ramo c’era un nido con un piccolo passero ferito. Stroud riprese il suo cammino, ma al richiamo della guardia penitenziaria a ripararsi, tornò verso il ramo caduto, raccolse il piccolo uccello e tornò in cella. Da quel giorno la vita di Stroud, nell’isolamento - definito da lui come il sapere «con assoluta certezza quello che accadrà in ogni momento» -, iniziò a cambiare. Egli divenne così, negli anni seguenti, il più stimato e famoso esperto in patologie degli uccelli, scoprì e produsse in carcere rimedi farmacologici per le principali malattie avicole e ancora oggi egli è ricordato come il più grande ornitologo degli Stati Uniti. Questa, come altre storie simili, mi hanno sempre fortemente incuriosito: come accade che una persona, spesso nelle situazioni di vita meno favorevoli, in contesti relazionali poveri e deprivati, nonostante i vincoli, cambi atteggiamento, modo di vedere le cose, e inizi a fare cose nuove, diverse e inaspettate? In che modo le persone fronteggiano le difficoltà, spesso inedite per loro e inattese, della vita quotidiana? Come, a partire da una situazione di svantaggio, rappresentata da un evento inaspettato o da una condizione di vita fortemente sovradeterminata, ci mettiamo in moto per agire e troviamo nuovi modi di fronteggiamento? Quali sono gli aspetti e i fattori incidenti in questo processo? Che fare, quindi, per facilitare, promuovere e non ostacolare questo processo? Quale rilevanza tutto ciò può avere per il servizio sociale - che per lo più si occupa di persone che vivono breakdown della loro esistenza con le loro conseguenze, o situazioni «senza via d’uscita» - dal punto di vista epistemologico, cognitivo e performativo? Questi interrogativi mi appaiono cruciali per il servizio sociale, che nell’assetto teorico e fondativo dei suoi metodi, come argomenterò più avanti, appare carente di formalizzazioni sufficienti a dare ragione di scelte metodologiche che sembrano funzionare sul piano empirico, ma che, tuttavia, non trovano ad oggi, a mio parere, piena giustificazione sul piano dei fondamenti, né questi sembrano presenti alla consapevolezza riflessiva dei professionisti. Comprendere la fenomenologia della generazione del fronteggiamento in situazioni quali quelle accennate, potrà permettere una comparazione con la strumentazione concettuale disponibile (teorie dichiarate) e impiegata (teorie agite) dai professionisti nei sistemi formali di cura e così potrò tentare l’identificazione e la definizione dell’oggetto cognitivo del servizio sociale e dei processi e degli elementi che portano a influire su di esso. Questo è il problema dal doppio volto con cui mi misurerò in questa ricerca – come le persone fronteggiano eventi inediti e spesso inattesi, come il servizio sociale può supportarle nel fronteggiamento - con la consapevolezza che esso potrà modi14


ficarsi nel corso del lavoro di confronto con i dati e quindi scontando sin dall’inizio l’apertura all’indeterminatezza, sulle tracce del modello proposto da K.H. Wolff di resa-e-cattura (Wolff 1964 e 1976)1 e i metodi proposti dalla grounded theory (Glaser e Strauss 1967), per cui «la teoria non precede la ricerca, ma ne scaturisce, grazie all’osservazione e all’analisi dei significati dell’azione sociale [per cui] la teorizzazione nasce dallo stesso terreno (grounded) della ricerca» (Cipriani 1987, 310). Per dare risposta alle domande poste, incomincio, quindi, presentando gli aspetti teorici della ricerca che saranno discussi nei cap. 2 e 3, prima dell’analisi dei dati, seguendo un criterio logico; questa parte è stata estesa contemporaneamente all’attraversamento delle storie e delle soggettività coinvolte, come suggerisce David Silverman (2002, 315-22), in modo tale da far acquisire rilevanza agli aspetti teorici (ma si tratterà anche di ricerche empiriche) alla luce della «concettualizzazione dei dati raccolti nel corso della ricerca empirica» (Strati 2001, 133). Le difficoltà relative al ruolo del ricercatore sono state incrementate dall’essere questi anche un assistente sociale, e quindi molto “interno” al mondo esplorato e con punti di vista personali e professionali, costruiti in anni di attività sul campo. Ho scontato, pertanto, la costante tensione scaturita dal distogliermi dai miei pre-concetti e dai miei frames interpretativi nell’incontrare i soggetti della ricerca e nell’accogliere i loro resoconti e le loro narrazioni, con l’aiuto della formalizzazione dei sensitizing concepts2 in modo tale da dispormi a essere quanto più possibile consapevole della loro presenza. L’effetto atteso è un direzionamento - ma non un condizionamento - della ricerca, che al tempo stesso possa rendere «più facile 1

Wolff definisce il suo approccio di ricerca con i termini “surrender and catch” (resa-ecattura) che indicano un’idea di conoscenza come sospensione di ciò che già si conosce, ma soprattutto delle proprie categorie cognitive. Egli costruì tale approccio nel periodo tra il 1940 e il 1960, in cui aveva svolto una ricerca di comunità nel villaggio rurale di “Loma”, nel New Mexico, composto da 40 famiglie. Il progetto di ricerca complessivo aveva lo scopo di costruire un metodo per definire “modelli di cultura” replicabili e ripercorribili; alla fine del terzo soggiorno (1944) «mi accorsi che non potevo accettare questo incarico perché presupponeva una concettualizzazione che non ero sicuro fosse adeguata alla mia esperienza a Loma. Infine fui scettico sulla guida fornita dalle nozioni ricevute… Sostenni invece che sul campo il ricercatore dovesse mettere da parte il massimo di queste nozioni ricevute e attendere che l’organizzazione e la presentazione dei materiali emergesse dalla ricerca stessa» (Wolff K.H., “The Collection and Organization of Field Materials: A Research Report”, in Trying Sociology, New York-London: Wiley, 1974, 405, cit. in Corradi C. (1993), Lo sguardo e la conoscenza. La metodologia sociologica come visione e immaginazione, Milano: FrancoAngeli. 2 Cfr. Glaser B.G., Strauss A.L. (1967), The Discovery of Grounded Theory. Strategies for Qualitative Research, Chicago: Aldine, ma anche Strati A. (1998), “La Grounded Theory” in La ricerca qualitativa, a cura di Ricolfi, Roma: Carocci, e Cipriani R. (1996), “Le metodologie delle storie di vita” in Il sociologo e le sirene, a cura di Costantino Cipolla e Antonio De Lillo, Milano: FrancoAngeli.

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avvicinarsi al “punto di vista” dell’attore (Blumer 1954, 3-10, in Cipriani 1987, 325), con la consapevolezza che ciò che andrò a conoscere è strettamente vincolato alla situazione specifica di ricerca, ovvero alla «definizione (soggettiva) della situazione» (Cipriani 1987, 360). Nel secondo capitolo, in particolare, analizzerò la rilevanza teorica e pratica del concetto di agency alla luce degli elementi comuni e specifici che esistono tra la ricerca sociale e la ricerca sul servizio sociale: questa, per altro, da intendersi come attività a sua volta diversa dalla ricerca per il servizio sociale e costitutiva di un campo in cui teoria e prassi si incrociano in modo immediato e ricorsivo. Esaminerò la rilevanza metodologica nella ricerca sul servizio sociale degli aspetti etici, dei case studies, della valutazione e della focalizzazione sull’azione professionale e quindi discuterò del rapporto tra agency e vita quotidiana e degli aspetti connessi con il servizio sociale; l’assunzione della definizione di quest’ultimo come agente di cambiamento mi ha orientato verso la identificazione e formalizzazione del suo oggetto epistemologico e cognitivo e quindi mi ha permesso di verificare l’appropriatezza della strumentazione concettuale della disciplina e la consapevolezza relativa a essa nell’operatività che i professionisti interpretano, sostenuto da una breve ricognizione della letteratura scientifica e professionale disponibile sul tema e da un’anticipazione degli esiti della ricerca empirica tramite le interviste costruite con assistenti sociali, in particolare sulla definizione dell’oggetto cognitivo del servizio sociale. Nel terzo capitolo espliciterò i sensitizing concepts utilizzati nella ricerca attraverso successive approssimazioni all’idea di competenza ad agire nei suoi aspetti problematici, e attraverso l’analisi teorica e di alcune ricerche condotte da Lanzara e da Weick; discuterò l’idea di azione e le sue connessioni con la finalità cosciente, la critica all’idea di soggetto unitario, il problema della consapevolezza nella modernità “liquida”, secondo il pensiero di Bauman, e i problemi connessi all’osservabilità dell’azione; analizzerò il contesto in quanto costitutivo dell’azione, i concetti di agency e di capabilities nel pensiero di Sen e di Nussbaum, il rapporto tra azione e immaginazione e il fronteggiamento di situazioni problematiche connesse a eventi inediti. Nel quarto capitolo discuterò l’analisi degli estratti delle interviste e confronterò i concetti desunti dai resoconti e dalle narrazioni degli informants e dei testimoni qualificati con i concetti esposti nel terzo capitolo. Proporrò, infine, la formalizzazione del processo di fronteggiamento nelle sue connessioni con l’attivazione della competenza ad agire delle persone, gli aspetti essenziali incidenti sul processo di attivazione e le loro ricadute metodologiche sull’intervento di servizio sociale, e tenterò la formalizzazione di un modello per la competenza ad agire. 16


Nel quinto capitolo tirerò le somme del lavoro di ricerca, porrò il problema del possibile utilizzo di quanto esposto e farò un bilancio circa l’essere riuscito a dare risposta ai quesiti sopra esplicitati e, soprattutto, rappresenterò l’utilità di tutto questo per il servizio sociale.

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Conclusioni

Quali conclusioni è possibile trarre da questa ricerca? Quali conseguenze può avere per il servizio sociale e sulle sue pratiche? Quali ricadute si possono derivare per le politiche sociali più complessive? Come avevo già anticipato, la modernità situa le tematiche storiche del welfare e delle policies dello stato sociale nell’inedita prospettiva che propone lo slittamento dalle politiche dell’emancipazione alle politiche della vita. Questo passaggio giustifica sia culturalmente, sia metodologicamente, la centralità della persona come agente e come responsabile per il proprio progetto di vita; l’intervento di servizio sociale, pertanto, in accordo con tale prospettiva, può interessare non solo chi si trovi – eccezionalmente - in una condizione di marginalità e di difficoltà relativa, ma anche tutte le persone e le famiglie, considerate nella ordinaria problematicità dei cicli vitali; esso, dunque, è finalizzato a sostenere e valorizzare «i molteplici compiti che le famiglie svolgono sia nei momenti critici e di disagio, sia nello sviluppo della vita quotidiana; esso sostiene la cooperazione, il mutuo aiuto e l’associazionismo delle famiglie e valorizza il ruolo attivo delle famiglie nella formazione di proposte e di progetti per l’offerta dei servizi e nella valutazione dei medesimi» (L. 328/2000, art. 16, §1). Pertanto, il sapere e la pratica professionale si configurano, piuttosto che costretti all’interno di attività di mera assistenza vicariante secondo la coppia bisogni/diritti, come una “metodologia dei progetti di vita” (methodology of life planning, Ferguson 2001), e si congiungono al sapere ingenuo1, per cui il ruolo attivo e decisionale dei soggetti coinvolti – persone, famiglie, reti primarie e secondarie – diventa cruciale, secondo la coppia capacità/diritti; infatti «al 1

Schön indica questa dimensione di reciprocità come «riflessiva» all’interno di un «contratto riflessivo»: «…il cliente competente dovrebbe in realtà agire come un professionista riflessivo. Non c’è bisogno che pretenda di avere diretta padronanza dei problemi (come il”medico di base” o il “cittadino pianificatore”), ma dovrebbe coltivare competenze nella conversazione riflessiva con il professionista, stimolando costui a riflettere sulla propria conoscenza nella pratica» (Schön 1993, 306).

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fine di migliorare la qualità e l’efficienza degli interventi, gli operatori coinvolgono e responsabilizzano le persone e le famiglie nell’ambito dell’organizzazione dei servizi» (L. 328/2000, art. 16, §1). Tale punto di vista, inoltre, evidenzia la rilevanza del concetto di competenza ad agire, come qui è stato descritto e modellizzato, attorno a cui ruotano sia l’assessment, sia l’intervento, attraverso i vari metodi e nei vari contesti, e la sua centralità emerge, oltre che dall’analisi empirica, anche dalla considerazione della trasformazione che l’assetto definitorio e normativo sta vivendo sia nel nostro paese, sia a livello planetario; mi riferisco, in particolare, a tre aspetti interessanti, nei quali appare evidente lo slittamento verso un approccio che tenga in considerazione le capacità e le competenze delle persone e dei loro contesti relazionali, piuttosto che i loro deficit: il primo concerne la ridefinizione internazionale del concetto di disabilità e della sua classificazione; dall’ICIDH del 1980 (International Classification of Disabilities as Consequences of Deseases) che si organizzava intorno al modello “disturbo > menomazione > disabilità > handicap”, la nuova classificazione ICF (International Classification of Human Functioning, Disability and Health) del 2001, fatta propria dall’OMS, introduce i concetti di attività (e della sua menomazione) e di partecipazione (e della sua eventuale restrizione) in relazione a due elementi di valutazione: il primo riguarda le capacità (potremmo scrivere: capabilites) e indica «il più alto livello probabile di funzionamento in un ambiente considerato come standard o uniforme»; il secondo riguarda le performances (i funzionamenti reali) e indica ciò che «l’individuo fa nel suo ambiente attuale/reale e descrive il coinvolgimento della persona nelle situazioni di vita». Tutto ciò è posto in relazione con fattori contestuali e ambientali che possono costituire ulteriore ostacolo all’esprimersi della persona come agente: «focalizzando su come le persone funzionano e di cosa hanno bisogno per vivere meglio le loro potenzialità, la classificazione può porre fine all’isolamento e alla discriminazione, e può promuovere l’integrazione» (OMS 2001). L’approccio che evidenzia capacità e possibilità, piuttosto che i meri deficit, si colloca a pieno titolo nelle policies del life planning e restituisce al servizio sociale, per la sua parte, un ruolo proattivo e orientato alla capacitazione rispetto alla competenza ad agire, nell’assessment di persone e di condizioni di riduzione delle possibilità di funzionamento umano e della salute, nella lotta per l’equità e contro la povertà (OMS 1998); il secondo aspetto è proposto dalla considerazione del disegno di legge approvato dal Parlamento italiano il 9 Gennaio 2004 sull’Amministrazione di sostegno1, che innova la normativa 1 LEGGE 9 gennaio 2004, n. 6, Introduzione nel libro primo, titolo XII, del codice civile del capo I, relativo all’istituzione dell’amministrazione di sostegno e modifica degli articoli 388, 414, 417, 418, 424, 426, 427 e 429 del codice civile in materia di interdizioni e di inabili-

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attuale dell’inabilitazione e interdizione – istituti giuridici volti a proteggere più il patrimonio che la persona – e introduce la figura dell’amministratore di sostegno che ha come fine quello di supportare aspetti della vita a cui la persona non riesce agevolmente a fare fronte, senza per questo penalizzare la sua capacità d’agire giuridicamente (e praticamente). L’obiettivo sancito dall’art. 1 della «minore limitazione possibile della capacità di agire delle persone in tutto o in parte prive di autonomia»1 è non solo enunciato (come avveniva nel precedente testo che manteneva l’obbligo per il Pubblico Ministero di avviare il procedimento d’interdizione), ma viene realizzato in concreto, attraverso un dispositivo che libera l’istituto giuridico dall’obbligo di interdizione, riconosce la sua finalità nel sostegno “con esclusivo riguardo alla cura e agli interessi della persona del beneficiario” (art. 408-410) e alla sua capacità di «agire per tutti gli atti che non richiedono la rappresentanza esclusiva o l’assistenza necessaria dell’amministratore di sostegno», per cui il beneficiario dell’amministrazione di sostegno «può in ogni caso compiere gli atti necessari a soddisfare le esigenze della propria vita quotidiana», per i quali «conserva la capacità di agire» (art. 409). Il legislatore si è dunque confrontato con un orientamento di grande civiltà giuridica, ma soprattutto con la percezione culturale della persona come soggetto che, per quanto residuali possano essere le sue capacità, proprio per non ridurle ulteriormente, necessita non solo che queste vengano rispettate e non mortificate, ma supportate attraverso una sorta di tutoring nella curatela. E proprio l’ultimo aspetto che considererò evidenzia come, in realtà, la definizione della persona come agente prescinda in qualche modo dai suoi funzionamenti concreti e faccia riferimento alle sue prerogative in quanto considerato soggetto competente per l’azione: mi riferisco, come già anticipato in una nota precedente, al documento sul living will, - «Dichiarazione anticipata di trattamento per sottolinearne la volontarietà», anche detto “testamento biologico” -, del Comitato nazionale per la bioetica. In una condizione in cui «nascere e morire non sono più soltanto i momenti estremi dell’esistenza, ma situazioni sempre più dominate da scienza e tecnologia» (Rodotà 2003), e quindi dai sistemi esperti, per cui le “leggi naturali” a cui i cicli vitali sono sottoposti vengono tendenzialmente sorpassate e per cui la situazione richiede “leggi giuridiche” «nel timore di rimanere privi d’ogni regola», l’anticipazione della propria determinazione circa non solo il proprio fare, ma anche il fare degli altri che possa riguardarci, centra l’attenzione sulla persona e non sulla sua condizione (sanatazione, nonché relative norme di attuazione, di coordinamento e finali. (G.U. n. 14 del 19-12004). 1 « Art. 1. 1. La presente legge ha la finalità di tutelare, con la minore limitazione possibile della capacità di agire, le persone prive in tutto o in parte di autonomia nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana, mediante interventi di sostegno temporaneo o permanente».

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malata, normale-deviante, povera-benestante, etc.) o sul suo ruolo ascritto nella specifica relazione sociale (paziente-medico, assistito-assistente, etc.), per cui viene riconosciuto, non senza aspetti ancora controversi, «il diritto a esigere da parte dei medici la sospensione o la non attivazione di pratiche terapeutiche e anche – nei casi più estremi e tragici – di sostegno vitale» (Comitato nazionale per la bioetica 2003, 10). Come anticipavo, anche quando si fosse in uno stato di incoscienza come nel coma profondo, non si è mai mero soma e mero oggetto. Dunque, se la competenza ad agire appare come il fuoco anche della normazione, ciò che appare diverso nel campo da me esplorato tra il prima e il dopo questa ricerca è conseguente alla generazione di un modello operativo per la competenza ad agire che possa essere utile a orientare l’assessment e l’intervento di servizio sociale, ma anche le policies più complessive, verso una fondata prospettiva partecipativa e di reciprocità cognitiva tra sistemi esperti e sistemi ingenui, perché, come viene evidenziato da Ciardiello, “i problemi” appaiono come l’esito di un «costrutto sociale [per cui] tali problemi non sono oggettivi, e dunque esterni, rispetto a coloro che si mobilitano per trattarli, ma costituiscono sempre l’esito di una costruzione attuata dagli attori, sulla base dei loro obiettivi, delle risorse disponibili, dei comportamenti degli attori, degli esiti (attesi, inattesi) di altre politiche e, più in generale, delle specificità dei modi di guardare ai fenomeni ai quali viene attribuito un carattere problematico» (Ciardiello 2004, 39). Pertanto l’idea di reciprocità cognitiva si coniuga all’idea di un “professionista riflessivo”, e questo coupling sembra essere un viatico necessario per “scoprire” continuamente quanto andiamo costruendo di volta in volta negli specifici contesti; infatti «in gran parte del comportamento spontaneo proprio della pratica esperta riveliamo un tipo di attività cognitiva che non deriva da una precedente operazione intellettuale» (Schön 1993, 76-77). Potrei, mutuando da Schön, sintetizzare il processo dialogico tra sapere esperto, sapere ingenuo e riflessività con il concetto di «conversazione riflessiva con l’azione» (ibidem, 103), riprendendo così l’idea di narrazione come «costruzione discorsiva tipizzata» (Knorr-Cetina 1981) connessa a quella di azione. Ciò, comunque, ha senso solo se poniamo al centro della nostra considerazione la persona come attore e quindi come competente per l’azione, qualunque possa essere la sua condizione. In precedenza avevo rilevato l’assenza di studi empirici nella letteratura nazionale e internazionale su agency e servizio sociale, a fronte di una interessante letteratura sulla resilienza e sul processo cognitivo legato al fronteggiamento. La connessione ricorsiva tra gli aspetti processuali del fronteggiamento, i fattori protettivi e gli approcci metodologici del servizio sociale è tesa a proporre ai professionisti, che agiscono teorie implicite sul campo, una formalizzazione trasmissibile del modello teorico desunto dai dati, e ciò è 303


volto a produrre una definizione chiara e distinta dell’oggetto cognitivo e performativo del servizio sociale, affinché: - si possano definire gli strumenti concettuali e gli indicatori per un assessment accurato; - si possano rendere confrontabili i metodi di intervento, dal punto di vista della valutazione di processo e degli esiti; - possano essere favoriti il percorso di riflessività e il vai-e-vieni tra teorie agite e teorie dichiarate, la reciprocità cognitiva e l’implementazione del «contratto riflessivo» (Schön 1993, 293-354); - possano essere ridefiniti gli approcci delle policies verso l’obiettivo della capacitazione delle persone e dei contesti vitali; - si possa produrre un incremento nella definizione del ruolo professionale; - i professionisti del servizio sociale possano confrontarsi in modo più agevole con altre professioni, a partire da un proprio fondamento specifico, da propri elementi descrivibili e da competenze esclusive; - tutto ciò sia comunicabile chiaramente e trasmissibile in ambito formativo. Questa ricerca ha inteso essere un incominciamento - certo in sé compiuto, ma non certo esaustivo – nella direzione di indicare una prospettiva paradigmatica per il servizio sociale – quella dell’agency - e presenta vari limiti: come accade per ogni ricerca qualitativa, il suo senso non è quello determinato dalla generalizzazione statistica, per cui certamente essa è valida strettamente per l’universo indagato, e i suoi risultati saranno estrapolabili – o abducibili nella misura in cui il mondo professionale e quello della ricerca scientifica ne discuteranno gli esiti. Sarebbe stato utile, infatti, produrre tramite backtalk o, meglio, dei focus groups, una restituzione di quanto prodotto ai soggetti della ricerca, e in particolare ai testimoni qualificati, e ciò non tanto per aumentare la validità intrinseca del costrutto, ma per estendere le possibilità offerte dalla riflessività e produrre una maggiore saturazione dei concetti. In realtà questo aspetto mi appare secondario, in quanto ritengo di avere fornito semplicemente una versione di realtà per costituire una research finding; se «nella scienza è la teoria che alimenta l’immaginazione» (Silverman 2002, 345), allora è mia speranza che da questa versione di realtà possa generarsi un modo di fare – e quindi un modo di vedere - in cui l’immaginazione possa spingersi oltre e rendere, presto, tutto ciò obsoleto. Un secondo limite riguarda le difficoltà che ho incontrato di reclutare come informants persone soggette a esecuzione penale, a causa della scarsa accessibilità dei contesti. Sarebbe stato utile costruire con loro interviste che, a partire dai loro resoconti, descrivessero il punto di vista di chi si trova, per definizione, in una situazione in cui l’azione è ridotta dall’apparato disciplinare, ed è in condizioni di cattività per cui ha 304


molto rilievo l’aspetto dell’atteggiamento e della scelta etica. Ulteriori ricerche potrebbero sia esplorare questo ambito, sia indagare più specificamente la relazione tra competenza ad agire e singoli metodi del servizio sociale, in particolare in rapporto con le best practices. Nel percorso di ricerca le teorie mi hanno aiutato a pensare: i concetti di “interruzione di un’aspettativa di vita”, “interstizio”, “dissolvimento cosmologico”, “resa-e-cattura”, “organizzazione effimera”, “negative capability”, per quanto spesso derivanti da altre ricerche empiriche e non da analisi teoriche, hanno costituito il frame di cui sono stato consapevole nell’incontro con i testi costruiti nelle interviste. Tuttavia, l’estrazione delle teorie implicite dai resoconti e dalle narrazioni e la contestuale comparazione con la mia cornice di riferimento hanno prodotto concetti nuovi come quello di “competenza ad agire”, “atteggiamento rispondente”, “passaggio al compito”, “scommessa”, “reciprocità cognitiva”, “problema come evento terremotizio”, “sponsoring”, “investimento di fiducia”, che appaiono ancorati ai dati. Anche qui il vai-evieni ha consentito la saturazione dei concetti e la loro indicizzazione selettiva fino alla formalizzazione di un modello che si è avvantaggiato di tutto questo. Cosa ho imparato in questa esperienza? All’inizio della ricerca non ne sapevo un gran che delle cose che avrei indagato; a parte per la relativa conoscenza di qualche idea derivata dalla pratica professionale, la definizione delle domande centrali della ricerca è stato un approdo che ha scontato un forte disorientamento iniziale – una sorta di naufragio in cui ho dovuto/potuto distogliermi dalle mie credenze di partenza - e il necessario cambiamento della posizione del ricercatore. Immaginavo all’inizio il mio ruolo come quello di chi dovesse dare le risposte, e pertanto, finché sono rimasto ancorato, con la mia coerenza, a questo punto di vista, non sono riuscito a definire il disegno della ricerca. Infine ho compreso che il ruolo del ricercatore non è quello di saper dare risposte, ma di saper fare le domande efficaci (come dovrebbe avvenire anche per il “buon” professionista assistente sociale), cioè originare artifizi retorici, che siano generativi di una realtà diversa da quella che già in qualche modo è disponibile cognitivamente. Compreso questo, il mio lavoro ha incominciato a lievitare e la strada (o meglio, le varie possibili opzioni) mi è stata mostrata dalla costruzione delle interviste e dalla loro prima analisi, intrecciando contestualmente esiti di altre ricerche considerate pertinenti, teoria e dati empirici. Ho appreso, quindi, che - fatti i debiti distinguo - l’attività del ricercatore per sua natura non è molto diversa da quella del professionista sul campo, nel senso che ambedue, piuttosto che rappresentare una realtà data come oggettiva e “autonoma”, co-costruiscono con le persone, sia pure con diversa finalità, versioni di realtà dalle quali generare nuovi mondi possibili e nuovi strumenti cognitivi, in quanto apprendimento e cambiamento vanno di 305


pari passo1. Inoltre ho appreso che anche in una impresa cognitiva ci vuole coraggio, perché spesso avviene che il filo della scoperta ci porti lontano dal senso comune, dalle nostre credenze, e spesso anche dal comune e accettato senso scientifico, e ciò può produrre un sentimento di solitudine e di soverchiante responsabilità per le proprie idee; solo uno sforzo di autenticità mi ha permesso di completare il lavoro e di renderlo pubblico, affidandomi alle parole di Glaser e di Strauss: When the researcher is convinced that his analytic framework form a systematic substantive theory, that is it reasonably accurate statement of the matters studied, and that it is couched in a form that others going into the same field could use then he can publish his results with confidence (Glaser e Strauss 1967, 113).

Ho aperto questo lavoro con la storia di un uomo, costretto sia nei vincoli del contesto carcerario, sia nella vischiosità della propria coerenza, e di come un evento minimo, laterale e di poco rilievo abbia potuto costituire lo snodo da cui si è generato per lui un mondo diverso e un diverso repertorio di azione. Spesso avviene che l’irruzione del caso nella propria vita venga visto come un evento eccezionale e spesso sia temuto, non considerando che a tutto e sempre «si frappone il tempo e il caso». L’apertura dei contesti di apprendimento/cambiamento, quali organizzazioni effimere, al caso dell’incontro, ancorché essere un limite e un vincolo, appare condizione necessaria e favorente la produzione di repertori di azione nuovi e maggiormente soddisfacenti, e ciò sembra essere vero sia per le persone, sia per il professionista. L’uccellino di Stroud ci indica che «la realtà si costruisce per caso e non per causa e ciò paradossalmente aumenta la nostra possibilità di modificazione della realtà stessa, perché il caso è sempre presente» (Turchi 2003, comunicazione personale). L’abilità professionale dell’operatore sta nel cogliere ciò che, di volta in volta, sempre in modo diverso, il caso mette a disposizione. Perché «niente si sa, tutto si immagina».

1 In proposito Schön scrive: «Quando qualcuno riflette nel corso dell’azione, diventa un ricercatore operante nel contesto della pratica. Non dipende dalla categorie consolidate della teoria e della tecnica, ma costruisce una nuova teoria del caso unico. [...] Poiché la sua sperimentazione rappresenta una sorta di azione, l’implementazione è costruita nell’ambito dell’indagine» (Schön 1993, 94).

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POSTILLE TRA PAROLE E AZIONE Trovare le parole opportune al momento opportuno indipendentemente da quanto esse vogliano informare o comunicare significa agire. (Hannah Arendt, Vita activa)

1. Trovo le premesse della ricerca di Colaianni collocate entro una "certa idea" della sociologia come narratività dialogica, esercitata in un regime di incertezza. Ricercatore, attore, professionista sociale, sono tutti inseriti in un circolo di epistemologia recursiva, che grazie al talento narrativo dà senso alle cose osservate e genera dei risultati conoscitivi ripercorribili ma non riproducibili. Fra gli svariati oggetti cognitivi presentati nel testo sussiste un legame non di tipo empirico-logico, ma attinente la coerenza della narrazione, che riordina il passato, definisce la situazione, costruisce/costituisce possibilità di futuro. Tutto ciò enfatizza il ruolo della parola che si fa azione, e della azione che passa attraverso la parola. Agire e narrare, da parte dell’attore, come agire e descrivere, da parte del ricercatore, vanno di pari passo. Essenziale a questo impianto teorico è una concezione del soggetto (individuo, persona) come singolo avente una durata nel tempo storico e biografico, che cerca di garantire la permanenza consapevole di sé al mondo. Incontro fra individui è la relazione d’aiuto, dove le singolarità rendono unico l’incontro, mentre il senso della comune fragilità giustifica e rende autentica la relazione. Il che non significa che manchino criteri di interazione rispettosa - come nelle note regole di Grice per lo scambio linguistico. Irrispettosa non è poi l’asimmetria di posizioni e compiti fra gli individui che entrano in relazione, ma fare uso dell’asimmetria per dominare l’altro e bloccarlo nello stato critico in cui lo si incontra. 2. Colaianni pone al cuore della sua proposta teorica-analiticametodologica, la competenza ad agire: l’agency. Che mi sembra struttura articolata di tre componenti (momenti) fondamentali. i) La situazione problematica (krisis), da riconoscere. È l’evento inedito, drammatico, non infrequente, ma talvolta estremo (il collasso cosmologico, per richiamare un tema apocalittico alla De Martino). La crisi implica una doppia perdita, di identità e di contesto, e le conseguenti sindromi di deriva, 307


perdita di orientamento, naufragio; è l’evento che disordina, spiazza, introduce una frattura biografica, dissolve la continuità, getta ombre minacciose sul futuro. ii) Il punto(tempo-luogo: kairòs) da afferrare. Sempre la vita quotidiana è impasto di routine e di rotture, ma nella crisi si determina quello stato straordinario di sospensione e vulnerabilità (cognitiva e non) dove vecchie formule e ricette sono fallite o appaiono in scacco, l’azione di routine è sospesa, il repertorio noto delle risposte è azzerato. E la crisi si trasforma in momento propizio se (solo se) la capacità di arrendersi nell’azzeramento e di sottomettersi all’ evento critico, genera condizioni che consentono di fare posto a nuovi elementi, che in precedenza non si davano. Come nella serenditpity mertoniana (e nell’ intuizione critica di Spitzer: Critica stilistica e semantica storica, tr. it. Bari 1965, p.104) è il click dell’illuminazione che scatta, un "cogliere il tempo", un ritornare "ad andare a tempo". La spinta ricevuta consente di rimettersi in moto, e di promuovere i propri riti personali di passaggio. Un kairòs "a portata di singolo" perde il senso decidente estremo proprio di un aut aut strategico, ed assume quasi un aspetto di occasionalità addomesticata. iii) Il metodo (krasis): mescolanza, bricolage. Nella crisi si tratta di radunare facoltà sparse (organiche, cognitive, emotive ecc.) e convocarle alla realizzazione temporanea di organizzazioni effimere, di nuovi compiti. Più che nuove abilità da acquisire, sperimentare se stessi nell’ introdurre cambiamenti anche minimi, fatti di piccole cose, piccole virtù, piccoli gesti; minime biforcazioni che consentono di dare inizio a qualcosa che prima non c’era (non il morire è il contrario del nascere, come osserva il filosofo Perniola, ma il non portare a nascita, il non fare essere ciò che può venire ad esistenza). Quello del bricoleur nella crisi è un navigare a vista, che risistema dinamicamente il campo dell’esperienza personale. 3. Letta in chiave di agency, la professione dell’aiuto sociale si conferma nel mandato di farsi "agente di cambiamento", come vogliono, o addirittura pretendono, testi e codici professionali. Una professione che non fa diagnosi non fa trattamento, non è clinica terapeutica o amministrativa, non dispone di protocolli, non cerca di produrli. Costituita da/entro relazioni con persone, e non attraverso patologie subite pezzi organici o psichici dell’uomo. Mediatori, gatekeepers, operatori di passaggi, contrabbandieri,aggiungerei traduttori, professionisti sociali così in concorrenza con altri specialisti più affinati, rivaleggiano con altri dell’umano, per altro socialmente assai più ricono308


sciuti (v. D. Rei voce Professioni sociali, in Dizionario di Servizio Sociale, Roma, Carocci, 2005, pp.492-495). Viene da chiedersi tuttavia: i) se autoattribuita dal professionista sociale di trattare "a tutto tondo" con/i suoi clienti non sia anche favorita dallo status di relativa irrilevanza sociale delle persone in cui si imbatte; ii) se postulare l’invarianza dell’agire rispetto al tipo di difficoltà con cui entra in relazione non lasci trasparire una qualche preferenza implicita per un certo tipo di problemi («l’area psichiatrica è in particolare l’area del sociale»: p.226). Quanto alla posizione del professionista nella relazione, supporre che "le persone migliorano se trovano persone migliori" (secondo quanto dichiara un testimone qualificato, p.273), ben chiarisce ciò che il servizio sociale non vuole (più) limitarsi ad essere (riparativo, di ricucitura ecc.), ma forse non basta a situare appieno l’intervento entro un quadro organizzato, dove né il professionista, né il suo utente sono svincolati da mandati ricevuti e assegnati, e dal contesto che li comprende e li limita. In altri termini, il rimando alla reciprocità delle relazioni micro- orizzontali non basta ad illuminare completamente ragioni, potenzialità e i limiti del servizio sociale quale attività di relazione che si svolge entro definite strutture organizzative. Come passare dai diritti formali, assunti come aspettativapretesa a ricevere prestazioni predefinite, al diritto di "entrare in relazione” con una potenziale fonte di aiuto, in un gioco che è rispettoso di regole condivise, ed al tempo stesso largamente consegnato alla qualità della relazione che si instaura? Questo si dice non certo per ribadire la pretesa superiorità prevaricatoria delle logiche istituzionali sulle dinamiche intersoggettive, ma per non eludere la questione di un difficile non prevedibile passaggio fra dispositivi e piani di intervento situati a differenti livelli di generalità. Semmai la valenza generativa della nozione di dono (non presa nel senso paradossale alla Derrida o nell’ambivalenza positivo-negativa segnalata da Mauss) condurrebbe a vedere l’aiuto stesso nella sua dimensione donativa, come apertura ad una possibilità di relazione, che scommette sul reciprocare. Sapendo però che la pretesa della reciprocità perfetta è sempre eccessiva, e che l’abolizione della asimmetria resta un orizzonte limite, ma non per questo privo senso motivante all’agire. 4. Per quanto riguarda le conseguenze epistemologiche del modello, ricordo come Filippo Barbano ci abbia sovente richiamato alla necessità di conside309


rare inevitabile il rapporto fra fonti convenzionali e non convenzionali del sapere-intervento sociale. Oggi la questione torna a porsi a più livelli: nella gestione amministrativa (è il tema della cittadinanza sussidiaria); nella accessibilità dei servizi (è il repertorio perfino imbarocchito di carte, qualità, audit sociale); e per quanto riguarda modalità e risorse cognitive implicate dall’intervento: «a major set of questions which postmodern, thinking poses for social work is what constitutes legitimate social work knowledge or theory and how it is best generated and by whom?» (p.265). Siamo dunque tenuti a chiederci che cosa, oltre il mandato ed il ruolo, fondi l’expertise professionale rispetto al sapere ingenuo, e che conseguenze abbia la reciprocità cognitiva che si tende ad instaurare fra sistemi esperti e attori ingenui. L’area critica è quella che si apre alla transizione fra expertise ed esperienza: là dove una latente expertise dell’attore può emergere oltre i limiti della sua esperienza, là dove l’esperienza del professionista riesce a trovare espressione, pur entro i confini della sua expertise. Quest’area di passaggio e di snodo richiede al professionista di fronteggiare i problemi alla sua portata - personale contestuale locale - in una attiva disposizione di ascolto, senza pretendere di selezionare a piacimento i suoi oggetti di intervento dall’habitat della vita reale in funzione delle sue risposte competenti (Per una applicazione al caso dei minorenni, v. Manuela Olagnero e Dario Rei, “L’ascolto dei bambini da principio normativo a pratica sociale: osservazioni dal contesto torinese”, in Quaderni di sociologia, vol. L, 2006, n. 42, pp.101-131). Resta tuttavia irrisolto ed aperto il problema di come condividere narrazioni in modo espansivo, e costruire conoscenze e pratiche che siano "buone per molti". Per non implicare chiusura idiosincratica e autolimitazione concettuale, il rimando al locale ed al singolare presuppone che l’unicità dell’ esperienza di per sé non inibisce la possibilità di trarne esempio, e farne servizio ad altri (una idea, si noti, sovente più presente all’ingenuità degli utenti che alla riflessione degli operatori ). 5. Quando poi si considerano le conseguenze per il servizio sociale entro un modello istituzionale di politica sociale, emerge la richiesta dello slittamento dallo schema politico: bisogni-diritti-prestazioni ad uno schema soggettivo e contingente: incapacità-diritti-azione. Che è anche passaggio da assistenza/dipendenza a promozione/autodirezionamento; da contratto negoziato e controllato, a patto-partenariato. Da un welfare risarcitorio-assicurativo, ad 310


un welfare di sviluppo e affiancamento o, come oggi usa anche dire, promozionale. Ora s’intende che affrontare carenza di beni e risorse primarie e risolvere stati di sofferenza, isolamento, disgregazione del tessuto sociale è impegno che appare lungi dal potere essere abbandonato dalla politica sociale, a fronte di nuove forme della vulnerabilità, quali precarietà e intermittenza del lavoro, invecchiamento e non autosufficienza anziana, dinamiche migratorie, moratoria dei corsi di vita, fragilità delle famiglie e così via. Ma la generalizzazione del modello implicito nella logica dell’agency sembrerebbe chiamare il lavoro sociale a compiti in parte diversi, in parte complementari, declinati in termini positivi di salute, benessere, qualità di vita, autosufficienza, relazionalità. Consegnare questi compiti ulteriori “alla politica”, o affidarli in esclusiva ad altre professioni sociali, finirebbe per circoscrivere il lavoro sociale al ristretto perimetro di una amministrazione, più o meno disciplinare (e ben poco confacente ai requisiti dell’agency stessa) del disagio e delle nuove criticità sociali. Colaianni sembra tuttavia ammettere (seguendo su questo punto Folgheraiter) che il servizio sociale vada distinto da una sociologia o politica sociale, applicata alla soluzione o correzione delle “patologie” sociali di sistema. Da ciò la richiesta di passare da una politica dell’emancipazione (forzosa) ad una politica della vita autonoma, autodiretta (vita non nel senso biopolitico, ma nell’orizzonte dell’esistenza dignitosa e decentemente umana). Non è chiaro se uscire dalla prospettiva di una emancipazione forzosa, eteronoma, dipendente, equivalga ad abbandonare il concetto stesso di emancipazione, nella sua portata più dinamica e autopoietica. Ma la ripresa di autonomia individuale realizzata con l’agency non è già apertura a possibilità inedite di emancipazione? E inoltre: non tutte le preferenze, come insegna Sen, benché soggettivamente riconosciute e convalidate, hanno la stessa valenza capacitante. L’autonomia è mezzo necessario per la responsabilità, ma la responsabilità non è solo obbligazione verso se stessi, in quanto implica una diversa sistemazione dei propri rapporti interindividuali e sociali. Si potrebbe quindi pensare che la domanda di nuove politiche della vita, nel senso dianzi ricordato, lungi dal riguardare i soli clienti del servizio sociale, investe la scena della nostra esistenza liquida a rischio, essendosi fatto assai più sottile lo strato del ghiaccio sociale su cui tutti pattiniamo. La prospettiva delle politiche della vita emancipata delinea l’orizzonte inevitabile di ogni futura politica sociale, che non si limiti a reiterare il vecchio paradigma.

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6. Per apprezzare il valore delle azioni che hanno luogo nell’ambito del sistema di aiuto, oltre che sulle motivazioni e le condizioni dell’agency "in entrata" occorrerebbe interrogarsi sull’efficacia della agency "in uscita". Delle varie dimensioni che modellano la competenza ad agire degli individui coinvolti due appaiono soprattutto importanti. L’immaginazione, che vede come possibile per sé quello che ante-vede in immagine e perciò lo rende possibile (giusta una nota osservazione di Weber a proposito della grande azione storica). E la fiducia: il confidare, da parte del professionista, nella possibilità dell’altro di farcela muove dall’ assunto che (ri)trovare confidenza in se stessi sia un fatto innanzi tutto personale («se non lo facevo io, al posto mio non lo faceva nessuno»). Per quanto attiene l’efficacia "di sistema", le cose stanno in modo meno evidente. Dando per scontato che le conseguenze di cui l’intervento sociale può assumersi la responsabilità non derivano dalla esecuzione ingegneristica di uno schema progettuale, orientato al conseguimento dello scopo, dovremmo pensare che l’efficacia sia tutta risolta nella forma a cui il processo di azione mette capo, e che dunque l’agency consista in una "capacità di formare," che presiede al senso del nostro intervento? «L’arte è la soluzione di quei problemi che non possono essere enunciati prima di essere risolti», ossia trascritti in una forma riuscita. Così Piet Hein, citato da Merton (in MertonGaston, La sociologia della scienza in Europa, tr. it. Milano, Angeli, 1980, p.41). Preferisco però, a beneficio della criticità di un intervento sociale riflessivo, ritenere sempre aperta, in tensione permanente, la doppia direzione di cui consiste lo sforzo creativo: «L’intuizione getta una lancia nel buio. Lo sforzo dell’intelletto e della ragione consiste nell’ andarla a ritrovare» (Ingmar Bergman). Perciò l’itinerario formativo di un professionista sociale, aperto alla varietà delle biografie in cui si imbatte (compresa la propria), disposto a reggere alternative, biforcazioni, frustrazioni delle pratiche di aiuto, si pone come una sequenza non lineare esposta a passi avanti, errori, ripensamenti. La formazione di un tale professionista dovrebbe perseguire una ibridazione riuscita, ma mai definitiva, fra l’epistemologia delle discipline e l’ermeneutica del fare quotidiano. Dubitare che la multiversità di queste esigenze possa essere risolta nel quadro statico di una tabella di studi accademici da amministrare, o sistemata attraverso i contenziosi fra scuole e settori scientifici e culturali, è lecito. D’altra parte, quand’anche si ammetta che un sistema formale - di istruzione, di intervento, di professionalizzazione 312


guadagni spazio per sé incapacitando l’informale, non è per nulla certo che l’informale sia in grado per virtù propria di capacitare il formale, soprattutto se quest’ultimo non sia disponibile ad ascoltarlo.

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