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il carciofo e il cardo
paesaggio Carciofo in Puglia Vito Vincenzo Bianco Nicola Calabrese
www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche.
paesaggio Carciofo in Puglia Introduzione Le prime informazioni certe sulla presenza del carciofo in Puglia risalgono al 1736, quando nel seminario di Otranto (LE), durante il mese di aprile furono servite pietanze a base di carciofo; inoltre nel 1751 e nel 1763 viene segnalato il consumo di carciofo in un monastero di Trani (BA) e nel seminario di Gravina (BA). Testimonianze successive riportano il consumo di carciofo dal 1763 al 1860. Nel viaggio attraverso il Regno di Napoli nel 1789 De Salis Marschlins riporta la presenza di piante di carciofo presso Canneto, in provincia di Bari. Nel 1811 Serafino Gatti annovera il carciofo tra gli ortaggi coltivati in Capitanata. Fino agli inizi del 1900 il carciofo era coltivato su piccolissimi appezzamenti o lungo i muri a secco e intorno alle abitazioni rurali o in consociazione con diverse specie di frutti. Nei primi anni del 1900, tra le province importanti per la produzione del carciofo erano annoverate anche Bari e Lecce. Dopo la seconda guerra mondiale alcuni intraprendenti coltivatori di Mola di Bari contribuirono all’espansione del carciofo nell’area brindisina e foggiana. Nel 1923, 1929, 1939, 1949, il carciofo era presente in Puglia rispettivamente su 210, 437, 869 e 958 ha. Dalla sua introduzione ad oggi la superficie destinata a carciofo è aumentata in maniera considerevole: la diffusione più ampia nei comprensori orticoli è progressivamente avvenuta a partire dagli anni ’50 ed è proseguita fino agli inizi degli anni ’90, raggiungendo il massimo assoluto nel 1991 con 19.280 ha. Negli ultimi quindici anni, pur mostrando una lieve diminuzione, la superficie si è man-
Puglia in sintesi
• Con 17.085 ha e 173.448 t, la Puglia è
al primo posto in Italia per la superficie coltivata e per la produzione totale di capolini
• La coltivazione è maggiormente diffusa
nella provincia di Foggia (8600 ha; 100.800 t di capolini), seguita da Brindisi (6820 ha; 57.000 t) e Bari (1180 ha; 6878 t); mentre è limitata in provincia di Taranto (440 ha) e Lecce (140 ha)
• Le cultivar più diffuse sono il Violetto
di Provenza, affermatosi negli ultimi vent’anni soprattutto in provincia di Foggia, sostituendo progressivamente le popolazioni locali e assumendo il nome di Francesino, mentre il Violetto di Sicilia o Catanese è coltivato soprattutto in provincia di Brindisi e di Bari, dove viene indicato rispettivamente come Brindisino e Locale di Mola
• È in corso di assegnazione la IGP per il Carciofo brindisino
Carciofaia in piena produzione a Polignano a Mare, Bari
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carciofo in Puglia Evoluzione della superficie destinata alla coltivazione del carciofo in Puglia 20.000
Superficie (ha)
15.000
10.000
5000
0
8 8 7 3 3 8 8 3 3 8 9 3 -'5 9-'6 4-'6 9-'7 4-'7 9-'8 4-'8 9-'9 4-'9 9-'0 4-'0 200 8 0 7 6 7 9 8 9 6 5 19 19 19 19 20 19 19 19 19 19 Anni
3 95
1
tenuta sostanzialmente costante oscillando tra 16.000 e 18.000 ha con una produzione di circa 150.000 t; tali cifre collocano la Puglia al primo posto fra le regioni italiane. L’incremento della superficie e della produzione verificatosi tra il 1950 e il 1970 è dovuto soprattutto alla disponibilità di acqua irrigua. Attualmente il carciofo è maggiormente coltivato nelle province di Foggia (8600 ha e 100.800 t di capolini), Brindisi (6820 ha e 57.000 t) e Bari (1180 ha e 8400 t), mentre è poco diffuso nelle province di Taranto (440 ha) e Lecce (140 ha). Notevoli sono le ripercussioni nel comparto agricolo regionale e nel suo tessuto sociale; nel 2007 la PLV regionale è stata di poco superiore a 110 milioni di euro.
Carciofaia in piena produzione
Foto M. Curci
Evoluzione della produzione di carciofo in Puglia
Produz. Totale (t)
250 200 150 100 50 0
9 3 8 3 8 3 8 3 8 3 7 8 -'5 9-'6 4-'6 9-'7 4-'7 9-'8 4-'8 9-'9 4-'9 9-'0 4-'0 200 5 6 6 7 7 8 8 9 9 0 19 19 19 19 19 19 19 19 19 20 Anni
1
3 95
Carciofaia in provincia di Foggia
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paesaggio La grande disponibilità di materia prima ha favorito la costituzione di numerose piccole e medie industrie di trasformazione del prodotto ancora oggi molto attive sul mercato nazionale e internazionale; già nel periodo 1975-1980 in provincia di Foggia venivano lavorati circa 75.000.000 di capolini. Inoltre la produzione del carciofo in Puglia ha dato origine a un grande fervore di iniziative concretizzatesi in mostre e sagre, come a Mola di Bari, Trinitapoli, San Ferdinando di Puglia, Brindisi, Mesagne, San Pietro Vernotico. A Bari inoltre sono stati organizzati i primi quattro Congressi internazionali sul carciofo e numerosi sono i Convegni e le giornate di studio tenutisi in vari comuni pugliesi. Notevolissima risulta in Puglia la tradizione gastronomica, consolidata in una quarantina di ricette. Interessante ricordare che Vincenzo Corrado, nato a Oria (BR) nel 1738, cuoco alla corte di Ferdinando IV di Borbone, nel suo libro Del cibo pitagorico, ovvero erbaceo pubblicato nel 1781, descrive 16 ricette a base di carciofo.
Foto M. Curci
Tecnica colturale Impianto Tradizionalmente avviene mediante carducci, meno comune è l’uso di ovoli o di porzioni di ceppaia, mentre sono scarsamente utilizzate le piantine ottenute da micropropagazione e quelle provenienti da acheni (comunemente detti “semi”); la diffusione di queste ultime è in progressivo aumento, grazie alla recente introduzione di ibridi con ottime capacità produttive.
Carciofaia nel Brindisino
Superficie coltivata a carciofo nelle province di Bari, Brindisi e Foggia rispetto al totale regionale 70 60 50
%
40 30 20 10 0
1945
1950
1955
1960
1965
1970
1975
1980 Anni
BA
BR
FG
96
1985
1990
1995
2000
2005
2008
carciofo in Puglia Nella provincia di Brindisi l’impianto della nuova carciofaia è realizzato quasi esclusivamente mediante carducci nel mese di ottobre, in concomitanza con le operazioni di scarducciatura; da tale impianto la raccolta dei primi capolini ha luogo in marzo-aprile, con produzione abbastanza modesta. In provincia di Foggia i carducci vengono piantati generalmente in marzo e i primi capolini raggiungono la maturazione commerciale nel mese di ottobre. La densità piante/ha varia in relazione alla fertilità del terreno, la cultivar e il tipo di meccanizzazione aziendale; generalmente è compresa tra 7000 e 9000 piante/ha. Nel Foggiano le piante sono disposte solitamente in file singole con distanze che variano da 1,20x1,20 a 1,45x1,45 m, nel caso di disposizione in quadro oppure in rettangolo a 1,35 x 0,9 m. Invece nel Brindisino è maggiormente diffuso il siepone con le file singole distanti 1,8 m e piante a 0,6-0,9 m sulla fila. L’impiego di carducci appena distaccati dalla pianta non consente il regolare attecchimento, per la presenza di ferite che rendono più facile l’insediamento di parassiti (funghi terricoli, batteri) con conseguente moria. Inoltre con l’impianto autunnale la prima raccolta si effettua nella primavera successiva ed è caratterizzata da un basso numero di capolini per pianta. Per di più, considerata la disformità del materiale, l’entrata in produzione risulta scalare. Per ovviare a tali inconvenienti, è consigliabile impiegare carducci radicati. A tale scopo, i carducci delle cultivar che iniziano a
Carciofaia impiantata con carducci radicati Piantonaio per la radicazione dei carducci
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paesaggio produrre in autunno, provenienti dalla scarducciatura effettuata in febbraio-marzo, si lasciano in piantonaio fino al momento dell’impianto (che ha luogo generalmente in luglio), con l’accortezza di sospendere le adacquate 30-40 giorni prima di piantarli per evitare la differenziazione dei capolini. Con tali carducci radicati si ottiene un’elevata percentuale di attecchimento e un’uniforme entrata in produzione in novembre. Le carciofaie provenienti dall’impianto di ovoli germogliati effettuato in estate iniziano a produrre generalmente in novembre. Le piantine propagate per “seme” sono trapiantate solitamente entro il mese di luglio; la produzione di capolini comincia da fine ottobre a febbraio, a seconda delle cultivar e della tecnica colturale praticata. Il prolungato ricorso alla propagazione agamica ha favorito nel tempo un progressivo peggioramento delle condizioni fitosanitarie delle carciofaie con la comparsa di gravi problemi di carattere fitopatologico e agronomico, con ricadute economiche negative per i produttori. I patogeni che destano maggiore preoccupazione sono i virus e i funghi tracheomicotici (soprattutto il Verticillium dahliae); non tanto perché risultano più dannosi di altri parassiti, ma piuttosto perché possono essere facilmente trasmessi e diffusi attraverso il materiale di propagazione che, a un esame visivo, risulta completamente asintomatico. Le infezioni di V. dahliae presentano anche la peculiarità di contaminare il terreno con i propri organi di conservazione, i microsclerozi; le infezioni, all’inizio di scarsa incidenza e solitamente localizzate, si diffondono progressivamente nel terreno. Questa situazione ha costretto gli agricoltori a spostare frequentemente le carciofaie su appezzamenti diversi, con la conseguente riduzione dei cicli di coltivazione (da 4-5 anni si è passati a 2), e a volte ad abbandonare la coltura.
Piantonaio per la radicazione dei carducci
Mini ovoli
Contenitori per piantine di carciofo Carducci di varie dimensioni
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carciofo in Puglia Cultivar Le prime carciofaie da reddito furono impiantate in Puglia nell’immediato dopoguerra con materiale di propagazione proveniente dalla Sicilia della cultivar Catanese o Violetto di Sicilia. Nel tempo, questa cultivar ha assunto diverse denominazioni in relazione alla località di coltivazione. Pertanto il panorama odierno comprende numerose popolazioni che hanno a volte una diffusione territoriale limitata; spesso lo stesso tipo è denominato in modo diverso in aree differenti, generando confusione non solo per i nomi e gli eventuali sinonimi ma anche per quanto riguarda gli aspetti tecnici e commerciali. È quanto accade ancora oggi, soprattutto nella provincia di Brindisi e in misura minore in quella di Bari, in cui l’originario Catanese viene indicato come: Locale di Brindisi, Brindisino, Locale di Ostuni, Locale di Mola, Molese, Violetto di Mola, Baresano, Violetto di San Ferdinando, Violetto di Brindisi, Nostrano di Brindisi, Violetto del Salento, Nostrano di Orta Nova, ecc. Le cultivar maggiormente presenti in Puglia sono in definitiva: Violetto di Provenza, introdotto nel secondo dopoguerra nel Salento, si è diffuso invece con molto successo negli ultimi vent’anni nella provincia di Foggia, sostituendo progressivamente le popolazioni locali e assumendo comunemente il nome di Francesino. Questa cultivar è molto produttiva e con la tecnica della forzatura gli agricoltori riescono ad anticipare la produzione dei capolini già in settembre, con notevoli benefici economici vista la scarsa presenza in quel periodo di produzioni provenienti da altre regioni. Il Violetto di Provenza risulta, rispetto al Catanese, più precoce e più produttivo; i capolini presentano una colorazione violetta più intensa, maggior peso specifico, forma conica durante la produzione autunnale e tendente all’ovoidale in primavera. Brindisino e Locale di Mola sono maggiormente coltivati rispettivamente in provincia di Brindisi e di Bari e hanno la prerogativa di produrre, oltre a un buon numero di capolini per il mercato fresco
Violetto di Provenza
• Pianta con elevata attitudine
pollonifera, foglie inermi, steli di altezza media di 70 cm
• Capolino di forma ovoidale, mediamente compatto o compatto, dimensioni medie
• Brattee esterne di colore violetto con
sfumature verdi, raramente con piccola spina apicale
• Epoca di produzione: ottobre-maggio,
ciclo produttivo lungo (in coltura forzata e con trattamenti di GA3, la raccolta può iniziare in settembre)
• Produttività: 18-20 capolini per pianta, di cui 8-10 per il mercato fresco, i rimanenti per l’industria
Violetto di Provenza Carciofaia di Violetto di Provenza in ottimo stato
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paesaggio
Brindisino
• Pianta con elevata attitudine
pollonifera; foglie inermi, steli di altezza media di 70 cm
• Capolino di forma cilindrica, mediamente compatto o compatto, dimensioni medie
• Brattee esterne di colore verde con sfumature violette, raramente con piccola spina apicale
• Epoca di produzione: ottobre-maggio
Piante della cultivar Brindisino
ciclo produttivo lungo; produttività: 15 capolini per pianta, di cui 6-7 per il mercato fresco, i rimanenti per l’industria
(di solito la produzione autunnale), anche una notevole quantità di carciofini (raccolti da fine marzo in poi) molto richiesti dall’industria di trasformazione. Recenti studi di genetica molecolare, basati su diversi marcatori quali Random Amplified Polymorphic DNA (RAPD), Amplified Fragment Length Polymorphism (AFLP) e microsatelliti, hanno evidenziato che il Brindisino e il Locale di Mola appartengono alla tipologia del Catanese, confermando su base scientifica le informazioni già riportate da relazioni tecniche e da fonti giornalistiche, secondo le quali i primi impianti di carciofo in Puglia furono realizzati con materiale di propagazione proveniente dalla Sicilia. Nel territorio pugliese, si segnalano inoltre alcuni impianti di Romanesco, Terom, Tema 2000 e, recentissimi, di Opal ed Exploter. Queste cultivar offrono al cinaricoltore la possibilità non solo di aumentare la tipologia dell’offerta del prodotto, ma anche di ampliare notevolmente il calendario di raccolta dei capolini. In
Cultivar Brindisino Cultivar Tema
100
carciofo in Puglia
Cultivar Madrigal
particolare per il Romanesco, molto interessante si prospetta la produzione già da fine gennaio-febbraio, con notevole anticipo rispetto alle aree tradizionali di coltivazione: anche Tema 2000, introdotta di recente, ha suscitato notevole interesse presso i cinaricoltori per la sua buona capacità produttiva, la resistenza al freddo e per la colorazione violetta dei capolini ben accetta nei mercati toscani. Buone prospettive di diffusione potranno avere le nuove cultivar ibride propagate per “seme”, di nuova introduzione sul mercato, in particolare Opal, sia per la sanità delle piante sia per l’elevata produttività e qualità dei capolini. Presenti in aree di coltivazione molto limitate, ma meritevoli di una più ampia valorizzazione, sono le popolazioni Verde di Putignano, Violetto di Putignano, Bianco tarantino (che producono capolini di piccole dimensioni idonei ad essere consumati crudi e sottolio), Centofoglie e Catalogna per i capolini tardivi e grossi che spuntano ottimi prezzi sui mercati
Cultivar Bianco tarantino
Cultivar Opal
Cultivar Apollo Cultivar Romanesco
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paesaggio locali. Altre popolazioni di scarso rilievo in via di scomparsa sono il Carciofo di Lucera, di Troia e di Carovigno.
Temperatura media pluriennale di due località al centro dei più importanti areali pugliesi per la coltura del carciofo
Ciclo colturale Il diverso andamento climatico dei due maggiori areali di coltivazione del carciofo in Puglia, la provincia di Foggia e quella di Brindisi, condiziona notevolmente il ciclo e la tecnica di coltivazione. Infatti se si considerano i valori della temperatura registrati in due località tipiche, Cerignola (FG) e Mesagne (BR), si osserva che la temperatura media annuale di Cerignola è inferiore di 1 °C a quella di Mesagne. In particolare nei mesi di novembre, dicembre, gennaio e febbraio a Cerignola risulta di circa 2 °C inferiore rispetto a Mesagne. Dall’analisi delle serie storiche dei dati termometrici relativi al Brindisino e al Foggiano, è stato calcolato che nel Brindisino la frequenza di giorni con temperature minime al di sotto di 0 °C (rischio di gelata) è inferiore a 3 anni su 100 nel periodo agosto-dicembre. Nel periodo successivo la probabilità di gelate aumenta leggermente raggiungendo il massimo, circa il 4%, intorno alla prima decade di febbraio. Situazione ben diversa si osserva nel Foggiano dove già a fine novembre la probabilità che ci siano gelate è del 4%; questa aumenta al 10% a fine dicembre e raggiunge il 15% nella prima decade di febbraio. Pertanto nel Foggiano risulta ampiamente giustificata l’esigenza di risvegliare precocemente (metà-fine giugno) le carciofaie e di forzare la coltura anche con l’impiego di fitoregolatori, in particolare acido gibberellico, in modo da iniziare la raccolta dei capolini dalla metà di settembre. Le raccolte proseguono per tutto novembre e, a ritmo ridotto e in assenza di gelate, anche durante i mesi inver-
Temperatura (°C) Mesi
Mesagne (BR)
Cerignola (FG)
Gennaio
9,4
7,0
Febbraio
9,8
7,8
Marzo
11,6
10,2
Aprile
14,5
13,6
Maggio
18,1
18,2
Giugno
22,0
22,7
Luglio
24,5
25,8
Agosto
24,7
25,5
Settembre
22
21,8
Ottobre
18,2
16,7
Novembre
14,2
11,9
Dicembre
10,9
8,4
Media
16,7
15,8
Rischio di giorni gelivi nei due principali areali di coltivazione del carciofo in Puglia 20
Giorni gelivi (% anni)
15
10
5
0
01-ott 15-ott 30-ott 14-nov 29-nov 14-dic 29-dic 13-gen 28-gen 12-feb 27-feb 13-mar 28-mar 12-apr 27-apr 12-mag
Foggia
Data
Brindisi
102
carciofo in Puglia Foto G. Romagnuolo
Impiego di acido gibberellico
• La precocità di raccolta è una
caratteristica importante per poter commercializzare con successo i capolini sul mercato e, negli ultimi anni, ha riguardato anche i tipi tardivi come il Romanesco. Numerosi studi hanno evidenziato che trattamenti con acido gibberellico (GA3) possono sostituire le condizioni ambientali necessarie all’induzione fiorale. L’influenza di trattamenti con GA3 su cultivar propagate vegetativamente è nota da tempo, mentre i risultati di recenti ricerche su cultivar propagate per “seme” hanno evidenziato che, pur nella diversità delle singole condizioni sperimentali, in alcune cultivar per anticipare la raccolta a ottobre/novembre è necessario effettuare almeno tre trattamenti, a intervalli di tre settimane, a dosi comprese tra 5 e 60 g/l, a partire da piante con circa 10 foglie
Carciofi freschi in attesa di essere confezionati
nali; più di frequente invece le carciofaie del Foggiano risultano fortemente danneggiate dagli abbassamenti termici con conseguente interruzione del ciclo produttivo. Di solito l’emissione dei capolini riprende progressivamente a fine marzo per raggiungere il massimo nella seconda decade di aprile; dalla metà di maggio gli agricoltori sospendono le adacquate per favorire la messa a riposo delle piante. In provincia di Brindisi il ciclo di coltivazione ha inizio generalmente in concomitanza dei temporali di fine estate ma, in caso di ritardo delle piogge, si interviene con una o due adacquate a partire dalla fine di agosto. La raccolta inizia a metà novembre e prosegue durante tutto l’inverno; raramente, come si è detto, le gelate sono di intensità tale da interrompere il ciclo produttivo delle piante. Più spesso provocano danni sulle brattee esterne dei
Il sovradosaggio di GA3 causa l’eccessivo allungamento dello stelo Il sovradosaggio di GA3 causa l’apertura della parte distale delle brattee
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paesaggio capolini che risultano commercialmente deprezzati; in primavera la produzione si concentra nel periodo marzo-aprile e prosegue a volte fino all’inizio di giugno con la produzione di capolini da destinare all’industria di trasformazione. Concimazione e irrigazione La biomassa di una carciofaia in ottimo stato di vegetazione durante tutto il ciclo colturale può raggiungere e a volte superare le 100 t/ha; le asportazioni degli elementi nutritivi dal terreno dipendono da numerosi fattori, ma in genere per la produzione di tale biomassa vengono asportati 286 – 44 – 368 – 178 - 157 e 28 kg/ha rispettivamente di N, P2O5, K2O, Ca, Na, Mg. Quantità più modeste si riferiscono a Fe, Mn, Zn e Cu (5210 – 650 - 275 e 165 g/ha rispettivamente). Ricerche condotte sulla crescita delle piante e sulle asportazioni degli elementi nutritivi della cultivar precoce Locale di Mola (simile a Locale di Brindisi e a Violetto di San Ferdinando) evidenziano che per produrre 1 t di capolini sono necessari 19 kg di N, 3 kg di P2O5 e 24 kg di K2O. Spesso gli agricoltori che attuano il risveglio forzato delle piante tendono a somministrare quantità di azoto complessive superiori a 400 kg/ha; mentre nel Brindisino, con il ciclo di coltivazione tradizionale, gli apporti totali di questo elemento raramente superano i 250 kg/ha. Numerose ricerche hanno evidenziato che apporti superiori a 250-300 kg/ha non determinano incrementi produttivi e di precocità ma, al contrario, causano la crescita eccessiva delle foglie e il ritardo della raccolta. Inoltre, aumenta il contenuto di azoto nel terreno e la possibilità d’inquinamento della falda.
Irrigazione con impianto fisso soprachioma
Atrofia del capolino in relazione alla data di risveglio della carciofaia nei due principali areali di coltivazione 120
Frequenza atrofia (%)
100 80 60 40 20 0 Foggia
05-giu
08-giu
12-giu
15-giu
20-giu
25-giu
Brindisi
104
29-giu
03-lug
10-lug
18-lug
23-lug
28-lug 02-ago 07-ago
carciofo in Puglia Il disciplinare di produzione redatto dalla Regione Puglia pone il limite massimo per la distribuzione di N, P2O5 e K2O rispettivamente a 300 – 120 – 150 kg/ha. Vieta inoltre l’uso di fanghi, liquami e concimi o ammendanti derivanti da rifiuti solidi urbani. Di solito la distribuzione dei concimi fosfatici e potassici viene effettuata all’impianto e, negli anni successivi, al risveglio vegetativo mentre l’azoto è somministrato in modo frazionato in almeno 3 interventi: al risveglio vegetativo, al momento della scarducciatura e all’epoca dell’emissione dei primi capolini. Con il diffondersi della fertirrigazione gli elementi nutritivi sono somministrati durante l’intero ciclo di coltivazione. L’impiego di letame e/o di concimi organici da interrare al momento dell’aratura principale è limitato alle aziende che ne hanno disponibilità. La stagione irrigua varia a seconda del ciclo colturale: nel Foggiano la prima adacquata, che serve per il risveglio, viene effettuata intorno al 20 giugno, con volumi di adacquamento variabile da 300 a 600 m3/ha in funzione delle caratteristiche del terreno. Si prosegue con interventi settimanali e volumi di adacquamento di circa 200 m3/ha fino all’autunno, quando il turno irriguo si allunga a 10-15 giorni. La stagione irrigua si interrompe in inverno e riprende di solito a fine febbraio per proseguire sino al termine delle raccolte (fine maggio-inizio giugno). In provincia di Brindisi il ciclo di coltivazione inizia circa 2 mesi dopo rispetto al Foggiano e le piogge che cadono generalmente a partire da agosto permettono l’accrescimento della coltura; pertanto l’irrigazione si attua solo nel caso di autunno e inverno siccitosi, e la stagione irrigua vera e propria inizia da marzo per proseguire fino a maggio. I volumi stagionali si aggirano intorno ai 4-5000 m3/ha per la provincia di Foggia e ai 2500-3000 per quella di Brindisi. Il metodo irriguo più largamente diffuso è quello a microportata, comunemente detto a goccia. In alcune zone, soprattutto nelle
Atrofia del capolino
• Temperature elevate (>24 °C), bassa
pressione di vapore dell’aria e deficit di calcio all’interno della pianta durante la fase di transizione dell’apice da vegetativo a riproduttivo, causano l’atrofia del capolino. Questa fisiopatia assume particolare rilevanza nelle zone dove il risveglio della carciofaia è anticipato a fine giugno e dove si riscontrano frequentemente elevati valori giornalieri delle temperature massime. L’applicazione di un modello matematico per il calcolo delle probabilità di insorgenza dell’atrofia ha permesso la stima, per le province di Foggia e di Brindisi, del rischio di manifestazione della fisiopatia in relazione alla data di risveglio della carciofaia. La probabilità con cui l’atrofia può manifestarsi varia enormemente in relazione al regime termico. A Brindisi il rischio è irrilevante anche con risveglio molto precoce, mentre a Foggia è molto elevato a causa del clima più continentale, caratterizzato da temperature massime giornaliere notevolmente più elevate
Capolino atrofico Irrigazione con mini sprinkler
105
paesaggio Coltivazione del carciofo nelle province di Foggia e Brindisi Foto M. Curci
Foggia
Brindisi
Cultivar prevalente
Violetto di Provenza
Catanese
Periodo di risveglio
15-30 giugno
15-30 agosto
Impiego di acido gibberellico
elevato
basso
Impiego di fertilizzanti
elevato
basso
Volumi di irrigazione (m /ha)
4500
3000
Carducci (n/pianta)
2
1
Inizio raccolta
Metà settembre
Novembre
Produzione a fine dicembre (%)
40
10
Presenza capolini atrofici
elevata
bassa
Produzione di capolini per il mercato fresco (n ha-1)
100.000
80.000
Durata della carciofaia (anni)
2-3
1-2
3
Raccolta dei capolini di carciofo
province di Foggia e di Bari, è ancora praticata l’irrigazione per aspersione, o con impianti fissi soprachioma, o con linee adduttrici poste sul terreno e con ugelli del tipo mini sprinkler sorretti da aste poco sopra la pianta. Questo metodo consente la nebulizzazione dell’acqua sulla pianta in modo da ottenere anche una funzione climatizzante, antigelo in inverno o per ridurre la temperatura in estate al fine di limitare rispettivamente i danni da freddo e l’atrofia del capolino.
Produzione areica del carciofo in provincia di Brindisi e Foggia 30 25
t/ha
20 15 10 5 0 BR
1950
1955
1960
1965
1970
FG
106
1975
1980 Anni
1985
1990
1995
2000
2005
2008
carciofo in Puglia Raccolta, qualità dei capolini, trasformazione La produzione varia in funzione dei fattori pedoclimatici, della tecnica colturale, della cultivar, del metodo di propagazione, dell’età della carciofaia e in media oscilla da 150 a 200.000 capolini per ettaro. La produzione per il mercato fresco è di circa 100.000 capolini/ha nel Foggiano e 80.000 nel Brindisino; quella destinata all’industria è per entrambe le zone di 50-60.000 capolini/ha. Già dagli anni ’70 le produzioni areiche delle carciofaie del Foggiano risultano notevolmente superiori a quelle della provincia di Brindisi; ciò si spiega sia per la maggiore produttività del Violetto di Provenza rispetto al Brindisino, sia per le differenti tecniche colturali. È noto che il risveglio anticipato, l’impiego di fitoregolatori, l’epoca e la modalità di impianto influiscono sulla precocità, sulla durata del calendario di raccolta, sulla quantità e qualità del prodotto. Il periodo di raccolta si aggira intorno a 250 giorni per le cultivar precoci, con carciofaie risvegliate a fine giugno-luglio; le raccolte, in numero variabile da 15 a 20, iniziano a fine settembre e terminano generalmente in maggio. Per le cultivar tardive hanno inizio a febbraio-marzo e terminano in giugno. In particolare a Foggia la raccolta inizia tra la metà di settembre e la prima decade di ottobre, raggiunge il massimo nel mese di novembre, cala rapidamente, o si arresta, nei mesi invernali e riprende a marzo con un picco ad aprile. A Brindisi, invece, la produzione autunnale è molto limitata; i primi capolini vengono raccolti in novembre, la produzione aumenta lentamente nei mesi invernali, si innalza bruscamente tra marzo e aprile e si protrae fino ai primi di giugno. La raccolta avviene a mano con l’ausilio di forbici o coltelli ben affilati; i carciofi successivamente vengono depositati in cesti o sacchi, i quali poi vengono scaricati ai bordi del campo per essere trasportati al centro aziendale. Quando la distanza tra le file lo permette, i capolini vengono caricati in piccoli cassoni trasportati da motocoltivatori o trattori di modeste dimensioni. Nelle grandi
Carciofi venduti al mercato, alla rinfusa o in fasci di 15-25 pezzi
Capolini confezionati in cassetta con stelo lungo e foglie
107
paesaggio aziende vengono impiegati carri agevolatori della raccolta trainati, costituiti da cassoni che possono contenere 3-4000 capolini, dotati di ali laterali di 2-4 metri, che permettono di ridurre sensibilmente i costi della raccolta. I capolini destinati all’industria vengono tagliati con peduncolo lungo 3-5 cm, generalmente raccolti senza l’ausilio del coltello e venduti in sacchi di 300-400 pezzi. L’accrescimento dei capolini è più rapido in autunno e primavera rispetto all’inverno; con il ritardo della raccolta il pappo si allunga, compaiono le brattee interne violette con piccole spine apicali, la fibrosità aumenta, mentre la porzione edule diminuisce. In alcuni mercati locali i carciofi sono ancora confezionati nel classico fascio di 15-25 e 5-6 pezzi rispettivamente per le cultivar precoci e tardive, oppure venduti alla rinfusa. In questi casi i capolini vengono tagliati con il peduncolo (che può superare anche i 30 cm), su cui sono inserite 2-4 foglie. In proposito, il regolamento della Comunità Europea (N. 963 della Commissione del 7/5/1998) stabilisce che i peduncoli devono presentare un taglio netto ed essere di lunghezza non superiore a 10 cm. Nelle regioni Toscana, Lazio, Campania, Puglia, Sicilia e Sardegna, tale disposizione può subire deroghe in virtù del regolamento CE 1466/2003 del 19/8/2003 per il quale è autorizzata ancora la vendita in mazzi, al dettaglio, di carciofi con peduncolo di lunghezza superiore a 10 cm. La motivazione a tale deroga risiede nella considerazione che in tali regioni tradizionalmente il gambo viene utilizzato in alcune preparazioni culinarie. Attualmente la maggior parte dei consumatori al momento dell’acquisto nei mercati locali chiede l’accorciamento dello stelo e il materiale di scarto contribuisce a far aumentare la massa di spazzatura che deve essere allontanata dai punti di vendita con conseguente aggravio dei costi per le imprese di nettezza urbana; se invece tale porzione di stelo con le foglie annesse venisse lasciato sulla pianta potrebbe contribuire all’aumento della produzione e successivamente all’aumento della sostanza organica nel terreno. In proposito, ricerche condotte sul Locale di Mola per verificare l’influenza della diversa lunghezza del taglio del peduncolo sulla biomassa asportata e le caratteristiche produttive, hanno messo in evidenza che con il taglio tradizionale (30-40 cm con foglie annesse) vengono asportate circa 10 t/ha di foglie sinteticamente attive; il peso dei capolini raccolti l’anno successivo risulta di 20 g inferiore rispetto al peso di quelli tagliati con stelo corto (5 cm). È interessante notare che la vendita dei capolini in fasci è sostituita rapidamente da capolini con 20-30 cm di peduncolo però senza le foglie, che vengono sistemati in cassette. Nella GDO si va affermando la vendita dei capolini con circa 10 cm di peduncolo commercializzati in vassoi con numero variabile di pezzi o in mazzi da 3-6 pezzi. In Puglia sono presenti numerose piccole aziende di trasformazione del carciofo, spesso a carattere familiare, che assorbono tutta la produzione regionale e che si approvvigionano anche da altre regioni, in particolar modo dalla Sicilia. La maggior
Carciofaia a Mola di Bari
Prodotti tipici e IGP
• La nona revisione dell’elenco nazionale
dei prodotti agroalimentari tipici pugliesi, curata dal MiPAF (Decreto n. 8663 del 05/06/2009), comprende 74 tra prodotti ortofrutticoli freschi e trasformati, tra cui sono stati inseriti il Carciofo di San Ferdinando e il Carciofo brindisino. Quest’ultimo ha recentemente ottenuto anche la Indicazione Geografica Protetta (IGP). Il territorio di produzione occupa una superficie di circa 6000 ha e comprende i comuni di Brindisi, Cellino San Marco, Mesagne, San Donaci, San Pietro Vernotico, Torchiarolo, San Vito dei Normanni e Carovigno, per una produzione stimata di circa 400 milioni di capolini
108
carciofo in Puglia parte di queste aziende produce semilavorati conservati in salamoia che poi sono venduti a grosse ditte fuori regione che rilavorano il prodotto e lo commercializzano. In questo modo gran parte del valore aggiunto generato dalla trasformazione è realizzato al di fuori dell’ambito regionale con grave perdita per le imprese locali. Non mancano comunque aziende che trasformano, confezionano e commercializzano direttamente carciofi sottolio o in salamoia, preparati in numerose tipologie: cuori di diversa dimensione, con gambo o senza, divisi a metà, in quarti, spicchi e fette o i soli ricettacoli (fondi) o anche pezzi di ricettacolo e brattee. Di recente sono preparati anche i cuori grigliati, alla brace, alla giudìa, alla cafona e conditi con diversi ingredienti. Nella produzione regionale di surgelati si segnala la recente introduzione sul mercato di carciofi in pastella pronti da friggere. Situazione attuale e prospettive In Puglia il carciofo è ancora una coltura in grado di remunerare i produttori; negli ultimi anni la sua coltivazione ha incontrato difficoltà di carattere economico, causate dalla difficile situazione congiunturale di tutto il settore agricolo, ma che riflettono anche i problemi di natura agronomica e patologica che limitano, a volte anche fortemente, la produzione e la qualità dei capolini. Tra i problemi agronomici si segnala la crescente salinità delle acque irrigue; la concimazione, soprattutto quella azotata, effettuata in modo irrazionale; l’uso improprio di fitoregolatori; la propagazione per via vegetativa. Strettamente legati a questi sono gli aspetti patologici che in alcune aree stanno rendendo praticamente impossibile la coltivazione. Oltre alle virosi, presenti in tutti gli areali di coltivazione, notevoli danni sono provocati da Verticillium spp. e dai roditori. Un settore che presenta ancora molte carenze è quello legato alla commercializzazione e, più in generale, alla valorizzazione del prodotto. In Puglia circa il 50% del prodotto fresco passa attraverso strutture commerciali organizzate (mercati all’ingrosso e grande distribuzione), mentre la quota restante viene offerta in maniera disorganizzata, penalizzando notevolmente i produttori, specie quelli con aziende di piccole dimensioni. Opportune azioni di valorizzazione, che mettono in risalto oltre alle caratteristiche qualitative anche gli aspetti legati alla tipicità del prodotto e la sua stretta relazione con il territorio di produzione, sono state attuate in Puglia a supporto della commercializzazione. Alla luce delle nuove politiche comunitarie, due sembrano le strade da percorrere per gli imprenditori agricoli: le piccole imprese che vendono i carciofi ai mercati locali dovrebbero specializzarsi e offrire prodotti di qualità per il mercato interno, mentre per quelle più strutturate la scelta quasi obbligata dovrebbe essere l’aggregazione per creare gruppi competitivi sul mercato nazionale ed estero, sfruttando in particolar modo le nuove politiche di incentivazione messe in atto dalla Comunità Europea a supporto delle Associazioni di Produttori.
Capolini confezionati in mazzi
Roditori parassiti
• Negli ultimi anni notevoli danni causati
da roditori sono stati osservati in tutti gli ambienti cinaricoli pugliesi e nel Foggiano in particolare. La diminuzione dei predatori naturali e la diffusione dell’irrigazione per aspersione e a goccia (che impediscono le lavorazioni in quadro del terreno che invece distruggono i cunicoli sotterranei dei roditori), assieme all’elevata capacità riproduttiva, ne hanno favorito la diffusione e reso difficile il controllo Foto P. Viggiani
Carciofaia in provincia di Lecce
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il carciofo e il cardo
paesaggio Carciofo in Sicilia Giuseppe La Malfa Sergio Argento
www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche.
paesaggio Carciofo in Sicilia Introduzione Nella coltivazione del carciofo le scelte e gli interventi riguardanti i cicli colturali e/o le cultivar, oltre a interagire in maniera significativa, restano vincolati alla natura e alle caratteristiche dei materiali di propagazione nonché all’epoca in cui questi presentano requisiti di idoneità all’impiego, e cioè per l’impianto di nuove carciofaie. I vincoli sono particolarmente manifesti in Sicilia per la notevole intensità con la quale si esprimono i fattori più caratterizzanti del clima mediterraneo – in particolare l’aridità e le elevate temperature della stagione estiva – che più direttamente interferiscono sulla modulazione del ciclo biologico e di quelli colturali. Le implicazioni agronomiche di tali vincoli risultano notevoli, anche in relazione al particolare profilo biologico della pianta, espressione di un percorso evolutivo che ha avuto luogo nell’ambiente mediterraneo dove si rinvengono ancora, come nel caso della Sicilia, le forme ancestrali dalle quali ha preso origine la coltura. La trattazione dei cicli colturali e delle cultivar rende pertanto necessari brevi richiami sui principali aspetti dell’origine e della diffusione della coltura nell’isola, per i riferimenti che questi hanno avuto e continuano ad avere ai fini della configurazione degli interventi tecnici in grado di dare riscontro alle esigenze della pianta.
Sicilia in sintesi
• La Sicilia occupa la seconda posizione in Italia per la coltivazione e la produzione di carciofo con 14.270 ha e 159.064 t
• Le province di Caltanissetta, con 5800 ha
e 66.000 t, e di Agrigento, con 3710 ha e 39.000 t, sono ai primi posti; seguono Catania, Palermo, Siracusa e Ragusa. La coltura si concentra nella Piana di Catania (comuni di Ramacca, Castel di Judica e di Lentini), nei territori di Niscemi e di Gela (CL), nell’area di Menfi (AG), nella Piana di Buonfornello (PA), nel Vittoriese (RG) e nella Piana di Siracusa
• Le cultivar che dominano nettamente
la scena sono rispettivamente, nella Sicilia orientale, il Violetto di Sicilia (ora sostituito in larga parte dal Violetto di Provenza) e, nella Sicilia occidentale, il Violetto spinoso di Palermo. Se si escludono i pochi ettari destinati ad altri tipi introdotti o a quelli locali, i due Violetti monopolizzano le aree destinate alla cinaricoltura precoce
Cenni storici e diffusione La specie più direttamente implicata nell’origine del carciofo (e del cardo) è Cynara cardunculus, la quale è articolata in due sottospecie: cardunculus e flavescens. Quest’ultima sarebbe unica progenitrice delle due colture con le quali condivide alcuni tratti
Capolino di varietà primaverile con colorazione intensa delle brattee Piante da “seme” pronte per la raccolta dei capolini
110
carciofo in Sicilia morfobiometrici, funzionali e biochimici, quali la presenza di canali secretori nel fusto e la configurazione dei sistemi enzimatici. Le due colture sono il risultato di due indirizzi di selezione orientati dall’uomo ora verso l’ampliamento e l’ispessimento della nervatura mediana (il caso del cardo), ora verso l’accrescimento del capolino e delle corrispondenti parti eduli (nel caso del carciofo). La specie C. cardunculus è largamente diffusa in Sicilia; gruppi di individui si osservano inframmezzati nelle coltivazioni o negli spazi limitrofi incolti. I più antichi documenti bibliografici pubblicati nell’epoca antecedente quella cristiana spesso riferiscono, se non della coltivazione, della raccolta e dell’utilizzazione di alcune piante riconducibili a forme spontanee del genere Cynara o ad altre specie affini (per esempio Silybum marianum). È quanto si verifica ancora oggi, sia pure occasionalmente, e almeno in Sicilia, con il consumo dei cacocciuliddi (piccoli capolini spinescenti raccolti su piante di C. cardunculus e più raramente di altre specie). Dell’utilizzazione di piante riconducibili ai cardi spontanei si hanno alcuni riferimenti in diverse opere di scrittori greci e romani. Le piante utilizzate o le loro strutture organografiche sono indicate a seconda degli autori e del periodo con i termini scolymos, spondylos, gyros e cactos. Quest’ultimo termine è di origine greco-siciliana e indicava una pianta presente in Sicilia, di non
Tipico capolino di Violetto di Sicilia
Principali tipi di carciofo coltivati in Sicilia tra la fine del XIX e i primi decenni del XX secolo Riferimenti bibliografici
Specie e varietà
Nicolosi Gallo A., 1880
L’autore descrive tre “varietà”: – spinosa di colore verde violetto detta carciofo di Palermo perché ivi coltivata per forzare e avere carciofi primaticci con ricettacoli grossi, con squame chiuse molto embriciate, con spine acuminate e pungenti di colore verde giallo; – a calice o domestica con squame aperte sopra, senza spine, coltivata negli orti seccagni, destinata per la produzione tardiva; – carciofo Maltese a forma cilindrica con squame senza spine di colore verde chiaro, molto diffusa nella Sicilia orientale per la sua rusticità, abbondante prodotto nella coltura forzata nelle province di Siracusa e Catania.
Manicastri B., 1894
L’autore distingue le seguenti “varietà” di carciofi: domestici senza spine, spinosi e spinosissimi. La varietà spinosa si divide in due sottovarietà: una detta mansa (cioè senza spine), che produce carciofi grossi e verdi, l’altra meno ricercata, produce carciofi più piccoli e di colore più scuro violaceo. La varietà spinosissima, secondo l’autore, probabilmente non sarebbe altro che il carciofo selvatico o C. cardunculus, che cresce spontaneo sulle montagne ma è coltivato negli orti e nei giardini lontani dalla città e che darebbe i cosiddetti cacocciuliddi, prodotto abbastanza gustoso che si vende nelle città siciliane a fine stagione, dopo la scomparsa nei mercati dei carciofi.
Viani P., 1919
Tra le “varietà” di carciofo riportate da questo autore ne figurano sette individuate con un toponimo siciliano: carciofo violetto spinoso di Palermo, carciofo verde spinoso di Palermo, carciofo violetto senza spine, carciofo verde precoce di Sicilia, carciofo cardone di Sicilia, carciofo di Messina, carciofo della Piana di Catania1. L’ultima, secondo l’autore, chiamasi così perché coltivata specialmente in questa plaga. Inoltre il Viani conferma quanto detto da Nicolosi Gallo il quale afferma che “viene chiamato carciofo Maltese non perché originario dell’Isola di Malta ma per il vezzo di dare tal nome alle cose nuove e introdotte da fuori”. 1
La descrizione del carciofo della Piana di Catania da parte del Nicolosi e del Viani non corrisponde a quella del violetto di Sicilia per sviluppo della pianta, ramificazione, dimensione del capolino, colore delle brattee; gli autori suggeriscono che si potrebbe trattare del Camus di Bretagna.
111
paesaggio precisata identità, della quale si sarebbe utilizzata la radice e/o lo scapo fiorale. Nel 1735 il barone F. Nicosia tratta della coltivazione del carciofo conosciuto in Sicilia con il nome di cacocciulo e riferisce che erano presenti due “specie”: una a foglie inermi e l’altra a foglie aculeate. Successivamente, Balsamo P. (1855), Nicolosi Gallo A. (1880) e Manicastri P. (1894) descrivono tecniche colturali e varietà dell’epoca. Nei primi decenni del XX secolo scrivono del carciofo, e delle sue varietà utilizzate in Sicilia, Viani P. (1919), Tamaro D. (1929, 1937), Vagliasindi G. (1934) e Trentin L. (1937). In Sicilia la coltura conosce notevole successo per produzioni destinate a mercati sempre più lontani. Un impulso decisivo all’affermazione della coltura, principalmente dell’indirizzo rivolto alla produzione di capolini a partire dai mesi autunnali, viene assicurato dalla disponibilità di cultivar precoci e di acqua d’irrigazione per avviare il ciclo colturale già a partire dai mesi estivi. La produzione è stata sempre oggetto di largo consumo soprattutto in Sicilia; nell’isola trovano occasionale utilizzazione, oltre ai cacocciuliddi di cui si è detto, i polloni provenienti dalle operazioni di scarducciatura; pressoché sconosciuto il consumo dei gobbi, cioè carducci di forma ricurva imbianchiti a seguito del sotterramento della parte basale; la Sicilia non esprime significativa tradizione per la produzione e il consumo del cardo. La diffusione del carciofo non interessa nella stessa misura tutto il territorio dell’isola, ancorché la coltura sia presente in tutte le province. La configurazione territoriale ha subito nel tempo notevoli
Carciofo nella storia siciliana
• Nel 1735 il barone F. Nicosia nella sua
opera Il podere fruttifero e dilettevole riferisce che il carciofo era noto in Sicilia con il nome di cacocciulo e che erano coltivate due “specie: una a foglie non aculeate detta cacocciuli ordinari aperti di la sciorta di Palermo” comprendenti due varietà: “cacocciola a pigna vranchigna e cacocciola paulina a pigna rosseggiante”; l’altra a foglie aculeate detta “carduni domesticu spinusu” o “cacocciola a pigna spinusa paulina” o “di mala sciorta”. Un’ulteriore varietà era descritta dal Nicosia col nome “cacocciola a pigna nigrigna a li punti” o “di bassa sciorta”
• Apprendiamo così che all’epoca erano
già note diverse cultivar tra cui quelle ancora oggi diffuse in Sicilia. Inoltre il Nicosia fa riferimento a una cultivar introdotta da Bologna, che sarebbe stata importata dall’estero, chiamata carduni di Bologna
Ripartizione della superficie e della produzione di carciofo per provincia
• Sul piano lessicale dev’essere segnalato
l’uso dei termini vranchigni e paulini, che starebbero a indicare nell’ordine la elevata ramificazione dello stelo e la colorazione violetta delle brattee. I due termini sono collegati al concetto di vranca, cioè una ramificazione del fusto, e al colore violetto per somiglianza al colore degli abiti monacali dei frati minori di S. Francesco di Paola
Province
• Il riferimento a una sciorta (sinonimo
di buona qualità nell’idioma dialettale della Sicilia occidentale) farebbe verosimilmente supporre che altre sciorte dovevano essere coltivate altrove
Superficie ha
%
t
%
Ragusa
500
3,5
7500
4,7
Caltanissetta
5800
40,6
65.550
41,2
Siracusa
860
6,0
14.280
9,0
Agrigento
3710
26,0
38.584
24,3
Trapani
800
5,6
4800
3,0
Palermo
1000
7,0
14.000
8,8
Catania
1400
9,8
12.600
7,9
Messina
50
0,4
250
0,2
Enna
150
1,1
1500
0,9
Totale
14.270
100
159.064
100
Fonte: dati provvisori ISTAT anno 2008
112
Produzione
carciofo in Sicilia cambiamenti in relazione alla disponibilità di acqua per l’irrigazione per poter attivare cicli anticipati nella stagione estiva e, più recentemente, per realizzare coltivazioni da “seme”, le quali dovrebbero favorire il processo di meccanizzazione e dare riscontro ad alcune difficoltà legate alla tradizionale propagazione vegetativa. Con riferimento alla cinaricoltura intensiva, le espressioni più qualificate e più importanti per superficie occupata si rinvengono nelle province di Caltanissetta, Agrigento, Catania, Palermo e Siracusa. La prima contribuisce con oltre il 40% alla superficie destinata a carciofo; in ogni caso la localizzazione prevalente della coltura interessa il versante meridionale dell’isola. La parte orientale del territorio regionale è interessata alla coltivazione dei tipi a capolini inermi, mentre quella occidentale è destinata al carciofo spinoso. Indipendentemente dalle articolazioni provinciali la coltura ha una concentrazione rilevante nella Piana di Catania (comuni di Ramacca, Castel di Judica e di Lentini), nei territori di Niscemi e di Gela (CL), nell’area di Menfi (AG), nella Piana di Buonfornello (PA), nel Vittoriese (RG) e nella Piana di Siracusa.
Superficie e produzione di carciofo in Sicilia Superficie
Ciclo biologico e tecnica colturale In natura e nelle condizioni tipiche di clima mediterraneo la germinazione del “seme”, che segna l’inizio del ciclo biologico del carciofo, sia spontaneo sia coltivato, si verifica al sopraggiungere delle precipitazioni autunnali dopo il periodo di aridità estivo. Il successivo accrescimento conduce alla formazione di una rosetta di foglie; la pianta, ai fini del superamento della fase giovanile e quindi dell’induzione fiorale, presenta esigenze in freddo che possono essere soddisfatte quando, a partire dallo stadio di almeno quattro foglie, si trova esposta per circa 200-250 ore a temperature inferiori ai 7-10 °C e in ogni caso non superiori ai 20 °C. Comportamenti differenti a questo riguardo sono possibili in rapporto ai genotipi; a parità di genotipo e di livello delle basse temperatu-
Produzione
Anni
Sicilia (ha)
Sicilia/ Italia (%)
Sicilia (t)
Sicilia/ Italia (%)
1950
3853
20,5
36.356
25,4
1960
11.009
26,4
102.679
25,5
1970
11.402
18,0
112.457
16,8
1980
13.311
25,0
160.720
25,0
1990
13.485
28,0
161.010
31,4
2000
13.462
26,8
147.224
27,6
2004
14.895
29,7
159.887
31,3
2008
14.270
28,6
159.064
30,7
Percentuale di piante propagate per “seme” che hanno differenziato il capolino in funzione del periodo di semina e delle località Località e latitudine Semine
S. de Boker 30,51° N
Siracusa 37,04° N
Avignone 43,57° N
St. Pol de Leon 48,00° N
Settembre
100
100
100
100
Gennaio
59
15
-
-
Marzo
0
0
73
100
Aprile
-
-
0
25
Maggio
0
-
0
0
Contemporaneità di emissione dei capolini in piante propagate per “seme”
113
paesaggio re, nell’areale mediterraneo l’induzione fiorale risulta sempre più procrastinata o ostacolata in termini di frequenza man mano che si passa dagli ambienti più freddi a quelli più caldi e dalle semine invernali a quelle primaverili; significativi al riguardo i risultati di un’articolata ricerca collegiale ottenuti con semine scalari effettuate a latitudini e in epoche diverse. Le piante propagate agamicamente non esprimono specifiche esigenze di basse temperature ai fini dell’induzione fiorale, in quanto lo stimolo induttivo verrebbe trasmesso attraverso i materiali di propagazione. Le piante da “seme” possono differenziare il capolino nel primo anno o in quello successivo a seconda dell’epoca di semina e della conseguente possibilità di soddisfacimento dell’esigenza in freddo. Nel carciofo coltivato l’emissione dei capolini delle piante propagate per via vegetativa può verificarsi già a partire dall’autunno successivo all’impianto o nella primavera che segue; è in rapporto a tale comportamento che le cultivar vengono distinte in autunnali (precoci) e primaverili (tardive). Le piante ottenute da “seme”, anche se ottenute da acheni prelevati da piante autunnali, tendono a comportarsi come quelle delle cultivar primaverili; analogo sembra il comportamento delle piante propagate in vitro a partire da materiali prelevati su tipiche varietà autunnali. Sotto il profilo agronomico gli obiettivi di intensificazione colturale e di semplificazione dei metodi di coltivazione, nonché l’interesse per la precocità di raccolta, hanno sospinto progressivamente la cinaricoltura verso cicli realizzati con cultivar precoci e avviati in estate mediante ovoli eventualmente pregermogliati sostenuti dall’irrigazione. Le corrispondenti carciofaie hanno durata annuale, talora biennale, e vengono dismesse in estate per prelevare ovoli
Pregermogliazione degli ovoli
• “Verso la fine di giugno o nella prima
quindicina di luglio si preparano gli ovuli nel modo seguente. Si scelgono e si staccano di sulle radici di due anni delle vecchie carciofaie; si trasportano in luoghi ombreggiati ove si ammucchiano, coprendoli con dello strame (frasciame); indi si innaffiano ripetendo le aspersioni con acqua ogni due giorni. Dopo 8-10 giorni gli ovuli germogliano divenendo perciò atti al trapianto che verrà senz’altro eseguito nel terreno precedentemente approntato” (da G. Vagliasindi, 1934)
Capolini arrostiti direttamente sulla brace in un antico focolare di campagna
114
carciofo in Sicilia da destinare a nuovi impianti. La durata pluriennale resta invece l’unica opzione possibile, ma sempre meno frequente, nel caso di carciofaie impiantate mediante carducci in autunno o addirittura nella successiva primavera, o nel caso di carciofaie asciutte il cui risveglio avviene in autunno per la sopravvenienza delle piogge. In questi casi le piante acquisiscono rilevanza produttiva se tenute in coltura per più anni. L’impianto estivo per ovoli non è praticabile per le cultivar primaverili tipo Romanesco, in quanto in estate non sono disponibili né carducci né ovoli ma soltanto gemme. L’organo di propagazione meno vincolato sotto il profilo della disponibilità temporale è naturalmente il “seme”, che dà luogo a piante alle quali dev’essere assicurato il soddisfacimento delle esigenze in freddo. Malgrado questi vincoli, lo scenario della cinaricoltura è sostanzialmente definito da espressioni colturali basate sull’impianto precoce di ovoli e, ove ciò non risulta possibile, come nel caso delle varietà primaverili, di piante micropropagate; altro elemento dello scenario è l’utilizzazione di piantine ottenute da “seme” in vivaio e trapiantate allo stadio 4-5 foglie sempre durante l’estate. Il ciclo di produzione e quindi il calendario di raccolta che consegue all’impianto estivo si esprime in maniera articolata in rapporto alle cultivar, più o meno precoci, agli organi di propagazione e alle stesse tecniche di coltivazione. Infatti i cicli di sviluppo successivi all’impianto contemporaneo con organi diversi in rapporto alle cultivar differiscono sul piano dei risultati agronomici. Al riguardo non è possibile esprimere giudizi definitivi poiché, mentre i protocolli colturali e i parametri di valutazione sono espressione di ricerche e di osservazioni pluriennali per le piante da ovoli, sono ancora in
Foto N. Calabrese
Carciofaia di Romanesco
Confronto tra colture a impianto estivo: distribuzione mensile del numero di capolini raccolti per pianta 16 14 12
n
10 8 6 4 2 0
Dicembre
Violetto di Provenza
Gennaio
Febbraio
Marzo
Romanesco C3
Opal
Aprile Violetto niscemese
115
paesaggio
n
Confronto tra colture a impianto estivo: tempo medio di raccolta (TMR*) del capolino principale (P) e di quelli complessivi (C) 90 80 70 60 50 40 30 20 10 0 TMR C
Opal
Romanesco C3
Violetto di Provenza
TMR P
* in giorni a partire dal 21 dicembre
fase di collaudo per le piante micropropagate e per quelle ottenute da “seme”. Le comparazioni sono inoltre difficili per ragioni legate alla difficoltà, se non all’impossibilità, di confrontare correttamente sul piano metodologico le combinazioni tra i fattori che concorrono a definire i protocolli colturali. Vi sono poi i limiti e le difficoltà sul piano metodologico a isolare l’effetto dei materiali di propagazione da quello delle cultivar. Sia pure con questi limiti i risultati acquisiti con ricerche condotte nell’ambiente siciliano con riferimento a colture impiantate in contemporanea a fine luglio utilizzando ovoli (Violetto di Provenza), piantine micropropagate (Romanesco) e piantine ottenute da “seme” (Opal F1) consentono di affermare che: – l’inizio della raccolta del capolino principale si verifica ai primi di dicembre per il Violetto di Provenza, a gennaio per il Romanesco e per l’Opal F1; – il tempo medio di raccolta del capolino principale risulta più breve in Violetto di Provenza (155 giorni) rispetto al Romanesco (190 giorni) e Opal F1 (198 giorni); i corrispondenti valori del tempo medio di raccolta della produzione complessiva sono nell’ordine pari a 192 giorni, 217 giorni e 235 giorni; – la distribuzione temporale dei capolini fa registrare per tutte le cultivar valori massimi in marzo; – i dati relativi alla durata del ciclo produttivo sono in buon accordo con quelli relativi al numero di foglie, al diametro del capolino, al suo peso fresco e secco, nonché al diametro e soprattutto al peso del ricettacolo, al numero di brattee; – il colore delle brattee esterne manifesta differenze che potranno avere riflessi sulla maggiore o minore idoneità dei capolini alla lavorazione industriale e forse allo stesso consumo diretto;
Cultivar propagate per “seme”: capolino globoso con ampie brattee di colore violetto
Piante di Cynara cardunculus in natura poco prima della quiescenza estiva
116
carciofo in Sicilia Foto P. Viggiani
Confronto tra colture a impianto estivo: parametri cromatici del capolino Parametri cromatici
Violetto di Provenza
Romanesco C3
Opal
5a brattea L
36,68
40,34
32,58
a*
7,61
1,88
3,61
b*
3,54
4,46
–0,18
14a brattea L
60,52
45,2
39,41
a*
4,07
3,93
9,61
b*
23,52
7,51
3,44
L = luminosità a* = asse verde-rosso b* = asse blu-giallo
Carciofaia alle pendici dell’Etna
– i risultati produttivi espressi dal numero di capolini per pianta sono nettamente a favore di Opal F1 e Romanesco (27 e 23) rispetto a quelli del Violetto di Provenza (9); – la contemporaneità di emissione dei capolini risulta più vantaggiosa in Opal F1 per la quale alla maturazione commerciale del primo capolino si contavano mediamente altri 10 capolini contro i 5-6 di Romanesco e i 2-3 di Violetto di Provenza.
Confronto tra colture a impianto estivo: parametri morfobiometrici relativi alla pianta e al capolino Parametri
Violetto di Provenza Romanesco C3
Capolini per pianta (n.)
Opal
9
23
27
41
47
55
Superficie unitaria foglia (cm )
904
807
905
Capolini principali Diametro (mm) Peso fresco (g) Peso secco (g)
65 162 20
97 220 42
102 310 49
Ricettacolo Diametro (mm) Peso fresco (g) Peso secco (g)
35 32 4
51 52 12
53 70 10
Brattee eduli > 2 cm (n.)
55
68
88
Foglie (n.) –2
Piante di Cynara cardunculus all’inizio della fioritura (alta collina interna siciliana, mese di agosto)
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paesaggio Cultivar Se si esclude l’utilizzazione di C. cardunculus allo stato spontaneo o nell’ambito di infrequenti coltivazioni, la diversità genetica utilizzata in Sicilia per finalità produttive è riconducibile ad almeno quattro fattispecie. La prima è rappresentata da piccoli gruppi di piante coltivate negli orti familiari, soprattutto nelle aree lontane da quelle della cinaricoltura intensiva, utilizzate in riscontro a particolari esigenze o tradizioni. La configurazione prevalente è quella tipica delle piante provenienti da “seme” estremamente disformi, con capolini di diversa forma e colore, con ciclo colturale e produttivo che interessa soprattutto il periodo dalla primavera sino all’autunno. Dopo il primo ciclo da “seme” le piante sono propagate in situ per via vegetativa e mantenute in coltura per più anni. Sotto il profilo morfobiologico le piante e i capolini presentano caratteristiche intermedie tra le forme coltivate e quelle spontanee. Relativamente a queste ultime è da ricordare almeno in Sicilia l’antica pratica di raccolta in situ dei piccoli capolini spinescenti, i quali nella tarda primavera vengono offerti su alcuni mercati locali previa bollitura. Le brattee sono piluccate, cioè staccate singolarmente dal capolino e raschiate tra i denti. La seconda fattispecie anch’essa poco frequente è rappresentata da tipi utilizzati per produzioni da destinare soprattutto ai mercati locali. Le coltivazioni si rinvengono nelle province meno interessate alla cinaricoltura intensiva. I tipi più conosciuti sono domestica di Castelvetrano, verde spinoso di Palermo, Messina, a calice. Il
Capolini da germoglio primaverile anticipato
Capolino di varietà primaverile dopo la maturazione commerciale Coltivazione di piante propagate per “seme”
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carciofo in Sicilia capolino in molti tipi presenta conformazione e sviluppo analoghi a quelli del Romanesco; in ogni caso la sua epoca di maturazione commerciale e di raccolta coincide con la stagione primaverile. Malgrado la loro lunga coltivazione, questi tipi manifestano per habitus e per caratteri morfobiometrici un comportamento sovrapponibile a quello dei tipi primaverili. La tardività in altri termini non risulta modificata neppure dopo reiterati cicli in condizioni che invece sostengono il profilo fenotipico dei tipi precoci autunnali. Questi tipi locali sono stati e sono tuttora oggetto di valutazioni e comparazioni attraverso i metodi di biologia molecolare per mettere in evidenza l’effettiva identità varietale. Ai tipi locali possono essere assimilate le cosiddette cultivar straniere introdotte nel tempo per curiosità, per motivi di studio o per riscontrare specifiche esigenze di innovazione varietale; talvolta sono arrivate nell’isola attraverso l’acquisto di acheni sul mercato sementiero. In questo ambito rientra l’introduzione nel nostro Paese del Camus di Bretagna oggi praticamente scomparso, del Blanc Hyerois, per finire con il Violetto di Provenza, che attualmente rappresenta la cultivar cardine della cinaricoltura intensiva precoce in sostituzione del Violetto di Sicilia. Il francese Blanc Hyerois ha conosciuto invece nell’ultimo decennio del secolo scorso un notevole ma effimero successo attraverso la coltivazione nell’areale siracusano per produzioni primaverili da destinare al mercato francese. La terza fattispecie è quella delle tradizionali coltivazioni precoci indirizzate verso l’ottenimento di produzioni sempre più antici-
Capolini di Cynara cardunculus a sviluppo completo che ospitano afidi e loro antagonisti
Carciofaia autunnale nell’ultimo periodo di raccolta Preparazione per il mercato dei capolini principali di Violetto di Provenza
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paesaggio pate nel corso del periodo autunno-vernino. I due tipi che dominano nettamente la scena sono rispettivamente nella Sicilia orientale il Violetto di Sicilia a capolini inermi (ora sostituito in larga parte dal Violetto di Provenza) e nella Sicilia occidentale il Violetto spinoso di Palermo che presenta capolini di medie dimensioni, ovoidali, compatti con brattee esterne di colore verde con ampie sfumature violette terminanti con una prominente spina gialla. Se si escludono i pochi ettari destinati ad altri tipi introdotti o a quelli locali, i due violetti monopolizzano le aree destinate alla cinaricoltura precoce. Come si è visto, malgrado le apparenze il quadro delle cultivar precoci è piuttosto contenuto. Altri tipi dotati di spiccati caratteri di precocità in misura analoga a quella del Violetto di Sicilia sono il Violetto di Provenza con qualche altra cultivar come il Violetto di Gapeau, o la Bianca di Spagna o Tudela, poco conosciuta e utilizzata nell’isola. Quest’ultima differisce chiaramente da tutte le altre cultivar precoci per l’assenza di pigmentazione violetta sulle brattee, mentre il Violetto di Provenza presenta caratteristiche sovrapponibili a quelle del Violetto di Sicilia, rispetto al quale è più precoce e più produttivo. Lo stato sanitario del materiale di propagazione al momento appare migliore, per cui ha sostituito in molte aree della Sicilia il Violetto locale con risultati che appaiono soddisfacenti. Lo studio comparativo di collezioni di carciofo di provenienza diversa attivate presso Istituzioni di ricerca, dimostra che il Violetto di Sicilia assume denominazioni differenti che fanno riferimento a una località di coltivazione o anche a caratteristiche dei capolini (forma e dimensione, colore delle brattee), la cui espressione può modificarsi nel tempo anche in rapporto alle condizioni ambientali e allo stadio di maturazione. Allo stesso tipo Violetto di Sicilia, considerato più precoce anche rispetto al Violetto spinoso di Palermo, sarebbe da ricondurre il carciofo coltivato in Puglia. L’ultima fattispecie è quella delle cultivar propagabili per “seme”; la possibilità di utilizzare linee e ibridi per innovare gli schemi colturali della cinaricoltura è subordinata alla disponibilità di nuove cultivar. A questo fine si tratta di procedere con il miglioramento genetico per individuare tipi precoci a contenute esigenze in freddo per l’induzione fiorale. Le attività in corso sono piuttosto intense a giudicare dal fatto che nel volgere di pochi anni risultano iscritti al catalogo delle varietà di specie di ortaggi dell’Unione europea ben 27 costituzioni ibride (edizione dell’ottobre 2008). Queste ultime sono ritenute più idonee ai fini delle produzioni da destinare all’industria nonché delle esigenze di uniformità degli impianti, di maggiore flessibilità dell’epoca di semina, di aumento della capacità produttiva per individuo e per unità di superficie, di semplificazione degli interventi tecnici, di meccanizzazione e quindi di riduzione della manodopera e dei costi di produzione. Per attenuare o superare i condizionamenti
Foto N. Calabrese
Capolini secondari di Violetto di Provenza
Preparazione di carciofi arrostiti sulla brace, farciti con aglio, prezzemolo, sale e olio di oliva
Capolini pronti per il consumo
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carciofo in Sicilia determinati dalle temperature poco induttive, una strategia che si è consolidata negli ultimi decenni è quella di effettuare trattamenti con acido gibberellico ripetuti ogni 10-15 giorni a partire da piante con più di 10-12 foglie adulte. Il trattamento con finalità diverse interessa anche le piante da organi vegetativi. Problemi e prospettive I principali problemi della cinaricoltura siciliana non differiscono molto da quelli che si riscontrano in altri areali mediterranei di coltivazione e possono essere così sintetizzati: a) tasso di propagazione per via vegetativa piuttosto contenuto; b) variabilità morfologica e fisiologica degli organi di moltiplicazione; c) scarse conoscenze sulla biologia dello sviluppo; d) difficoltà legate alla produzione del “seme”; e) vincoli temporali per l’attivazione dei cicli colturali; f) difficoltà ad aumentare la produzione individuale e areica; g) caratteristiche del prodotto talora inadeguate in rapporto alla destinazione; h) difficoltà di meccanizzazione; i) elevati fabbisogni di manodopera; l) costi di produzione in aumento; m) squilibri temporali tra offerta e domanda. La principale difficoltà espressa oggi dal Violetto di Sicilia riguarda lo stato sanitario del materiale di propagazione compromesso da infezioni di Verticillium e anche di virus per il cui risanamento non si dispone ancora di protocolli validi. Altro problema è quello della disformità delle coltivazioni dovuta alle differenze legate alle caratteristiche fisiologiche dei propaguli, alla scelta delle piante da cui questi vengono prelevati, alla relativa frequenza con cui si manifestano e si trasmettono nel carciofo alcune mutazioni gemmarie. I lavori di miglioramento di questa cultivar o di altre precoci per diversi motivi non hanno mai avuto grosso successo. La selezione clonale ha dato luogo a qualche risultato soprattutto nel caso del Violetto di Provenza per la precocità. La tecnica di rigenerazione in vitro non si è rivelata suscettibile di grosse applicazioni a motivo dei problemi legati alla reinfezione dei materiali e alla scarsa conformità delle piante micropropagate. D’altra parte sono note le difficoltà della propagazione vegetativa legate alle condizioni fitosanitarie, al basso tasso di propagazione, alla disformità di sviluppo della pianta, caratteri tutti che rendono più difficile l’innovazione necessaria per corrispondere alle esigenze della cinaricoltura moderna, soprattutto per quanto riguarda il prodotto da destinare all’industria. Ancorché traguardata sul versante dei cicli colturali e delle cultivar, la cinaricoltura siciliana risulta al momento protesa verso l’adeguamento del processo produttivo alle esigenze di miglioramento della sostenibilità della coltivazione. Questo adeguamento richiede soluzioni innovative negli ambiti delle cultivar e dei cicli colturali, della propagazione, delle tipologie dei materiali utilizzati per l’impianto, degli stessi metodi di coltivazione.
Brattee di carciofo violetto danneggiate dal gelo (distacco dell’epidermide)
Capolini di Spinoso di Palermo
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paesaggio Con riferimento all’innovazione varietale, l’attenzione è in particolare rivolta da un lato verso le tradizionali cultivar a produzione autunnale, per quanto possibile da riconsiderare ai fini di contenere la variabilità della popolazione e migliorarne il profilo bioproduttivo, dall’altro verso costituzioni propagabili per “seme”. Alcuni di questi obiettivi hanno già determinato il superamento di tecniche di coltivazione adottate in passato e l’affermazione di interventi più calibrati alla modalità di propagazione per “seme”. L’uso del “seme” in ogni caso sembra fin d’ora rappresentare un’importante innovazione di processo per favorire la sostenibilità della coltura attraverso la soluzione di alcuni problemi della carcioficoltura mediterranea. Le coltivazioni da “seme” potrebbero assicurare infatti il maggiore grado di uniformità genotipica e fenotipica della pianta, l’uniformità dei materiali di propagazione, l’intensificazione degli schemi colturali, la meccanizzazione, il miglioramento della capacità produttiva per pianta e per unità di superficie, la maggiore contemporaneità di raccolta dei capolini, la più ampia possibilità di migliorare lo stato sanitario degli organi di propagazione. Tra gli interventi tecnici più innovativi emerge quello basato sulla somministrazione alle piante in fase di crescita di GA3, per promuovere e anticipare l’induzione fiorale e realizzare un calendario di raccolta dei capolini più adeguato alle esigenze legate alla destinazione del prodotto all’industria o al consumo diretto. In questo contesto notevole importanza assume il ruolo della ricerca il cui interesse è attualmente rivolto anche alla selezione clonale e sanitaria delle cultivar tradizionali, alla costituzione di cultivar a propagazione agamica, nonché di linee e ibridi propa-
Foto M. Curci
Foto M. Curci
Schemi e tecniche di coltivazione specifici per il carciofo
Scarducciatura
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Desueti o in declino
In fase di affermazione
Protezione dei capolini dalla luce per favorire l’accrescimento e imbianchimento delle brattee
Propagazione per “seme” di cultivar geneticamente qualificate
Pregermogliazione ovoli, mezzi di forzatura
Micropropagazione in vitro
Trapianto autunnale e primaverile; impianto mediante “seme” prodotto in libera impollinazione
Eliminazione della parte epigea nelle carciofaie precoci con piante vigorose per stimolare la emissione di germogli in grado di produrre piccoli capolini per l’industria prima del riposo estivo
Rincalzatura per favorire la produzione di carducci
Controllo crescita e sviluppo mediante GA3
Scarducciatura; dicioccatura; eliminazione dei capolini laterali per promuovere lo sviluppo di quello principale
Tecniche vivaistiche
carciofo in Sicilia gabili per “seme”. I nuovi materiali vengono inoltre valutati per quanto riguarda il valore alimentare dei capolini. In atto si stanno valutando le possibilità e i limiti dell’innovazione di prodotto attraverso il miglioramento genetico e dell’innovazione di processo mirata all’individuazione di protocolli di produzione più adeguati alle esigenze della moderna agricoltura. Un ambito elettivo dell’attività di ricerca è quello della definizione dei protocolli produttivi più idonei per le piante da “seme”, in maniera che queste possano garantire alcuni obiettivi della moderna cinaricoltura tra i quali la qualità dei capolini in rapporto alle esigenze dell’industria nonché, sul piano agronomico, la semplificazione delle operazioni colturali e quindi la riduzione dei costi di produzione. Queste possibilità sono in fase di verifica, così come sono in fase di approfondimento aspetti relativi alla produzione del “seme” e all’attività vivaistica, ivi compresi gli aspetti di natura economica inerenti al costo delle piantine micropropagate o a quelle da “seme” in contenitore. Vi è infine la questione importante relativa alla definizione più puntuale dei protocolli per l’applicazione di GA3 per promuovere l’induzione fiorale e anticipare l’allungamento dello stelo fiorale.
Carducci che, dopo il disseccamento delle foglie, costituiranno gli ovoli
Foto P. Viggiani
Foto N. Calabrese
Capolini di carciofo per l’industria di trasformazione
Carciofaie nelle Madonie
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il carciofo e il cardo
paesaggio Carciofo in Sardegna Anna Barbara Pisanu Martino Muntoni Luigi Ledda
www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche.
paesaggio Carciofo in Sardegna Introduzione La coltivazione del carciofo in Sardegna ha una tradizione antica, anche se la prima testimonianza scritta, il trattato Agricoltura di Sardegna, pubblicato dal nobile sassarese don Andrea Manca, risale al 1780. La coltura assume una certa rilevanza economica già nella prima metà dell’800, come attesta lo studioso Vittorio Angius nel suo Dizionario geografico che, descrivendo l’economia serramannese, cita il carciofo come “fonte di lucro per i coloni degli orti”. La coltivazione specializzata dell’ecotipo locale Spinoso iniziò negli anni ’20, principalmente nelle zone costiere della provincia di Sassari e di Cagliari, in prossimità delle città capoluogo e dei porti, che garantivano più facili collegamenti e commerci oltremare. Nel 1929 una rilevazione del catasto agrario attesta che la coltura era diffusa su 1231 ettari, un decimo della superficie coltivata in Italia. Tradizionalmente la coltura veniva condotta seguendo il ciclo naturale della pianta; una svolta importante fu l’individuazione, nelle campagne di Bosa, di un ecotipo Spinoso che consentiva di ottenere produzioni anticipate in autunno risvegliando in estate la carciofaia con l’intervento dell’irrigazione. Questo ecotipo, in un primo tempo diffuso nel Sassarese e commercializzato anche nel mercato di Genova, fu introdotto nel Campidano di Cagliari negli anni 1942-43. Successivamente gli agricoltori, attraverso la selezione massale indirizzata ad anticipare e incrementare la produzione, hanno migliorato questo ecotipo originario da cui è derivato l’attuale Spinoso sardo. Oltre all’ecotipo Spinoso era diffuso in Sardegna il Masedu caratterizzato dall’assenza di spine, come attesta il nome che in lingua sarda significa mansueto e inerme. Questa varietà, più pre-
Sardegna in sintesi
• Con 12.952 ha e 106.860 t, la Sardegna
è al terzo posto in Italia per la superficie coltivata e per la produzione totale di capolini
• Dopo la recente costituzione delle nuove province, quella di Oristano occupa il primo posto, con 4771 ha e 39.000 t. Seguono Cagliari (3165 ha, 26.000 t) e Sassari, (2627 ha, 23.000 t). Superfici minori si registrano nelle province di Ogliastra, Nuoro, Medio campidano, Olbia-Tempio
• La cultivar maggiormente diffusa è
Spinoso Sardo. Altra varietà è Masedu. Nei primi anni ’80 è stata introdotta Terom dalla Toscana e agli inizi degli anni ’90 Tema 2000. Dal 2001, soprattutto nel comune di Samassi, è stato introdotto il clone C3, selezione più precoce del Romanesco ottenuta per micropropagazione Gallura Ha 100
Sassari Ha 2680
Nuoro Ha 40
Oristano Ha 1300 Medio Campidano Ha 1900 Sulcis Ha 1015 Spinoso sardo Terom
Ogliastra Ha 40
Cagliari Ha 1964 Violetto Romanesco di Provenza C3
Tema 2000
Principali aree di coltivazione del carciofo in Sardegna, varietà diffuse ed entità delle superfici destinate a coltivazione specializzata (Fonte: Agenzia Laore, stagione 2006-2007) Carciofaia di Spinoso sardo in piena produzione
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carciofo in Sardegna coce e meno sensibile rispetto allo Spinoso ai danni delle gelate e all’atrofia del capolino, si è affermata in Sardegna intorno agli anni ’40 ed è stata coltivata fino alla seconda metà degli anni ’70, prevalentemente nel Campidano di Cagliari, dove rappresentava circa il 50% delle produzioni. In questo areale furono introdotte verso la metà degli anni ’60 nuove cultivar inermi provenienti dalla Francia, quali il Violetto di Provenza che si è affermato e ha sostituito il Masedu e il Macau di Perpignan che era destinato al mercato di Parigi e attualmente non più coltivato. L’affermazione del Violetto di Provenza diede impulso all’attività di trasformazione già presente nell’isola con alcune industrie concentrate nel Campidano di Cagliari, alcune delle quali sono ancora attive. Nei primi anni ’70 venne introdotto il Moretto di Toscana, sostituito dopo un decennio dal Terom, e nei primi anni ’90 è stato introdotto il Tema 2000, dapprima in alcune aziende del comune di Villasor, importante comprensorio cinaricolo del Campidano di
Capolino principale di Spinoso sardo
Principali caratteristiche agronomiche nelle diverse aree di produzione Campidano di Cagliari Caratteristiche pedologiche (Carta dei suoli della Sardegna)
Sulcis
Oristanese
Accanto ai suoli tipici Prevalgono due tipologie: Suoli poggianti su substrati andesitici caratterizzati di tipo alluvionale descritti una alluvionale più o meno da buona profondità per il Campidano di antica, su ampie superfici pianeggianti in prossimità e fertilità con tessitura fine. Cagliari ritroviamo anche Tali caratteri influenzano aree modeste di suoli delle foci e nella parte la permeabilità che a tratti a evoluzione molto spinta finale dei principali corsi risulta molto bassa e tale con la tendenza in alcuni d’acqua, i cui suoli sono da necessitare di interventi casi a un eccessivo profondi con tessitura di drenaggio intensivo invecchiamento e con da franco-sabbiosa evidenza di orizzonti a franco-argillosa; di argilla che ne condiziona l’altra costituita da alluvioni la permeabilità recenti di limitata ampiezza in zone pianeggianti o depresse, i cui suoli risultano profondi a tessitura fine (vertisuoli) e necessitano di idonee sistemazioni idrauliche superficiali
Sassarese Suoli particolarmente diversificati, da quelli sabbiosi e profondi di origine eolica e alluvionali di Valledoria e Sorso a quelli a tessitura variabile da francosabbiosa ad argillosa di Uri, Ittiri, la cui profondità risulta media e in alcune situazioni scarsa, poggiante su substrati calcarei, arenariacei ecc. del Miocene, diffusi anche nei territori di Sassari limitatamente a zone più o meno pianeggianti
Caratteristiche climatiche
Elevato rischio di gelate autunnali e invernali
Microclima mitigato dall’influenza del mare e basso rischio gelate
Microclima mitigato dall’influenza del mare e basso rischio gelate
Basso rischio di gelate nelle zone costiere ed elevata frequenza di gelate autunnali e invernali nelle zone più interne
Sesto d’impianto
Quadrato 1m×1m 1,2 m × 1,2 m
Rettangolare 1,2 × 0,8 m 1,4 m × 0,8 m
Rettangolare 1,2 × 0,8 m 1,4 m × 0,8 m
Rettangolare 1,2 × 0,8 m 1,4 m × 0,8 m
Metodo di irrigazione
Aspersione
Microportata localizzata
Microportata localizzata
Microportata localizzata
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paesaggio Foto P. Viggiani
Pecore al pascolo in una carciofaia a fine ciclo
Cagliari, e successivamente in quasi tutti gli areali di coltivazione dove ha trovato ampia diffusione. Dal 2001, soprattutto nel comune di Samassi, è stato introdotto il C3, selezione più precoce del Romanesco ottenuto per micropropagazione. Capolino principale di Masedu
Cultivar principali Spinoso sardo. Ha portamento assurgente, elevata attitudine pollonifera e taglia media, compresa fra 80 e 140 cm. Le foglie mostrano una caratteristica eterofillia, per la presenza di foglie a lamina intera, soprattutto nei primi stadi vegetativi. Nelle fasi fenologiche più avanzate, le foglie di dimensioni medie sono lobate o frequentemente pennatosette, spinescenti e dalla colorazione verde intenso. Il capolino è conico, mediamente compatto, di diametro variabile fra 10 e 13 cm e peso medio di 130-200 grammi. Il peduncolo è lungo e di spessore medio. Le brattee esterne sono di colore verde con sfumature violette, hanno forma allungata e apice appuntito terminante con una grossa spina gialla. Le brattee interne sono di colore giallo paglierino e mostrano frequentemente sfumature violette. È una cultivar molto sensibile al freddo e mediamente al marciume dei capolini. Manifesta il problema dell’atrofia, soprattutto laddove venga attuata la tecnica della forzatura e in presenza di alte temperature durante il periodo di differenziazione del capolino. Il ciclo produttivo è lungo, con inizio raccolta generalmente da metà ottobre (precocissimi) a novembre-dicembre (precoci) per concludersi a gennaio-febbraio (tardivi) con una produzione media per pianta, in condizioni ottimali, di 6-8 capolini. Verso marzo-aprile si pratica la raccolta del carciofino. È un’ottima cultivar sia per il consumo a crudo dei capolini e dei peduncoli di primo e secondo ordine, sia per il consumo in cucina, per il gusto marcato e inconfondibile. Ha scarsa attitudine
Forzatura
• Tale tecnica prevede la ripresa
dell’attività vegetativa già a partire dalla fine di giugno-inizio luglio, attraverso un’abbondante irrigazione in grado di riportare alla capacità idrica di campo lo strato di terreno interessato dalle radici. Le esigenze di mercato, che premiano commercialmente produzioni sempre più anticipate, hanno stimolato la generalizzata adozione di questa tecnica nella coltivazione delle varietà rifiorenti. L’elevata incidenza dei capolini atrofici rappresenta un severo limite all’adozione di epoche di impianto o di risveglio troppo anticipate. All’irrigazione è abbinata la concimazione che, nelle primissime fasi di vegetazione, si avvantaggia dei fertilizzanti distribuiti nel pre-impianto o pre-risveglio (colture poliennali)
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carciofo in Sardegna alla trasformazione industriale per l’insufficiente compattezza dei capolini e l’indesiderata presenza del pappo nel ricettacolo. Inoltre, le brattee più interne presentano una colorazione antocianica soprattutto nelle produzioni primaverili. Masedu. Pianta di taglia piccola, portamento poco assurgente ed elevata attitudine pollonifera. Foglie inermi di colore verde chiaro, eterofillia media per la presenza di foglie a lamina intera, più frequenti nei primi stadi vegetativi della pianta, lobate o pennatosette nelle fasi successive. Capolino cilindrico, di dimensioni medie, brattee esterne di colore verde con sfumature violette, apice arrotondato lievemente inciso e con una caratteristica piega divergente che risulta più accentuata in presenza di temperature elevate e pregiudica la compattezza dei capolini. L’epoca di produzione è molto precoce, la produttività media (7-8 capolini/pianta), come lo Spinoso sardo, risulta soggetta al fenomeno dell’atrofia dei capolini in coltura forzata.
Lama dicioccatrice per il prelevamento degli ovoli
Tecnica colturale nel ciclo forzato Prima dell’impianto si eseguono l’aratura, la cui profondità dipende dalla durata prevista della carciofaia, seguita da frangizzollatura ed erpicatura. L’impianto della carciofaia in coltura forzata può essere attuato impiegando ovoli dormienti, ovoli pregermogliati, carducci da piantonaio e piantine ottenute da colture in vitro, in relazione alle varietà e alle condizioni climatiche. La moltiplicazione per ovoli è quella maggiormente diffusa per l’impianto dello Spinoso sardo e del Tema 2000. Gli ovoli (circa 20/pianta) vengono prelevati all’inizio dell’estate dal rizoma di piante che sono entrate in riposo vegetativo nella tarda primavera. Essi, vengono scelti fra quelli formatisi più profondamente e in posizione distale rispetto al colletto della pianta, poiché presentano dimensioni maggiori, sono più ricchi in sostanze di riserva e daranno origine a piante più precoci e produttive. L’operazione d’impianto può essere anche completamente meccanizzata con le comuni trapiantatrici opportunamente modificate. Le operazioni colturali che vengono eseguite dall’impianto alla raccolta sono: irrigazione, concimazione, sostituzione degli organi di propagazione non attecchiti, scarducciatura, sarchiatura, controllo delle infestanti e difesa fitosanitaria. L’irrigazione rappresenta uno dei più importanti fattori tecnici utilizzati per anticipare la produzione delle carciofaie a impianto estivo. L’irrigazione è praticata fino al verificarsi di abbondanti e regolari precipitazioni, ma anche durante il periodo invernale, quando il contenuto idrico scende al di sotto del 40% dell’acqua disponibile, possono essere necessari interventi irrigui di soccorso. In gran parte dell’isola l’irrigazione è praticata quasi esclusivamente con il sistema a microportata. La coltura si caratterizza per un elevato fabbisogno idrico totale (6000-7000 m3/ha).
Ovoli di carciofo preparati per il trapianto
Trapianto degli ovoli pregermogliati
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paesaggio Il ricorso alle concimazioni è fondamentale per esaltare la produttività della carciofaia. Per l’azoto e il potassio il ritmo di asportazione raggiunge i 2,5-3 kg/ha/giorno nel periodo di maggiore accrescimento delle piante. Quando si verificano notevoli abbassamenti di temperatura, il potassio è praticamente l’unico elemento a essere utilizzato in quantità rilevanti. È infatti nota la capacità delle piante di difendersi dal freddo concentrando i succhi cellulari, i quali contengono prevalentemente potassio. Il fabbisogno di fosforo è di 0,5 kg/ha/giorno e in ogni caso è più elevato nei periodi di intensa produzione dei capolini, a causa della maggiore esigenza di fosforo degli organi fiorali rispetto alle altre parti della pianta. A causa della loro scarsa mobilità, i concimi fosfopotassici vanno somministrati in pre-impianto o al momento del risveglio in coincidenza della lavorazione principale. Parte del potassio è distribuita in copertura, durante la prima scarducciatura o in occasione delle rincalzature, in modo da essere prontamente utilizzato dalle radici più superficiali presenti nella zona del colletto. I concimi azotati vengono distribuiti in minima parte all’impianto, circa 30-40 kg/ha, mentre la restante parte si somministra in copertura frazionandola in tre interventi di 70-90 kg/ha ciascuno. La distribuzione dei fertilizzanti avviene preferibilmente in concomitanza con le seguenti fasi: – differenziazione dell’apice da vegetativo a riproduttivo che ricade all’incirca 60 giorni dopo l’impianto o il risveglio; – emissione dei capolini principali o subito dopo l’asportazione del primo capolino; – prima della produzione finale primaverile (carciofini), subito dopo i freddi invernali. In assenza di impianti per la fertirrigazione, ormai adottati nella generalità dei casi, l’interramento dei fertilizzanti azotati è eseguito attraverso le lavorazioni condotte sull’interfila. L’impiego di fertilizzanti idrosolubili per mezzo della fertirrigazione aumenta notevolmente l’efficienza della concimazione in relazione al maggiore frazionamento della concimazione in copertura. La scarducciatura consiste nel diradamento dei carducci allo scopo di ridurre il numero di capolini per pianta e quindi favorire una loro maggiore pezzatura. Tale operazione viene condotta con diverso grado di intensità a seconda della varietà, della fertilità del terreno e della densità della coltura. In base alle condizioni colturali, vengono lasciati 1, 2 o 3 carducci per pianta. In relazione al crescente costo del lavoro manuale, si tende a ridurre al minimo il numero di scarducciature (1 o 2) nel primo periodo vegetativo dopo il risveglio. La sarchiatura ha lo scopo di eliminare la flora infestante e smuovere lo strato superficiale del terreno, permettendone l’arieggiamento e impedendo la perdita di umidità per risalita capillare. Va eseguita di volta in volta, in base alle necessità e subito dopo la distribuzione dei concimi azotati in copertura per consentirne
Irrigazione per aspersione con funzione climatizzante
Carducci radicati in piantonaio per l’ottenimento degli ovoli
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carciofo in Sardegna l’interramento. La lotta alle malerbe consente l’ottenimento di un buon prodotto, sia dal punto di vista quantitativo sia qualitativo. Soprattutto nelle carciofaie di nuovo impianto le infestanti determinano il ritardo nell’epoca d’emissione del primo capolino, la riduzione delle rese, la diminuzione del peso e delle dimensioni del capolino. Qualità e commercializzazione dei capolini Lo Spinoso sardo identifica nei mercati locali e della penisola la produzione più tipica del comparto cinaricolo regionale. La raccolta dei capolini viene eseguita a mano, tramite la recisione dello stelo all’inserzione dei capolini di ordine successivo. Una peculiarità di questa varietà è l’attitudine al consumo a crudo sia del capolino sia del gambo, condito con olio extravergine di oliva e un pizzico di sale. Pertanto, su richiesta dei produttori, lo Spinoso sardo può essere ancora commercializzato con lo stelo intero, in deroga al regolamento comunitario 1466 del 19 agosto 2003, che prevede, in genere, una lunghezza massima del gambo di 10 cm. La necessità di adeguare la presentazione del prodotto alle esigenze della grande distribuzione e quella di dotarlo di maggiore valore aggiunto, in questi ultimi anni, hanno indotto gli operatori più attenti a condizionare i capolini in vassoio da 4-12 pezzi, avvolto da film plastico trasparente, e adottare specifici disciplinari di produzione. A seconda delle richieste del distributore, il capolino viene privato delle spine tramite taglio della parte terminale e tornito mediante
Prove sperimentali di confronto tra substrati utilizzati per la radicazione dei carducci
Calendario di produzione del carciofo in Sardegna Zona geografica Campidano di Cagliari
sub areali
giugno
luglio
agosto
settembre
ottobre
novembre dicembre
Varietà precoci Romanesco
Sulcis
Oristanese
Zone costiere Aree interne Valledoria
Sassarese Sassari Ittiri epoca d’impianto
epoca di raccolta
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gennaio
febbraio
marzo
paesaggio eliminazione delle brattee più esterne. Per evitare l’ossidazione dei polifenoli, viene contenuta l’azione degli enzimi con i prodotti ammessi. La commercializzazione verso il mercato regionale, dove lo Spinoso monopolizza la domanda, segue due canali: vendita diretta ai consumatori e ai commercianti ambulanti, molto diffusi in tutta l’isola, e tentata vendita in conto commissione ai grossisti. Verso i mercati della penisola, principalmente Genova, Milano, Torino, Verona, l’organizzazione di vendita è affidata ancora a intermediari mediante accordo per la tentata vendita a cui si affidano in particolare le cooperative dei produttori. Solo in questi ultimi anni c’è stata un’evoluzione attraverso la stipula di contratti con la grande distribuzione organizzata. Le altre varietà coltivate in Sardegna sono commercializzate tramite la tentata vendita, prevalentemente nei mercati del Centro Italia, in particolare Fondi, Roma, Firenze e Grosseto. Solamente le varietà Tema e Violetto raggiungono i mercati del Nord Italia. La presentazione del prodotto è uniformata alle esigenze di questi mercati: ordinariamente i capolini con lo stelo reciso a 10 cm sono sistemati in cassette da 20 pezzi per la categoria extra e fino a 40 pezzi per le altre categorie commerciali. In Sardegna non ci sono coltivazioni specializzate per la trasformazione; di norma il carciofo viene destinato all’industria quando il mercato del fresco non è più recettivo, condizione che si verifica normalmente intorno al mese di marzo per protrarsi fino ai primi giorni del mese di maggio, in coincidenza con la seconda fase produttiva delle cultivar rifiorenti. Gli stabilimenti presenti nell’isola hanno un potenziale di trasformazione di molto superiore all’attuale volume di prodotto lavorato (circa 60 milioni di capolini l’anno); nonostante ciò una quota variabile di capolini viene acquistata da industrie di
Panada di carciofi
• L’involucro va preparato con 500 g
di farina, 2 cucchiai di strutto, due cucchiai di olio extravergine d’oliva e poca acqua in cui si farà sciogliere un pizzico di sale
• L’impasto va lavorato fino a che
si raggiunge il minimo di coesione, quindi si copre con un telo e si ripone in frigorifero
• Nel frattempo si puliscono 6 carciofi,
si tagliano in fettine sottili e si mettono in un contenitore in cui si aggiunge il succo di un limone, un trito di due spicchi d’aglio e tre pomodori secchi, una manciata di prezzemolo, alcune prese di sale, e mezzo bicchiere di olio d’oliva
• Quindi si toglie la pasta dal frigo, la si
divide in due parti disuguali di cui una sarà tre volte più grande dell’altra e tutte e due si stendono in sfoglia rotonda. Con la sfoglia più grande si foderano il fondo e il bordo di una tortiera, vi si sistemano al centro i carciofi raccogliendoli a ponticello. Si stacca dal bordo della teglia la pasta che vi aderisce, vi si praticano delle pieghe e la si porta a contatto del cumulo di verdura. Si copre il tutto con la sfoglia piccola e si saldano insieme le due circonferenze praticando tutto intorno una cordonatura
• Si inforna in forno a medio calore
e si fa cuocere per un’ora e mezzo circa
Panada di carciofi
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carciofo in Sardegna trasformazione della penisola. In Sardegna si producono esclusivamente semilavorati fermentati, destinati ad altri trasformatori secondari nazionali per l’ottenimento dei prodotti finiti. Il carciofo lavorato è rappresentato quasi esclusivamente dal Violetto di Provenza. La trasformazione dello Spinoso sardo comunque avviene in numerosi laboratori artigianali e familiari che realizzano produzioni dell’ordine di poche migliaia di unità, prevalentemente conserve sottolio, destinate a un mercato di nicchia e commercializzate in negozi specializzati anche nella penisola o all’estero. Problemi e prospettive L’importanza economica e sociale che questo comparto riveste nell’agricoltura sarda è indiscussa, la superficie investita a carciofo nel 2008, pari a circa 13.000 ettari, costituisce il 50,2% della superficie destinata alla coltivazione di ortaggi in piena aria che, a sua volta, rappresenta circa il 15% del totale delle superfici investite a coltivazioni erbacee. Da almeno un decennio si verificano però condizioni agronomiche e commerciali tali da mettere in discussione il significato economico della carcioficoltura sarda. I principali fattori che hanno determinato questa situazione sono riconducibili alla riduzione del potenziale produttivo delle coltivazioni, all’aumento dei costi di produzione, in particolare di mezzi tecnici e manodopera, infine, a forti oscillazioni di domanda e offerta che hanno determinato un ribasso delle quotazioni del mercato. A condizionare negativamente la situazione hanno contribuito anche la presenza di produzioni provenienti da Paesi terzi e la preoccupante frequenza di periodi estivi e autunnali caratterizzati da temperature elevate, che hanno determinato un’incidenza molto rilevante del fenomeno dell’atrofia del capolino e hanno influito negativamente sul mercato, meno recettivo verso le produzioni precoci in presenza di un simile andamento climatico. Dato l’interesse dell’intera collettività nei confronti della difficoltà in cui versa questo comparto, viene dedicata alla cinaricoltura molta attenzione sia dal mondo produttivo sia da parte delle Agenzie regionali preposte a sostenere il settore agricolo con programmi di ricerca e di sviluppo. Di seguito saranno descritti i principali problemi sopra ricordati e le strategie messe in campo per il rilancio della coltura.
Alimentazione della linea di lavorazione per la calibrazione dei capolini
Linea di lavorazione per la preparazione di carciofo fresco condizionato
Riduzione del potenziale produttivo. Negli ultimi decenni si è evidenziato un lento e progressivo peggioramento delle potenzialità produttive e delle caratteristiche qualitative del carciofo Spinoso sardo; più recentemente queste criticità sono state individuate anche per le varietà da poco introdotte nel territorio regionale. La causa principale di questa degenerazione è la mancata applicazione di metodi di selezione del materiale genetico unitamente
Prodotto fresco confezionato di Spinoso sardo
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paesaggio alla necessaria razionalizzazione della tecnica di propagazione. Il carciofo, infatti, è l’unica coltura ortiva per la quale manca totalmente il supporto di un’attività vivaistica che garantisca l’origine e lo stato fitosanitario del materiale di propagazione. L’AGRIS e il Dipartimento di Scienze Agronomiche e Genetica Vegetale Agraria dell’Università di Sassari hanno inserito nei rispettivi programmi di attività diverse iniziative tese a creare le basi per consentire l’avvio di un’attività vivaistica specifica. I risultati si possono sintetizzare nelle seguenti azioni: – miglioramento genetico attraverso la selezione di cloni con caratteristiche produttive e qualitative di pregio; – risanamento attraverso la micropropagazione; – messa a punto della tecnica di ottenimento di ovoli in piantonaio; – pregermogliamento degli ovoli in vivaio e ottenimento di piantine con pane di terra; – trapianto meccanico degli ovoli pregermogliati. Al momento attuale il trasferimento su vasta scala di queste innovazioni si è in parte concretizzato. Nel corso degli ultimi 10 anni è stato possibile distribuire a tutte le cooperative operanti nel territorio regionale il materiale di propagazione selezionato e risanato attraverso l’attività di ricerca e sperimentazione. Si stima che attualmente circa il 40% degli ovoli di Spinoso sardo impiegati derivi da questo materiale.
Ottenimento degli ovoli
• Il miglioramento genetico del carciofo
in Sardegna viene effettuato mediante selezione massale, adottando una tecnica che prevede l’ottenimento degli ovoli mediante allevamento dei carducci in piantonaio
• Tra marzo e aprile vengono prelevati
i carducci dalle piante più produttive, distintesi per il carattere precocità e che non mostrano sintomi di attacchi parassitari. Successivamente questi vengono sottoposti a trattamento di concia e posti in piantonaio in fila continua con distanza tra le file di 30 cm e una densità d’impianto elevata (50-60/m2)
• Le operazioni colturali devono favorire
l’attecchimento ed evitare l’eccessivo rigoglio vegetativo che può indurre la differenziazione a fiore della gemma apicale. Per garantire agli ovoli un periodo di riposo adeguato, è necessario interrompere l’attività vegetativa dei carducci sospendendo gli interventi irrigui entro l’ultima decade di maggio
Costo elevato della manodopera. Il contenimento dei costi colturali passa attraverso una più razionale meccanizzazione della coltura che può essere adottata sia in campo sia nella fase di condizionamento e confezionamento. L’impiego delle macchine trapiantatrici per specie orticole è possibile quando si utilizzano per l’impianto ovoli pregermogliati. Le operazioni di
Le carciofaie ottenute con ovoli pregermogliati mostrano una grande uniformità
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carciofo in Sardegna raccolta possono essere agevolate dall’impiego di carrelli scavallatori che sollevano l’operatore dal gravoso peso della gerla tradizionalmente utilizzata per la raccolta. Numerose aziende che effettuano in proprio il condizionamento dei capolini, grazie all’impiego di questi carrelli, possono utilizzare lo stesso personale, in molti casi di sesso femminile, per la raccolta e la preparazione delle confezioni. Tutto ciò può consentire di aumentare l’efficienza produttiva delle unità lavorative utilizzate per la coltivazione e di aumentare la superficie coltivabile per singola unità aziendale.
Foto P. Viggiani
Condizionamento e trasformazione. Attualmente i carciofi sardi risentono moltissimo della concorrenza di altri prodotti della penisola o provenienti dall’estero (Spagna, Egitto, Tunisia) delle stesse varietà ma con un prezzo inferiore. La strategia sarebbe quella di fornire al consumatore prodotti a elevato contenuto di servizi, come quelli di IV e V gamma. Negli ultimi
Scarducciatura
Scarducciatura, preparazione dei carducci e piantonaio
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paesaggio tempi il carciofo ha assunto notevole importanza come ingrediente. Nuovi spazi di crescita per la materia prima si aprono infatti con l’affermazione di prodotti alimentari innovativi quali pizze, paste ripiene, piatti pronti, snack naturali. In quest’ottica potrebbero essere valorizzate anche le code di produzione di varietà come lo Spinoso sardo e il Tema 2000, che attualmente sono utilizzati in minima parte per i motivi già esposti nel paragrafo sulla qualità. Un altro importante settore è rappresentato dalla valorizzazione dei sottoprodotti della lavorazione e della coltivazione che possono contribuire alla creazione di alto valore aggiunto per le imprese di trasformazione e per quelle agricole.
Foto M. Curci
Organizzazione dei produttori. Gran parte dei problemi legati alla scarsa aggregazione dell’offerta e ai limiti della fase di commercializzazione potrebbe essere superata attraverso l’associazione dei produttori in organismi di secondo livello. Le cooperative dei produttori che storicamente hanno accompagnato lo sviluppo della carcioficoltura in Sardegna non sono sufficienti a determinare quella massa critica necessaria per affrontare con successo le sfide del mercato. Al momento attuale è stata accreditata una sola OP specifica per il comparto cinaricolo regionale, che rappresenta sicuramente un elemento di grande importanza ai fini dello sviluppo di attività finalizzate alla valorizzazione delle produzioni di carciofo attraverso specifiche azioni di filiera.
Foto M. Curci
I tradizionali sistemi di raccolta dei capolini a mano o con l’ausilio di una gerla risultano molto onerosi e tendono a essere sostituiti dall’impiego di macchine agevolatrici
Agevolazione della raccolta con carrello montato su macchina scavallatrice
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carciofo in Sardegna Marketing. La necessità di tutelare i produttori e i consumatori di carciofo Spinoso sardo da produzioni ottenute in altre aree di coltivazioni italiane o estere (sono in commercio da alcuni anni carciofi di questa varietà provenienti anche dal Nordafrica), ha indotto i carcioficoltori sardi a inoltrare la richiesta di riconoscimento del marchio DOP. Con la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della proposta di disciplinare per la DOP Carciofo Spinoso di Sardegna da parte del MiPAF e la notificazione alla Commissione Europea della richiesta di registrazione l’Italia ha accordato in via transitoria una protezione a livello nazionale. Il riconoscimento della DOP consentirà di attivare leve di marketing potenti per far conoscere le rilevanti peculiarità del Carciofo Spinoso di Sardegna in ambito Europeo. Un ruolo decisivo in tale direzione è chiamato a rivestire il Consorzio di Tutela che su incarico del MiPAF collaborerà con l’Ispettorato centrale per il Controllo della Qualità dei prodotti Agroalimentari mediante alcune importanti funzioni: – promozione commerciale e valorizzazione del marchio; – cura degli interessi generali delle denominazioni; – vigilanza e tutela sul corretto uso del marchio; – gestione del marchio; – informazione al consumatore. Per l’espletamento di tali compiti il Consorzio di Tutela si doterà di un apposito piano di tutela e controllo.
Foto P. Viggiani
Foto R Angelini
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il carciofo e il cardo
paesaggio Carciofo in Campania Vitangelo Magnifico
www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche.
paesaggio Carciofo in Campania Introduzione In Campania la coltivazione del carciofo ha origini antiche tanto da farla risalire all’epoca romana, anche se le prime informazioni risalgono al XV secolo. Esse fanno riferimento ai Carciofi di Schito, cioè a quelli prodotti nella zona nota come Orti di Schito, posta alla periferia nord di Castellammare di Stabia e non lontano da Pompei (prov. di Napoli), formata dai depositi di lava e lapilli emessi con l’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. che coprì l’antico lido, il porto e le storiche saline. L’eccezionale valore di questi orti li farà definire “il miglior dono fatto dal Vesuvio con l’eruzione” che seppellì Stabia e Pompei. L’importanza di questo ortaggio crebbe anche grazie alla grande considerazione che acquisì presso la corte napoletana, tanto che si fa risalire a Carlo di Borbone, re di Napoli dal 1734 al 1739, la definizione del carciofo come “re dell’orto”.
Campania in sintesi
• È al quarto posto con una superficie di 2019 ha e una produzione di 34.663 t
• Con quasi 2000 ha la Piana del Sele (SA) è leader regionale. Qui viene coltivato l’ecotipo Tondo di Paestum, che altro non è che il Carciofo di Castellammare, rinominato Carciofo di Paestum
• Le lievi differenze morfologiche e
dell’epoca di produzione tra il Carciofo di Castellammare, il Campagnano, il Romanesco e il Tondo di Paestum fanno entrare questi ecotipi in un unico gruppo detto dei carciofi Romaneschi, al quale fa riferimento il Disciplinare di Produzione del Carciofo di Paestum IGP
Carciofo di Castellammare o di Paestum La coltivazione del carciofo nell’area di Castellammare di Stabia iniziò a specializzarsi a partire dal 1920, quando le piante abbandonarono le aree marginali del giardino o dell’orto per essere coltivate su superfici sempre più ampie, su filari e con sesti d’impianto regolari così come sono giunti fino a noi. Fu così che il Carciofo di Schito divenne sinonimo di Carciofo di Castellammare che, per le sue indubbie qualità, colonizzò altre importanti aree orticole campane come quelle dell’Agro Sarnese-Nocerino, dei Monti Lattari e della Piana del Sele, seguendo le vicende legate alla bonifica di queste aree. Nel 1929, stando ai dati riportati dal Catasto Italiano, in Campania, la superficie
• Limitata diffusione ha il carciofo Bianco di Pertosa, inserito fra i Presidi di Slow Food, coltivato su pochissimi ettari in provincia di Salerno. Altro prodotto di nicchia è la varietà Capuanella, coltivata su ridotte superfici in provincia di Caserta e nel comune di Capua, da cui prende il nome
Tempio di Nettuno nell’area archeologica di Paestum
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carciofo in Campania investita a carciofo era di 818 ha e rappresentava il 6,5% del totale nazionale che era pari a 12.600 ha. All’epoca la Sicilia era leader indiscussa con quasi il 40% della superficie nazionale, seguita da Lazio, Toscana e Sardegna. Con l’espansione della coltivazione del carciofo nella Piana del Sele, a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso e dalle aree vicine ai famosi templi, si raggiunse la massima superficie di 3200 ha e una produzione totale di circa 35.000 t alla fine anni Settanta, per stabilizzarsi intorno ai 2500 ha degli anni Novanta, giunti fino ai nostri giorni a rappresentare quasi il 5% della superficie e l’8% della produzione nazionale. Con quasi 2000 ha la Piana del Sele, in provincia di Salerno, e in particolare la zona di produzione di Capaccio-Paestum, è assurta al ruolo di leader regionale. Qui viene coltivato l’ecotipo denominato Tondo di Paestum, il quale altro non è che il Carciofo di Castellammare (ex C. di Schito), che in seguito sarà rinominato Carciofo di Paestum e con questo appellativo viene coltivato prevalentemente anche nei Comuni di Agropoli, Battipaglia, Eboli, Bellizzi, Pontecagnano Faiano e Serre.
Carciofo della tipologia Romanesco coltivato in Campania
Tipologia Pur essendo in condizioni di ambiente meridionale, la coltivazione del carciofo in Campania è rappresentata esclusivamente da varietà, o meglio da ecotipi, a produzione tardiva o primaverile; cioè da piante che hanno bisogno del colpo di freddo per differenziare l’apice caulinare da vegetativo a riproduttivo ed emettere, quindi, il capolino principale e, a seguire, quelli secondari. Il tentativo di introdurre i tipi di carciofo precoci, detti anche rifiorenti, coltivati in Puglia, Sicilia e Sardegna, non ha mai avuto esito felice per i violenti danni da freddo che subiscono le piante in produzione durante i mesi invernali. Quindi, la classica tipologia di carciofo campano fa riferimento a quella denominata Romanesco, caratterizzata da piante a taglia grande, con grandi foglie basali a formare la rosetta, che può raggiungere il mezzo metro di altezza e quasi un metro con il capolino principale sostenuto da un robusto peduncolo o stelo. Il peso dei capolini principali (comunemente chiamati mamme o mammolelle o mammarelle) varia da 300 a 450 g, mentre i capolini secondari (figli) pesano 150-250 g. I capolini principali hanno forma sferica o leggermente sub-sferica (diametro e altezza intorno a 11 cm) e brattee serrate, mentre i secondari sono tendenzialmente più lunghi con brattee più lasse. I capolini principali presentano il classico foro formato dalle brattee più esterne. Queste sono inermi con apice arrotondato, largamente inciso, di colore verde con sfumature viola e acquisiscono una colorazione rossastra quando vengono coperte con la tipica coppetta di terracotta (pignatta o pignattello) per impedire l’accumulo dell’acqua nel capolino. Le brattee interne han-
Carciofo di Castellammare con coppetta di terracotta
Capolino del carciofo di Paestum
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paesaggio no una colorazione giallo-verdastra con accentuate sfumature violette. Al giusto stadio di maturazione, il ricettacolo (o cuore) è tenero e croccante con un’evidente peluria (pappo) formata dai bocci fiorali. Nel carciofo la lunghezza e la consistenza del pappo rappresentano un importante indice di qualità del prodotto, risultando più apprezzati i cuori con una peluria meno pronunciata e meno fibrosa. Le lievi differenze morfologiche e dell’epoca di produzione tra il Carciofo di Castellammare, il Campagnano, il Romanesco e il Tondo di Paestum fanno entrare questi ecotipi in un unico gruppo detto dei carciofi Romaneschi, al quale fa riferimento il Disciplinare di Produzione del Carciofo di Paestum IGP (GUCE GI53/72 del 01.07.2003) e dal quale vengono esclusi i cloni di Romanesco ottenuti in vitro, che risultano più precoci e risanati dai virus. Fra questi si è imposto il clone C3, coltivato anche in altre aree cinaricole del Centro-Nord, e il Rosso di Paestum, limitato alla coltivazione nella Piana del Sele e nelle aree limitrofe. La vicinanza genetica delle tipologie del gruppo Romanesco è emersa dalle moderne analisi del DNA, che hanno anche evidenziato il polimorfismo esistente fra il materiale di diversa provenienza così com’era stato già osservato in passato considerando i tratti morfologici delle piante e l’epoca di produzione. Poiché anche questa tipologia di carciofo viene propagata esclusivamente per via agamica, ogni agricoltore ha selezionato, diffuso e conservato il modello di pianta e di prodotto che meglio corrispondeva alle sue esigenze e al suo gusto.
Carciofo Rosso di Paestum
Tecnica colturale Tradizionalmente l’impianto di una nuova carciofaia prevedeva la messa a dimora in campo di carducci prelevati direttamente dalla pianta con le scarducciature autunnali (da settembre a no-
Carciofo clone C3 Campo di carciofo della varietà Rosso di Paestum
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carciofo in Campania vembre). In seguito, con la maggiore specializzazione della coltivazione, furono utilizzati anche i carducci prelevati a fine ciclo che venivano messi a radicare in piantonai, dai quali, in luglioagosto, venivano trasferiti in campo. Nei piantonai era possibile anche mettere a radicare pezzi di vecchie ceppaie provvisti di gemme (ovoli), prelevati da campi smessi. Con l’affinamento della tecnica vivaistica, anche i carducci furono, in seguito, allevati in vasetti di plastica o di torba e in contenitori di polistirolo in serre adeguatamente allestite. Più recentemente i carducci raccolti con le diverse scarducciature vengono accumulati e frigoconservati per essere messi successivamente in vivaio. Purtroppo la bassa percentuale di radicazione (anche inferiore al 50%) di carducci e ovoli e di ottenimento di piantine idonee a essere trapiantate, nonché l’esigenza di utilizzare piante risanate da virus e funghi, un paio di decenni fa, fece optare per l’impiego di piantine ottenute mediante micropropagazione in vitro, che costituivano cloni a sé stanti anche se derivanti dal Romanesco o dal Carciofo di Paestum. Tra i cloni di maggiore successo va segnalato il C3 caratterizzato anche da una maggiore precocità rispetto al classico Tondo di Paestum, che può essere esasperata con l’impiego di gibberelline durante la fase vegetativa e in quella precedente l’emissione del capolino principale. Al vantaggio di una produzione più precoce però si affianca il maggior rischio per i danni da freddo. In passato i campi di carciofo venivano rinnovati ogni dieci anni circa. In seguito, con la maggiore infestazione di virus che ne riducevano la produttività, le piante si rinnovavano anche dopo un quinquennio. Attualmente, invece, considerato l’elevato costo delle piantine micropropagate, gli agricoltori preferiscono mante-
Carciofo di Paestum: ovolo con germogli (in alto); radicazione dei carducci in contenitori di polistirolo (al centro); ovoli e carducci radicati (in basso)
Fasi della moltiplicazione in vitro del carciofo
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paesaggio nere in coltivazione per due-tre anni le piante derivanti dalla micropropagazione e utilizzarne i carducci per l’impianto di nuove carciofaie. In questo modo, oltre ad ammortizzare i costi delle piantine, si mantiene la sanità dei campi rispetto ai virus a livelli più accettabili. In considerazione della sempre crescente difficoltà di reperire sul mercato piantine risanate di buona qualità e in numero adeguato per i nuovi impianti, i produttori di carciofo della Piana del Sele hanno costituito il Consorzio Meristema Piana del Sele, con sede a Eboli, allo scopo di produrre, mediante micropropagazione, piantine risanate partendo da piante madri selezionate delle loro tipologie più pregiate. Per la produzione di Carciofi di Paestum a marchio IGP, invece, bisogna utilizzare esclusivamente il materiale di propagazione originale mediante ovoli o carducci e non effettuare alcun trattamento con le gibberelline. Rispetto alle tecniche colturali per il carciofo comunemente usate nelle aree cinaricole tardive italiane (lavorazioni al terreno, concimazione, scarducciature, controllo delle malerbe, lotta ai parassiti ecc.), nella Piana del Sele e nelle altre aree della Campania caratterizzate da falde acquifere alte, le piante risultano sistemate a fila singola su porche molto pronunciate, mantenute negli anni con la rincalzatura, che una volta era fatta a mano. Il sesto d’impianto tradizionale oscilla fra le tradizionali distanze di 110-120 cm tra le file e di 80-90 cm sulla fila con investimenti medi di circa 10.000 piante per ettaro, che è il limite massimo ammesso dal Disciplinare di produzione per il Carciofo di Paestum IGP. Le esigenze legate alla meccanizzazione delle operazioni colturali spesso fanno optare per un allargamento tra le file anche oltre il metro e mezzo. Il medesimo Disciplinare preFoto R. Angelini
Differenti fasi della raccolta del Carciofo di Paestum Adulti di punteruolo: questi curculionidi possono creare danni notevoli
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carciofo in Campania vede che la raccolta sia compresa fra il 1° febbraio e il 20 maggio, che è il periodo di raccolta del tradizionale ecotipo, anche se le piante C3 trattate con gibberelline possono anticipare l’inizio delle raccolte di quasi un mese. Fino a un decennio fa, oltre all’oidio e ai vari marciumi radicali (Sclerotium rolfsii, Sclerotinia sclerotiorum, Rhizoctonia solani, Verticillium dahliae) a causa delle alte falde acquifere e dell’elevata piovosità della zona, nella Piana del Sele erano principalmente gli afidi – e in qualche caso le arvicole – a creare i problemi più seri alle carciofaie. Ora, invece, ad allarmare i cinaricoltori è la Spodoptera littoralis, le cui larve, riscontrabili anche in numero elevato su una singola pianta, possono defogliarla e danneggiare i capolini svuotandoli completamente. Parassiti secondari e sporadici apparsi negli ultimi anni, ma che possono procurare anche danni notevoli alle piante e ai frutti, sono il casside (Cassida deflorata) e alcuni curculionidi (Larinus scolymi, L. cynarae, Lixus algirus).
Capolino principale del Carciofo Bianco di Pertosa
Aspetti commerciali La coltivazione del carciofo nella Piana del Sele è praticata in tutte le tipologie di aziende, dalle più piccole alle medio-grandi, anche associate per la commercializzane del prodotto, che trova buona collocazione sui mercati del Nord Italia (Milano) e all’estero (Francia soprattutto, Belgio e Svizzera). Il quantitativo esportato è stimato pari a oltre il 60% dell’esportazione nazionale di carciofi freschi, che rappresenta una quota modestissima (2-3%) dell’enorme produzione italiana. Pur non essendo la tipologia Carciofo di Paestum ideale per la produzione di carciofini, nella zona esistono piccole aziende di trasformazione per la produzione di cuori interi o di quarti sottolio, che soddisfano prevalentemente le esigenze dei numerosi ristoranti e delle aziende agrituristiche. Purtroppo il marchio dell’IGP per il Carciofo di Paestum non ha portato i benefici sperati per la coltivazione, la quale, invece, deve subire i contraccolpi di un mercato in crisi, che si aggiungono ai problemi creati dall’aumento dei costi di produzione e dalla riduzione della produzione dovuta all’eccessiva forzatura e alle problematiche ambientali e fitosanitarie citate. Malgrado la buona reputazione del prodotto, al momento, le prospettive future per il Carciofo di Paestum non appaiono incoraggianti anche perché, a causa della crescente domanda di Mozzarella di Bufala Campana DOP, esso deve subire la concorrenza della produzione dei foraggi per l’allevamento delle bufale.
Capolini secondari del Carciofo Bianco di Pertosa
Carciofi minori La riscoperta più recente da parte dei consumatori è stata quella del Carciofo Bianco di Pertosa, coltivato su pochissimi ettari nei comuni di Pertosa, Auletta, Caggiano e Salvitelle in provincia di
Sezione di capolino principale del Carciofo Bianco di Pertosa
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paesaggio Salerno. Ancora più tardivo del Carciofo di Paestum, il Carciofo Bianco di Pertosa deve il nome al verde pallido, quasi bianco, del suo ricettacolo (cuore). Ha un sapore delicato che viene esaltato dalla combinazione con l’olio di oliva extravergine della medesima area di produzione. Le raccolte del C. Bianco di Pertosa si esauriscono nel giro di tre-quattro settimane a partire dalla metà di aprile. In perfetto equilibrio con l’area di produzione, non ha nemici naturali oltre agli afidi e alle arvicole. È coltivato su file ai margini delle aziende, anche se va diffondendosi la coltura specializzata su piccole aree. Il Carciofo Bianco di Pertosa è inserito fra i Presidi di Slow Food. Apprezzato dai mercati locali poco distanti dall’area di produzione, questo carciofo ha un futuro soprattutto come prodotto trasformato sotto forma di carciofino sottolio per l’ideale dimensione della pezzatura e il colore bianco uniforme anche delle brattee interne. Altro prodotto di nicchia della cinaricoltura campana è la varietà Capuanella, coltivata in pochissimi ettari in provincia di Caserta e nel comune di Capua da cui prende il nome. Pur presentando un’epoca di raccolta tardiva che va da fine aprile ai primi caldi primaverili, la forma dei capolini di Capuanella è allungata e ricorda le varietà precoci di carciofo, così come le foglie giovani a lamina intera ricordano quelle delle tipologie precoci coltivate in Puglia,
Sezione di carciofo della varietà Capuanella
Capolino della varietà Capuanella Capolino della varietà Capuanella
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carciofo in Campania Sardegna e Sicilia. Una versione più precoce è il carciofo denominato Pasquarola o Pascarola dall’epoca di inizio delle raccolte. Entrambe le varietà sono caratterizzate da un cuore grosso e carnoso e da brattee interne con sfumature alla punta decisamente violacee. Ancora più modesta delle precedenti è la superficie interessata al Carciofo di Pietrelcina, tipico del comune omonimo in provincia di Benevento che diede i natali a Padre Pio. È caratterizzato da capolini principali grossi simili a quelli del Romanesco, anche se leggermente allungati. La produzione è tardiva al pari della varietà Capuanella. In Campania sono rinomati localmente anche i Carciofi tardivi di Procida, coltivati sull’isola omonima (prov. di Napoli) e di Montoro Inferiore (prov. di Avellino), entrambi riconducibili al tipo Romanesco, e il Carciofo di Aquara (prov. di Salerno, nel Parco del Cilento), caratterizzato da elevato polimorfismo dei capolini, che ricorda la tipologia Capuanella nei capolini giovani e la forma a pigna in quelli maturi. Come tutte le tipologie di carciofo a produzione tardiva, anche quelle minori campane sono a rischio di estinzione per la loro limitata produzione e per l’estrema debolezza nel reggere la concorrenza di altre specie orticole o frutticole capaci di fornire redditi maggiori o di permettere una migliore utilizzazione della superficie.
Carciofo di Pietrelcina
Carciofo di Paestum
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il carciofo e il cardo
paesaggio Carciofo nel Lazio Olindo Temperini
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paesaggio Carciofo nel Lazio Introduzione La coltivazione del carciofo nel Lazio riveste un ruolo importante non solo sotto l’aspetto economico ma anche socio-culturale; infatti, secondo il botanico Montellucci, è da attribuire agli Etruschi l’opera di addomesticamento di questa specie a partire dalle popolazioni selvatiche di Cynara cardunculus var. sylvestris (cardo selvatico). Le estese popolazioni selvatiche di questa specie, nella zona collinare tra Civitavecchia e Tolfa fino alle vicinanze di Cerveteri e Tarquinia, e le raffigurazioni di foglie di carciofo in alcune tombe della necropoli etrusca di Tarquinia, confermerebbero queste affermazioni. Anche se questo ortaggio è stato coltivato fin dall’antichità e ha una lunga tradizione nella cucina laziale, le superfici investite a carciofo Romanesco sono rimaste per secoli a livello di semplici orti familiari. I capolini di carciofo Romanesco coltivato nel Lazio sono confluiti sul mercato di Roma soltanto dopo la Prima guerra mondiale, e in particolare quelli prodotti nei dintorni di Ladispoli, Cerveteri e Campagnano. Le cultivar affermate furono il Castellammare, per la sua precocità, e il Campagnano che, pur maturando tardivamente, presentava caratteristiche organolettiche eccellenti. Con l’avvento della riforma agraria la coltivazione del carciofo divenne intensiva, tanto che nel 1950 nel comune di Ladispoli ebbe luogo la prima edizione della Sagra del Carciofo Romanesco. L’eco del successo di questa manifestazione, che si ripete ogni anno all’inizio della primavera, varcò i confini del Lazio e per gli agricoltori si aprirono le porte dei mercati nazionali. A tale manifestazione ne seguirono di analoghe negli altri comuni produttori di
Lazio in sintesi
• Con 1043 ha e 20.650 t, il Lazio occupa il quinto posto nella graduatoria nazionale. La coltivazione è diffusa prevalemente in provincia di Viterbo (comuni di Montalto di Castro, Canino, Tarquinia), Roma (Civitavecchia, Santa Marinella, Campagnano, Cerveteri, Ladispoli, Fiumicino), Latina (Sezze, Priverno, Sermoneta)
• È coltivata quasi esclusivamente
la tipologia denominata carciofo Romanesco. I cloni più rappresentativi sono tradizionalmente il Castellammare e il Campagnano. Negli ultimi anni si è largamente diffusa la coltivazione di cloni precoci della tipologia Romanesco (cloni C3 e C4) ottenuti per micropropagazione. Limitata diffusione si riscontra per la cultivar Grato 1, incrocio derivato da libera impollinazione tra Castellammare e Terom
• Nel 2002 è stata istituita la IGP Carciofo Romanesco del Lazio
Scultura di carciofi effettuata dai cinaricoltori in occasione della Sagra del Carciofo Romanesco di Ladispoli Cardo selvatico in località Sasso, sita nel comune di Cerveteri (Roma)
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carciofo nel Lazio carciofo (sagra di Campagnano, Sezze ecc.). Le varietà del carciofo Romanesco coltivate nel Lazio si sono ben affermate per le ottime caratteristiche commerciali (capolini grandi e assenza di spine), nonché per le pregiate qualità organolettiche. Tecnica colturale Preparazione del terreno e concimazione di fondo La preparazione del terreno destinato ad accogliere le piante di carciofo inizia con un’aratura profonda circa 40-50 cm, effettuata in agosto-settembre se sul terreno non ci sono colture in atto oppure, se presente una coltura invernale (finocchio, cavolfiore ecc.), nella primavera successiva appena le condizioni del terreno lo permettono. In occasione di tale operazione, sulla base delle indicazioni fornite dai laboratori di analisi sulle caratteristiche fisico-chimiche del suolo e la qualità dell’acqua di irrigazione, si procede all’interramento del letame (40-60 t/ha) o altro fertilizzante organico (pollina, guano ecc.). Pochi giorni prima della messa a dimora delle piante si eseguono alcune lavorazioni complementari di livellamento e affinamento del suolo. In occasione di tali operazioni si esegue la concimazione minerale di base che prevede in media la distribuzione di 70-80 kg/ha di P2O5 e 80-90 kg/ha di K2O. Nei terreni particolarmente compatti, per evitare problemi di asfissia radicale, si realizzano fossi di scolo lungo la testata e le scoline laterali.
Carducci ben sviluppati e pronti per essere distaccati dalla pianta madre
Impianto La tecnica di coltivazione del carciofo a produzione vernino-primaverile nel Lazio varia notevolmente in funzione del materiale di propagazione impiegato nella costituzione delle nuove carciofaie. Infatti, gli agricoltori di questa regione impiegano come materiale di propagazione carducci, ovoli, piante micropropagate e “semi”, secondo il grado di specializzazione dell’azienda, del materiale acquisibile sul mercato e del genotipo scelto. Impiegando il carduccio come materiale di propagazione, l’epoca di impianto varia in funzione della disponibilità di questo materiale con conseguenti ripercussioni sull’epoca di raccolta dei capolini. Nella tecnica classica di coltivazione i carducci sono disponibili a distanza di 30-40 giorni dal risveglio vegetativo, che normalmente viene promosso con abbondanti irrigazioni nei primi giorni di agosto. I carducci vengono prelevati durante la fase di scarducciatura che, com’è noto, avviene quando i carducci sono sufficientemente sviluppati e prevede, nel carciofo di tipo Romanesco, l’asportazione di tutti i carducci a eccezione di quello che andrà a costituire la parte aerea della pianta. I carducci prelevati vengono immediatamente tolettati; tale operazione si rende necessaria per ridurre la perdita di acqua per traspirazione e consiste nell’eliminazione delle foglie più esterne e nella riduzione della lamina fogliare in quelle rimanenti.
Carducci appena distaccati dalla pianta madre (in alto) e carduccio tolettato, pronto per essere posto a radicare (in basso)
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paesaggio I carducci così preparati sono posti direttamente a dimora. Per facilitare l’emissione delle radici e quindi il rapido accrescimento della giovane pianta, viene mantenuto un microambiente particolarmente adatto attraverso interventi irrigui frequenti e con volumi ridotti. L’irrigazione dei carducci diventa particolarmente importante in condizioni di scarsa umidità del terreno ed elevata ventosità, in quanto i carducci subirebbero una rapida ed eccessiva disidratazione con conseguenze anche gravi sulla loro sopravvivenza. Questa tecnica ancora oggi praticata comporta svantaggi piuttosto evidenti: presenza di un certo numero di fallanze, entrata in produzione della carciofaia soltanto a partire dal secondo anno di impianto, necessità di operare rimpiazzi e di conseguenza ottenimento di carciofaie difformi. Tenuto conto di questi aspetti negativi e su indicazioni della cattedra di Orticoltura dell’Università di Viterbo, alcuni agricoltori di Sermoneta (LT) stanno impiegando come materiale di propagazione i carducci prelevati in primavera da carciofaie giunte a fine ciclo. In particolare questa tecnica prevede l’eliminazione della parte aerea delle piante in aprile, cioè dopo la raccolta dei capolini di maggior pregio: i cimaroli e i capolini di primo e secondo ordine. Effettuato il taglio della parte aerea, si esegue un’abbondante irrigazione per promuovere una rapida e cospicua emissione di carducci. A distanza di circa un mese (seconda decade di maggio), i carducci sono sufficientemente sviluppati, pertanto vengono distaccati dalle piante madri; sono quindi sottoposti a tolettatura e posti a radicare. A fine luglio le piante si presentano con un apparato radicale ben sviluppato e sono pronte per essere messe a dimora. L’impianto avviene nella prima decade di agosto ed è immediatamente seguito da un’abbondante irrigazione. Questa tecnica, rispetto alla precedente, garantisce un ottimo accrescimento della carciofaia prima che sopraggiunga il freddo in-
Capolini di carciofo Romanesco
Impianto della carciofaia con carducci
• L’impianto della carciofaia effettuato
direttamente con carducci non radicati determina grossi problemi di uniformità della coltura, ripercuotendosi negativamente sulla quantità e sulla qualità dei capolini. In tali carciofaie si osservano fallanze e piante con diverso grado di sviluppo, come si può vedere nella foto a lato: − pianta ben sviluppata e in grado di emettere precocemente lo scapo fiorale (A) − pianta più tardiva rispetto alla precedente anche se ben sviluppata (B) − pianta poco sviluppata che emetterà capolini in minor quantità e tardivamente rispetto a quelle più grandi (C) − pianta rimpiazzata con carduccio, appena affrancata che andrà in produzione l’anno successivo (D) − pianta assente a causa della mancata radicazione sia del carduccio di impianto sia di quello impiegato per il rimpiazzo (E)
Impianto della carciofaia con carducci
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carciofo nel Lazio
Tecniche di radicazione dei carducci
• In vasetti di plastica (diametro 6-8 cm) con substrato commerciale e perlite
• In pieno campo (piantonaio) • In cassette riempite per metà con substrato commerciale
• In coltura semiprotetta, direttamente
su terreno e ricoperti con agrotessile
• Nei mesi più caldi, indipendentemente
Radicazione dei carducci in vasetti di plastica (diametro 6-8 cm) contenenti substrato commerciale e perlite
dalla tecnica impiegata, i carducci sono riparati dal sole (ombrai), in quanto il carciofo, in condizioni di temperature elevate, anziché emettere radici, tenderebbe a entrare in riposo
vernale, per cui l’entrata in piena produzione avviene già a partire dal primo anno di impianto. Negli ultimi anni è possibile trovare sul mercato anche piantine a radice protetta ottenute facendo radicare direttamente carducci provenienti da piante madri coltivate fuori suolo. Il materiale così ricavato è disponibile all’inizio dell’estate e normalmente viene posto a dimora nei primi giorni di agosto. L’impiego delle piantine provviste di pane di terra, oltre a garantire un attecchimento prossimo al 100% e quindi un’elevata uniformità della carciofaia, determina anche l’entrata in produzione della carciofaia già dal primo anno di coltivazione. In altre zone del Lazio (per es. Cerveteri) si utilizzano come materiale di propagazione anche gli ovoli, largamente impiegati in Italia meridionale e insulare, e in particolare per le cultivar rifiorenti quali Brindisino e Spinoso sardo.
Radicazione dei carducci in coltura semiprotetta, direttamente su terreno e ricoperti con agrotessile
Radicazione dei carducci in pieno campo (piantonaio)
Radicazione dei carducci in cassette riempite per metà con substrato commerciale
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paesaggio Gli ovoli vengono prelevati al momento della dicioccatura e posti a germogliare in luogo fresco e ombreggiato. Trascorsi circa 20 giorni, gli ovoli che hanno iniziato la fase di germogliamento vengono posti direttamente a dimora. Tale tecnica, pur risultando efficiente in quanto garantisce un equilibrato sviluppo della carciofaia sin dal primo anno di impianto, è poco impiegata a causa del ridotto numero di ovoli prodotti dalle singole piante. A partire dagli anni ’90 si è diffuso l’impiego di piante micropropagate della cultivar C3, in grado di soddisfare la necessità dei cinaricoltori di disporre in tempi brevi di un elevato numero di piante e nel contempo ottenere carciofaie uniformi e produttive sin dal primo anno di impianto. Negli ultimi anni il ricorso a tale materiale è in parte rallentato per motivi riconducibili principalmente all’elevato costo delle piantine e al materiale non sempre rispondente in modo omogeneo alle caratteristiche della cultivar richiesta. La forte diffusione di piante micropropagate della cultivar C3 e la volontà da parte degli agricoltori di arrivare sempre prima sul mercato con il prodotto ha determinato nel tempo il completo abbandono delle cultivar tradizionali, Castellammare e Campagnano, del carciofo Romanesco. Di recente nel Lazio si è diffusa anche la coltivazione di genotipi (cultivar e ibridi F1) di nuova costituzione per cui l’impianto delle nuove carciofaie viene effettuato impiegando piante a radice protetta, ottenute disponendo il “seme” in contenitori alveolati da 28-36 fori contenenti terricciato commerciale. L’epoca di semina/trapianto risulta particolarmente importante affinché la giovane carciofaia esplichi appieno le proprie performance produttive e qualitative. Infatti, da prove effettuate dalla Facoltà di Agraria di Viterbo in collaborazione con ARSIAL presso l’Azienda Dimostrativa ARSIAL di Tarquinia, è emerso che la cultivar Imperial Star, sottoposta a tre differenti epoche di impianto, ha risposto
Pianta ben equilibrata tra parte epigea e ipogea, pronta per essere messa a dimora
Propagazione per ovoli e divisione di rizoma
• La produzione di piante provviste di pane di terra, ottenute attraverso l’impiego di ovoli e parti di rizoma, prevede le seguenti fasi: − recupero della parte di rizoma eliminato dalle piante al momento della dicioccatura − tolettatura del rizoma − posizionamento dei rizomi in cumuli ricoperti con paglia mantenuta costantemente umida per favorirne il germogliamento − distacco dal rizoma degli ovoli pregermogliati − frazionamento del rizoma in 4-5 parti recanti ciascuna almeno una gemma che ha superato la fase di dormienza − radicazione del materiale ottenuto
Radicazione degli ovoli in contenitori alveolati
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carciofo nel Lazio
Piante ottenute dalla radicazione degli ovoli
Panoramica di una carciofaia di un anno caratterizzata da un elevato grado di uniformità di crescita e contemporaneità di produzione
in termini di precocità in modo molto diverso in funzione dell’epoca di trapianto. In particolare la raccolta dei capolini è iniziata l’11 novembre nelle piante trapiantate nella prima settimana di luglio, il 5 dicembre in quelle trapiantate nella terza decade di luglio. Le piante trapiantate nella seconda decade di agosto hanno evidenziato un habitus vegetativo tipico delle cultivar a produzione primaverile e la raccolta è iniziata nella prima decade di marzo. Da
Capolini della cultivar Imperial Star in prossimità della raccolta e cimaroli della stessa cultivar raccolti nella seconda decade di novembre a Tarquinia
Piante con diversa precocità di raccolta. In primo piano pianta con le caratteristiche foglie lanceolate che precedono l’emissione dello scapo fiorale; in secondo piano una pianta che presenta soltanto foglie frastagliate e quindi più tardiva rispetto alla precedente
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paesaggio tale esperienza risulta estremamente importante definire l’epoca ottimale di trapianto delle cultivar propagate via “seme”.
Foto P. Viggiani
Concimazione di copertura La concimazione di copertura prevede la completa distribuzione di azoto e un ulteriore apporto di potassio. L’azoto viene distribui to attraverso due o tre interventi in quanto, essendo il ciclo vegetativo del carciofo piuttosto lungo, apportandolo in un’unica soluzione, si andrebbe incontro a numerose perdite per dilavamento. La frazione di potassio distribuita in copertura è necessaria in quanto questo macronutriente favorisce una maggior colorazione delle brattee esterne dei capolini, caratteristica molto apprezzata dai consumatori. Nel Lazio, essendo la coltivazione del carciofo ancora oggi poliennale, il piano di fertilizzazione distingue due situazioni: primo anno e anni successivi a quello dell’impianto. Nel primo anno la concimazione inizia a distanza di circa 20 giorni dall’impianto, e cioè quando le piantine si sono ben affrancate e quindi sono in grado di utilizzare al meglio gli elementi minerali apportati. Normalmente vengono distribuiti 30-40 kg/ ha di N sotto forma nitro-ammoniacale o ureica, il concime viene quindi interrato attraverso una leggera fresatura, operazione che contribuisce anche al contenimento delle erbe infestanti. Un secondo intervento viene effettuato tra la seconda e la terza decade di settembre distribuendo ulteriori 60-70 kg/ha di N, sotto forma nitro-ammoniacale. Un terzo intervento viene eseguito in prossimità dell’emissione dello scapo fiorale, che si manifesta attraverso la presenza di foglie lanceolate a portamento assurgente, distribuendo ulteriori 30-40 kg/ha di N, sotto forma nitrica o ammoniacale, e altrettanti di K2O. Negli anni successivi la concimazione inizia nella prima decade di agosto e precede l’irrigazione necessaria per il risveglio vegetativo della carciofaia, distribuendo l’intera quantità di fosforo (60-70 kg/ha P2O5) e 2/3 di quella del potassio (80-90 kg/ha K2O). L’intervento successivo avviene subito dopo la scarducciatura con la distribuzione di 90-100 kg/ha di N sotto forma nitro-ammoniacale, cui fa seguito una lavorazione superficiale del terreno. In prossimità dell’emissione dello scapo fiorale si effettua l’ultimo apporto di nutrienti (N e K2O) con le stesse quantità e modalità descritte per il primo anno di impianto.
Foto P. Viggiani
Densità colturale Il giusto numero di piante per unità di superficie incide fortemente sulle caratteristiche del prodotto in termini di precocità, quantità (numero di capolini/pianta) e qualità (pezzatura e compattezza dei capolini). Le esperienze di campo indicano, infatti, che aumentando oltre un certo limite la densità colturale si verifica un aumento dei capolini per unità di superficie, mentre diminuiscono quelli prodotti dalle singole piante e inoltre si osserva anche un ritardo
Carciofaie a Cerveteri. La densità colturale è un parametro che incide fortemente sulle caratteristiche del prodotto in termini di precocità, quantità (numero di capolini/ pianta) e qualità (pezzatura e compattezza dei capolini)
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carciofo nel Lazio della raccolta. La pezzatura dei capolini è un parametro particolarmente importante per la definizione della qualità del carciofo Romanesco; infatti, il prodotto maggiormente quotato sul mercato è rappresentato dai capolini principali (cimaroli) e, a seguire, da quelli di primo e di secondo ordine. I capolini di ordine superiore sono normalmente destinati all’industria di trasformazione e quindi commercializzati a prezzi decisamente inferiori. Nel definire le distanze d’impianto, i cinaricoltori del Lazio tengono conto non solo delle considerazioni precedentemente esposte, ma anche dei mezzi disponibili per le operazioni colturali, della vigoria del clone coltivato e del costo della piantina. Normalmente, la distanza adottata tra le file oscilla tra 1,2 e 1,4 m e quella sulla fila tra 0,8 e 1 m; pertanto, la densità colturale del carciofo romanesco coltivato nel Lazio varia tra 8000-9000 piante/ha. Irrigazione La stagione irrigua normalmente inizia tra la fine di luglio e l’inizio di agosto e si protrae fino a ottobre-novembre, successivamente viene sospesa, in quanto le precipitazioni atmosferiche sono generalmente sufficienti a soddisfare le esigenze idriche della coltura. Interventi irrigui successivi si rendono necessari, qualora non si verifichino piogge per lunghi periodi, durante la fase di raccolta, per evitare stress idrici alla pianta con conseguenze anche gravi in termini di qualità e quantità del prodotto. Gli interventi irrigui più importanti nella coltivazione del carciofo Romanesco sono quelli effettuati il primo anno subito dopo l’impianto, in quanto essenziali per l’attecchimento delle piante, e quello operato negli anni successivi tra la fine di luglio e i primi di agosto per anticipare il risveglio vegetativo delle piante, che com’è noto è correlato positivamente con l’epoca di entrata in produzione della coltura. Sono quindi effettuati, a seconda dell’andamento stagionale, da 8 a 12 interventi con volumi medi di adacquamento pari a 250-300 m3/ha/turno, distribuiti nella maggior parte dei casi per aspersione e raramente a goccia. Il metodo irriguo per aspersione viene preferito a quello localizzato in quanto offre un giusto compromesso tra efficienza d’uso dell’acqua e costi per l’irrigazione. A supporto di tale scelta va inoltre detto che il ciclo vegetativo della coltura si svolge prevalentemente nel periodo autunno-vernino, caratterizzato da precipitazioni più o meno frequenti, per cui alcuni dei vantaggi che per le colture a ciclo primaverile-estivo di pieno campo fanno preferire il sistema a goccia rispetto a quello per aspersione, in questa situazione non sussistono o sono molto ridotti; si pensi per esempio al risparmio di acqua, alla bagnatura della parte aerea e del terreno nell’intera interfila ecc. Occorre infine evidenziare che, utilizzando il metodo localizzato a goccia, sarebbero ostacolate alcune operazioni colturali quali la dicioccatura, la fresatura lungo la fila e la zappatura.
Carciofaia irrigata a goccia
Carciofaia irrigata a pioggia
Pianta dicioccata
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paesaggio Dicioccatura La dicioccatura consiste nell’eliminazione della parte epigea e viene effettuata a fine giugno o all’inizio di luglio, in funzione della cultivar e dell’andamento stagionale, quando cioè le piante entrano nella fase di riposo estivo. Tale operazione può essere eseguita manualmente con l’ausilio della zappa, oppure con macchine operatrici provviste di lame o martelletti rotanti. Nel primo caso i residui colturali devono essere rimossi dal terreno perché possono ostacolare le successive operazioni colturali, mentre nel secondo caso, risultando il materiale vegetale finemente sminuzzato, lo si interra attraverso una fresatura. Quest’ultima pratica comporta un aumento di sostanza organica e una restituzione consistente di elementi minerali al terreno, permettendo così di ridurre le concimazioni fosfo-potassiche di un ulteriore 20%. Nella scelta del momento di intervento occorre, comunque, tener conto di non anticipare né protrarre eccessivamente tale operazione, in quanto si verificherebbero effetti indesiderati in entrambi i casi. Infatti, anticipando eccessivamente il taglio della parte aerea, la pianta viene stimolata a emettere molti carducci, specialmente in caso di pioggia, con notevole dispendio di sostanze di riserva accumulate nella parte ipogea. Ritardare eccessivamente la dicioccatura comporterebbe un indurimento eccessivo dei tessuti, per cui l’operazione di taglio risulterebbe alquanto difficoltosa e causa di danni più o meno gravi al rizoma, specialmente quando fosse completamente meccanizzata.
Panoramica di una carciofaia in cui è stata appena effettuata la dicioccatura manuale
Scarducciatura La scarducciatura è un’operazione colturale che consiste nell’individuazione del miglior carduccio, che andrà a costituire la nuova parte epigea, e nell’asportazione dei germogli superflui che, come riportato precedentemente, potranno essere impiegati come materiale di propagazione. Di solito questo intervento interessa marginalmente la coltura nel corso del primo anno mentre diventa fondamentale negli anni successivi. In generale tale operazione viene eseguita in due-tre passaggi: il primo nella seconda–terza decade di settembre, il secondo tra la fine di novembre e gli inizi di dicembre e il terzo, previsto principalmente per le cultivar tardive (Campagnano e Grato 1), tra gennaio e febbraio. Controllo delle erbe infestanti La pratica del diserbo chimico nel carciofo, almeno nell’Italia centrale, è poco attuata in quanto all’inizio dell’impianto o dopo il risveglio vegetativo il controllo delle infestanti viene effettuato, nelle prime fasi del ciclo colturale, mediante sarchiature eseguite con mezzi meccanici e intervenendo successivamente anche con
Distacco dei carducci dalla pianta
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carciofo nel Lazio zappature manuali lungo la fila. Per ridurre i costi di produzione, il controllo delle infestanti lungo la fila potrebbe essere attuato con due passaggi di pirodiserbo, impiegando come combustibile il GPL. I risultati conseguiti presso il Dipartimento di Biologia delle Piante Agrarie di Pisa hanno, infatti, messo in evidenza la validità di questa tecnica, essendosi raggiunta le stessa produzione di capolini rispetto a quella ottenuta con la zappatura. Rispetto a quest’ultima, a fronte di un consumo di 125 kg/ha di GPL, è stato rilevato un risparmio di manodopera di circa 10 giornate lavorative/ha. Descrizione e attitudine dei cloni di carciofo Romanesco I cloni di carciofo Romanesco più rappresentativi del Lazio sono tradizionalmente il Castellammare e il Campagnano. Negli ultimi anni si è diffuso l’impiego di piantine micropropagate di cloni precoci della tipologia Romanesco (per es. clone C3 e C4), nonostante i costi elevati di tale materiale. Un certo interesse si è dimostrato anche per il Grato 1, incrocio derivato da libera impollinazione tra Castellammare e Terom, selezionato nell’ambito di un’attività di miglioramento genetico svolta congiuntamente da Università della Tuscia, Università di Pisa e ARSIAL. Il carciofo Romanesco si distingue per la forma globosa con caratteristico foro centrale e brattee serrate, prive di spine. Le brattee assumono diversa colorazione, dal verde al violetto, tipica dei differenti cloni. I principali cloni di carciofo Romanesco coltivati nel Lazio possono essere sinteticamente così descritti.
Clone Castellammare
Castellammare. Pianta di taglia media o grande con altezza di inserzione del capolino principale intorno ai 30 cm, caratterizzata da portamento espanso e attitudine pollonifera media. La foglia è di colore verde scuro, inerme, di dimensioni grandi. Il capolino principale risulta sferico, compatto, con caratteristico foro all’apice, di dimensioni grandi con brattee esterne di colore verde con sfumature violette, ad apice arrotondato, inciso, inerme. Il peduncolo è medio o lungo e di grosso spessore. La produzione media è di circa 6-8 capolini per pianta per il consumo fresco e 5-8 per l’utilizzazione conserviera. Campagnano. Pianta di taglia grande con altezza di inserzione del capolino principale intorno ai 50 cm, portamento molto espanso e attitudine pollonifera scarsa. La foglia è di colore verde cinerino, inerme e di grandi dimensioni. Il capolino principale risulta sferico, compatto con caratteristico foro all’apice, dimensioni molto grandi, brattee esterne di colore verde con sfumature violette, ad apice arrotondato, inciso e inerme. Il peduncolo è medio o lungo e di grosso spessore. La produzione media è di circa 8-10 capolini per pianta per il consumo fresco e 4-5 per l’utilizzazione conserviera.
Clone Campagnano
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paesaggio
Clone C3
C3. Clone precoce di carciofo Romanesco ottenuto mediante selezione fenotipica. Pianta di media vigoria con foglie di colore verde cinereo. Il capolino, di forma subsferica schiacciata, è caratterizzato da brattee molto serrate, di colore verde con sfumature violacee, disposte in modo da lasciare un incavo nel centro del capolino stesso. È suscettibile alla peronospora e all’oidio.
Clone Grato 1
Grato 1. Pianta dotata di notevole vigoria, capolino di forma globosa, simile a quella del Campagnano ma con pezzatura superiore, brattee intensamente colorate di violetto e molto carnose, lenta formazione della peluria nel ricettacolo. Leggermente più tardivo del Castellammare, anche se più produttivo di quest’ultimo, è adatto sia per il consumo fresco sia trasformato. La pianta è vigorosa e contrassegnata da un colore cinerino a cui è associata una maggior tolleranza alle avversità di ordine biotico e abiotico (per esempio la maggior tolleranza al freddo). Qualità e commercializzazione dei capolini Fino agli anni ’50-’60 sui mercati laziali era presente quasi esclusivamente il prodotto locale o quello delle regioni limitrofe (Campania, Toscana e Marche), mentre oggi si assiste alla presenza di capolini provenienti anche da Puglia, Sicilia e Sardegna. La concorrenza esercitata dalle altre regioni italiane è avvenuta inizialmente immettendo a partire da novembre, sul mercato del Lazio, capolini delle cultivar a produzione autunno-primaverile (Brindisino, Catanese, Violetto di Provenza e Spinoso sardo) e negli ultimi anni anche capolini del C3. La diffusione di questo clone precocissimo di carciofo Romanesco nelle regioni meridionali è avvenuta in virtù di una richiesta sempre maggiore da parte del mercato fresco e agli elevati prezzi di vendita che il prodotto riesce a spuntare in gennaio e febbraio, quando cioè la presenza
Capolini con equilibrato (sopra) ed eccessivo (sotto) grado di sviluppo dei fiori alla base del ricettacolo
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carciofo nel Lazio del prodotto laziale è in generale carente in quanto fortemente condizionata dall’andamento delle temperature. Naturalmente i cinaricoltori del Lazio sono maggiormente penalizzati dal freddo invernale rispetto a quelli del Sud, tanto è vero che negli ultimi anni, risentendo fortemente della concorrenza delle regioni meridionali, stanno considerando l’ipotesi di un ritorno delle cultivar storiche del carciofo Romanesco: il Campagnano e il Castellammare, compresi i relativi cloni, al fine di ampliare il calendario di produzione. Un passo importante per la cinaricoltura regionale è stato fatto con il riconoscimento del marchio IGP, che permette al consumatore di ben identificare il prodotto proveniente da questa regione. Oltre alla denominazione Carciofo Romanesco del Lazio IGP, è consentito l’uso di indicazioni che facciano riferimento a nomi, ragioni sociali, marchi d’impresa, indicazioni geografiche e toponomastiche riferite a comuni, frazioni, aree, fattorie e località comprese nei comuni afferenti al Consorzio di tutela e dai quali effettivamente proviene il carciofo. Le confezioni sono sigillate e ricoperte con rete di plastica o con foglio di plastica trasparente. Per il consumo locale è consentita, esclusivamente in ambito regionale, la vendita dei cimaroli in mazzi da dieci, provvisti di foglie e con gambo anche superiore ai 10 cm di lunghezza, oppure con mazzi di numero non definito a forma di pigna e senza foglie. La commercializzazione del prodotto effettuata dai cinaricoltori non ricadenti nelle zone coperte dal marchio IGP e da quelli non iscritti al Consorzio per la tutela del carciofo romanesco avviene in forme diverse: in azienda attraverso la vendita diretta al dettaglio o ai grossisti, oppure tramite cooperative per i soci regolarmente iscritti. Nella maggior parte dei casi il prodotto viene presentato sul mercato in due diverse forme: in mazzi quando trattasi di prodotto precoce e ben quotato, per cui il produttore ritiene importante testimoniarne al consumatore la freschezza, oppure i capolini possono essere disposti in cassette di recupero o a perdere, quando il prezzo del prodotto è tale da ridurre al minimo i costi di imballaggio.
IGP Carciofo Romanesco del Lazio
• Con regolamento CE n. 2066/2002 del
21/11/2002, è stata istituita l’indicazione geografica protetta (IGP) del Carciofo Romanesco del Lazio
• I genotipi appartenenti a questa tipologia di carciofo presentano capolini di grandi dimensioni e di forma sferica, compatta, con caratteristico foro all’apice, brattee esterne di colore verde con sfumature violette ad apice arrotondato. Il peduncolo è medio o lungo di grosso spessore
• La zona di coltivazione del carciofo
Romanesco del Lazio è limitata ai comuni di Montalto di Castro, Canino, Tarquinia, in provincia di Viterbo; Allumiere, Tolfa, Civitavecchia, Santa Marinella, Campagnano, Cerveteri, Ladispoli, Fiumicino, Roma, Lariano, in provincia di Roma; Sezze, Priverno, Sermoneta, Pontinia, in provincia di Latina
Problemi e prospettive Le cause che hanno indotto una contrazione della superficie investita a carciofo nel Lazio e una sempre più accentuata meridionalizzazione della coltura sono da ricondursi principalmente a un’azione indiretta, dovuta alla concorrenza esercitata sul mercato dal carciofo a produzione autunnale nei confronti del carciofo Romanesco, e a una diretta, con la coltivazione di questa tipologia di carciofo anche in regioni quali Sicilia, Puglia e Sardegna, dove fino a pochi anni fa era presente il solo carciofo autunnale.
Tipiche confezioni in mazzi del carciofo Romanesco avvolte da una fascia
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paesaggio La produzione del carciofo rifiorente si estende per un periodo che va da ottobre ad aprile, mentre quella del carciofo Romanesco è limitata al periodo febbraio-aprile. Pertanto, la presenza sul mercato del carciofo autunnale in anticipo, e per così lungo tempo, induce un minor interesse da parte del consumatore nei punti di forza (stagionalità e precocità) delle produzioni del carciofo Romanesco coltivato nel Lazio. La diffusione del carciofo Romanesco in altre regioni con condizioni climatiche più favorevoli per esaltare la precocità della cultivar C3 ha accentuato la crisi del carciofo coltivato nel Lazio. Va infine sottolineato che recentemente è iniziata la concorrenza anche dai Paesi esteri quali Spagna, Francia, Egitto e Tunisia, che quindi contribuiscono all’acuirsi della crisi della cinaricoltura laziale. Tale situazione si ripercuote negativamente sul prezzo del carciofo Romanesco e di conseguenza sulla possibilità di espansione di questa coltura nella regione. Dalle considerazioni sin qui esposte risulta evidente che la coltivazione del carciofo Romanesco nelle regioni centrali italiane sarà sempre più destinata a ricoprire un ruolo marginale a livello nazionale. Per innescare un’inversione di tendenza occorrerebbe quindi agire su alcuni aspetti della filiera: a) incrementare le rese unitarie e ridurre i costi di produzione; b) ampliare il calendario di commercializzazione e migliorare la qualità dei capolini; c) attuare nuove strategie di mercato in termini di promozione e commercializzazione del prodotto. Per quanto riguarda il punto a), occorre sottolineare che per conseguire maggiori rese unitarie associate a un minor costo di produzione non si può prescindere dall’impiego di materiale di propagazione qualificato per l’ottenimento di carciofaie omogenee sia sotto il profilo dello sviluppo delle piante sia sotto quello della
Confezionamento del Carciofo Romanesco nel Lazio effettuato da cinaricoltori non ricadenti nella zona IGP: capolini privi di foglie e con gambo lungo 10 cm
Capolini provvisti di foglie e disposti in cassette alla rinfusa
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carciofo nel Lazio produzione. Per cui è necessario che si sviluppi un’attività vivaistica specializzata in grado di produrre materiale sano, certificato e a costi contenuti. In relazione al punto b), occorre tener conto che, a seguito del processo di globalizzazione, sono venuti meno alcuni aspetti importanti che caratterizzavano le produzioni, come la stagionalità e la precocità. È pertanto intuibile che in futuro per affermarsi sul mercato non bisognerà puntare solo sulla precocità di produzione, ma anche sull’offerta di prodotti di elevato standard qualitativo e per lunghi periodi. Relativamente al punto c), va rilevato che il consumatore è scarsamente informato sugli aspetti qualitativi e nutrizionali di questa orticola. È poco noto, infatti, che nel Lazio le condizioni ambientali (basse temperature) che si verificano durante il ciclo vegetativo del carciofo sono poco favorevoli allo sviluppo dei parassiti. Questo aspetto, nell’attuale coscienza ecologica e salutistica, dev’essere enfatizzato in quanto risulterebbe di forte presa sul consumatore. Infine va rimarcato che il riconoscimento del marchio IGP è sicuramente da considerarsi un passo importante per la valorizzazione del carciofo Romanesco in quanto consente al consumatore di distinguerlo da quello proveniente da altre zone di produzione. È però necessario abbandonare il vecchio modo di presentare il prodotto sul mercato, a favore di quanto disposto sia dal disciplinare di produzione, sia dalle norme di qualità CEE. Per favorire il consumo del carciofo in Italia e soprattutto all’estero, bisognerebbe supportare le vendite con azioni di promozione che illustrino anche ricette e preparazioni; infatti questo ortaggio è scarsamente consumato anche perché è poco conosciuto il suo uso in cucina.
Carciofini alla rinfusa in bins
Capolini con foglie confezionati in mazzi
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