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il pesco
coltivazione Allevamento e potatura Carlo Fideghelli
www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche. Crediti: le foto alle pagine 16 in alto a destra (Bvdc), 78 in alto (Huan), al centro (Pinkcandy) e in basso (Teoteoteo), 79 (Amitai), 80 in basso (Miszmasz), 81 (Looby), 82 (Karcich), 86 (Yasonya), 88 in basso (Lissdoc), 96 (Hurry), 98 in alto a sinistra (Hurry), 108 in alto (Tinker) e in basso (Meengen), 408 (Matka_wariatka), 409 (Elkeflorida), 416 al centro (Uksus) e in basso (Vladacanon), 417 in alto (Icefront), 421 in basso (Robynmac), 422 in alto (Palolilo), 474 in basso (Emily2k), 479 in basso (Elenathewise) sono dell’agenzia Dreamstime.com.
coltivazione Allevamento e potatura Tra le specie arboree da frutto, il pesco è probabilmente quella sulla quale i tecnici si sono maggiormente concentrati alla ricerca di sempre nuove e diverse soluzioni per trovare la forma di allevamento più razionale. Ne consegue la grande variabilità di modelli oggi disponibili e applicabili in funzione delle diverse condizioni operative: peschicoltura da consumo fresco o da industria, azienda familiare o di grandi dimensioni, elevata o contenuta disponibilità di capitali, presenza di mano d’opera specializzata o di maestranze comuni ecc. In futuro, il panorama, già ricco di tante soluzioni alternative, è destinato a complicarsi o, se si preferisce, ad arricchirsi ulteriormente, grazie all’attività del miglioramento genetico che sta operando intensamente per valorizzare genotipi caratterizzati da habitus vegetativi completamente differenti da quello tradizionale che è stato alla base della peschicoltura dalle sue origini ai nostri giorni.
Habitus vegetativo
• Nella moderna peschicoltura assume sempre maggiore importanza il controllo dell’habitus vegetativo
• Iniziata circa 20 anni fa, l’attività
di miglioramento genetico è stata finalizzata a ottenere genotipi di pesco a portamento diverso dallo standard e agronomicamente validi
• Attualmente, obiettivi primari sono
le tipologie di habitus compatto, piangente e colonnare, che potrebbero consentire un aumento delle produzioni unitarie in seguito alla più alta densità di impianto, nonché interventi di potatura e raccolta più facilmente meccanizzabili
Influenza dell’habitus vegetativo L’habitus vegetativo più comune, caratteristico di tutte le varietà attualmente coltivate, corrisponde a quello di un albero di forma globosa che raggiunge dimensioni medie, in altezza e diametro, di 4-6 metri. Il pesco è una specie basitona, ciò significa che un ramo verticale, lasciato vegetare liberamente, produce germogli più vigorosi alla base e progressivamente meno vigorosi verso l’apice. Accanto a questo genotipo, che possiamo definire standard, ne sono noti altri che, da qualche tempo, vengono utilizzati in programmi di miglioramento genetico: compatto, seminano, nano, colonnare, piangente. Habitus compatto. Caratterizzato da un albero di dimensioni ridotte del 40-50% rispetto allo standard, la lunghezza dell’internodo è simile o inferiore a quello standard, l’angolo di inserzione delle branche e dei rami è più ampio, il ramo misto è più lungo e il numero di rami per centimetro di branca è più elevato, rispetto sia allo standard sia al seminano. Come risultato, l’albero ha una chioma piuttosto densa. Habitus seminano. Caratterizzato da un albero di dimensioni analoghe a quello compatto (40-50% in meno rispetto allo standard) e da internodo più corto, mentre gli altri parametri (lunghezza del ramo misto, angolo di inserzione delle branche, numero di rami per centimetro di branca) sono più simili allo standard. In queste condizioni si ha una migliore penetrazione della luce all’interno della chioma rispetto al compatto e simile allo standard. Habitus nano. Caratterizzato da un albero di dimensioni molto ridotte, di altezza variabile da 1,5 a 2,5 m, internodi molto ravvicinati (3 volte più corti rispetto allo standard), rami di un anno molto
Pianta ad habitus nano nel 1° anno di vegetazione
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allevamento e potatura
Genotipo nano
• Il genotipo nano è stato oggetto di
un’intensa attività di miglioramento genetico sia in Italia sia in California e alcune cultivar sono attualmente in commercio
• I frutteti commerciali sono ancora
esempi rari anche se, potenzialmente, offrono soluzioni tecnico-agronomiche molto interessanti. Attualmente l’utilizzazione più comune è di tipo ornamentale o amatoriale
Pescheto adulto ad habitus nano in fioritura
corti, un maggior numero di rami per centimetro di branca, angolo di inserzione delle branche stretto e chioma molto densa a causa, principalmente, della densità e delle dimensioni delle foglie; di conseguenza vi è una più bassa penetrazione della luce rispetto agli altri tipi vegetativi.
Pescheto adulto ad habitus nano in produzione
Habitus colonnare. Definito anche, secondo la terminologia inglese, Pillar, è caratterizzato da angoli di inserzione delle branche molto stretti che conferiscono all’albero un portamento assurgente simile a quello del cipresso. L’albero raggiunge dimensioni, in altezza, analoghe a quelle dello standard. La forma naturale di questo genotipo è particolarmente adatta per la potatura di alle-
Pesco ad habitus colonnare in vegetazione
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coltivazione vamento a fusetto, con ridottissimo numero di interventi manuali. Con questo tipo di habitus, recentemente, sono state messe in commercio alcune cultivar, una delle quali, Alice Up, frutto del miglioramento genetico italiano. Habitus piangente. È caratterizzato da un portamento ricadente della vegetazione e da un albero di dimensioni ridotte, rispetto allo standard, del 40-50%. Questo fenotipo è oggi utilizzato come pianta ornamentale, ma si ritiene che abbia una potenzialità an-
Genotipo colonnare
• È particolarmente adatto per
l’allevamento a fusetto, realizzabile con pochi interventi di potatura
• La cultivar Alice Up è la prima nettarina ad habitus colonnare costituita da Liverani dell’ex Istituto Sperimentale per la Frutticoltura – Sezione di Forlì
Pesco ad habitus piangente in fioritura
che per la produzione commerciale dei frutti, allevando l’albero a doppio cordone verticale sui quali siano inseriti rami a frutto. Una tale forma di allevamento consentirebbe l’esecuzione di tutte le operazioni da terra.
Struttura rameale di un pesco ad habitus colonnare
Genotipo piangente
• Il portamento pendulo ha una validità
soprattutto ornamentale, ma esiste un’attività di miglioramento varietale finalizzata alla costituzione di cultivar per il mercato
• L’habitus piangente si presta alla realizzazione di una forma di allevamento analoga al cordone orizzontale (kiwi, vite), per una gestione interamente da terra
• Inoltre, è resistente all’afide verde Pesco ad habitus piangente in vegetazione
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allevamento e potatura Influenza del portinnesto Nonostante l’impegno di numerosi istituti di ricerca, nessun portinnesto veramente nanizzante del pesco, analogo all’M9 del melo e al Gisela 5 del ciliegio, è stato finora individuato, e anche per l’immediato futuro non si intravvedono soluzioni a questo problema. Sono, comunque, disponibili portinnesti che consentono di controllare le dimensioni delle piante innestate del 20-30% rispetto al franco tradizionale, più adatti per impianti a elevata densità, governabili da terra, come l’Mr.S.2/5, l’Ishtara, il PS A5.
Influenza delle condizioni ambientali
• La frequenza e la severità dei venti
suggerisce di contenere l’altezza della chioma per ridurre i danni meccanici
• Anche l’intensità dell’insolazione
estiva influisce sulla scelta della forma di allevamento, nonché su tempi e intensità della potatura estiva che non devono favorire la diretta insolazione delle branche
Influenza delle condizioni ambientali La frequenza e la severità delle gelate invernali influenza la scelta dell’altezza della prima impalcatura da terra e dell’intera chioma fruttificante, in quanto è noto che i danni da freddo più gravi si manifestano entro 1-2 m dal suolo. Il rischio della grandine condiziona ugualmente i tempi e l’intensità della potatura estiva che è opportuno rinviare a dopo la raccolta per ridurre i danni sui frutti in caso di evento grandinigeno.
Foto R. Angelini
Influenza delle condizioni colturali La densità di impianto e la forma di allevamento possono essere influenzate dalla natura del terreno e dalla disponibilità o meno dell’irrigazione, fattori che possono modificare in misura importante la vigoria delle piante. In una prova di confronto tra vasetto ritardato e ipsilon (Y), condotta nel metapontino, è stata messa in evidenza la netta differenza di consumo idrico per ettaro, più elevata nella forma a Y, ma anche la migliore efficienza idrica di quest’ultima forma. Anche la giacitura in pianura o in collina e la relativa sistemazione del terreno determinano le scelte del peschicoltore per quanto riguarda la forma di allevamento. Fortemente condizionante l’allevamento delle piante è la coltivazione in serra che, al Sud, ha assunto una certa rilevanza. Una differenza importante esiste tra la piccola azienda familiare e la grande azienda, per le quali i criteri di valutazione dei costi della mano d’opera e la disponibilità di capitali iniziali, le dimensioni degli appezzamenti e degli impianti frutticoli sono, spesso, molto diversi.
Stima dei consumi idrici per ettaro e per tonnellate di pesche prodotte in relazione alla forma di allevamento Forma di allevamento
N. alberi/ha
m3/ha
m3/t di pesche
Vasetto ritardato
415
5627
516
Ipsilon
1111
7540
346
Danno da freddo
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coltivazione Produzione ed efficienza del lavoro manuale per potatura, diradamento e raccolta della forma di allevamento a Y a confronto con il vasetto ritardato (VR) cumulate al 4° anno dall’impianto
Forme d’allevamento e tradizione
• Nelle aree di nuova coltivazione
Forma di allevamento
N. piante per ettaro
Prod. per ha (t)
Precoci
Y VR
1111 416
Tardive
Y VR
1111 416
Cultivar
peschicola è più facile adottare modelli completamente innovativi, mentre dove esiste una tradizione, soprattutto se lunga, le innovazioni sono più lente e derivano sempre da evoluzioni delle forme diffuse e conosciute
Mano d’opera cumulata al 4° anno Ore/ha
Kg/ora
Ore/t
46 31
1402 789
282 278
163 80
77 48
1868 834
344 409
102 54
Fonte: Caruso et al., 2006 modificata
La presenza in azienda di carri raccolta, sia per precedenti impianti peschicoli sia per la presenza di altre colture frutticole, può orientare il peschicoltore verso forme di allevamento a parete verticale piuttosto che verso forme adatte alla gestione delle piante da terra. Infine, l’esistenza o meno di una tradizione peschicola, in una determinata zona, ha forti influenze sull’evoluzione della tecnica colturale in generale e della potatura di allevamento in particolare. Produzione ed efficienza del lavoro manuale per potatura, diradamento e raccolta della forma di allevamento a Y a confronto con Tatura trellis e V cumulate all’8° anno dall’impianto
Foto E. Marmiroli
Forma di allevamento
N. piante per ettaro
Produzione cumulata all’8° anno per ha (t)
Rich May
Y Tatura trellis
1111 909
Venus
Y V
1111 1778
Cultivar
Mano d’opera cumulata all’8° anno Ore/ha
Ore/t
165 134
7384 6223
344 348
370 433
10.473 10.872
189 143
Fonte: Caruso et al., 2006 modificata
Forme di allevamento L’Italia è il Paese dove le forme di allevamento e la densità di piantagione hanno fatto registrare la maggiore evoluzione. Le ragioni di questo dinamismo sono principalmente legate all’inventiva dei tecnici e dei frutticoltori nonché all’attività di ricerca che, a differenza di quanto avviene in altri Paesi, dedica da sempre a questo aspetto della tecnica colturale costante attenzione, verificando sperimentalmente le nuove proposte che vengono dalla base e proponendone, a sua volta, di nuove. In Italia, a cominciare dalla fine degli anni ’50, la potatura ha vissuto una vera e propria rivoluzione con l’adozione della palmetta a branche
Raccolta in un pescheto allevato a vasetto ritardato
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allevamento e potatura oblique, che introduceva alcuni nuovi concetti in grado di guidare, anche negli anni successivi, l’evoluzione della peschicoltura moderna. I principi innovativi della palmetta erano essenzialmente i seguenti: – adattamento della forma di allevamento alle macchine per una più razionale e integrata meccanizzazione; – aumento della densità di impianto per raggiungere più rapidamente il massimo sviluppo della pianta e, pertanto, la piena fruttificazione. L’incremento del numero di piante per ettaro è il fattore che ha contribuito maggiormente a ridurre il periodo improduttivo iniziale e a consentire medie produttive molto elevate. Prove sperimentali effettuate confrontando densità di piantagione crescenti, fino a 10.000 piante per ettaro, hanno evidenziato come, oltre le 1500-2000 piante, con i portinnesti Franco e GF 677, si verifichi uno scadimento qualitativo della produzione (minore pezzatura, minore colorazione e minore consistenza dei frutti). E comunque, anche con densità dell’ordine di 1000-1500 piante per ettaro, assume un’importanza fondamentale la potatura verde, che deve essere eseguita almeno 2 volte nella stagione, al fine di assicurare quella qualità che il mercato oggi richiede e per rispettare i principi della produzione integrata. Pur essendo la palmetta una forma nettamente più lontana da quella naturale rispetto al vaso, veniva adottato il principio di limitare al massimo gli interventi cesori nella fase di allevamento, per consentire alla pianta di raggiungere il più rapidamente possibile il massimo sviluppo.
Struttura rameale di una pianta allevata a palmetta Impianto di pesco allevato a palmetta
Foto R. Angelini
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coltivazione Questi principi sono stati, da allora, adottati per tutte le forme di allevamento che, dagli anni ’60 a oggi, sono state introdotte nella nostra peschicoltura e hanno fortemente influito sulla sua eccezionale espansione. Le forme a parete verticale (alla palmetta è seguito, alla fine degli anni ’70, il fusetto) hanno, oggi, perso una parte della loro validità a causa della mancanza di idonei portinnesti nanizzanti che consentano, come nel melo, di contenere l’altezza della pianta e di eliminare i carri raccolta il cui costo è molto elevato. Pur essendo ancora adatte in determinate condizioni socioeconomiche, oggi tendono a prevalere le forme in volume, contenute in altezza, che permettono di eseguire tutte le operazioni manuali da terra, con una sensibile riduzione dei costi di gestione del pescheto. Anche le forme a parete inclinata, seppure in misura minore, si sono affermate per i vantaggi di produttività e di gestione da terra. Di seguito vengono descritte le forme di allevamento più importanti secondo il seguente schema: – in volume: vaso e sue varianti; – a parete verticale: palmetta e fusetto; – a pareti inclinate: Tatura trellis Y e V. Da ormai molti anni l’unico sesto adottato è il rettangolo che risponde bene alle esigenze delle forme di allevamento in volume e a parete verticale, mentre per l’Y il sesto a triangolo consente una più razionale intercettazione della luce.
Impianto con astone di 1 anno, spuntato alla piantagione. Da questa pianta è possibile ricavare qualsiasi forma di allevamento, a eccezione della forma a V che prevede l’impianto dell’astone inclinato
Materiale di propagazione Indipendentemente dalla forma di allevamento, l’impianto può essere realizzato con diverso materiale di propagazione: astone, pianta a gemma dormiente, portinnesto innestato a dimora. Impianto con astone In generale, l’astone dà le maggiori garanzie di riuscita dell’impianto, soprattutto quando questo abbia dimensioni importanti. Assimilabili all’astone innestato si possono considerare le piante autoradicate, propagate in vitro e fatte crescere in vivaio per una stagione. Le piante micropropagate, ma anche le piante innestate, sono, a volte, vendute in fitocella, quando la loro altezza è di circa 40-50 cm, e trapiantate a dimora a fine primavera. Il comportamento vegetativo di tali piante è più assimilabile a una pianta trapiantata a gemma dormiente che ad un astone. Analogo alla pianta autoradicata in vitro è l’astone ottenuto mediante microinnesto, utilizzando un portinnesto da vitro, del diametro di 2-3 mm, posto in fitocella. Anche in questo caso la piantagione a dimora si può fare, tra la fine di maggio e l’inizio di giugno, con astoni di 50-60 cm di altez-
Impianto con astoni di 1 anno, spuntati alla piantagione, già predisposti per l’allevamento a palmetta
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allevamento e potatura za, innestati 5-6 mesi prima o può essere rinviata a fine anno con astoni di un anno d’innesto. L’astone ideale è di medie dimensioni, ben lignificato e rivestito di gemme a legno fin dalla base, con un apparato radicale costituito di numerose radici non eccessivamente grandi. A seconda della forma di allevamento, ma anche della qualità delle piante, l’astone viene spuntato poco sopra il punto d’innesto, oppure a circa 60 centimetri da terra (altezza della prima impalcatura) o lasciato intero. Nel primo caso, si alleverà un solo germoglio che darà origine al tronco e alle branche primarie; nel secondo caso, tra i germogli che cresceranno sotto il taglio di spuntatura, si sceglieranno quelli che costituiranno la prima impalcatura e l’eventuale prolungamento del fusto; nel terzo caso, infine, le branche primarie saranno formate o dai rami anticipati presenti sull’astone e non eliminati o, più facilmente, da germogli scelti tra quelli originati dalle gemme presenti sull’astone o alla base dei rami anticipati spuntati.
Impianto con astone di un anno Astone preimpostato per l’allevamento a palmetta in vivaio dove sono state allevate le 2 branche basali
Impianto con astone di un anno
• Astone dal vivaio (a) • Spuntatura all’altezza di 50 cm per la a
formazione della prima impalcatura (b)
b
• Nel caso di astone debole o di cattiva
qualità (danneggiato dalla grandine, gemme poco lignificate ecc.) l’astone viene spuntato a circa 20 cm per ottenere una più vigorosa vegetazione da una gemma basale (c)
• Germoglio scelto per la formazione della struttura scheletrica (d)
• Potatura verde per la scelta dei c
d
germogli che formeranno l’impalcatura del vaso. Nel caso si volesse formare un fusetto o una palmetta, il germoglio centrale dovrà essere lasciato intero (e)
e
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coltivazione Impianto a gemma dormiente Nelle regioni fredde deve essere effettuato dopo il pieno dell’inverno e quando la gemma dell’innesto è leggermente mossa; si avrà così la certezza di non mettere a dimora piante la cui gemma non è attecchita o, comunque, è morta. In linea generale, il germoglio da gemma dormiente è meno vigoroso di quello dell’astone ribattuto. L’ottenimento delle branche di 1° ordine nella prima stagione vegetativa risulta a volte difficoltoso a causa dello scarso vigore del germoglio. In tal caso si interverrà nel periodo di riposo vegetativo, al termine del primo anno, spuntando la pianta all’altezza della prima impalcatura.
Impianto a gemma dormiente
• Il portinnesto viene spuntato
una decina di centimetri sopra la gemma dormiente (a)
• Il germoglio generatosi
successivamente viene legato al portinnesto per evitare la rottura in caso di vento forte (b)
• Nel caso si voglia allevare la pianta a
vaso, verranno scelti 3 germogli laterali ben posizionati e il germoglio centrale verrà spuntato. Il germoglio non sarà spuntato nel caso di allevamento a fusetto o a palmetta (c)
Impianto a gemma dormiente
Foto R. Angelini
a
b
c
Impianto con selvatico innestato a dimora Il caso più frequente è l’impianto del selvatico a radice nuda, spuntato a 10 cm da terra, allevando un solo germoglio; se il portinnesto è vegetante, in fitocella, sarà lasciato intero. In estate, si innesterà a gemma dormiente con 2-4 gemme per pianta a 15-20 cm da terra, se si opererà su piante esili; se, invece, il selvatico risulterà particolarmente robusto, si potranno innestare 4-5 gemme a 40-60 cm da terra. Tra queste, se l’attecchimento in primavera sarà buono, si sceglieranno le branche della prima impalcatura. Impianto con astone intero A meno che i rami anticipati non siano ben lignificati e ben posizionati, è opportuno spuntarli a 2-3 gemme, asportando anche 10-20 cm della cima per favorire una più vigorosa ripresa vegetativa dell’apice. Le condizioni perché questo tipo di impianto dia risultati positivi sono: – disponibilità di astoni ben lignificati e rivestiti di gemme; – terreni freschi o irrigui. 120
allevamento e potatura Forme in volume Vaso classico Il vaso classico, che da sempre è stato la sola forma di allevamento per il pesco, è oggi limitato agli impianti di tipo familiare e, con alcune varianti, agli impianti di percoche (pesche per l’industria) da raccogliere meccanicamente. La distanza d’impianto è di 5-6 x 5-6 m con un sesto quadrato o a rettangolo. Anche per il vaso, i dettagli di potatura variano a seconda che si parta da astone innestato, da gemma dormiente o da selvatico da innestare a dimora. Vaso ottenuto da astone innestato Potatura del primo anno. L’astone si spunta a circa 60 cm dal suolo e si eliminano i rami anticipati presenti, avendo cura di lasciare, come già ricordato, un tratto basale di circa 1-2 cm, in quanto i rami anticipati del pesco sono sprovvisti di gemme ascellari. Può accadere che l’astone sia dotato di buoni rami anticipati; in questo caso si scelgono i tre migliori per la formazione delle tre branche primarie. Quando i nuovi germogli sono lunghi 15-20 cm, si scelgono i tre che costituiranno le branche principali; è bene che distino tra loro una decina di centimetri e siano ruotati di 120°. I germogli in soprannumero, in parte si eliminano (i più vicini a quelli scelti), in
Vaso classico in vegetazione alla 3ª foglia
Allevamento a vaso a 3 branche primarie e corte branche secondarie alla fine del 2° anno d’impianto
Prima della potatura
Dopo la potatura
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coltivazione parte si spuntano. Si predispone il cavalletto di canne inclinate di 45°. Si fissa la prima canna secondo la direzione del filare, le altre due spostate di 120° e di 240°. Quando i germogli sono lunghi 30-40 cm, si legano alle canne. Il cavalletto ha la duplice funzione di dare la giusta inclinazione alle branche e di evitare che queste si rompano a causa di vento o urti. È abbastanza frequente il caso di piante che hanno germogli soltanto alla base. Quando ciò accade si lascia un solo germoglio e lo si alleva verticale fino all’altezza di 80-90 cm, quindi si spunta a circa 60 cm. Le tre branche si sceglieranno dai rami anticipati che verranno emessi, numerosi, sotto il punto di taglio. In buone condizioni di vigoria, fin dalla prima vegetazione, è possibile scegliere le branche secondarie di 1° e 2° ordine. Le branche secondarie di primo ordine si scelgono tra i rami anticipati, inseriti lateralmente sulle branche primarie a 40-60 cm dall’inserzione sul tronco. Le tre branche secondarie devono essere sullo stesso lato rispetto alle branche primarie. Il secondo ordine di branche secondarie sarà scelto a 90-110 cm dalle prime, ma sul lato opposto rispetto alle branche principali. Frequenti e leggeri interventi di potatura verde dovranno controllare la vegetazione dei germogli concorrenti, in modo da favorire il più rapido sviluppo della struttura scheletrica. È importante che la potatura verde sia molto leggera, in modo da ridurre il meno possibile la superficie fogliare. Quando i germogli prescelti per la formazione dello scheletro hanno raggiunto un conveniente sviluppo, è bene eliminare completamente quelli lasciati inizialmente sul tronco e soltanto spuntati. La potatura verde risulterà facile e razionale se prima sarà ben chiaro lo schema definitivo delle piante: gli interventi estivi saranno fatti soltanto per guidare l’accrescimento della struttura
Foto R. Balestrazzi
Foto P. Bacchiocchi
Impianto di pesco in Romagna allevato a vaso classico
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allevamento e potatura scheletrica. In alcuni casi sarà necessario intervenire con divaricatori (la comune canna inserita tra i due rami da distanziare è il divaricatore più pratico) per evitare che le branche secondarie sviluppino più delle primarie oppure che una o due delle primarie sviluppino più delle altre. L’inclinazione definitiva delle branche secondarie è di circa 30° rispetto alle primarie. Potatura del secondo anno. A seconda delle condizioni agronomiche e ambientali, alla fine del primo anno, la pianta può essere costituita dalle sole tre branche primarie, dalle primarie più le secondarie di primo ordine o dalle primarie più i primi due ordini di secondarie. Indipendentemente, comunque, dallo sviluppo delle piante, la potatura invernale si limiterà all’isolamento dei prolungamenti dei vari assi che costituiscono lo scheletro (taglio dei rami anticipati presenti sui 20-30 cm distali) e alla piegatura o eliminazione dei rami troppo vigorosi e male inseriti. Se, comunque, la potatura verde sarà stata accurata, l’intervento in inverno sarà limitato a pochissimi tagli di diradamento. Ricordato che piegando una branca la si indebolisce mentre raddrizzandola questa si rinforza, l’inclinazione delle branche di vario ordine si farà piegando di più quelle vigorose e piegando di meno, o lasciando libere, quelle deboli. Anche in inverno, una canna inserita tra le due branche che si desidera distanziare è il mezzo più pratico per fare questa fondamentale operazione di potatura. La mancanza di una intelaiatura fissa rende questa prima fase della potatura del vaso più difficile e, comunque, richiede maggiore abilità rispetto alla realizzazione di una forma appoggiata a una struttura fissa di pali e fili.
Vaso durante la potatura invernale alla fine della 2ª vegetazione: si notino l’uso delle canne per dare la giusta inclinazione delle branche e la “sgolatura” eseguita sulle branche più vigorose per aumentare l’inclinazione e per diminuirne la vigoria
Foto G. Rigo
Vaso classico in vegetazione alla 3ª foglia Bellissimo esemplare di vaso tradizionale
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coltivazione La potatura verde, nel corso della seconda vegetazione, segue lo schema già descritto per il primo anno: individuazione dei germogli che costituiranno lo scheletro, eliminazione dei concorrenti dei prolungamenti delle branche di vario ordine, spuntatura, curvatura e taglio di rami e germogli troppo vigorosi. Poiché già nel secondo anno la pianta fruttifica, è opportuno eliminare tutti o buona parte dei frutti portati dai rami prescelti per la formazione dello scheletro, mentre si lasceranno fruttificare abbondantemente gli altri rami e soprattutto i più vigorosi (a meno che la scarsa vigoria della pianta lo sconsigli). Due ordini di branche secondarie sono sufficienti per una razionale struttura scheletrica; più controverso è se lasciare branche terziarie permanenti, ci sono vantaggi in un caso e nell’altro. Senza le branche terziarie permanenti, la potatura di allevamento risulta più facile, ma, con l’invecchiamento della pianta, la vegetazione si sposta più facilmente verso l’alto dove l’illuminazione è migliore; le branche terziarie consentono una maggiore produzione nella parte basale, facilitando la raccolta da terra, e mantengono una buona attività vegetativa vicino al suolo anche nella fase adulta della pianta. Le branche terziarie sono una per ogni branca secondaria di primo e secondo ordine e partono da circa 50 cm dall’inserzione della secondaria sulla primaria. I criteri di scelta e di formazione sono gli stessi descritti per le branche di altro ordine; l’inclinazione definitiva deve essere prossima all’orizzontale. Una buona soluzione può essere quella di allevare più branchette terziarie non più lunghe di 50-60 cm e distanziate tra loro di circa mezzo metro.
Foto R. Balestrazzi
Potatura del terzo anno. La pianta è ormai delineata in tutte le sue parti e la potatura invernale deve sia curare la formazione dello scheletro sia iniziare la potatura di produzione. Si devono in parte eliminare e in parte piegare i concorrenti dei prolungamenti delle branche, diradare i rami misti, soprattutto quelli inseriti in “schiena” che possono facilmente originare succhioni, piegare i rami più vigorosi, equilibrare le branche tra loro, modificando l’inclinazione con le canne o con i tiranti. Potatura del quarto anno. Alla fine del terzo anno le branche hanno raggiunto, in linea di massima, la lunghezza definitiva e si possono iniziare i tagli di ritorno. La lunghezza media delle branche è di 2,5-3 m per le primarie, di 2-2,5 m per le secondarie di primo ordine, di 1-1,5 m per le terziarie di primo ordine. Le tre branche non devono mai essere cimate sul prolungamento dell’anno per evitare l’emissione di germogli vigorosi sotto il punto di taglio; il raccorciamento si deve fare sui rami di 2 anni (taglio di ritorno).
Vaso classico in fioritura (in alto) e in vegetazione (in basso)
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allevamento e potatura Vaso ottenuto dal selvatico innestato a dimora. L’innesto a dimora del pesco è ancora piuttosto diffuso e le soluzioni adottate sono numerose.
Foto R. Angelini
Utilizzazione di una gemma. Il portinnesto è piantato a dimora con le stesse modalità dell’astone innestato. Se è vigoroso, si spunta a 15-20 cm di altezza e in primavera verrà scelto un unico germoglio per formare la pianta, in caso contrario viene lasciato intero. In agosto-settembre, si innestano due gemme all’altezza di 25-30 cm, sul lato a Sud e, comunque, su quello riparato rispetto agli agenti atmosferici (per es. venti dominanti). Alla fine dell’inverno, si spunta il portinnesto sopra le due gemme e i due germogli, derivati dalle gemme innestate, si allevano fino a quando hanno raggiunto la lunghezza di 20-30 cm, dopo di che si sceglie il migliore e si spunta il secondo. I germogli del soggetto vengono in parte eliminati (quelli in diretta concorrenza con quelli del gentile), in parte spuntati, fino a quando i germogli innestati non hanno raggiunto una lunghezza di 20 cm circa, dopo di che i germogli selvatici si eliminano completamente. È bene porre vicino alla pianta una canna cui legare il germoglio prescelto. La branche verranno scelte, con i criteri già descritti, tra i numerosi rami anticipati che si formano sul fusto. Le piante ottenute da una sola gemma raggiungono naturalmente il migliore equilibrio vegetativo tra asse centrale e branche laterali senza che, durante la prima vegetazione, sia necessario intervenire con piegature. A meno che il soggetto sia molto vigoroso, questo metodo di formazione della pianta è più razionale di quelli descritti qui di seguito. Del tutto simili sono le operazioni necessarie nel caso dell’impianto fatto con piante innestate a gemma dormiente.
Foto R. Balestrazzi
Utilizzazione di tre gemme. All’epoca dell’innesto, si innestano 4-5 gemme a 40-60 cm dal suolo. La spuntatura del soggetto si effettua, come sempre, prima della ripresa vegetativa. I germogli del soggetto si trattano come nel caso precedente, mentre tra i 4-5 germogli gentili si sceglieranno i tre meglio inseriti e sviluppati per la formazione delle 2 branche primarie. I germogli soprannumerari inizialmente si spuntano, nel timore che qualcuno dei tre prescelti possa rompersi; successivamente si eliminano. In questo caso il cavalletto di tre canne è molto utile sia per prevenire rotture al punto d’innesto, sia per dare la giusta inclinazione alle branche. Gli interventi successivi sono quelli già descritti per l’impianto con astone innestato. Vaso in fioritura (in alto) e particolare (in basso)
Utilizzazione di sei gemme. Quando il selvatico è molto vigoroso si può spuntare durante la stagione e allevarlo a vaso, come fosse 125
coltivazione un astone innestato. In agosto-settembre, si innesterà una coppia di gemme su ognuna delle tre branche, sulla loro parte superiore ma leggermente spostate di lato. Il vantaggio di questa soluzione rispetto alla precedente è una maggiore robustezza, almeno iniziale, dell’inserimento delle branche sul tronco.
Vantaggi del vaso veronese
• Possibilità di compiere da terra
le operazioni manuali di potatura, diradamento e raccolta
Vaso veronese Il vaso veronese è costituito da tre branche primarie inserite su un tronco alto da terra 40-50 cm, distanziate regolarmente fra loro e inclinate di 50°-55° rispetto alla verticale. La distanza di impianto normalmente adottata è di 6 x 3-4, con un sesto a rettangolo. Lungo le branche primarie sono allevate 6-8 branchette di dimensioni decrescenti dalla base verso l’apice. La massima altezza della pianta è di 2,50-2,70 m al fine di poter effettuare tutte le operazioni manuali da terra ed è raggiunta nella terza o quarta vegetazione, a seconda del tipo di impianto (astone, gemma dormiente, “selvatico”), della fertilità del suolo e delle cure colturali. Il controllo dell’altezza della pianta è fatto mediante tagli di ritorno eseguiti fra la fine di agosto e la metà di settembre; ciò consente di sfruttare per uno-due mesi, prima del riposo vegetativo, una migliore illuminazione delle parti più basse e interne della chioma, senza avere riscoppi vegetativi al punto del taglio. Questo intervento si può già considerare un anticipo della potatura invernale, mentre la potatura verde vera e propria si esegue in primavera-estate, all’epoca del diradamento e in prossimità della raccolta, allo scopo sia di guidare la formazione della pianta sia di favorire la colorazione dei frutti. Le potature verdi non devono
• Assenza di strutture permanenti di sostegno
• Elevata qualità dei frutti anche nelle parti basse dell’albero
• Basso costo di impianto
Vaso veronese con telo antigrandine
Foto V. Bellettato
126
allevamento e potatura Foto V. Bellettato
Svantaggi del vaso veronese
• Maggior numero di anni (3-4) rispetto a forme a più alta densità (2-3) per raggiungere la piena produzione
• Eventuale necessità di puntelli
per sorreggere qualche branca eccessivamente carica o debole
• Facilità di scosciatura (rottura della
branca alla base) per eccessiva carica produttiva o eventi meteorici
Vaso veronese
• Maggiori difficoltà di protezione con
essere eccessivamente severe per non provocare uno stress nella pianta e un successivo riscoppio vegetativo. I tagli sono limitati quasi esclusivamente, alle parti alte delle branche e all’interno del vaso, mentre, nelle parti basse, si darà la preferenza alla torsione dei germogli più vigorosi.
rete antigrandine
• Difficoltà di accedere all’interno
del frutteto con carri agricoli e trattori di dimensioni normali
Vaso veronese alle distanze di 5 x 2 m (a sinistra) e 6 x 4 m (a destra)
6m 5m
5m 4m 2m
4m
2m
127
coltivazione Oltre al tipo di vaso appena descritto esistono alcune varianti ugualmente interessanti e razionali.
Foto V. Bellettato
Variante n. 1. Nelle aree dove la frequenza delle gelate primaverili o, comunque, il rischio di danni da freddo è elevato, l’altezza del tronco è di 90-100 cm; in tal caso, l’inclinazione delle branche è vicina ai valori massimi precedentemente indicati. Variante n. 2. La distanza tra le tre branche non è di 120°, in quanto una branca è perpendicolare al filare e le altre due sono orientate verso l’interfilare opposto con un angolo di circa 40° rispetto al filare stesso. La pianta successiva ha le branche posizionate, rispetto al filare, al contrario della pianta precedente, al fine di occupare lo spazio nel modo più completo e razionale possibile. Variante n. 3. Il vaso è costituito da 4 branche, due verso un interfilare, due verso l’interfilare opposto. Questa forma è praticamente identica a quella che i francesi chiamano doppia Y e, in effetti, questa variante del vaso veronese, così come la variante n. 2, più che una forma in volume, tende a costituire due pareti inclinate del tutto simili all’Y.
Giovane impianto allevato a vaso veronese
Foto V. Bellettato
128
allevamento e potatura Vasetto ritardato Allo scopo di ridurre i costi di produzione, in provincia di Ravenna, alla fine degli anni ’70, è stata diffusa un’originale forma di allevamento in volume associata a una densità di impianto di 500-600 piante per ettaro (5,5-6,0 x 3-4 m) e, all’epoca, all’uso del portinnesto seminanizzante GF 1869: – l’impianto si esegue preferibilmente con astoni non spuntati e con buoni rami anticipati. I rami anticipati formatisi in vivaio sono caratterizzati da un ampio angolo di inserzione sull’asse centrale; ciò garantisce la formazione di una struttura scheletrica solida e razionale. Nel caso l’astone sia troppo vigoroso, o comunque di cattiva qualità e sprovvisto di buone gemme a legno, è preferibile spuntarlo a 10-15 cm sopra il punto d’innesto e ricostituire la pianta da un nuovo germoglio. Anche le piante a gemma dormiente si possono utilizzare per questa forma di allevamento; – la potatura dei primi 2 anni (a volte 3) è ridotta praticamente a zero, a eccezione dell’eliminazione dei rami inseriti sui primi 40 cm di tronco. La permanenza dell’asse centrale per i primi due anni favorisce la formazione di branche laterali correttamente aperte senza dover intervenire con canne divaricatrici o tiranti, facilitando notevolmente la potatura di formazione; – nel corso della seconda vegetazione si ottiene già una buona produzione, nei casi più favorevoli, dell’ordine di 50-70 q/ha, a seconda delle cultivar, della qualità degli astoni, della natura del terreno, delle cure colturali; – nel terzo anno, dopo la raccolta, (in caso di scarso sviluppo nel 4° anno) si procede alla spuntatura dell’asse centrale a un’altezza da terra di 70-80 cm in modo da lasciare sul tronco 3-5 branche permanenti. Se la lunghezza di queste branche è tale da superare l’altezza utile per eseguire tutte le operazioni da terra (2,50-2,70 m), si raccorceranno con un
Pianta alla fine del 2° anno d’impianto. Nessun intervento di potatura è stato effettuato, a eccezione dell’eliminazione dei germogli presenti sul tronco sotto la prima impalcatura. Dopo la raccolta del 3° anno d’impianto, l’asse centrale verrà tagliato a 60-80 cm da terra, lasciando le 3-5 branche presenti sul tronco rimasto Foto E. Marmiroli
Struttura e sesto d’impianto del vasetto ritardato
2,6 m
5,5 m Pianta di pesco allevata a vasetto ritardato dopo la potatura del terzo anno
129
coltivazione Foto E. Marmiroli
Vantaggi e svantaggi del vasetto ritardato vantaggi
• Non necessita di strutture temporanee o permanenti
• La potatura di allevamento
è particolarmente facile e conveniente
• Richiede un basso livello di meccanizzazione
• Consente di eseguire da terra tutte
Giovane impianto allevato a vasetto ritardato
le operazioni manuali
svantaggi
taglio di ritorno; nella terza vegetazione si può raggiungere la piena produzione; – la non potatura iniziale favorisce una precoce fruttificazione che, di per sé, esercita un certo controllo delle dimensioni della pianta; la drastica spuntatura dell’asse centrale e i tagli di ritorno annuali sulle branche, eseguiti a fine estate, completano il controllo in altezza della pianta stessa. Il vasetto ritardato è particolarmente valido in terreni poco fertili o dove sia applicabile la tecnica dello “stress idrico controllato”, con cultivar a vegetazione contenuta o con portinnesti poco vigorosi.
• L’altezza contenuta delle piante le rende più soggette a danni da freddo
• La produzione per ettaro è mediamente del 15-20% inferiore alle forme di allevamento a parete verticale e del 30-40% rispetto all’ipsilon
• Per la migliore riuscita dell’impianto
sono necessari astoni di medio vigore, rivestiti di rami anticipati ben lignificati
Foto E. Marmiroli
130
allevamento e potatura Vaso californiano Per le cultivar da industria non esistono, nel nostro Paese, le condizioni economiche per l’introduzione della raccolta meccanica (cultivar a maturazione contemporanea, superfici estese), per cui vengono adottate le stesse forme di allevamento idonee per le cultivar da consumo fresco. Nella stessa California, dove le percoche sono più diffuse e la raccolta meccanica è applicata da molti anni, non più della metà dell’intera produzione è raccolta a macchina. La forma di allevamento adatta alle attuali macchine per la raccolta (costituite da uno scuotitore del tronco e da un telaio intercettatore) ha alcune peculiari caratteristiche che la distinguono dal vaso classico: – l’altezza del tronco deve essere di 80-90 cm per consentire la facile presa delle ganasce dello scuotitore; – la struttura dello scheletro deve essere a cono rovesciato per evitare che i frutti delle parti alte della chioma si ammacchino durante la caduta, urtando le branche sottostanti; – le branchette che portano i rami a frutto devono essere sufficientemente corte per sentire le vibrazioni trasmesse al tronco dallo scuotitore.
Vaso californiano formato, in vegetazione (in alto) e in riposo (in basso) Vaso californiano alla 3ª foglia
131
coltivazione Il tipo di vaso studiato in California per la raccolta meccanica è costituito da tre branche primarie, impalcate a 80-90 cm dal suolo e che si biforcano a 1 m dall’inserzione sul tronco. L’inclinazione delle branche primarie e secondarie è di 30-35° rispetto alla verticale. Sulla struttura principale si allevano tante corte branchette sulle quali sono inseriti i rami misti e i mazzetti di maggio. Per la realizzazione di una tale forma, l’astone, posto a dimora, si spunta all’altezza di circa 1 m. Le tre branche primarie si scelgono con il criterio già illustrato. A seconda dello sviluppo, le tre branche primarie si possono spuntare in verde o in inverno per favorire la formazione della biforcazione. La spuntatura si farà una ventina di centimetri sopra il punto dove si vuole la biforcazione. Prove sperimentali di confronto tra il vaso “californiano” e la palmetta più o meno modificata, condotte nel nostro Paese, hanno dimostrato una minore produttività iniziale della prima forma di allevamento e una certa difficoltà a ottenere una struttura scheletrica aderente allo schema teorico. Sembra pertanto più valido, a nostro avviso, nel caso ci si orienti verso la raccolta meccanizzata, il vaso classico a tre branche primarie impalcate 20-30 cm più in alto, meno inclinate rispetto alla verticale (35°-40° invece di 45°-50°) e con branche secondarie più corte di quelle previste per la raccolta manuale. Riteniamo che un vaso così modificato sia più facile da realizzare di quello “californiano” e abbia più o meno gli stessi vantaggi alla raccolta. Forme a parete verticale Si è già ricordato come queste forme stiano perdendo importanza rispetto al passato, pur conservando una loro validità nelle condizioni socio-economiche adatte. In mancanza di validi portinnesti nanizzanti, la parete fruttifera, per consentire produzioni ottimali, deve essere alta circa 4 metri; ciò rende obbligatorio l’uso di carri a piattaforme laterali, oggi molto costosi. Le due forme d’allevamento del pesco che hanno dato una fisionomia alla peschicoltura italiana, a partire dagli anni ’60 fino agli anni ’90, sono state prima la palmetta e successivamente il fusetto. Certamente la palmetta, ma anche il fusetto, si giovano di una struttura permanente di pali e fili cui appoggiare lo scheletro delle piante. La struttura normalmente è costituita di pali (di legno o cemento), 4 m fuori terra, distanti 8-10 m fra loro, e 4 fili, il primo a 50-60 cm dal suolo, il secondo a 1,10 cm dal primo, il terzo a 1 m dal secondo e il quarto alla sommità dei pali.
Vaso californiano alla fine della seconda vegetazione, prima della potatura (in alto) e dopo (in basso). Si noti l’utilizzazione di canne divaricatrici tra le due branche biforcate
132
allevamento e potatura Palmetta Le distanze di impianto della palmetta, oggi, sono più contenute che in passato (4,5 x 3-3,5 m invece di 4,5-5 x 4,5-5 m); ciò comporta essenzialmente due vantaggi: una più precoce fruttificazione e una più rapida e facile creazione della struttura scheletrica costituita da un asse centrale e tre impalcature, la prima a 50-60 cm dal suolo, la seconda a 110-120 cm dalla prima, la terza a
Piante a palmetta nella primavera del 2° anno
90-100 cm dalla seconda. L’esperienza ha suggerito di non essere eccessivamente rigidi nella realizzazione della struttura così schematizzata, essendo preferibile sfruttare i rami disponibili, anche se non perfettamente posizionati alle distanze ideali, al fine di rag-
Piante a palmetta nella primavera del 2° anno: sono già individuate le due branche basali, mentre sono ancora da scegliere i due germogli che costituiranno la seconda impalcatura
Foto R. Angelini
Impianto allevato a palmetta in fioritura
133
coltivazione
Piante a palmetta nell’estate della 2ª foglia
giungere rapidamente le dimensioni prefissate della parete fruttifera a scapito della regolarità della singola pianta (palmetta “libera”). L’allestimento dell’impalcatura formata di pali e fili è di grande utilità per una migliore, più facile e, in ultima analisi, più economica potatura. Il primo filo va posto a 50-60 cm dal suolo, il secondo a 100-120 cm dal primo, il terzo a 90-100 cm dal secondo. Nel caso di impianto dell’astone, questo, generalmente, viene spuntato all’altezza della prima impalcatura (50-60 cm), ma può anche essere lasciato intero. Entrambe le soluzioni sono valide e si preferisce l’una o l’altra a seconda delle condizioni in cui si opera e della qualità dell’astone. La spuntatura è la soluzione tecnicamente più semplice in quanto provoca lo sviluppo di 4-5 germogli vigorosi tra i quali è facile sceglierne tre per la formazione delle prime due branche e del prolungamento dell’astone. La spuntatura è preferibile anche quando si ritiene che l’attivi-
Piante a palmetta, nell’inverno alla fine del 2° anno d’impianto, dopo la potatura
Vantaggi e svantaggi della palmetta vantaggi
• Adattamento della forma di allevamento alle macchine per una più razionale e integrata meccanizzazione
• Aumento della densità di impianto
(rispetto al vaso tradizionale) che consente il più rapido raggiungimento della piena produzione
• Riduzione dei tagli invernali
e valorizzazione della potatura verde per la più rapida formazione della struttura scheletrica
• Facilità di protezione con reti antigrandine
svantaggi
• Costo della struttura di sostegno • Costo dei carri a piattaforme laterali per le operazioni manuali (potatura, diradamento, raccolta)
Palmetta alla 3ª foglia
134
allevamento e potatura Foto E. Marmiroli
Foto R. Angelini
Piante in vegetazione allevate a palmetta
tà vegetativa del primo anno sia modesta (ambienti siccitosi, terreni poco fertili, piantagione molto tardiva, astoni in cattive condizioni o sprovvisti di buone gemme nel tratto basale); la non spuntatura, in queste condizioni, può essere causa di un invecchiamento precoce della pianta o della formazione di una struttura scheletrica poco equilibrata. Alla fine del terzo anno, se il pescheto è ben condotto, le piante hanno raggiunto il massimo sviluppo ed entrano in piena produzione. La potatura verde si limita all’eliminazione dei succhioni e alla piegatura, torsione o spuntatura dei germogli più vigorosi. Alla fine del quarto anno è necessario eseguire tagli di ritorno sul fusto e sulle branche per contenere le dimensioni della pianta entro limiti fissati: in altezza, dalla possibilità di eseguire facil-
Le forme a parete si giovano dell’impiego dei carri a piattaforme laterali per le operazioni di potatura e di diradamento dei frutti, oltre che per la raccolta Palmetta formante due pareti alte 4-4,5 m
135
coltivazione mente tutte le operazioni colturali; in larghezza, dalla competizione con le piante contigue. I tagli di ritorno si eseguono sul legno di due anni e immediatamente sopra un buon ramo misto che possa svolgere la funzione di cima. In alcune aree peschicole, la palmetta qui descritta non si è mai affermata, a causa, soprattutto, della prevalenza delle aziende di piccole dimensioni che non sempre trovano conveniente l’acquisto del carro a piattaforme. La palmetta interpretata dai tecnici e frutticoltori veronesi, per esempio, è sostanzialmente diversa da quella emiliano-romagnola ed è nota anche sotto il nome di Pal-spindel essendo costituita dalla prima impalcatura della palmetta con al centro un fusetto o spindel. Le distanze di impianto, di norma, sono 5 x 3, con la formazione di due grosse branche inserite a 50 cm da terra e un asse centrale rivestito di branchette a frutto che raggiunge l’altezza di 2,7 m o al massimo 3 m. Le due branche sono orientate nel senso del filare, inclinate a 45°-50° e al secondo-terzo anno, legate le une alle altre, formano una parete produttiva.
Vantaggi e svantaggi della palmetta Pal-spindel Rispetto alla palmetta classica, presenta alcuni vantaggi e svantaggi: vantaggi
• Assenza di strutture portanti • Facilità nelle operazioni di potatura verde e invernale (una volta formata la prima impalcatura, questa si manterrà sempre ben rivestita per l’assenza di branche sovrastanti)
• Possibilità di effettuare raccolta, potatura e diradamento, per il 70-80%, da terra
• Facilità di accesso con mezzi meccanici all’interno dei filari
• Facilità di protezione con reti
Combinazione di palmetta (impalcatura basale) e fusetto (asse centrale) o Pal-spindel alla distanza di 5 x 3 m
antigrandine
svantaggi
• Minore produzione per ettaro, dell’ordine del 20%
• Maggiori rischi di danni da freddo Foto R. Angelini
3m
3m
5m
Allevamento a palmetta
136
allevamento e potatura Fusetto Il fusetto combina i vantaggi della parete fruttifera, come la palmetta, e della elevata densità. Le distanze di impianto, infatti, sono di 4,5-5 m tra le file e di 1,5-2 m tra le piante. La struttura scheletrica del fusetto è costituita da un asse centrale permanente e da branchette distribuite nell’arco di 360°, distanziate tra loro, in altezza, di 30-50 cm, più lunghe alla base dell’asse, man mano più corte verso la sommità dell’albero. Nel caso di impianto eseguito con astoni, si deve spuntare circa a 30 cm da terra per costituire la pianta da un nuovo germoglio. L’utilizzazione di un nuovo germoglio, sia nel caso di gemma dormiente sia di astone spuntato basso, consente di formare un vigoroso asse centrale ben rivestito, a partire dall’altezza di circa 40 cm dal suolo, di rami anticipati ad angolo di inserzione aperto, che costituiranno le branchette fruttifere del fusetto. Nel primo anno di vegetazione, durante la potatura verde, si elimineranno tutti i germogli sul tronco, sotto i 40-50 cm di altezza e si
Foto R. Angelini
Allevamento a fusetto alla distanza di 4,5 x 1,5 m
Foto R. Angelini
1,5 m 1,5 m
4,5 m
4,5 m
Piante allevate a fusetto
137
coltivazione Nettarina Stark RedGold innestata su franco PSB2 piantata nel 1983 e allevata a fusetto
Vantaggi e svantaggi del fusetto N. di piante/ha
Nei confronti della palmetta il fusetto presenta alcuni vantaggi e alcuni svantaggi: vantaggi
• Precoce entrata in produzione • Facilità di passaggio di trattori e carrelli
Produzione per ettaro nei primi tre anni (t/ha)
Distanze tra le file
sulla fila
1984
1985
1986
1110
4,5
2
1,7
20,8
35,3
1480
4,5
1,5
2,2
23,5
34,8
2220
4,5
1
3,7
20,7
34,2
Fonte: Baroni, Bargioni, 1988
di carico
• Potatura, diradamento e raccolta
Suncrest e Stark RedGold innestate su franco, piantate nel 1976 e allevate a fusetto. Produzione cumulata dal 1978 al 1983
effettuate per il 70-80% da terra, nel caso del frutteto veronese
• Facilità di protezione con reti antigrandine ecc.
svantaggi
• Maggiori rischi di danno da freddo
essendo la maggior parte della produzione localizzata da 0,5 a 1,5 m da terra
Distanze tra le file
sulla fila
Suncrest t/ha
2500
4
1
186,1
179,1
1665
4
1,5
171,2
173,7
1250
4
2
162,4
147,9
N. di piante/ha
Stark RedGold t/ha
Fonte: Bargioni, Loreti, Pisani, 1984
• Maggiore necessità di potatura verde
diraderanno i rimanenti. Se la potatura estiva è stata ben eseguita, tutta la vegetazione rimasta viene lasciata per la produzione del 2° anno. Nel corso della potatura verde della 2a foglia si proseguirà nel leggero diradamento dei rami, nella eliminazione di quelli troppo assurgenti e concorrenti con la freccia (il prolungamento dell’astone) e nell’apertura delle branche mediante tagli delle stesse immediatamente sopra un ramo laterale con apertura adeguata
per assicurare il rinnovo vegetativo e la qualità dei frutti a causa della maggiore densità di impianto
Pescheto a fusetto in riposo vegetativo
138
allevamento e potatura
Pescheto a fusetto sotto serra per la raccolta anticipata dei frutti
(sgolatura) o con opportune inclinazioni. In buone condizioni vegetative, alla fine del 3° anno o al massimo del 4°, le piante avranno ormai raggiunto il massimo sviluppo e si inizieranno i tagli di ritorno, nonché la normale potatura di produzione. Un’evoluzione del fusetto, applicata soprattutto in Francia, è l’“asse colonnare”, la cui distanza di impianto è di 4,5 x 1 m e la struttura scheletrica è praticamente costituita dal solo tronco (asse colonnare) su cui sono inserite cortissime branchette che portano i rami a frutto. Così come la palmetta, anche il fusetto ha avuto, nel veronese, un’evoluzione che ha portato a una forma sostanzialmente diversa da quella originaria e caratterizzata da una impalcatura di 3 branche a circa 50 cm da terra e da un asse centrale rivestito di branchette a frutto e contenuto a un’altezza di 2,5-3 m al massimo. La distanza di impianto generalmente adottata, in questo caso, è di 5 x 2 m. La competizione radicale, inoltre, gioca un ruolo importante sull’accrescimento della struttura scheletrica degli alberi; dopo il 5° anno i fusti mantengono invariato il loro diametro fin quasi al termine del loro ciclo produttivo.
Tra le forme a parete verticale, il fusetto è l’alternativa alla palmetta. A differenza della palmetta, le branche, più corte, sono orientate su 360°
Efficienza produttiva di 5 sistemi d’impianto del pesco Forma di allevamento
Densità alberi/ha (n)
Distanza tra le file (m)
Distanza Altezza netta sulla fila chioma (m) (m) (1)
Superficie pareti filari (m2/ha)
Volume chioma (m3/ha)
Forma libera
650
5,0
3,0
3,5
14.000
16.500
9-12
60
Vasetto ritardato
650
5,0
3,5
2,0
8000
13.000
11-15
70
Palmetta anticipata
850
4,5
2,5
3,5
15.500
12.200
12-16
45
Fusetto
1250
4,0
2,0
2,5
12.500
10.000
15-20
50
Asse colonnare
2500
4,0
1,2
3,5
17.500
10.500
14-19
30
Densità Superficie di fruttificazione suolo coperta (n/m3) (2) % (3)
Fonte: Sansavini, 1984 1) Al netto del settore di tronco sotto chioma (50 cm); 2) Calcolato sulla base di 30 t/ha (150.000-200.000 frutti/ha); 3) Rapporto tra superficie della proiezione a terra della chioma e area di suolo a disposizione
139
coltivazione Forme a pareti inclinate Le pareti inclinate hanno necessità di una struttura permanente di sostegno, anche se possono essere realizzate senza, richiedendo, in tal caso, una notevole maestria da parte dei potatori. I pali, inclinati di 50°-70° rispetto al terreno, vanno posizionati a coppie, ogni 8-10 m lungo il filare. La loro lunghezza fuori terra è di 4,2-4,3 m per un’altezza da terra, alla sommità, di 5,5 m. Nel sistema a Tatura trellis ogni filare è indipendente da quelli contigui, mentre nell’Y o nel V i pali dei filari vicini sono legati insieme. Per questa ragione i pali del Tatura trellis devono essere più robusti e anche il numero di fili sugli stessi è più elevato (uno ogni 50-60 cm partendo da 50 cm da terra). Nell’Y i fili per ogni lato sono 2-3 (il primo a 50 cm da terra), più un filo alla sommità, all’incrocio dei pali.
Forme a pareti inclinate
• La forma a pareti inclinate più nota è il Tatura trellis, più conosciuto in Italia come Y o Y trasversale
• La forma a V, realizzata mettendo
a dimora due piante inclinate in senso opposto, ha avuto, finora, poca diffusione nel pesco non avendo, per questa specie, lo stesso vantaggio di maggiore precocità di fruttificazione che si riscontra in specie di più lenta messa a frutto, come il ciliegio o il pero
Tatura trellis o Ypsilon Il sistema di allevamento messo a punto, in particolare per il pesco da industria, da un gruppo di ricercatori della Stazione sperimentale di Tatura in Australia una trentina di anni fa ha suscitato interesse in molti Paesi frutticoli per la sua originalità e per le possibilità potenziali di meccanizzazione integrale quali il diradamento dei frutticini e raccolta per scuotimento e la potatura prevalentemente in verde mediante spuntatura dei rami, soprattutto nella parte superiore della parete inclinata, con barre falcianti scavallatrici. In effetti la meccanizzazione integrale non è applicabile alle cultivar per il consumo fresco, a causa dello scadimento qualitativo della produzione. Lo schema di piantagione del Tatura trellis prevede file orientate da Nord a Sud, distanziate di 5,5-6 m e con alberi distanziati 1 m sulla fila. Ciascun albero ha solo due branche
In primo piano la complessità della struttura di sostegno, costituita da robusti pali e numerosi fili, nell’allevamento a Tatura trellis
Predisposizione dei pali di sostegno delle due ali inclinate nell’allevamento a Tatura trellis
140
allevamento e potatura
Vantaggi e svantaggi dell’Y vantaggi
• L’elevata densità consente una precoce ed elevata produttività
• L’ampia superficie fruttificante (circa
14.000 mq per ettaro) e l’alta efficienza fotosintetica consentono produzioni unitarie del 15-20% più elevate rispetto alle forme a parete verticale
• Nonostante l’elevata produttività, l’ottima esposizione alla luce (purché la potatura verde sia ripetuta almeno 2 volte e, se necessario, anche 3) consente di ottenere frutti di elevata qualità
Veduta di insieme di un pescheto allevato a Tatura trellis; la struttura di sostegno è utilizzata anche per sorreggere la rete antigrandine
a V orientate verso l’interfilare e che si dipartono da un tronco alto circa 50 cm. L’inclinazione delle branche rispetto al terreno è di 60-70°, la loro altezza finale è di circa 3,5 m, con un corridoio tra una fila e l’altra di 1-2 m alla sommità. Il sistema di allevamento prevede un’intelaiatura fissa di pali e di fili e un’accurata potatura di allevamento fino a quando non si è completata la struttura prevista.
• Possibilità di eseguire le operazioni
di potatura, diradamento e raccolta, per il 70%, da terra
• La potatura di produzione risulta
particolarmente facile, sia estiva sia invernale, per cui può essere effettuata anche da personale poco esperto
Y senza struttura di sostegno, alla distanza di 6 x 2 m
svantaggi
• Elevato costo della struttura di sostegno, quando adottata, dell’ordine di 5-6000 euro per ettaro. Nel caso di un Y realizzato senza struttura:
6m
– Difficoltà nella fase di allevamento di ottenere le due branche in buon equilibrio tra di loro
6m
– Rischi di rottura delle branche sotto il peso della produzione
2m
– Difficoltà di copertura con reti antigrandine
2m
– Ripetute potature verdi per la tendenza delle branche, così inclinate, a emettere succhioni
141
coltivazione Produzione per ettaro di Golden Queen, allevata a Tatura trellis a diverse distanze di impianto (media di 14 anni di produzione)
Tatura trellis
• Il dr. David Chalmers della Stazione
Sperimentale di Tatura (stato di Victoria, Australia) è il ricercatore che ha promosso la diffusione di questo sistema di allevamento, dimostrandone l’efficienza produttiva
• La totale meccanizzazione per cui
Distanze tra le file
sulla fila
Produzione media per anno (t/ha) in 14 anni
2222
6,0
0,75
64,5
1668
6,0
1,00
66,1
1112
6,0
1,50
59,8
N. di piante/ha
Fonte: Chalmers, Van der Ende, 1889
il sistema era nato, di fatto, non è mai stata applicata, ma in compenso il modello a doppia parete inclinata ha trovato attuazione su più specie e in diversi Paesi
In Italia la forma a Y ha trovato la sua iniziale valorizzazione in impianti sotto serra, per l’anticipo di maturazione delle cultivar precoci, dove consente il vantaggio di poter posizionare i pali di sostegno della struttura della serra sul filare lasciando l’interfilare libero per il passaggio delle macchine, ma oggi è adottata anche in impianti di pieno campo per la produttività elevata e l’efficienza delle operazioni manuali. Confronto tra la produzione unitaria delle forme d’allevamento a Y con il fusetto, a parità di piante/ettaro per due diverse varietà Cultivar
L’Y è una modifica semplificata del Tatura trellis. La struttura di sostegno dell’Y è molto meno costosa di quella del Tatura trellis in quanto i pali delle file contigue si legano alla sommità; ciò conferisce alla struttura una maggiore solidità utilizzando pali di minori dimensioni e un minor numero di fili
Portinnesto
Piante/ha
Produzione (media di 4 anni) (q) fusetto
Y
Spring Lady
Franco
1481
231
278
Maria Emilia
GF 677
1111
233
326 Foto R. Angelini
142
allevamento e potatura Foto E. Marmiroli
Foto V. Bellettato
Impianto maturo allevato a Y
È stato dimostrato che l’ipsilon nelle cultivar tardive (più produttive) è più efficiente nell’impiego della manodopera rispetto al vasetto ritardato, mentre tale differenza non esiste nelle cultivar precoci (meno produttive). L’Y adottato in Italia si differenzia dal Tatura trellis per una distanza di impianto più stretta tra le file (4,5-5 m) e una maggiore distanza tra le piante (1,5-2 m). La minore distanza tra le file consente di legare tra loro, alla sommità, i pali di sostegno di due file contigue; ciò conferisce alla struttura una maggiore solidità e consente di limitare il numero di fili orizzontali a 2 per lato più un quinto alla sommità. La realizzazione di un’equilibrata e razionale struttura scheletrica è favorita dall’uso, nei primi 4-5 anni, di una canna per ciascuna branca, fissata ai fili. Il sesto più razionale è il triangolo
Y senza struttura di sostegno: l’efficienza produttiva è minore rispetto alla soluzione con strutture di sostegno, ma consente un notevole risparmio dei costi d’impianto
Foto V. Bellettato
143
coltivazione Ipsilon sotto serra, cv Armking su Franco, impianto 1981, distanza di impianto 4,5 x 1,5
Foto V. Bellettato
Anno
Potatura verde e secca (ore/ha)
Produzione (t/ha)
1981
170
-
1982
280
5
1983
315
18
1984
345
27
1985
330
33
per ridurre l’ombreggiamento reciproco delle branche contrapposte dei filari contigui che, invece, si ha con il sesto a rettangolo. Nel veronese l’Y è realizzato senza pali e senza fili con un sesto in rettangolo e distanze di 6 x 2 m. L’inclinazione delle branche è di circa 55° rispetto alla verticale ed è ottenuta mediante canne o tiranti, analogamente a quanto si fa in Francia con le forme “Dome Leydier” e “Doppio Y”. L’uso dei tiranti tende a formare branche leggermente convesse e tale curvatura stimola, più di quanto già non avvenga per la naturale basitonia del pesco, la formazione di vigorosi germogli sulla parte superiore delle branche stesse. Un’attenta e ripetuta potatura verde è necessaria per controllare tale vegetazione e per mantenere un buon equilibrio vegetoproduttivo e un rivestimento di buoni rami a frutto in tutte le parti della chioma. Foto V. Bellettato
144
allevamento e potatura Potatura del I anno. Nel primo anno saranno allevati due germogli in senso trasversale al filare, guidati nella giusta direzione con delle canne. Con oculate potature verdi e piegature, alla fine del primo anno, si saranno ottenute due branche di uguale diametro, lunghezza e inclinazione per equilibrare la vigoria rispetto alla branca contrapposta. Con la potatura invernale, le parti apicali delle branche, per una lunghezza di 30-40 cm, saranno liberate dei rami anticipati ed eventualmente si correggerà l’inclinazione.
Foto R. Angelini
Potatura del II anno. A primavera, si sceglierà un unico prolungamento per ogni branca, legandolo successivamente alla canna, torcendo o tagliando eventuali succhioni. Alla fine del secondo anno, si taglieranno i rami anticipati presenti sui 40-50 cm della parte apicale delle branche e si asporteranno i rami verticali in posizione ventrale. Potatura del III anno. Quando la nuova vegetazione avrà raggiunto circa 30 cm, all’apice delle branche si lascerà un solo prolungamento. Le branche eccessivamente robuste potranno essere messe in equilibrio accorciandole di 20-40 cm, lasciando sempre un solo germoglio come prolungamento. Con le potature verdi estive si alleggeriranno le parti apicali favorendo il rivestimento basale delle branche. Con la potatura invernale si lasceranno le branchette a frutto di dimensioni decrescenti dalla base verso l’apice, distanziate di 40-50 cm. Alla fine del terzo o quarto anno le branche avranno raggiunto la loro lunghezza definitiva di circa 3-3,5 m e la pianta entrerà in piena produzione. Produzione per ettaro fino al quarto anno di diverse forme d’allevamento Produzione per ettaro (t)
Cultivar
Forma di allevamento
N. di piante per ettaro
2° anno
3° anno
4° anno
2°-4° anno
Flavorcrest
Vasetto ritardato
727
4,6
3,5
25,7
33,8
Forma libera
727
4,9
7,0
36,7
48,6
Palmetta anticipata
727
3,9
5,3
28,4
37,5
Vasetto ritardato
727
7,9
19,0
26,0
52,9
Fusetto
1454
8,4
46,0
41,7
96,1
Fusetto
727
6,8
30,3
27,3
64,4
Ipsilon
1454
4,8
37,4
36,6
77,3
Ipsilon
727
4,3
23,0
22,8
50,1
Rubired
Fonte: Corelli et al., 1986 La produzione del 5° anno è andata perduta a causa della grave gelata del gennaio 1985
145
coltivazione Forma a V La forma a V, realizzata con due astoni per buca piantati inclinati in senso opposto verso l’interfilare o distanziati uniformemente sulla fila ma alternativamente inclinati verso l’interfilare, non trova una particolare giustificazione nel pesco data la rapidità di fruttificazione della specie.
Foto E. Marmiroli
Foto E. Marmiroli
L’inclinazione dell’astone all’impianto, come, per esempio, avviene con il Drapeau Marchand utilizzato per il ciliegio, favorisce il controllo della vigoria vegetativa e la precoce induzione fiorale. Le strutture di sostegno e la potatura di allevamento sono molto simili a quelle descritte per l’Y con il vantaggio di una maggiore facilità nell’ottenere uno sviluppo equilibrato delle due pareti fruttifere. Le distanze di impianto normalmente adottate sono di 5-5,5 x 0,5-1 m.
Foto E. Marmiroli
Foto E. Marmiroli
Particolari della forma d’allevamento a V Giovane impianto allevato a V
146
allevamento e potatura Altre forme di allevamento Pescheto prato L’idea del frutteto prato è nata all’inizio degli anni ’70 in Inghilterra dove è stata applicata, solo a livello sperimentale, sul melo. L’idea era basata sui seguenti principi: – elevatissima densità di impianto (60-70.000 piante per ettaro); – rinnovo dell’intera pianta dopo la raccolta dei frutti in modo da contenere le dimensioni dell’albero entro 1,5-2 m; – fruttificazione ad anni alterni: un anno per lo sviluppo dell’albero e la differenziazione a fiore, un anno per la fruttificazione; – possibilità di meccanizzazione integrale della raccolta e della potatura, da eseguire contemporaneamente. Erez, nel 1976, capì che il concetto di frutteto prato si poteva più facilmente applicare alle varietà precoci di pesco in ambienti meridionali, dove era possibile ottenere produzioni annuali, avendo il pesco la possibilità di rinnovare la pianta e di differenziare le gemme a fiore nel periodo successivo alla raccolta eseguita entro il mese di maggio, al più tardi all’inizio di giugno. L’Italia è il Paese dove la tecnica è stata più ampiamente sperimentata e dove ha trovato pratica applicazione negli impianti sotto serra. L’esperienza ha consentito di mettere a punto la tecnica di taglio, nonché di individuare la più razionale densità di impianto e la corretta scelta delle cultivar. Le esperienze più recenti hanno, però, dimostrato che è preferibile mantenere una struttura permanente costituita da tre banche alte circa 1,5-1,8 m sulle quali si rinnovano i rami a frutto invece del taglio dell’intera pianta alla base.
Pescheto prato
• Le cultivar più idonee alla costituzione
del pescheto prato sono quelle precoci a basso fabbisogno in freddo che, coltivate in serra fredda, maturano i frutti tra aprile e maggio, consentendo un completo rinnovo della vegetazione produttiva dopo la potatura molto drastica eseguita dopo la raccolta. Due successivi interventi in verde, di diradamento e di contenimento della vegetazione, sono indispensabili per una buona maturazione di rami a frutto
• La maggior parte degli impianti
di pescheto prato è stata realizzata con piante autoradicate, ma sono state utilizzate con successo anche piante innestate
Pescheto prato in serra a 5000 piante per ettaro (2 x 1 m) secondo la tecnica del rinnovo annuale dell’intera chioma, ottenuta tagliando la pianta alla base dopo la raccolta dei frutti tra le fine di aprile e l’inizio di maggio (Azienda Musso, Siracusa)
147
coltivazione Quest’ultima soluzione, che è di più semplice esecuzione e non richiede maestranze particolarmente specializzate, è convenientemente applicabile solo su cultivar molto fertili che differenziano abbondanti gemme a fiore sui rami anticipati e abbiano frutti di grossa pezzatura, in quanto i rami anticipati, di fatto i soli rami a frutto, danno frutti di pezzatura inferiore. Le distanze di impianto più razionali sono di 2 x 1 m nel caso di chioma permanente e di 1,5-2 x 0,9-1 m nel caso di chioma annuale.
Alcuni risultati ottenuti con il frutteto prato FRUTTETO PRATO IN COLTURA PROTETTA (secondo Bellini, et al., 1984)
Sunred autoradicata a 1,2 x 0,9 m 9260 piante/ha Produzione media per ha nei primi 6 anni: 415 q
Forme di allevamento allo studio Tra le forme di allevamento allo studio si riporta il progetto di un pescheto completamente nuovo e realizzato con varietà geneticamente nane che, in futuro, potranno affiancarsi alle cultivar tradizionali. Nel 1989, l’Università di California ha licenziato le prime tre cultivar commerciali nane (Valley Gem, Valley Red, Valley Sun) per una frutticoltura commerciale e non più solo hobbistica. L’esperienza dell’Istituto Sperimentale per la Frutticoltura di Roma condotta su 9 genotipi nani è, in tal senso, di notevole interesse. Nel gennaio 1984, 20 astoni di ciascuna di 6 nettarine e di 3 pesche sono stati piantati a Fiorano presso l’azienda sperimentale dell’Istituto Sperimentale per la Frutticoltura di Roma. Gli astoni erano innestati a gemma su GF 677 e sono stati piantati alla distanza di 3 x 1 m pari a 3333 piante per ettaro. Dieci alberi di ogni cultivar sono stati lasciati senza potatura, mentre gli altri dieci sono stati potati annualmente durante la stagione invernale. Alla fine del quinto anno dall’impianto l’altezza media era di 1,65 m degli alberi potati e di 1,9 m di quelli non potati; lo spessore aveva valori simili. Al terzo anno gli alberi hanno raggiunto la massima produzione; nel 1987, a causa di un danno dovuto al gelo, la produzione è stata inferiore. Gli alberi non potati hanno prodotto, in cinque anni, 154,6 tonnellate per ettaro contro le 116,9 tonnellate di quelli potati. Per avere un’idea della potenzialità produttiva delle cultivar nane in confronto alle standard, è stata rilevata la produzione di nove varietà standard della stessa epoca di maturazione (da una
FRUTTETO PRATO IN PIENO CAMPO (secondo Coston et al., 1984)
Diverse cultivar a 2 x 0,5 m 10.000 piante/ha Produzione anni alterni da 170 a 570 q/ha Pezzatura frutti minore del 30-50% FRUTTETO PRATO IN PIENO CAMPO (secondo Recupero et al., 1986)
Springcrest a 1,5 x 1 m e corridoio di servizio ogni 5 file 5346 piante/ha Produzione media 190 q/ha Pezzatura frutti minore del 25-30% Foto R. Angelini
Produzione di peschi nani (t/ha) piantati nel 1984 alla densità di 3333 alberi per ettaro
148
Anno
Potati
Non potati
1985
1,6
5,3
1986
27,7
30,0
1987
22,4
27,3
1988
31,7
35,5
1989
33,5
56,5
Produzione accumulata
116,9
154,6
allevamento e potatura Confronto tra produzione cumulata al 6° anno dell’impianto (t/ha) e peso medio dei frutti (g) di 9 cultivar nane e 9 genotipi standard1 della stessa epoca di maturazione, piantate rispettivamente a 3333 e 1111 piante per ettaro
1
Genotipo
Produzione cumulata (t/ha)
Peso medio del frutto (g)
Nano
117,0
129
Standard
82,6
160
Foto V. Bellettato
Le cultivar standard sono: Pacific Star, Flavorcrest, Summer Beauty, Super Star, Summertime, Fantalate, Calred, O’Henry, Autumn Free
settimana prima di Redhaven a quasi due mesi dopo), della stessa età, innestate su GF 677, allevate a fusetto a una densità di 1111 piante per ettaro. La produzione complessiva di queste cultivar è stata circa la metà di quelle nane, mentre il peso medio dei frutti è maggiore di 1/4. Molto interessante è la differenza tra i tempi necessari per la potatura e il diradamento dei frutti, dal 40% al 50% in meno nelle cultivar nane. La distanza adottata (3 x 1 m) si ritiene troppo stretta tra le file mentre è corretta tra le piante. Sulla base della presente esperienza si ritiene razionale per i genotipi nani una distanza d’impianto di 4-4,5 x 1 m, pari a 2000-2500 piante per ettaro. Tempi di potatura La tabella seguente riassume i tempi di potatura indicativi delle principali forme di allevamento. Tali tempi possono subire variazioni anche molto grandi in relazione a vari fattori come maestranze, vigoria della pianta, organizzazione aziendale ecc. Tempi indicativi di potatura nelle diverse forme di allevamento (ore per ettaro) I Anno
II Anno
In produzione
Forma di allevamento
Potatura verde
Potatura invernale
Potatura verde
Potatura invernale
Potatura verde
Potatura invernale
Vaso
40-70
30-50
70-100
10-50
10-30
150-280
In piena produzione dal 4°-6° anno
Fusetto
20-50
10-30
10-30
20-40
10-30
50-110
Al 2° anno prima produzione e al 3°-4° piena
Palmetta
30-50
10-30
50-80
20-40
40-60
120-180
In piena produzione al 3°-5° anno
Ipsilon
30-60
10-20
100-200
200-300
50-80
200-300
Al 2° anno prima produzione e al 4° piena
110-210
Al 2° anno prima produz., 3°-4° anno taglio asse centrale e sgolature, 4°-5° anno tagli di ritorno
Vasetto ritardato
5-10
5-10
5-10
10-20
20-40
Fonte: Sansavini, Neri, 2005 modificata
149
Entrata in produzione
coltivazione Distanze di impianto A conclusione di questa rassegna di forme di allevamento, si riportano i valori medi di distanza di impianto e di densità di piantagione. In linea di massima, si ricorda che è più facile modificare la distanza tra le piante sulla fila piuttosto che la distanza tra le file, legata alla necessità di passaggio dei mezzi meccanici e in rapporto con l’altezza della parete fruttifera.
Orientamento e distanza d’impianto
• Al fine di assicurare la migliore
illuminazione delle pareti fruttifere verticali, l’orientamento dei filari deve essere Nord-Sud e la distanza tra le file deve essere in rapporto con l’altezza delle piante e con la latitudine che influisce sull’inclinazione dei raggi del sole
Distanze d’impianto medie per il pesco in relazione alla forma d’allevamento Distanza in metri tra le file
sulla fila
N. di piante per ettaro
4,5
3-4
740-555
4,5-5
1,5-2,0
1480-1000
Vaso Californiano
5-6
5-6
400-277
Vasetto ritardato
5,0-5,5
3,0-3,5
666-519
5-6
1-1,5
2000-1111
4,5-5,0
2,0
1111-1000
5-5,5
0,60-1,0
3700-1848
1,5-2,0
0,90-1,0
7400-5555
2
1,0
5000
Forma di allevamento Palmetta e sue varianti Fusetto
Tatura trellis Ipsilon V Frutteto prato Chioma annuale Chioma permanente
Orientamento ottimale dei filari Nord-Sud e distanza tra le file in rapporto con l’altezza delle piante e la latitudine
150
allevamento e potatura Potatura di produzione Modalità e tempi di intervento Lo scopo della potatura di produzione è quello di mantenere l’equilibrio tra l’attività vegetativa e quella produttiva, in modo da assicurare una produzione di buona qualità, costante negli anni. Il rapporto tra i vari tipi di ramo a frutto e la loro fertilità e, di conseguenza, l’intensità del loro diradamento dipendono da molti fattori: – età della pianta: nelle piante giovani prevalgono i rami misti vigorosi e i rami anticipati, meno fertili dei rami misti di medio vigore. Nelle piante mature prevalgono i rami misti di medio vigore, ma sono presenti anche mazzetti di maggio e brindilli. Nelle piante vecchie prevalgono i mazzetti di maggio, i brindilli e i rami misti poco vigorosi; – vigoria della pianta: piante vigorose, equilibrate e deboli ripetono in modo molto fedele le situazioni descritte rispettivamente per le piante giovani, mature e vecchie. Le condizioni di fertilità naturale e indotta con la tecnica colturale, nonché con il portinnesto, influiscono sullo stato di vigoria delle piante e, pertanto, sulla potatura di produzione; – caratteristiche genetiche della cultivar: la vigoria, la percentuale dei diversi tipi di rami a frutto, la fertilità, sono caratteristiche genetiche proprie di ciascuna cultivar, la cui conoscenza è importante per stabilire i criteri di potatura. Molte nettarine, per esempio, così come molte percoche, nella fase di maturità della pianta, producono prevalentemente sui mazzetti di maggio e sui brindilli, a differenza della maggior parte delle cultivar da consumo fresco che producono prevalentemente sui rami misti. Le eccezioni a questa regola sono, comunque, numerose; – relazione tra pianta e clima: ai fini dell’intensità di potatura è importante conoscere sia la sensibilità delle cultivar alle minime termiche invernali che possono causare danni alle gemme a fiore e provocarne la cascola, sia il fabbisogno in freddo, il cui mancato soddisfacimento è ugualmente causa di cascola di gemme a fiore, la quale si manifesta appena prima della ripresa vegetativa. In presenza di tali condizioni è opportuno rinviare la potatura alla fine dell’inverno, quando gli effetti dell’andamento climatico sono già evidenti. Indipendentemente dalla forma di allevamento, in condizioni di normale attività vegetativa, nelle piante giovani si devono limitare i tagli al minimo indispensabile per assecondare la rapida formazione della struttura scheletrica. A causa della grande vigoria vegetativa, in questo stadio il pesco forma numerosi rami anticipati, la potatura alleggerirà di rami a frutto le branche permanenti e si utilizzeranno le branche soprannumerarie, opportunamente piegate e/o accorciate, per ottenere una precoce ed elevata produzione.
Potatura di produzione
• I rami a frutto del pesco sono: il ramo
misto, il brindillo e il mazzetto di maggio. A questi possiamo aggiungere il ramo anticipato il quale non è altro che un ramo misto di secondo ordine. I migliori rami a frutto sono i rami misti di medio vigore (40-70 cm) e i dardi. Poiché i primi due sono rami di un anno, la potatura di produzione inizia molto presto e, al limite, già alla fine del 1° anno d’impianto
• Il passaggio dalla fase di allevamento
a quella di piena produzione è graduale e avviene in 3-4 anni dall’impianto
Foto M. Carboni
151
coltivazione Nelle piante adulte, in normali condizioni vegetative, la potatura di produzione si esegue secondo i seguenti criteri di ordine generale: – con il taglio viene eliminato dal 50 al 70% dei rami a frutto. L’intensità di potatura dipenderà, comunque, dalle osservazioni sulla fertilità di quella cultivar nelle condizioni dell’azienda, dalla valutazione della possibilità produttiva delle piante e dalla destinazione del prodotto. Il mercato per il consumo fresco preferisce, in linea generale, i frutti di grossa pezzatura ottenibili con una potatura accurata soprattutto nelle cultivar a maturazione precoce; le industrie di trasformazione danno la preferenza a calibri medi, per cui la potatura potrà essere meno selettiva. Il calcolo dei rami a frutto da lasciare su una pianta potrà essere ricavato, soprattutto quando manca l’esperienza e perciò la capacità di valutare empiricamente la corretta intensità di taglio, tenendo presenti i seguenti parametri: – potenzialità produttiva di un ettaro di pescheto in q/ha. Si ricorda che mediamente la produzione aumenta dalle cultivar più precoci fino alle cultivar di medio tempo, per poi diminuire di nuovo nelle cultivar tardive; – peso medio dei frutti. Anche questo parametro segue una curva analoga a quella delle produzioni; – produzione media per pianta ricavabile dalla produzione prevista per ettaro divisa per il numero di piante per ettaro (per es. 300 q/ha: 700 piante per ettaro = 43 kg/pianta); – numero di frutti alla raccolta per pianta ricavabile della produzione per pianta diviso il peso medio dei frutti (per es. 43 kg/pianta: 150 g/frutto = 286 frutti); – tenuto conto di una certa cascola naturale e di uno scarto alla raccolta, dopo il diradamento si dovrà avere in pianta circa il 20% di frutti in più (pari a circa 340 frutti/pianta); – considerata una media di 2 frutti per ramo misto, su ogni pianta si dovranno lasciare circa 170 rami misti. Questo conteggio, apparentemente complicato, si rileva di grande utilità per mettere a punto la corretta tecnica di potatura per ogni cultivar presente in azienda e, nell’applicazione pratica, è più semplice di quanto sembra; – i rami misti non si spuntano, ma si diradano; ciò favorisce una più rapida esecuzione della potatura; la spuntatura si può ren-
Carro raccolta impiegato per le operazioni di potatura manuale su allevamenti a parete
Andamento della produzione (q/ha) e del peso medio dei frutti (g) in funzione dell’epoca di maturazione q/ha
150/220
170/220
200/250
250/300
300/350
350/450
370/470
370/470
250/450
g
80/100
90/110
140/180
160/200
160/200
180/220
180/220
180/220
160/200
Maggio
Giugno
Luglio
152
Agosto
Settembre
allevamento e potatura dere necessaria quando, a causa dell’insufficiente lignificazione della parte terminale, il ramo viene danneggiato dal freddo, dalla salsedine nelle aree vicino al mare, da crittogame; – le branchette inserite sulla struttura permanente della pianta devono essere raccorciate in modo da tenere la dimensione della pianta entro i limiti della razionalità che è determinata da due elementi: – distanza di impianto; – necessità di favorire una buona illuminazione anche della parte interna della chioma. Soprattutto nelle forme a parete verticale, ma in minor misura anche in quelle in volume, a parete inclinata, con il passare degli anni l’attività vegetativa tende a spostarsi sempre più verso l’alto ed è proprio una corretta potatura di produzione che deve favorire un equilibrato rivestimento delle parti basali: – i rami che hanno già fruttificato vanno asportati, così come i “succhioni” (rami di un anno verticali, molto vigorosi) e, comunque, i rami misti molto vigorosi o molto deboli; – la scelta del tipo di ramo da privilegiare tra il ramo misto e il mazzetto di maggio (avendo già precisato che il brindillo dà frutti di minore qualità) sarà suggerito sia dalla conoscenza delle cultivar sia dall’habitus produttivo della pianta; – è opportuno iniziare la potatura dalla cima di una branca (di I o II ordine), scendendo verso la base, osservando il criterio di individuare il prolungamento della branca in un ramo misto, di distribuire razionalmente la vegetazione, di rispettare una certa
Foto P. Bacchiocchi
Pescheto nell’imolese
Foto R. Angelini
153
coltivazione “conicità” della branca stessa per permettere una buona penetrazione della luce nella chioma, che assicura un’elevata efficienza fotosintetica, una migliore qualità dei frutti e una buona maturazione del legno che dovrà fruttificare l’anno successivo.
Foto R. Angelini
Potatura meccanica La potatura manuale, nella fase di piena produzione, impegna mediamente da 100 a 150 h/ha, con punte anche notevolmente superiori, in relazione alla vigoria delle piante e alla forma di allevamento. Il costo di questa operazione e la difficoltà crescente a reperire mano d’opera specializzata, ha, da tempo, stimolato la ricerca a trovare soluzioni alternative. Abbandonata l’utopia della non potatura, che pur periodicamente viene riproposta come soluzione innovativa, si è ampiamente sperimentata la potatura meccanica eseguita con barre a dischi rotanti o con barre a lame contrapposte. Sulla base dell’esperienza americana e ancora più della ricerca italiana, si possono dare le seguenti pratiche indicazioni: – il topping (taglio orizzontale della chioma per controllare l’altezza della pianta) può essere fatto a macchina senza particolari inconvenienti, riducendo mediamente i tempi di lavoro del 10%. Il periodo migliore per eseguire il topping è compreso tra la fine di luglio e la fine di agosto, con due vantaggi: a) si evita un ricaccio vigoroso di vegetazione; b) si favorisce la maturazione del legno sulla restante parte della pianta; – la potatura completa (topping + hedging), cioè potatura della sommità e delle pareti, deve essere sempre integrata da una potatura manuale. Nelle forme a parete verticale, il risparmio conseguibile è di circa il 70%, nelle forme in volume è di circa il 50%; – ogni 1 o 2 interventi successivi eseguiti nella stessa posizione è
Topping di piante a vaso, eseguito tra la metà di luglio e la metà di agosto per controllare l’altezza delle piante e per favorire la penetrazione della luce all’inizio della chioma
154
allevamento e potatura opportuno raccorciare la chioma sotto il primo taglio per eliminare l’addensamento di vegetazione nella zona periferica con conseguente eccessivo ombreggiamento della parte interna e bassa della chioma; – la potatura meccanica integrata a mano può essere applicata su cultivar da industria senza particolari inconvenienti, mentre è dubbia la sua validità sulle cultivar per il consumo fresco. Per quanto riguarda queste ultime sono assolutamente da escludere le cultivar precocissime, mentre possono essere prese in considerazione cultivar medio-tardive caratterizzate da una buona pezzatura dei frutti. Una delle conseguenze negative della potatura meccanica è, infatti, il maggior impegno per il diradamento dei frutti che fa perdere tutto il risparmio conseguito con la potatura. Per il pesco, in linea di massima, si ottengono migliori risultati con le macchine potatrici a seghe circolari che con quelle a controlama.
Foto R. Angelini
Epoca di potatura Anche nella fase di piena produzione è essenziale eseguire la potatura verde che assicura i seguenti vantaggi: – elimina la vegetazione eccedente favorendo il miglior sviluppo e la maturazione di rami per la fruttificazione successiva; – favorisce una migliore qualità dei frutti riducendo l’ombreggiamento; – riduce il lavoro di potatura invernale; – favorisce il mantenimento della vegetazione produttiva vicino alla struttura scheletrica, fondamentale per il rispetto, nel tempo, delle dimensioni ideali della pianta. Il primo intervento può essere fatto in corrispondenza del diradamento dei frutti, quando i germogli sono ancora erbacei e possono essere eliminati senza l’ausilio delle forbici; più importante è l’intervento nel mese di luglio, che sarà più o meno anticipato a seconda della vigoria e dell’eventuale esecuzione della potatura verde contemporaneamente al diradamento dei frutti. La potatura invernale va eseguita preferibilmente dopo il mese di gennaio fino alla fioritura; da evitare la potatura in autunno avanzato-inizio inverno. Una copiosa bibliografia internazionale dimostra che la potatura eseguita in questo periodo favorisce, al Nord, i cancri da Cytospora e Valsa, e al Sud, i cancri da Fusicoccum. La potatura invernale può essere eseguita anche a partire dai primi giorni di settembre fino ai primi di ottobre, sospendendola prima delle piogge autunnali e dei primi freddi, tenendo presente che il taglio eseguito sulle piante in vegetazione è fattore di indebolimento ed è da evitare, pertanto, in condizioni di scarsa vigoria. Dopo la potatura invernale, soprattutto se eseguita in settembre, è opportuno trattare le piante con un anticrittogamico per ridurre i rischi di ingresso degli agenti patogeni dei cancri menzionati.
Foto R. Angelini
Nell’esecuzione della potatura occorre prestare molta attenzione a evitare la diffusione dei patogeni da ferita quali Cytospora, Fusicoccum ecc. responsabili di cancri rameali
155
il pesco
coltivazione Concimazione e irrigazione Cristos Xiloyannis, Bartolomeo Dichio
www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche. Crediti: le foto alle pagine 16 in alto a destra (Bvdc), 78 in alto (Huan), al centro (Pinkcandy) e in basso (Teoteoteo), 79 (Amitai), 80 in basso (Miszmasz), 81 (Looby), 82 (Karcich), 86 (Yasonya), 88 in basso (Lissdoc), 96 (Hurry), 98 in alto a sinistra (Hurry), 108 in alto (Tinker) e in basso (Meengen), 408 (Matka_wariatka), 409 (Elkeflorida), 416 al centro (Uksus) e in basso (Vladacanon), 417 in alto (Icefront), 421 in basso (Robynmac), 422 in alto (Palolilo), 474 in basso (Emily2k), 479 in basso (Elenathewise) sono dell’agenzia Dreamstime.com.
coltivazione Concimazione e irrigazione Concimazione La conoscenza della domanda di nutritivi da parte delle piante, della disponibilità degli elementi minerali nel suolo, dei tempi di mobilizzazione delle riserve minerali e fotoassimilati accumulati nei vari organi è necessaria per poter sincronizzare la domanda e l’offerta di nutritivi, evitando in tal modo consumi di lusso, manifestazioni di carenza e inquinamento ambientale.
Concimazione consapevole
• La minimizzazione degli apporti
energetici esterni all’agroecosistema può essere perseguita ricorrendo all’uso di tecniche di gestione ecocompatibili, quali inerbimento, reintegro dei residui di potatura, sovescio, apporto di compost o letame ecc.
Assorbimento dei principali elementi minerali e loro trasporto nei vari organi della pianta Le radici assorbono dalla soluzione del suolo i vari elementi minerali attraverso meccanismi di diffusione e di convezione (o flusso di massa). La diffusione si verifica quando, per un determinato elemento, si instaura un gradiente di concentrazione nel suolo interessato dalle radici. Tale meccanismo coinvolge principalmente gli ioni fosforo, potassio, boro, ferro, zinco e manganese. Gli ioni si muovono lentamente e per distanze molto limitate; per il loro assorbimento risultano quindi molto importanti lo sviluppo, la conformazione e la densità dell’apparato radicale. Gli altri elementi si muovono principalmente nel suolo, verso la radice, con il movimento dell’acqua. Per tale processo risultano, quindi, molto importanti la disponibilità idrica del suolo e l’attività traspiratoria; quest’ultima, richiamando acqua dal suolo, induce un movimento dei vari elementi verso la superficie radicale. Il movimento del calcio e del magnesio è quasi totalmente controllato dal processo di convezione. Entrambi i processi sono favoriti da disponibilità idrica del suolo ottimale e costante nel tempo, temperature tra 20 e 25 °C, densità radicali elevate e buona attività traspiratoria e fotosintetica delle foglie.
• In tal modo si riducono gli apporti
esterni valorizzando e potenziando nello stesso tempo le risorse interne al sistema, ottimizzando l’efficienza energetica e assicurando condizioni ottimali di fertilità nel tempo
Piante in buono stato nutrizionale
156
concimazione e irrigazione Gli elementi minerali, una volta raggiunti i vasi xilematici delle radici, seguono il percorso dell’acqua raggiungendo i vari organi della pianta. Le foglie rappresentano la sede preferenziale, in quanto attraverso loro passa la quasi totalità dell’acqua traspirata. Molti elementi si muovono anche per via floematica e raggiungono un certo equilibrio all’interno della pianta. Per questi elementi la diagnostica fogliare può rappresentare una chiave importante per definire eventuali carenze o eccessi non soltanto nelle foglie ma anche nei frutti. Altri elementi, invece, non si muovono o sono poco mobili all’interno della pianta. È il caso tipico del calcio, elemento determinante per la qualità e la conservabilità in frigorifero di molti frutti (melo, actinidia, pero ecc.). Per il calcio e per tutti gli altri elementi che si muovono con difficoltà (manganese, zinco, boro ecc.) per via floematica è quindi necessario conoscerne anche il contenuto nei frutti per meglio definire il piano di concimazione. In pratica spesso si verificano, anche in terreni ricchi di questi elementi, casi di carenza nei frutti e non nelle foglie.
Diagnostica fogliare
• La diagnostica fogliare ha assunto
notevole importanza nelle colture arboree, in abbinamento all’analisi del terreno
• L’appezzamento sul quale eseguire
la diagnostica fogliare deve essere omogeneo per specie, cultivar, portinnesto, età, stato sanitario e vegetativo, quantità prodotta e tecnica colturale
• Le piante da campionare devono essere almeno 10. È necessario escludere le piante periferiche e quelle che, per caratteristiche vegetative, produttive e sanitarie, si allontanano dalle condizioni standard dell’appezzamento
Dinamica di assorbimento dei vari elementi minerali Nei tessuti vegetali sono contenuti ben 92 elementi; di questi, 16 sono necessari per una buona attività vegetativa e produttiva e, di questi ultimi, solo 13 sono essenziali dal punto di vista fisiologico. In relazione alla loro abbondanza nei diversi organi della pianta, si distinguono in: – macroelementi: azoto (N), fosforo (P), potassio (K), magnesio (Mg), calcio (Ca) e zolfo (S); – microelementi: a loro volta distinti in metalli pesanti come fluoro (Fl), manganese (Mn), zinco (Zn), rame (Cu), molibdeno (Mo) e in non metalli come cloro (Cl) e boro (B).
• Individuare quindi 4 rami. Nelle forme
come vaso o fusetto sceglierne uno per punto cardinale, a croce; nelle forme a parete campionare due rami su ogni lato. Non raccogliere foglie da lamburde, dardi e brindilli
• Le foglie devono essere raccolte nella
zona medio-basale del ramo e devono essere mature, sane e di normale dimensione
Azoto (N). È assorbito dalle radici sotto forma di nitrato (NO3–), di ammonio (NH4+) e talvolta in forma organica (aminoacidi liberi nel suolo). L’azoto nitrico assorbito viene trasformato in azoto ammoniacale dall’enzima nitrato-reduttasi. La trasformazione richiede energia e quindi è preferibile, dove possibile, che venga assorbito sotto forma ammoniacale. Lo ione ammonio può risultare tossico per le piante: esso viene convertito rapidamente in aminoacidi che rappresentano le fondamenta per la vita. Gli aminoacidi sono poi convertiti in proteine, DNA e RNA (nitrati-ammonio-aminoacidi-RNA-proteine). La forma ammoniacale è trattenuta dai colloidi argillosi e dalla sostanza organica (S.O.). In condizioni di temperature di suolo ottimali (20-25 °C) e terreni con buon drenaggio, la forma ammoniacale si trasforma rapidamente in azoto nitrico. Questa è la forma di azoto maggiormente assorbita dalle piante ed è facilmente soggetta alle perdite per percolazione in quanto, essendo uno ione con carica negativa, non è trattenuto dalle argille del suolo
Rimobilizzazione
Frutti, germogli Primavera
Inverno
Assorbimento radicale Estate
Rami, branche, tronco, radici Accumulo
Foglie Autunno
Accumulo
Foglie senescenti, radici senescenti, assorbimento radicale Rimobilizzazione Schema del ciclo dell’azoto
157
coltivazione (carica negativa). L’azoto nitrico è, quindi, la forma maggiormente coinvolta nell’inquinamento delle falde acquifere. Fosforo (P). La forma assorbita è PO43– (prevalentemente H2PO4–). La necessità di questo elemento, da parte degli alberi da frutto, è molto inferiore agli altri macroelementi. Poco mobile nel terreno, abbastanza all’interno della pianta. Raramente si trovano in frutticoltura casi di carenza di fosforo. Abbondanti concimazioni fosfatiche possono ridurre l’assorbimento dell’azoto ed, al contrario, in situazioni di eccesso di azoto nel suolo, non si verifica il blocco dell’assorbimento del fosforo. Il fosforo è presente in tutti i processi che comportano trasformazioni energetiche. È uno dei costituenti essenziali dei nucleotidi, degli aminoacidi e di numerosi enzimi.
Il potassio è l’elemento che conferisce più colore e sapore ai frutti
Potassio (K). Viene assorbito dalle radici sotto forma K+. Elemento poco mobile nel terreno ma abbastanza mobile all’interno della pianta. Il movimento degli ioni K+ all’interno del suolo, per raggiungere la superficie radicale, avviene principalmente per diffusione. È quindi molto importante la presenza di un livello di umidità ottimale e costante durante tutto il ciclo annuale. Stress per carenza idrica diminuiscono notevolmente l’assorbimento di questo elemento. Il potassio è un macronutriente dinamico che, pur non facendo parte di particolari composti organici della pianta, viene assorbito in notevoli quantità. Si accumula in quelle zone delle piante dove sono più attive le divisioni cellulari. Esso neutralizza gli acidi nei tessuti vegetali, agisce sul protoplasma regolandone il rigonfiamento e normalizzando i processi di traspirazione; presiede, quindi, al mantenimento dell’equilibrio idrico (turgore).
Effetti benefici del potassio
• Dal punto di vista biochimico, sembra
che il potassio sia un attivatore enzimatico e agisca quale catalizzatore per la sintesi dei carboidrati ed equilibratore fra questi e la sintesi delle sostanze proteiche. Per molte piante (orticole e frutticole ecc.) ha effetti positivi tanto sulla qualità (sapore, colore, consistenza ecc.) quanto sulla conservabilità dei frutti
Pescheto fertirrigato
Foto E. Marmiroli
158
concimazione e irrigazione Di qui, la sua azione favorevole all’aumento della resistenza dei tessuti vegetali al gelo e alla siccità. Il potassio, altresì, determina una maggiore turgescenza dei tessuti, rendendo la pianta più resistente agli attacchi dei parassiti.
Importanza dell’analisi dei nutrienti
Calcio (Ca). Viene assorbito dalle radici sotto forma di Ca2+ e più precisamente, come sovente viene riportato, da quelle giovani, le quali non hanno ancora subito il processo di suberificazione, anche se prove effettuate su piante di ciliegio hanno evidenziato che il calcio viene assorbito anche dalle radici suberificate. Il trasporto del calcio via floema è quasi nullo e il suo movimento all’interno della pianta segue la via xilematica. Infatti, la concentrazione del calcio nelle foglie aumenta durante la stagione visto che, attraverso tali organi, passa la quasi totalità (99,5%) dell’acqua traspirata dall’intera pianta. Il trasporto del calcio nei frutti diminuisce con il procedere della stagione, in quanto diminuisce l’attività traspiratoria. Infatti, circa il 70% del calcio che si trova nei frutti all’epoca della raccolta si accumula nella prima fase di crescita del frutto. Risulta quindi indispensabile, durante tale periodo, il verificarsi di tutte le condizioni favorevoli all’assorbimento e traslocazione di tale elemento. Il calcio è l’elemento che condiziona maggiormente la qualità dei frutti, difatti, essendo responsabile della stabilità della parete cellulare, in quanto parte integrante della stessa, conferisce consistenza e conservabilità ai frutti.
• Il livello di nutrienti nei tessuti della
Ferro (Fe). Nel suolo il ferro è prevalentemente presente come Fe3+. Esso viene assorbito dalle radici come Fe2+, quindi gli alberi, per poterlo assorbire, devono prima solubilizzarlo in chelato e successivamente ridurlo a Fe2+. Il contenuto in ferro dei suoli oscilla tra l’1 e il 5‰; la forma dominante è l’idrossido di ferro Fe(OH)3. Esso è poco solubile nel suolo ed è maggiormente solubile a pH 2 mentre si insolubilizza in corrispondenza di pH 7,6. Lo ione bicarbonato (HCO3–) è responsabile della clorosi ferrica nei terreni calcarei. In suoli asciutti il livello di bicarbonato raramente è elevato tanto da causare problemi nell’assorbimento del ferro. Nei suoli umidi, invece, la dinamica di formazione dei bicarbonati è molto elevata e richiede presenza di CO2 e di H2O per l’idrolisi del CaCO3 (CaCO3 + H2O + CO2 = Ca2+ + 2HCO3–). Nei terreni calcarei, per poter controllare i fenomeni della clorosi ferrica, sono importanti la gestione razionale dell’irrigazione e il buon drenaggio del terreno, per evitare eccessi idrici e quindi controllare l’idrolisi del CaCO3 in HCO3–. Spesso, quindi, la carenza di ferro è dovuta più alla sua immobilizzazione che a un’effettiva carenza nel suolo.
• La valutazione dello stato nutrizionale
pianta è l’indice più accurato del suo stato di salute. L’analisi dei tessuti deve essere condotta precocemente, se si vuole intervenire correggendo eventuali errori nella gestione della nutrizione
• La diagnostica fogliare, l’analisi
chimica del frutto e del suolo presentano vantaggi e limitazioni, perciò solo un loro utilizzo strettamente integrato è in grado di fornire informazioni affidabili
• Analisi fogliari condotte vicino alla
raccolta sono più utili a ottimizzare il successivo ciclo produttivo piuttosto che a influire sulla produzione dell’anno corrente. Per gli elementi che si muovono nella pianta quasi esclusivamente per via xilematica (Ca, Mn, Zn, B) oltre l’analisi fogliare è consigliata quella dei frutti della pianta può richiedere più di un’analisi dei tessuti in un anno. Al contrario, l’analisi completa del terreno può essere eseguita ogni 3-5 anni, essendo i cambiamenti nei parametri del suolo estremamente graduali, ad eccezione dell’azoto minerale, che va misurato anche più di una volta all’anno
159
coltivazione Sinergismo e antagonismo tra elementi minerali nel suolo Elemento
Sinergismo
Antagonismo
N
Mg
B, K
P
Mg
Fe, K, Cu, Zn
K
Mn, Fe
Ca, Mg, N, B, P
Ca
---
K, Mg, Zn, B, Fe, Mn
Mg
N, P
K, Ca
S
---
---
Fe
K
Ca, Mn, Cu, Zn, P
Cu
---
P, Fe, Mn
Zn
---
P, Fe, Ca
Mn
K
Ca, Cu, Fe
B
---
K, Ca, N
Disponibilità dei nutritivi nel suolo con particolare riferimento all’azoto Nel corso del ciclo annuale, circa il 2-3% dell’azoto totale contenuto nella sostanza organica del suolo si rende disponibile, in seguito ai processi di mineralizzazione. Nei climi meridionali la quota netta disponibile di azoto derivante dalla sostanza organica del suolo può assumere valore oscillante fra 40 e 110 kg/ha/anno, in relazione alla dotazione di sostanza organica del suolo e delle condizioni pedoclimatiche (umidità e temperatura). I residui di potatura, comprensivi delle foglie senescenti, interrati nel frutteto, possono contribuire alla disponibilità azotata minerale del suolo e al mantenimento dei livelli di sostanza organica dello stesso. In bibliografia è riportato che circa il 50% dell’N totale contenuto in tale materiale possa essere considerato riciclato nel sistema. Analogamente, l’interramento di biomassa erbacea proveniente da inerbimento naturale o artificiale può contribuire a incrementare le dotazioni di elementi minerali assimilabili dalla coltura arborea. Nel computo degli input dei nutritivi del sistema frutteto non vanno trascurati gli apporti legati
Operazione di trinciatura (in alto) e residui (in basso) della potatura secca in un pescheto inerbito
Apporti azotati con l’interramento di biomassa
• Nei climi mediterranei, l’interramento
di 4 tonnellate di sostanza secca di biomasse vegetali con N uguale al 2,5% possono rendere disponibile nel corso del primo anno il 60% (60 kg/ha), il secondo anno il 20% (20 kg/ha) e il terzo anno il 10% (10 kg/ha) del loro contenuto in azoto totale Residui di potatura allontanati dal campo e destinati ad essere bruciati
160
concimazione e irrigazione all’irrigazione e alle precipitazioni atmosferiche. Gli apporti azotati legati alle acque d’irrigazione, considerando volumi stagionali di 5000 m3 e concentrazioni azotate medie di 8 ppm, sono circa 40 kg/ha; le deposizioni atmosferiche secche e umide possono rappresentare una fonte significativa di azoto (11-112 kg/ha/anno).
Apporti medi di azoto, fosforo e potassio
• Azoto: nei pescheti con produzioni
Composizione media (% sulla sostanza secca) in macro e microelementi di frutti, foglie e residui di potatura Organi
N
P
K
Ca
Mg
frutti
9,24
2,03
12,61
0,33
0,79
foglie
15,00
1,00
10,85
13,94
2,42
mat. pot. secca
8,69
0,41
3,36
20,82
1,28
mat. pot. verde
20,23
0,30
10,98
14,85
2,39
medie annue di 30 t/ha, in cui non si pratica né sovescio né inerbimento, ma in cui si interrano i residui di potatura, è sufficiente un reintegro di circa 80 kg/ha di azoto. Se i residui di potatura non vengono interrati, devono essere reintegrati circa altri 9 kg/ha di azoto
• Fosforo: qualora i residui di potatura siano allontanati dal campo, sono sufficienti apporti di circa 10 kg/ha
Le uscite dal sistema frutteto legate ai fenomeni di lisciviazione, di ruscellamento e di gasificazione (volatilizzazione, denitrificazione) sono difficilmente calcolabili.
• Potassio: nei suoli sciolti, normalmente poveri di questo elemento, si consiglia di apportarne quantità pari a quelle contenute nelle produzioni
Esigenze nutrizionali del pesco Nella preparazione del piano di fertilizzazione si dovrà tener conto: – delle asportazioni dei vari elementi minerali dal terreno; – del riciclo dei nutrienti contenuti nelle foglie e nel legno della potatura; – degli apporti di nutritivi con le acque irrigue e con quelle di pioggia; – degli elementi nutritivi resisi disponibili con la mineralizzazione della sostanza organica (S.O.).
Foto CSO
Stima delle esigenze nutrizionali di un pescheto (cv Supercrimson/GF677, forma a vaso, densità 500 piante/ha, produzione di 30 t/ha) con reintegro dei residui di potatura e considerando un’efficienza di distribuzione dell’N dell’80% Organi
Peso secco (t/ha)
N
P
K
Ca
Mg
frutti
2,80
25,87
5,68
35,31
0,92
2,21
foglie
1,47
22,05
1,47
15,95
20,49
3,56
mat. pot. secca
1,58
13,73
0,65
5,31
32,90
2,02
mat. pot. verde
1,99
40,26
0,60
21,85
29,55
4,76
totale asportati (kg/ha)
101,91
8,40
78,42
83,86
12,55
asportazioni ridotte del riciclo *
79,86
5,68
35,31
0,92
2,21
* Nel caso in cui i residui di potatura vengano interrati, le quantità totali di P, K, Ca e Mg asportate sono pari a quelle dei soli frutti. Per l’azoto invece si considera la quantità presente nei frutti e il 50% di quella presente nelle foglie e nel materiale di potatura
161
coltivazione Nei pescheti non interessati da sovescio o inerbimento, con produzioni medie annue di 30 t/ha, nei quali si interrano i residui di potatura, considerando la disponibilità azotata proveniente dalla mineralizzazione della sostanza organica delle foglie e del legno della potatura (un recupero del 50%) e l’efficienza di distribuzione (80%), si può ritenere idonea una distribuzione di circa 80 kg/ha di azoto. Nei casi in cui il legno della potatura venga allontanato dal frutteto, devono essere reintegrati circa altri 9 kg/ha di azoto. Il fosforo è asportato in basse quantità. Utilizzando il criterio della restituzione, qualora i residui di potatura siano allontanati dal campo, sono sufficienti apporti di circa 10 kg/ha di fosforo.. Il potassio è un altro elemento che viene assorbito in elevate quantità. Nei suoli sciolti e con scarse dotazioni di questo elemento, si consiglia di apportarne quantità pari a quelle contenute nelle produzioni. È utile apportare il potassio in concomitanza con il magnesio durante tutta la fase di crescita del frutto e con dosi crescenti. Le concimazioni con fosforo e potassio non sono necessarie ogni anno; in terreni ben dotati, tuttavia, ogni 3-4 anni è opportuno verificare l’effettiva disponibilità di questi elementi nel suolo. Il calcio e il magnesio vanno apportati solo nei terreni che ne sono costituzionalmente deficitari e in quelli ove, per problemi di antagonismo con altri elementi (per es. K-Mg, K-Ca), ne viene limitato l’assorbimento. Anche per questi due elementi le somministrazioni possono essere pari alle quantità asportate dai frutti, aggiungendo quelle contenute nei residui di potatura, qualora questi vengano allontanati dal frutteto. Nei piani di fertirrigazione è opportuna una distribuzione dell’azoto a partire dall’inizio della ripresa vegetativa con frequenza settimanale. Gli apporti dovranno essere tuttavia relazionati alla fase di sviluppo del frutto e, in particolare, più elevati nella prima fase di crescita (divisione cellulare), riducendoli progressivamente con il procedere verso la maturazione. Nelle fasi successive alla raccolta si realizzeranno apporti pari a circa il 30% della concimazione annua totale, fondamentali per il ripristino delle riserve e quindi per assicurare una buona ripresa vegetativa nel successivo ciclo produttivo.
Nitracek, strumento utilizzato per la determinazione della concentrazione dei nitrati nel suolo
Particolare di un pescheto lavorato dopo l’esecuzione di un’erpicatura
Fertilizzazione sostenibile Un’ipotesi alternativa alla gestione convenzionale del pescheto, basata su continue lavorazioni del suolo ed esclusive concimazioni minerali (che impoveriscono il terreno della S.O.) può essere il ricorso all’inerbimento e all’apporto di materiale organico microbiologicamente stabilizzato. Qualità del residuo organico dell’inerbimento. Per “qualità del residuo” s’intende la capacità intrinseca di una risorsa di decomporsi. Essa è influenzata principalmente dal rapporto
Pescheto inerbito artificialmente con essenze erbacee annuali autoriseminanti
162
concimazione e irrigazione carbonio/azoto (C/N) e dal tenore di sostanze recalcitranti alla decomposizione (lignina e altre sostanze fenoliche). Essenze come le leguminose da sovescio sono caratterizzate da una bassa attitudine all’umificazione; esse non sono adatte (allo stato erbaceo) al ripristino della sostanza organica nei suoli, ma svolgono un importante effetto nutrizionale nel breve periodo poiché le elevate percentuali di N e il basso rapporto C/N, nonché il basso tenore di lignina, ne orientano l’evoluzione verso processi di mineralizzazione che vedono il rilascio d’azoto minerale, anidride carbonica e minerali prontamente utilizzabili dalla coltura. Comportamento opposto hanno i residui caratterizzati da alti tenori di lignina e polifenoli o da un basso contenuto d’azoto (C/N>25), che orienta l’evoluzione di tali residui verso la formazione di sostanze umiche. È importante conoscere le caratteristiche delle diverse essenze per assicurare la sincronizzazione della domanda della coltivazione principale con la disponibilità di nutritivi nel terreno. Nel caso di frutteti inerbiti, sarà importante considerare le possibili interazioni competitive tra la coltura principale e l’essenza erbacea per le risorse idriche e nutrizionali.
Sito in cui si svolgono le prime fasi di preparazione del compost
Caratteristiche di un compost di buona qualità ed elementi apportati al suolo (kg/ha) con l’applicazione di 15 t/ha Descrizione
Unità di misura
Risultato analitico
Umidità
%
24,80
pH
Elementi apportati (kg/ha)
7,98
Azoto totale
%.
1,52
228,0
Azoto organico
% s.s.
1,80
203,04
Carbonio organico
% s.s.
33,80
3812,6
Sostanza organica
% s.s.
58,30
6576,2
Humus
% s.s.
10,40
1173,1
22,20
0,0
C/N P
% s.s.
0,30
33,8
K
% s.s.
1,16
130,8
Zn
‰ s.s.
0,11
1,3
Fe
‰ s.s.
5,53
62,4
Cu
‰ s.s.
0,07
0,7
Mn
‰ s.s.
0,11
1,3
Matrici organiche prossime a essere compostate
Cumulo di compost
163
coltivazione Tali competizioni possono essere attenuate tramite tempestivi sfalci del cotico erboso e con un’oculata gestione dell’irrigazione e della concimazione. Compost. Valida alternativa alla concimazione minerale, al fine di esaltare le prestazioni agroecologiche del campo coltivato, è l’utilizzo di materiale organico microbiologicamente stabilizzato (per es. letame, compost ecc.). Il letame, ampiamente utilizzato in passato come ammendante e correttivo, è oggi difficilmente reperibile, in particolare in zone con basse concentrazioni zootecniche, per cui cresce la necessità di utilizzare fonti alternative di ammendanti organici quali, per esempio, il compost. Il compost deriva dal processo di stabilizzazione aerobica dei materiali organici di rifiuto (compostaggio) ad opera di microrganismi. In continuo aumento sono i compost prodotti da residui dell’industria agroalimentare, da scarti verdi delle città e da residui umidi domestici. Questo processo permette la valorizzazione dei residui organici che, diversamente, richiederebbero opportune e spesso costose soluzioni di gestione e di smaltimento.
Cumulo di compost in un impianto di compostaggio
Bilancio nutrizionale basato sul reintegro delle asportazioni Prima della stagione vegetativa, per programmare la concimazione, è indispensabile compilare un bilancio nutrizionale basato sul computo delle asportazioni avvenute nell’anno precedente e corrette durante il ciclo annuale, tenendo in considerazione la produzione in atto e lo stato della vegetazione. Dal bilancio nutrizionale emerge che le esigenze della coltura sono completamente soddisfatte dagli apporti di compost, dal reintegro dei residui di potatura e della trinciatura dell’inerbimento, ma anche dagli apporti di elementi con l’acqua d’irrigazione. In particolare, per l’azoto, è da considerare che solo una frazione di quello apportato è in forma minerale e quindi prontamente disponibile, mentre la maggior parte, essendo di tipo organico, si renderà disponibile nei tempi e nelle quantità che saranno regolate dall’evoluzione della temperatura e dell’umidità atmosferica e del suolo. Al fine di sincronizzare la disponibilità dell’elemento con le esigenze della coltura è importante il monitoraggio della concentrazione di azoto nitrico nel suolo, che può essere effettuato direttamente in azienda con l’ausilio di semplici strumenti portatili (nitracek).
Macchina per la distribuzione localizzata del compost
Bilancio ambientale Con il reintegro dei residui di potatura, degli apporti di biomassa con l’inerbimento e con quelli di compost, oltre ai vantaggi diretti sulla fertilità del suolo, di una nutrizione equilibrata e il contenimento degli inquinamenti ambientali (lisciviazione dei
Distribuzione del compost localizzata nell’area bagnata dall’irrigazione
164
concimazione e irrigazione
Anidride carbonica sotto controllo
• Per contrastare la superproduzione
di CO2, una soluzione è quella di incrementare le riserve di carbonio naturali
• L’adozione di buone pratiche agricole,
in grado di mantenere un buon livello di fertilità nel suolo, può ridurre le perdite di CO2 e humus. È interessante pensare alle produzioni agroforestali sotto una duplice veste: fonti di energia rinnovabile e serbatoi temporanei per l’anidride carbonica in eccesso. Il carbonio introdotto come CO2 e utilizzato per costruire le diverse molecole che formano la struttura anatomica degli alberi segue due diversi destini: quello destinato alle cellule di foglie e frutti è immobilizzato per poco tempo, ma quello del legno e delle radici per un tempo molto più lungo. Nei frutteti, per esempio, una parte viene rilasciata in tempi brevi (a ogni stagione cadono le foglie e si raccolgono i frutti), l’altra in tempi molto più lunghi (la vita di un pescheto può arrivare a 20 anni)
Bruciatura dei residui di potatura (tonnellate di carbonio organico vanno in fumo)
nitrati), è da considerare il vantaggio che può essere letto in termini di sequestro della CO2 dall’ambiente. In tale visione il frutteto è utilizzato come serbatoio nel quale immobilizzare elevate quantità di CO2 sotto forma di strutture organiche. Accordi internazionali tra le principali nazioni industrializzate hanno espresso la volontà di dare un prezzo a ciascuna tonnellata di CO2 fissata che potrebbe rappresentare una fonte di reddito per i frutticoltori.
Flussi di carbonio nel sistema frutteto in entrata (carbonio stoccato) e in uscita (carbonio riemesso) Sistema gestito in modo organico Carbonio netto Carbonio stoccato stoccato (fotosintesi, compost) 6,4 t/ha/anno, 9 t/ha/anno pari a 23,4 t di CO2
Sistema gestito in modo convenzionale Carbonio netto Carbonio stoccato riemesso (fotosintesi) 1,36 t/ha/anno, 2,14 t/ha/anno pari a 5 t di CO2 Carbonio riemesso (respirazione, gestione suolo e residui colturali) 3,5 t/ha/anno
Carbonio riemesso (respirazione, gestione suolo e residui colturali) 2,6 t/ha/anno
Suolo
165
coltivazione Irrigazione Ruolo dell’acqua nella pianta L’acqua è il principale costituente delle piante; essa rappresenta dall’80 al 90% del peso dei tessuti in fase di crescita e molte funzioni vitali sono possibili solo in fase acquosa. Il contenuto d’acqua delle cellule vegetali può variare dal 10% nei semi secchi al 95% in alcuni frutti e nelle foglie giovani.
Dinamica dell’acqua nella pianta
• L’acqua si muove fino a raggiungere
i punti più alti della chioma grazie ad alcune caratteristiche fisico-chimiche delle sue molecole. Le forze tra le molecole di acqua e quelle dei polisaccaridi delle pareti cellulari consentono di formare all’interno dei vasi conduttori delle colonne ininterrotte che vanno dalle radici alle foglie. Il potenziale idrico dell’aria dipende principalmente dal contenuto di umidità relativa e può raggiungere valori molto negativi: a 20 °C e 40% di umidità relativa, il suo potenziale idrico raggiunge valori di –124 MPa. Si instaura un gradiente di potenziale tra l’atmosfera e la foglia grazie al quale l’acqua presente nella pianta passa all’atmosfera attraverso processi di traspirazione cuticolare e traspirazione stomatica. La perdita di acqua riduce il potenziale idrico cellulare che raggiunge valori negativi. Questa condizione richiama un flusso di acqua dallo xilema verso le foglie. Il gradiente di tensione causa il movimento dell’acqua dalle cellule radicali allo xilema delle radici; nel contempo la diminuzione del potenziale nelle cellule delle radici provoca l’ingresso dell’acqua dal suolo. In relazione alla domanda evaporativa dell’ambiente, alla disponibilità idrica del suolo e alle resistenze dei diversi organi al passaggio dell’acqua, i potenziali idrici fogliari oscillano da –0,2 a –3,0 MPa, quelli delle radici da –0,1 a – 2,5 MPa e quelli del suolo da –0,03 a –1,5 MPa. La resistenza radicale rappresenta il 60-70% di quella che incontra l’acqua lungo il percorso dal terreno alle foglie, la quale dipende molto dalle caratteristiche del sistema di trasporto xilematico
Dinamica dell’acqua nel sistema suolo-pianta-atmosfera Il ciclo dell’acqua nella pianta interessa tre fasi: – assorbimento radicale; – movimento all’interno della pianta; – movimento dell’acqua dalla pianta all’ambiente esterno (traspirazione). Le radici assorbono l’acqua dal suolo attraverso un meccanismo attivo e passivo. Il primo consiste nel movimento dell’acqua in un gradiente osmotico che si instaura tra la soluzione circolante e le cellule radicali, e opera, principalmente, in condizione di elevata disponibilità idrica nel terreno e ridotta traspirazione; il secondo, il più importante, consiste nel movimento dell’acqua secondo un gradiente di potenziali idrici (forza di suzione) che si genera all’interno del sistema conduttore, per effetto dell’attività traspiratoria delle foglie. Una volta assorbite dalle radici, l’acqua e le sostanze nutritive sono trasportate attraverso lo xilema verso i vari organi della chioma, mentre i fotoassimilati sono distribuiti verso i centri di utilizzazione e accumulo attraverso i vasi floematici.
Dinamica dell’acqua in piante ben irrigate Ambiente 20 °C 40% U.R. Ψ w-124 MPa
Ψ w foglia da –0,2 a –0,3 MPa
Resistenze
Fonte: G. Matarazzo
166
Ψ w radici da –0,1 a –2,5 MPa Ψ w suolo da –0,03 a –1,5 MPa
concimazione e irrigazione Deficit idrico e meccanismi di difesa In termini agronomici, la carenza di acqua nella pianta determina complessivamente una riduzione dell’attività vegetativa, della produttività e della qualità della frutta. In termini fisiologici, avviene una riduzione della divisione e distensione cellulare, della traspirazione, della fotosintesi e dell’accumulo delle sostanze di riserva. Le specie arboree da frutto presentano comportamenti diversi nei riguardi della carenza idrica nel terreno. Comportamenti che non sono la conseguenza di singole modificazioni, ma il risultato degli adattamenti anatomici, morfologici e biochimici che le varie specie hanno sviluppato nel tempo, in risposta all’azione delle variabili ambientali. Il pesco si potrebbe classificare nel gruppo di piante che hanno un comportamento anisoidrico in cui il potenziale idrico dei tessuti, sia in condizioni idriche ottimali sia in condizioni di carenza idrica, subisce variazioni notevoli durante la giornata, in risposta sia al contenuto idrico del suolo sia alle condizioni ambientali. Al contrario, le piante isoidriche (per es. actinidia) in cui il sistema di trasporto, in condizioni idriche ottimali, permette di trasferire alle foglie quasi tutta l’acqua traspirata, presentano lievi variazioni del potenziale idrico fogliare durante il giorno. La pianta di pesco si può classificare come mediamente resistente alla carenza idrica. Il pesco rientra nel gruppo di specie che tollerano la carenza idrica mantenendo bassi i potenziali idrici dei tessuti. Le cultivar a maturazione precoce, invece, possono essere classificate nel gruppo che evita lo stress. Queste cultivar riescono a evitare o limitare le conseguenze dello stress idrico durante le fasi particolarmente delicate del loro ciclo annuale, principalmente per il fatto che il tempo che intercorre tra la fioritura e il completamento della crescita del frutto è breve, come anche in alcune cultivar di ciliegio e albicocco. Tali specie possiedono anche quei meccanismi che caratterizzano le specie tolleranti lo stress (controllo della traspirazione, riduzione della crescita vegetativa e un elevato rapporto radici/ foglie, aggiustamento osmotico, modifiche morfo-anatomiche delle strutture cellulari). In terreni con buona capacità di immagazzinamento idrico e in ambienti con basso deficit idrico, tali specie riescono, con qualche intervento irriguo di soccorso, a fiorire e a produrre. Questo è possibile in quanto le necessità idriche, nel breve intervallo di tempo tra la fioritura e la raccolta, sono limitate sia per la contenuta richiesta evaporativa dell’ambiente sia per la bassa area traspirante per ettaro. Una volta raccolto il prodotto, vengono a mancare le competizioni tra il frutto e gli altri organi della pianta. Gli alberi, dalla raccolta fino alla caduta delle foglie, dispongono di abbastanza tempo per poter ripristinare parte delle riserve nutrizionali nei vari organi ed evitare o limitare il fenomeno dell’alternanza.
Velocità nella pianta
• L’acqua all’interno della pianta di pesco
si muove con una velocità massima variabile da 5 a 7 m/h mentre le sostanze in essa disciolte si muovono più lentamente (20-100 cm/h)
Densità radicale (cm/cm3) di diverse specie vegetali in condizioni di pieno campo Melo
0,04-0,2
Pero
0,12-0,56
Ciliegio
0,1-0,5
Pesco
0,05-0,56
Olivo
0,01-0,04
Actinidia
0,56-1,6
Conifere
0,5-0,2
Graminacee
2,6-5
Potenziali idrici fogliari (MPa)
0,0 –0,5 Actinidia
–1,0 –1,5
Pesco
–2,0 Olivo
–2,5 –3,0
4
6
8
10 12 14 16 18 20 Ora del giorno
Andamento giornaliero dei potenziali idrici fogliari in actinidia (pianta isoidrica), pesco e olivo (piante anisoidriche) in condizioni idriche ottimali
167
coltivazione Scelta e progettazione dell’impianto irriguo Al fine di effettuare una scelta razionale del metodo e della tecnica irrigua è necessario conoscere: le caratteristiche pedoclimatiche, la disponibilità e la qualità dell’acqua, le caratteristiche della specie coltivata, l’impatto ambientale della pratica irrigua.
40 Infiltrazione cumulata (mm)
35
Terreno inerbito
30
Caratteristiche del suolo. Le caratteristiche fisico-meccaniche del profilo di suolo potenzialmente esplorabile dalle radici, la dotazione in sostanza organica e il tipo di gestione (inerbimento o lavorazione) determinano la sua capacità di assorbire e trattenere l’acqua delle piogge e quella d’irrigazione. L’insieme delle forze che trattengono l’acqua all’interno del profilo di suolo è chiamato potenziale idrico del suolo. Convenzionalmente, l’acqua disponibile viene definita come la quantità di acqua contenuta nel suolo avente limiti di potenziale idrico di –0,03 MPa (Capacità Idrica di Campo, CIC) e –1,5 MPa (punto di appassimento). La differenza tra il quantitativo di acqua contenuto in un suolo alla CIC e quello contenuto all’inizio dello stress idrico rappresenta la riserva di acqua facilmente utilizzabile dalle piante (RFU). In generale, il pesco presenta i primi sintomi di stress idrico quando il potenziale idrico è, all’incirca, pari a –0,05 MPa. Per la scelta del metodo irriguo e della portata degli erogatori, dei turni (tempo intercorrente tra due adacquate) e dei volumi di adacquamento, è importante la conoscenza della quantità di acqua che attraversa il terreno nell’unità di tempo (conducibilità idraulica). Il valore di tale parametro varia in relazione alle caratteristiche fisico-chimiche e del tipo di gestione del suolo, al suo contenuto idrico, alla modalità e alla durata dell’erogazione dell’acqua.
25 20 15 10
Terreno lavorato
5 0
0
2
4
6 8 10 12 14 Tempo (min)
Fonte: rielaborata da Pastor et al., 2000
Quantità di acqua immagazzinata in due tipologie di gestione del suolo durante i primi 14 minuti di una pioggia simulata
Distribuzione dell’acqua nel suolo in funzione delle caratteristiche granulometriche
• Quando la portata degli erogatori supera la velocità d’infiltrazione dell’acqua nel suolo, si possono verificare fenomeni di ruscellamento e di erosione nei terreni in pendenza o di ristagno superficiale in quelli pianeggianti
Caratteristiche del clima. La temperatura e l’umidità relativa dell’aria, il vento e la radiazione solare influenzano sia la tra-
• La conducibilità idraulica del suolo e la portata degli erogatori sono parametri necessari per stimare il movimento laterale e verticale dell’acqua nel suolo, in particolare per i metodi irrigui localizzati, quindi, del volume di suolo bagnato. In terreni argillosi a tessitura fine generalmente prevale lo spostamento in direzione laterale; nei suoli sabbiosi, invece, quello verticale; nei terreni franchi esiste un certo equilibrio tra le due direzioni
Distribuzione spaziale dell’acqua erogata a goccia in funzione delle caratteristiche fisiche del terreno
Argilloso
168
Franco
Sabbioso
concimazione e irrigazione Distanza tra i gocciolatori in relazione alla loro portata e al tipo di terreno, per interessare almeno il 25% del volume di terreno esplorato dalle radici
Classificazione della conducibilità idraulica
Portata del gocciolatore (l/h) 2
4
Tipo di terreno
8
Conducibilità (K) cm/h
Distanza tra i gocciolatori (m)
Molto lenta
<0,1
Sabbioso
0,65
0,75
0,95
Lenta
0,1-0,5
Franco sabbioso
0,85
0,95
1,15
Moderat. lenta
0,5-2
Moderata
2-6,5
Moderat. elevata
6,5-12,5
Elevata
12,5-25
Molto elevata
>25
Franco
1,05
1,15
1,35
Franco argilloso
1,25
1,35
1,55
Limoso
1,35
1,45
1,65
Fonte: rielaborata da Anconelli et al., 1999
spirazione della pianta sia l’evaporazione dell’acqua dal suolo. Per la progettazione è indispensabile disporre di serie storiche di dati climatici (almeno ventennali), mentre per la sua gestione bisogna disporre, nell’ambito di zone omogenee, di informazioni tempestive (al massimo settimanali) concernenti la piovosità e l’evapotraspirazione di riferimento (ETo). Stima dell’evapotraspirazione. L’evapotraspirazione rappresenta la quantità di acqua dispersa nell’atmosfera, in condizioni idriche ottimali, attraverso i processi di evaporazione dal suolo e di
Parametri climatici e colturali necessari per la stima dell’ETo con vari metodi ed errore medio rispetto al valore lisimetrico Metodi per la stima dell’ETo
Parametri climatici indispensabili
Parametri climatici stimati
Parametri colturali ra, rc
Variazione rispetto al lisimetro (%)* Ambienti umidi
Ambienti aridi
+4
–1 +6
Penman-Monteith
Tmed, URmed, VV, Rn, G
Radiazione
Tmed, Rg o Ss
UR,VV
+23
Blaney-Criddle
T
UR, VV, Ss
+16
+1
Penman
Tmed, URmed, VV, Rg o Ss
+30
+12
Evaporimetro
Ev
–5
+18
Hargreaves
Tmin, Tmax
+26
–9
Thornthwaite
Tmed
–2
+20
UR, VV
d
Tmin, Tmax, Tmed = temperatura minima, massima e media giornaliera; ur = umidità relativa; URmed = umidità media giornaliera; Rg, Rn, Ss, G = radiazione globale, radiazione netta, eliofania e flusso di calore nel terreno; VV = velocità e direzione del vento; ra, rc = resistenza aerodinamica e resistenza stomatica della coltura; d = distanza relativa dell’evaporimetro rispetto alla coltura * I valori rappresentano le medie delle stime riscontrate da diversi autori in ambienti climatici differenti Fonte: rielaborata da Doorenbos e Pruitt, 1977
169
coltivazione traspirazione dalla pianta. L’evapotraspirazione (ETo) può essere determinata attraverso metodi diretti e indiretti. I metodi diretti per la misura della ETo sono: il metodo lisimetrico e il metodo micrometeorologico dell’Eddy Covariance. Per la stima della ETo, la FAO consiglia il metodo Penman-Mont eith, che richiede la misura (oraria o al massimo giornaliera) delle principali variabili meteorologiche dell’atmosfera. Pioggia utile. La quantità di pioggia utile, ai fini dell’assorbimento radicale, dipende dalla sua intensità, dalla pendenza, gestione e contenuto idrico del suolo, dalle caratteristiche della coltura e dalla domanda evapotraspirativa dell’ambiente. Si può ritenere, in via generale, che una pioggia inferiore a 4-6 mm non sia utilizzabile dall’apparato radicale, in particolare nei suoli lavorati. Deficit idrico ambientale. Viene calcolato come la differenza tra l’evapotraspirazione di riferimento e la pioggia totale. La conoscenza del deficit idrico e della disponibilità di acqua per l’irrigazione permette di definire se un determinato territorio possa essere destinato alla coltivazione del pesco e, eventualmente, su quale cultivar orientare la propria scelta. Dal deficit idrico ambientale dipende il “costo idrico” per produrre un chilogrammo di pesche, che può variare, per le cultivar a maturazione precoce, da 400 litri, negli ambienti meridionali, ai 200 litri in quelli dell’Emilia-Romagna.
Atmometro, strumento utilizzato per stimare l’ETo
Evapotraspirazione di riferimento (ETo) e precipitazioni in due ambienti peschicoli 275
Metapontino ETo
200
Deficit 850 mm
100 Pioggia mm 0 275
Cesenate
200
ETo
Deficit 158 mm 100
L’impianto di irrigazione può fungere anche da impianto antibrina, ricoprendo lentamente i fiori e la vegetazione con ghiaccio che li protegge dai repentini abbassamenti termici
0
170
Pioggia
g
f
m
a
m
g
l
a
s
o
n
d
concimazione e irrigazione Caratteristiche della specie coltivata. L’area fogliare per ettaro (LAI) è l’elemento che più incide sui consumi idrici. Il LAI varia in relazione a forma di allevamento, densità di piantagione, vigoria della cultivar e del portinnesto, fertilità del suolo, tecnica colturale ed età dell’impianto. Nel pesco il ritmo di crescita dell’area fogliare, nelle prime fasi dopo il germogliamento, è lento e dura circa 20-30 giorni; segue un periodo della durata di 90-110 giorni, caratterizzato da una crescita rapida, che permette al pescheto di raggiungere il LAI massimo verso la metà di luglio. Successivamente, l’area fogliare rimane costante fino a ottobre-novembre (a seconda del clima) per poi diminuire con l’inoltrarsi dell’autunno. Nelle fasi iniziali del ciclo annuale, durante le quali l’area fogliare per ettaro è limitata, i consumi idrici per traspirazione sono contenuti, mentre possono essere elevati quelli per evaporazione dal suolo. Nei terreni con una buona dotazione idrica, il pescheto, durante il primo mese dal germogliamento, entra raramente in stress da carenza idrica, sia per il limitato sviluppo dell’area fogliare (elevato rapporto radici/foglie) sia per la bassa domanda evapotraspirativa dell’ambiente. È ovvio, quindi, che durante tale periodo le perdite di acqua per evaporazione dal suolo sono notevoli, in particolare nei pescheti, in cui si adottano metodi irrigui che bagnano tutta la superficie del suolo. Il consumo idrico per traspirazione dei frutti è molto limitato (da 100 a 400 litri di acqua giornalieri per ettaro). D’altra parte, però, la presenza dei frutti aumenta di circa il 10-15% l’attività traspiratoria delle foglie. Se consideriamo la competizione esistente tra la crescita dei frutti e quella dei germogli, una maggior presenza di frutti sulla pianta provoca una riduzione della superficie fogliare, che spesso si traduce in una riduzione dei consumi idrici per pianta; è possibile, quindi, che una pianta carica consumi meno acqua di una scarica o del tutto priva di frutti sin dall’inizio del ciclo annuale. La velocità con la quale le radici esplorano il volume di suolo a disposizione di ogni pianta è molto diversa e dipende prevalentemente dal portinnesto e dalla tecnica colturale. Ci sono portinnesti le cui radici “colonizzano” molto lentamente il suolo e altri, invece, che lo fanno molto rapidamente. Tali informazioni sono indispensabili sia per la progettazione dell’impianto irriguo (disposizione, portata e numero degli erogatori ecc.) sia per la sua corretta gestione, in particolare per la definizione dei turni e dei volumi di adacquamento. La densità radicale costituisce un altro parametro fondamentale per la valutazione dell’efficienza dell’apparato radicale stesso, relativamente all’utilizzazione dell’acqua e degli elementi minerali presenti nel volume di terreno esplorato dalle radici. La densità radicale condiziona la disponibilità idrica e viceversa. Una densità radicale elevata implica la riduzione della distanza media tra
Area fogliare e necessità idriche del frutteto
• L’evoluzione dell’area fogliare negli
anni e durante il ciclo annuale rappresenta il principale fattore che, unitamente alla domanda evaporativa dell’ambiente, determina le necessità idriche del pescheto
5
LAI
4 3 2 1 0
1
2 3 4 Anni dall’impianto
Y trasversale
5
Vaso ritardato
Fonte: Nuzzo et al., 2003
Evoluzione del LAI in piante allevate a Y trasversale (1111 p/ha) e a vaso ritardato (416 p/ha) nei primi cinque anni d’impianto
LAI (m2/m2)
5,0
Potatura verde Y trasversale
2,5 Vaso ritardato 0,0
31-mar 20-mag 09-lug 28-ago 17-ott Giorno dell’anno Fonte: Nuzzo et al., 2003
Variazione annuale del LAI in piante di pesco Springcrest allevate a Y e a vaso ritardato
171
coltivazione una radice e l’altra, il decremento sia del gradiente di potenziale idrico sia di quello di concentrazione dei vari elementi minerali nel suolo e, conseguentemente, una più efficiente utilizzazione delle risorse.
Disponibilità e qualità dell’acqua
• Il settore agricolo assorbe circa il 60%
Volume di suolo esplorato e riserva idrica in piante di pesco cv Vega innestata su portinnesto Missour ed Mr. S. 2/5 nei primi quattro anni dall’impianto
del totale d’acqua dolce disponibile, per cui è fondamentale contenere gli sprechi legati a un non corretto uso di tale risorsa
Anni dall’impianto
• È importante scegliere metodi a elevata efficienza (irrigazione localizzata a goccia) e stabilire in modo razionale turni e volumi idrici
I
II
III
IV
Volume di suolo (m /p)
1,22
3,39
3,6
3,6
Riserva idrica (l/p)
134
373
407
407
Volume di suolo (m3/p)
0,56
1,97
2,8
2,8
Riserva idrica (l/p)
62
217
311
311
3
Missour
• Conoscere le caratteristiche qualitative dell’acqua di irrigazione, al momento della realizzazione dell’impianto irriguo, è condizione indispensabile per la scelta dei filtri più idonei e per l’eventuale trattamento preventivo a cui sottoporre l’acqua, in particolare con i metodi irrigui localizzati
Mr. S. 2/5
Disponibilità e qualità dell’acqua. Le analisi da effettuare devono riguardare la definizione dei seguenti parametri: – fisici (temperatura, solidi in sospensione e loro dimensione); – chimici (salinità, pH, macro e microelementi); – biologici (batteri, alghe, funghi, attinomiceti ecc.).
• L’analisi chimica dell’acqua è, inoltre,
utile per una corretta impostazione del piano di concimazione
Parametri fisici. La temperatura dell’acqua può essere un parametro importante poiché coinvolto in alcune reazioni chimiche e nello sviluppo di microrganismi nel corpo idrico. Per esempio, elevate escursioni termiche favoriscono, nelle acque a pH alcalino e ricche di carbonato di calcio, la deposizione di carbonati insolubili nei vari segmenti dell’impianto. Le particelle solide in sospensione (sabbia, limo, argilla e altri corpuscoli, anche di origine organica) negli impianti irrigui localizzati possono causare intasamenti dei filtri, delle elettrovalvole, degli erogatori ecc. Generalmente, il carico di torbidi risulta alto quando si superano i 50 mg/l e basso per valori intorno a 6 mg/l.
Foto E. Marmiroli
Parametri chimici. Il valore ottimale del pH dell’acqua irrigua oscilla tra 6,5 e 7,5. Con valori di pH superiore a 8 i precipitati di Fe e di CaCO3 rimangono insolubilizzati, causando frequenti problemi di intasamento degli erogatori. I composti formati con il ferro, i tannini e le sostanze umiche sono più solubili a pH 6,5. La salinità dell’acqua, normalmente, viene espressa in quantità di sali disciolti ossia grammi/litro (g/l), in percentuale millesimale (‰), parti per milione (ppm), oppure attraverso la sua conducibilità elettrica (EC) (mmhos/cm). Nei terreni senza un buon drenaggio e in ambienti con bassa piovosità, la concentrazione salina del suolo aumenta in relazione ai volumi di adacquamento stagionali
Impianto di filtraggio dell’acqua
172
concimazione e irrigazione Efficienza di distribuzione dei vari metodi irrigui Metodi irrigui
Efficienza di distribuzione (%)
Sommersione
45
Infiltrazione
55-75
Aspersione
65-75
Microirrigazione
90-95
e alla concentrazione dei sali nell’acqua impiegata. Il SAR (rapporto di assorbimento del sodio), che tiene conto del contenuto di sodio in relazione a quello del calcio e del magnesio, permette una classificazione dell’acqua in base all’alcalinità. Un alto valore di SAR (per es. >18) indica una netta prevalenza, nella soluzione circolante del suolo, di ioni Na+ che tendono a scambiare gli altri ioni adsorbiti dai colloidi argillosi con conseguenze molto negative sulla struttura del suolo e sull’attività dell’apparato radicale. Un elevato contenuto di ioni Ca2+ e Mg2+, a cui corrisponde un elevato valore di durezza dell’acqua, comporta interventi di manutenzione più frequenti, nel caso di impianti di irrigazione localizzata. La presenza di carbonato di sodio, espressa come RSC (carbonato di sodio residuale) nell’equazione RSC = (CO32– + HCO3– ) – (Ca2+ + Mg2+), fornisce indicazioni di massima sulla possibilità di utilizzazione dell’acqua per uso irriguo.
Particolare di una centralina per la completa automazione della fertirrigazione
Esempio di posizionamento dei gocciolatori nei primi tre anni dall’impianto finalizzato ad aumentare l’efficienza del metodo irriguo
0,2 m
0,5 m
0,5 m
3m 1° anno
2° anno
3° anno
173
1,5 m
coltivazione Acque con valori di RSC superiori a 2,5 sono sconsigliate per l’irrigazione, mentre acque con RSC<1,5 si possono usare senza particolari problemi. Il contenuto in sali solubili condiziona notevolmente la qualità dell’acqua a uso irriguo, limitandone spesso l’utilizzazione. Gli aspetti più importanti riguardano la tolleranza alla salinità della specie coltivata, la progressiva salinizzazione e/o sodicizzazione dei terreni e i fenomeni di tossicità.
Accorgimenti quando si ricorre all’impiego di acque salate
• Evitare di bagnare le piante • Utilizzare metodi d’irrigazione
localizzati e a microportata. Il metodo a goccia consente di ridurre le oscillazioni dell’umidità nel terreno e in particolare nello spazio esplorato dalle radici, quindi limita le perdite d’acqua per evaporazione e di conseguenza l’accumulo di sali nello spazio esplorato dalle radici. Inoltre, in corrispondenza del suolo umettato, il livello di sali tende ad abbassarsi per l’instaurarsi di un gradiente a concentrazione crescente con l’aumentare della distanza dal punto d’umettamento
Sensibilità delle specie arboree al contenuto salino del suolo Riduzione percentuale della produzione
• Operare periodici interventi di pulitura
degli impianti. Molta attenzione si deve porre alla presenza di ioni Ca2+, Fe2+, Fe3+, PO43– in quanto i precipitati dei sali del calcio, gli ossidi di ferro, i composti fosfatici di calcio ecc. possono essere causa di intasamenti degli erogatori
0%
25%
100%
SPECIE
ECe (mmhos/cm)
ECe (mmhos/cm)
ECe (mmhos/cm)
Olivo
2,7
5,5
14
Arancio
1,7
3,2
8
Limone
1,7
3,3
8
Pero
1,7
3,3
8
Melo
1,7
3,3
8
Pesco
1,7
2,9
6,5
Albicocco
1,6
2,6
5,8
Vite
1,5
4,1
12
Mandorlo
1,5
2,8
6,8
Susino
1,5
2,9
7,1
Fonte: FAO, 1989
Parametri biologici. La presenza di microrganismi vivi nelle acque irrigue è, entro certi valori, normale, ma può diventare pericolosa quando vengono superati dei valori soglia, per quantità e per qualità. Melme prodotte da batteri del genere Pseudomonas ed Enterobacter possono agire da cemento all’interno delle linee adacquatrici e provocare la formazione di aggregati di sabbie fini e/o limo. Batteri filamentosi del genere Gallionella, Leptothrix, Crenothrix, Spareotilus possono causare la precipitazione del ferro nelle condotte tramite l’ossidazione del Fe2+ a Fe3+. Batteri aerobici del genere Beggiatoa e Thiothrix possono produrre melme ossidando H2S a S. Alghe, attinomiceti e funghi possono crescere sulle superfici dei serbatoi e dei bacini di raccolta esposti alla luce.
Impianto irriguo costituito da una singola ala gocciolante
174
concimazione e irrigazione Contenuto in sostanza organica, azoto e fosforo in acque reflue trattate con diversi metodi Sostanza organica mg/l
Azoto mg/l
Fosforo mg/l
Acque grezze non trattate
300-450
30-55
7-12
Acque sedimentate
200-350
25-45
6-10
Trattamento di ossidazione
30-50
25-40
4-7
Nitrificazione e denitrificazione
20-30
5-10
4-7
Trattamento per la rimozione del fosforo
–
–
<1
Gestione del metodo irriguo Stima dei consumi idrici della coltura. Il consumo idrico di un pescheto è determinato dalla somma della quantità di acqua trasferita dal terreno all’atmosfera attraverso i processi di evaporazione e di traspirazione del pescheto e delle altre specie erbacee eventualmente presenti. Al fine di determinare il bilancio idrico, occorre conoscere l’evapotraspirazione (ETo) e il coefficiente colturale (Kc), che tiene conto degli aspetti dell’evapotraspirazione legati allo stadio di sviluppo della coltura. Il consumo idrico della coltura in esame, in condizioni non limitanti o “standard”, è ETc = Kc x ETo. L’ETo, in alcune zone, fu fornito dal sistema meteorologico regionale in tempo reale, altrimenti si possono utilizzare i valori medi di ETo provenienti da una serie storica di dati rilevati nelle stesse aree, in quanto la variabilità tra i vari anni è molto contenuta, oppure può essere stimato mediante l’uso di atmometri.
Impianto irriguo a doppia ala gocciolante
Particolare di un impianto irriguo a doppia ala gocciolante
Coefficiente colturale di pescheti in piena produzione in condizioni di inerbimento e suolo nudo e con metodi irrigui che bagnano tutta la superficie Kcini
Kcmid
Quaderno della FAO ed evapotraspirazione
Kcend
SUOLO NUDO 0,55
0,96
• Con il quaderno della FAO n. 24 del
0,65
1977 e sua successiva revisione (n. 56 del 1998), il ciclo annuale del pesco è suddiviso in quattro fasi: iniziale, sviluppo, massimo e finale
SUOLO INERBITO 0,8
1,21
0,85
• In tale quaderno sono riportati anche
Il Kc si riferisce ad alberi al massimo sviluppo (3 m di altezza) che, nelle ore centrali (11.00-15.00) della giornata ombreggiano l’80% della superficie del suolo e irrigati con sistemi che bagnano tutta la superficie. Il Kcend rappresenta il valore del Kc prima della caduta delle foglie. In assenza di foglie, con suolo nudo, il Kc è pari a 0,15-0,2
i coefficienti colturali del pesco
Fonte: rielaborata secondo le procedure riportate nel Quaderno n. 56 della FAO
175
coltivazione Andamento del Kc in piante di pesco con suolo lavorato e con metodi irrigui che bagnano tutta la superficie del frutteto durante le varie fasi della stagione vegetativa
Fabbisogno irriguo di un frutteto
• Può essere valutato attraverso un
1,2
Kc
bilancio idrico giornaliero sulla base della seguente equazione: VI = [(ETc + D + R – Pu – Af – RU) / em x 10 (m3/ha)
in cui: VI = volume idrico da restituire (m3/ha) em = efficienza dell’impianto irriguo (0,3-0,95) 10 = coefficiente di conversione da mm a m3/ha ETc = evapotraspirazione colturale (mm) D = perdite per drenaggio e percolazione (mm) R = perdite per ruscellamento superficiale (mm) Pu = apporti idrici naturali da pioggia utili per la coltura (mm) Af = apporti idrici naturali da falda (mm) RU = apporto idrico dalla riserva idrica del suolo (mm)
0,6
Inizio 0
1
Sviluppo 30
Massimo 90
Finale 210
240
Fase vegetativa (giorni dalla schiusura gemme) Fonte: rielaborata su dati FAO, 1998
Volumi e turni di adacquamento. Per definire i turni e i volumi di adacquamento è necessario conoscere le necessità idriche delle piante, il volume di terreno esplorato dalle radici, le caratteristiche idrologiche del terreno e il tipo di impianto irriguo. La domanda evapotraspirativa dell’ambiente e il contenuto idrico del suolo controllano sia la traspirazione sia l’evaporazione dal suolo. I turni di adacquamento saranno più frequenti durante i periodi caratterizzati da elevata domanda evapotraspirativa, da scarsa piovosità e nei terreni con bassa ritenzione idrica. Il distanziamento dei turni implica un aumento dei volumi di adacquamento che potrebbe creare, nei terreni pesanti, condizioni asfittiche in corrispondenza degli erogatori e indurre, nei terreni leggeri e/o superficiali, perdite di acqua negli strati profondi.
• Tale equazione può essere calcolata
per periodi lunghi (pluriannuali, annuali, stagionali) o brevi (mensili, decadali o giornalieri). La precisione dipende sia dalla possibilità di misurare i singoli termini dell’equazione sia dall’ampiezza delle zone per cui si vuole farla valere
Irrigazione in condizioni di scarsa disponibilità idrica. Al fine di conoscere, definire e governare situazioni di carenza idrica del frutteto, viene riportata, di seguito, una descrizione di tre livelli di carenza idrica con i relativi effetti sulla pianta.
• Nei casi di corretta gestione
dei volumi irrigui e nelle situazioni di falda profonda i termini D, R, Af sono trascurabili, pertanto l’equazione (1) può essere approssimata alla seguente
Leggero: con potenziali idrici fogliari, all’alba, che oscillano da –0,4 a –0,6 MPa. I sintomi sono: riduzione dell’attività traspirativa e fotosintetica (20-30% circa) durante le ore più calde della giornata, durante il pomeriggio e la notte la pianta recupera quasi tutte le riserve idriche dei vari tessuti; rallentamento del ritmo di crescita dei germogli; leggero aumento della temperatura fogliare; leggera diminuzione della crescita del frutto; immediato recupero di tutte le funzionalità, una volta ripristinate le condizioni idriche ottimali del suolo.
VI (m3/ha) = [(ETc – Pu) / em)] x 10
176
concimazione e irrigazione
Per ridurre gli sprechi di acqua, al primo anno della realizzazione del pescheto, è stato installato un solo gocciolatore. Un secondo sarà installato al 3° anno nella parte opposta della pianta
Moderato: con potenziali idrici fogliari, all’alba, che oscillano da –0,7 a –0,9 MPa. I sintomi sono: blocco della crescita per allungamento dei germogli; riduzione del 50-60% dell’attività traspirativa e fotosintetica; aumento della temperatura fogliare, nelle ore più calde della giornata, anche di 4-5 °C rispetto a quella di piante ben irrigate; moderata riduzione della crescita del frutto, in particolar modo durante la distensione cellulare; nessun effetto se lo stress idrico si verifica durante la seconda fase di crescita del frutto; la pianta non riesce a ristabilire, nei vari tessuti, durante le ore notturne, le riserve idriche, che sono state cedute al flusso traspirativo durante il giorno, per il pieno recupero della sua funzionalità, la pianta necessita, una volta ristabilite nel suolo le condizioni idriche ottimali, di un periodo di 4-7 giorni; nessun effetto negativo sulla produzione dell’anno successivo se la carenza idrica si verifica dopo la raccolta, in particolare per le cultivar a maturazione precoce.
Gocciolatore intruso nell’ala gocciolante Foto E. Marmiroli
Foto E. Marmiroli
Particolare di un irrigatore a microaspersione
Giovani peschi con impianto di irrigazione a unica ala gocciolante e microaspersore
177
coltivazione Severo: se l’umidità del suolo è vicina al punto di appassimento della pianta (potenziali idrici fogliari, all’alba, da –1,5 a –2 MPa). I sintomi sono: inizio dell’abscissione delle foglie; blocco della traspirazione e della fotosintesi durante le ore più calde della giornata, con conseguente aumento della temperatura fogliare anche di 8-10 °C rispetto a quella di foglie di piante ben irrigate; si evidenzia il disseccamento della lamina fogliare a partire dai margini; arresto totale della crescita di germogli e frutti, che perdono acqua durante il giorno; con la caduta delle foglie, le piante, se non disseccano, entrano in dormienza (eco-dormienza) per poi riprendere a vegetare e fiorire (seconda fioritura), in coincidenza delle prime piogge autunnali o di un intervento irriguo di soccorso, con forti ripercussioni sull’attività vegetativa e produttiva dell’anno successivo; spesso si verifica un aumento delle anomalie fiorali (fiori con doppio o triplo pistillo).
Stress idrico controllato
• La riduzione dei volumi irrigui non ha
effetti negativi sulla quantità e qualità della produzione dell’anno successivo, riduce la crescita dei succhioni e dei rami anticipati e aumenta la concentrazione dei solidi solubili e dell’azoto negli organi di riserva, in quanto riduce il consumo di tali sostanze da parte degli apici vegetativi. Il maggior accumulo dei carboidrati e delle sostanze azotate migliora la qualità dei rami e delle gemme e, inoltre, favorisce il processo di ripresa vegetativa dell’anno successivo
L’applicazione del deficit idrico controllato consiste nell’erogare una quantità di acqua inferiore a quella necessaria alla coltura per il suo sviluppo ottimale. Per poter applicare lo stress idrico controllato, con buoni risultati sia in termini di risparmio della risorsa idrica sia in termini produttivi, è indispensabile conoscere gli effetti della carenza idrica sulla coltura e individuare le fasi fenologiche meno sensibili. Per poter applicare il livello di carenza idrica desiderato, è indispensabile il monitoraggio dello stato idrico del suolo e della pianta. In linea generale, per il pesco le fasi più sensibili alla carenza idrica sono fioritura, allegagione, accrescimento del frutto per divisione e distensione cellulare.
• Per le cultivar di pesco a maturazione
precoce lo stress idrico controllato è applicabile nella fase post-raccolta. Su piante di pesco durante tale fase è possibile applicare una riduzione del 50% dell’evapotraspirazione colturale
• Per le cultivar di pesco a maturazione tardiva, si può applicare agevolmente uno stress idrico controllato nella seconda fase di crescita del frutto (indurimento del nocciolo)
Architettura della chioma ed efficienza dell’uso dell’acqua Per “efficienza dell’uso dell’acqua” s’intende il rapporto tra la quantità di anidride carbonica fissata e quella di acqua traspirata. Di tutta l’acqua assorbita dalle radici e trasferita alla parte aerea della pianta, il 99,5% circa viene emesso nuovamente nell’atmosfera attraverso la traspirazione stomatica e cuticolare delle foglie. Il consumo idrico dei frutti rappresenta una minima parte di quello totale, ma essi contribuiscono indirettamente ad aumentare il consumo idrico delle foglie (dal 5 al 15% circa). Mentre, durante il giorno, l’attività traspirativa è regolata prevalentemente dalla domanda evapotraspirativa dell’ambiente e secondariamente dalla disponibilità luminosa, per l’attività fotosintetica il fattore limitante è soprattutto la luce. Le foglie che ricevono luce sufficiente (8001000 µmol m2/s PPFD) per raggiungere il livello massimo di fotosintesi, traspirando di più, hanno un’efficienza dell’uso dell’acqua di circa 10 volte superiore a quella delle foglie site nelle zone ombreggiate (<20% della radiazione incidente). Nella scelta della forma di allevamento, quindi, bisogna tenere in debita considerazione l’efficienza dell’uso della risorsa idrica, effi-
Particolare di un invaso artificiale in un’azienda privata
178
concimazione e irrigazione cienza che aumenta con l’aumentare del rapporto foglie esposte/ foglie ombreggiate. Tale aumento può essere ottenuto attraverso la riduzione delle dimensioni delle piante, l’adozione di quelle forme che consentono di massimizzare la quota di foglie esposte e l’esecuzione di interventi di potatura verde.
10 8 WUE (mg CO2/mg H2O)
Irrigazione e impatto ambientale L’irrigazione, in particolare nelle aree con elevato deficit idrico ambientale e nei terreni con scarso drenaggio, rappresenta spesso la causa principale dei fenomeni di salinizzazione e alcalinizzazione dei suoli. Considerando i notevoli volumi idrici che spesso vengono utilizzati in frutticoltura, la scarsa piovosità di molti ambienti e la sempre più bassa qualità delle acque impiegate, ogni anno, vengono apportati grossi quantitativi di sali che, in pochi anni, possono rendere i suoli non idonei alla coltivazione, in particolare, di quelle specie più sensibili alla salinità e all’alcalinità. La salinizzazione dei suoli colpisce soprattutto le zone costiere, dove spesso l’acqua utilizzata per l’irrigazione viene prelevata da pozzi il cui tenore in sali è in continuo aumento, a causa del mancato ripristino della falda freatica da parte dell’acqua piovana e del conseguente ingresso di acqua marina. L’irrigazione, se non gestita correttamente, può causare l’inquinamento delle acque superficiali e sotterranee attraverso il trasporto, per scorrimento o infiltrazione negli strati più profondi, di elementi minerali, pesticidi e diserbanti. La non-lavorazione del suolo, l’uso della fertirrigazione e una buona dotazione di sostanza organica costituiscono degli strumenti in grado di ridurre l’impatto ambientale della tecnica irrigua.
6 4 2 0
Y trasversale
vaso
palmetta
Forme di allevamento Fonte: rielaborata da Giuliani et al., 1999
Efficienza dell’uso dell’acqua nelle diverse forme di allevamento
Pescheto con tubazione d’irrigazione principale in primo piano e ali disperdenti posate al suolo
Foto V. Bellettato
179
il pesco
coltivazione Parassiti animali Piero Cravedi
www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche. Crediti: le foto alle pagine 16 in alto a destra (Bvdc), 78 in alto (Huan), al centro (Pinkcandy) e in basso (Teoteoteo), 79 (Amitai), 80 in basso (Miszmasz), 81 (Looby), 82 (Karcich), 86 (Yasonya), 88 in basso (Lissdoc), 96 (Hurry), 98 in alto a sinistra (Hurry), 108 in alto (Tinker) e in basso (Meengen), 408 (Matka_wariatka), 409 (Elkeflorida), 416 al centro (Uksus) e in basso (Vladacanon), 417 in alto (Icefront), 421 in basso (Robynmac), 422 in alto (Palolilo), 474 in basso (Emily2k), 479 in basso (Elenathewise) sono dell’agenzia Dreamstime.com.
coltivazione Parassiti animali Foto R. Angelini
Introduzione L’area di origine del pesco è considerata la Cina dove si trova spontaneo e da cui si è diffuso in altre aree dell’Asia quali l’antica Persia e le zone del Caucaso, dove sono presenti le forme con cui Greci e Romani sono giunti in contatto. Questa premessa serve a ricordare che la coltivazione del pesco si è estesa progressivamente dall’Estremo Oriente fino all’Europa. A seguito delle grandi scoperte geografiche il pesco è successivamente arrivato anche nei nuovi continenti. La tipologia dei trasporti dei secoli scorsi ha consentito il movimento delle piante senza gli insetti a esse infeudati nell’area di origine. Per vari secoli, quindi, il numero di insetti dannosi al pesco si è mantenuto ridotto. In alcune aree dell’Europa e dell’Asia solo alcune specie polifaghe si sono adattate alla nuova coltura senza manifestare livelli di dannosità particolarmente elevata. La situazione è drammaticamente mutata nella seconda metà dell’Ottocento, per una serie di cause tra cui la frequenza, il volume e la velocità dei trasporti, che dal quel periodo hanno iniziato progressivamente a intensificarsi. Si sono quindi verificati, tra la fine dell’800 e la prima metà del ’900, importanti “ricongiungimenti” tra piante e loro insetti nonché invasioni di fitofagi in nuovi ambienti. Preoccupa, inoltre, il fatto che l’introduzione di specie dannose da altri continenti stia continuando nonostante le severe norme di quarantena. Di seguito verranno descritti i principali parassiti animali (insetti e acari) presenti nel nostro Paese e responsabili di danni, più o meno rilevanti, su pesco. I diversi fitofagi sono stati raggruppati su base sistematica (ordine e famiglia) e, per ciascuno di essi, sono illustrati i principali aspetti relativi al ciclo biologico e ai danni che arrecano sui vari organi della pianta. Nella parte conclusiva di questo capitolo sono fornite le linee guida per l’attuazione di un efficace programma di difesa in linea con i disciplinari di produzione integrata.
Larva di Anarsia lineatella Foto R. Angelini
Malformazioni ed emissione di gomma provocate dalle punture di miridi Foto E. Marmiroli
Foto R. Angelini
Trappola per la cattura massale degli adulti di Cossus cossus
Tra i lepidotteri che occasionalmente attaccano il pesco si segnala il Cossus cossus, le cui larve rodono il legno dei tronchi, riducendone la stabilità fino a provocare la morte della pianta
180
parassiti animali Lepidotteri Fra i lepidotteri, la tignola orientale del pesco, Cydia molesta, è la specie di maggiore importanza per la dannosità e l’ampia distribuzione. Danni molto simili vengono provocati dall’Anarsia lineatella, la cui distribuzione è maggiormente localizzata. Sui frutti, particolarmente delle nettarine, si segnalano sporadici attacchi a opera di larve di Nottuidi. Le specie più frequentemente responsabili sono Mamestra brassicae, M. oleracea, Peridroma saucia. In vari casi è stata rilevata una correlazione con lo sviluppo della vegetazione erbacea che, quando raggiunge i rami bassi del pesco, può agevolare lo spostamento delle larve. Gli attacchi si manifestano improvvisamente, per cui è indispensabile privilegiare la prevenzione con l’accurata gestione dell’inerbimento dei pescheti. Adulto di Phyllonoricter cerasicolella o litocollete, minatore delle foglie del pesco Foto R. Angelini
Cydia funebrana, o tignola delle susine, può occasionalmente danneggiare altre drupacee ed essere confusa con le altre specie del genere Cydia
Il piralide Euzophera bigella può attaccare i frutti in prossimità della raccolta. Sulle foglie si possono verificare infestazioni, anche di elevata intensità, a opera di microlepidotteri minatori del genere Phyllonorycter. Nei frutteti adeguatamente difesi, l’intensità dell’infestazione tende a regredire naturalmente.
Danno provocato da litocollete Foto R. Angelini
Foto R. Angelini
Pandemis heparana, o tortrice verde, è dannosa per le erosioni, dette “ricamature”, che provoca sui frutti Adulto di Hyphantria cunea. Le sue larve sono voraci defogliatrici
181
coltivazione Tignola orientale del pesco (Cydia molesta). Costituisce la specie di maggiore importanza. I suoi attacchi tendono ad aumentare nel corso della buona stagione sicché sono le cultivar a maturazione tardiva quelle che corrono i rischi maggiori. Le cultivar precoci, invece, sfuggono in gran parte agli attacchi. Per questo negli ambienti meridionali si è a lungo ritenuto che C. molesta non costituisse un grave problema. L’aumento dell’importanza della peschicoltura nelle regioni del Sud ha comportato anche la necessità di ampliare la gamma di varietà per coprire un più esteso periodo di raccolta. Come conseguenza si è registrato l’aumento della dannosità di C. molesta. Le larve, che a maturità sono lunghe 10-14 mm, sono di colore rosato con capsula cefalica e placca protoracica e anale bruno chiaro. La placca anale è caratterizzata dal possedere un pettine con 4-5 denti che può essere osservato con l’uso di una semplice lente di ingrandimento. Questa particolarità assume importanza per riconoscere le larve di C. molesta che sono molto simili a quelle di Cydia pomonella. A completo sviluppo le larve di C. pomonella hanno lunghezza maggiore (18-20 mm), ma nelle età intermedie hanno dimensioni e colore che possono trarre in inganno. Altra specie che ha larve che possono essere scambiate per quella di C. molesta è la tignola delle susine Cydia funebrana. Infestazioni miste si possono trovare quando sono confinanti pescheti e impianti di susino. Le larve di C. funebrana sono lunghe, a completo sviluppo, 11-15 mm e possiedono, sul decimo segmento, un pettine anale di 5-6 denti, ma la colorazione del loro dorso è di intenso rosso carminio. Gli adulti di C. molesta hanno ali anteriori di colore bruno-grigiastro. Anch’essi sono molto simili a quelli di C. funebrana e più volte è stata segnalata la cattura di una specie con le trappole a feromone dell’altra. Nei casi in cui ci fossero dubbi è opportuno ricorrere alla preparazione degli apparati copulatori dei maschi catturati.
Foto R. Angelini
Foto R. Angelini
Foto R. Angelini
Adulto (in alto), uovo (al centro) e larva (in basso) di tignola orientale del pesco Danno da larva di Cydia molesta su frutto
182
parassiti animali Foto R. Angelini
Tignola orientale del pesco
• L’insetto sverna come larva matura
in ripari sulla pianta. Il primo sfarfallamento di adulti avviene nel mese di aprile e, dopo un intervallo di circa 15 giorni, gli sfarfallamenti riprendono. Nell’anno si susseguono 4-5 generazioni che in gran parte si sovrappongono
Emissione di gomma in corrispondenza del foro di penetrazione della larva
Si possono fare preparati temporanei che possono essere agevolmente osservati anche con una semplice lente di ingrandimento. La prima segnalazione di C. molesta in Italia risale al 1920. Da allora si è progressivamente estesa a tutti i territori in cui si coltiva il pesco. La tignola orientale è una specie piuttosto polifaga, in grado di sviluppare su germogli e frutti di varie piante. Oltre a numerosi fruttiferi, possono essere infestate anche piante ornamentali quali Lauroceraso, Cotoneaster e Rosa. Queste piante possono costituire una fonte di infestazione per i frutteti limitrofi. A lungo si è ritenuto che la polifagia di C. molesta avesse scarso rilievo pratico e che solo il pesco potesse essere considerato l’ospite realmente danneggiato. Negli ultimi anni la situazione è cambiata e ora anche sul melo e sul pero devono essere effettuati interventi di difesa dalle infestazioni di C. molesta. Sul pesco gli attacchi delle larve di prima generazione interessano prevalentemente i germogli. Nelle generazioni successive le larve orientano progressivamente la loro preferenza verso i frutti. I rischi di danno aumentano con il progredire della stagione e si accentuano in prossimità della raccolta.
Foto R. Angelini
Foto R. Angelini
Danno su germoglio Prima di penetrare nel frutto, le larve possono danneggiare anche i germogli
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coltivazione Anarsia (Anarsia lineatella). Appartiene alla famiglia dei Gelechidi. Una caratteristica degli adulti di questa famiglia è rappresentata dall’apparato boccale dotato di palpi labiali molto lunghi, rivolti verso l’alto e con apice appuntito. Questo carattere è ben evidente anche in A. lineatella. Le ali anteriori sono di forma lanceolata, di colore grigio punteggiato di nero. Quelle posteriori sono più chiare. In condizioni di riposo le ali vengono tenute abbassate lungo il corpo, conferendo un aspetto caratteristicamente allargato. A. lineatella è responsabile di attacchi ai germogli e ai frutti simili a quelli provocati da C. molesta. Alla ripresa vegetativa le larve erodono gemme e fiori per completare il loro sviluppo. Questa attività, molto precoce, risulta dannosa su piante appena innestate, mentre è di importanza ridotta sulle piante già sviluppate. Le larve di A. lineatella sono facilmente riconoscibili per la colorazione bruna con membrane intersegmentali più chiare che conferiscono un aspetto “zebrato”. Nella fase iniziale i danni provocati da A. lineatella sono ben riconoscibili e separabili da quelli di C. molesta, che sfarfalla, infatti, circa un mese prima. In seguito, a causa dell’accavallamento delle generazioni, la separazione presenta maggiori incertezze e solo il rinvenimento delle larve consente la corretta attribuzione del danno. Solo il primo sfarfallamento è però nettamente separato da quelli successivi. I periodi in cui sono presenti le larve delle tre generazioni corrispondono approssimativamente al mese di giugno, dall’ultima decade di luglio a fine agosto e da metà settembre. Le larve della terza generazione sono quelle destinate a svernare e a completare il loro sviluppo alla ripresa vegetativa.
Anarsia
• Lo svernamento avviene come larva di seconda età
• Le larve che hanno svernato in
diapausa riparate in caratteristici ibernacoli devono quindi completare il loro sviluppo per poi incrisalidarsi. Il primo sfarfallamento di anarsia avviene, quindi, dalla seconda decade di maggio e prosegue fino a oltre metà giugno
• Nell’anno si succedono tre generazioni
Foto R. Angelini
Adulto di anarsia Foto R. Angelini
Larva di anarsia Erosione della gemma e del fiore e larva di Anarsia lineatella
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parassiti animali La distribuzione di anarsia non è omogenea e in alcune zone risulta più dannosa che in altre. Questa specie può attaccare anche altre drupacee ed è una specie chiave per l’albicocco. Il monitoraggio viene effettuato con trappole a feromone. Si segnala, però, che le catture non sempre forniscono una buona rappresentazione del rischio di attacco per la coltura. Sono, inoltre, disponibili in commercio erogatori di feromoni per l’inibizione degli accoppiamenti.
Foto R. Angelini
Tignola subcorticale (Euzophera bigella). Questa specie è caratterizzata da un’elevata polifagia. L’adulto ha ali anteriori di colore grigiastro con due strie traversali più chiare. Il colore della larva è tendenzialmente grigiastro. La biologia dell’euzofera non è completamente conosciuta. Foto R. Angelini
Anarsia lineatella è un insetto chiave anche per l’albicocco
Larva di Euzophera bigella in corrispondenza di un danno da grandine
Le larve si nutrono di tessuti corticali e subcorticali di varie piante arboree. Sono, però, segnalate infestazioni sui frutti in fase di maturazione di varie specie. A lungo si è ritenuto che le lesioni di vario tipo e in particolare quelle che si verificano a seguito di grandinate fossero determinanti per il verificarsi degli attacchi. Da alcuni anni, però, a partire dal mese di luglio fino a tutto settembre, si sono verificati danni sia su pesco sia in altri fruttiferi, anche su frutti completamente integri.
Adulto di Euzophera bigella Foto R. Angelini
Foto R. Angelini
Larva di tignola subcorticale con danno su frutto di nettarina Crisalide di Euzophera bigella in corrispondenza delle rosure su frutto
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coltivazione Rincoti o Emitteri La maggior parte dei Rincoti vive a carico di piante. In questo ordine la fitofagia raggiunge i più alti livelli di specializzazione, da cui derivano sia la dannosità diretta sia quella connessa alla trasmissione di virus e di fitoplasmi.
Rincoti o Emitteri
• I Rincoti sono caratterizzati da
apparato boccale adatto a pungere e succhiare. Alcuni sono però zoofagi e vivono come ectoparassiti di vertebrati, tra cui anche l’uomo. La cimice dei letti rappresenta un esempio emblematico. Altri sono predatori di insetti e svolgono un’attività di limitazione di specie dannose. Nota è l’importanza di Anthocoris nemoralis nel contenimento delle popolazioni di psilla comune del pero
Afidi (Superfamiglia Aphidoidea. Famiglia Aphididae) Varie caratteristiche che hanno consentito agli insetti il successo nella conquista di ogni ambiente delle terre emerse si trovano combinate negli afidi.
Myzus persicae
Il loro ciclo biologico classico prevede l’alternanza di generazioni di femmine che si riproducono senza accoppiarsi, ossia per partenogenesi, con un più o meno regolare inserimento di una generazione anfigonica, cioè con la presenza di entrambi i sessi e quindi con accoppiamento, fecondazione e deposizione dell’uovo destinato a svernare. Vengono così assicurati un periodico aumento della variabilità genetica e la selezione di quei caratteri che consentono l’adattamento all’ambiente. La problematica connessa all’insorgenza di fenomeni di resistenza agli insetticidi è strettamente connessa alla modalità di riproduzione della specie considerata.
Anthocoris nemoralis mentre preda una ninfa di psilla
Anthocoris sp.
Adulto alato di Hyalopterus amygdali. Si distingue per la presenza di una pruina biancastra che ne ricopre il corpo
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parassiti animali Ciclo di un afide olociclico monoico Fondatrigenie
Fondatrigenie
Ciclo degli afidi e rapporti con la pianta ospite
Fondatrigenie
- Olociclo: alternanza regolare tra più generazioni partenogenetiche e una anfigonica
Fondatrice Primavera Uovo d’inverno
Inverno
Estate Autunno
- Paraciclo: comparsa saltuaria della generazione anfigonica
Fondatrigenie
- Anolociclo: scomparsa della generazione anfigonica. Si hanno solo generazioni partenogenetiche
Femmina anfigonica Fondatrigenie
• Il ciclo può essere distinto anche in:
Fondatrigenie
Maschio
- Monoico: si svolge su una stessa specie ospite
La prodigiosa capacità che gli afidi hanno nello sfruttare condizioni favorevoli deriva dal fatto che le femmine attere delle generazioni partenogenetiche hanno un ritmo riproduttivo assai veloce, in quanto raggiungono rapidamente la maturità sessuale senza completare l’acquisizione dei caratteri dell’adulto. Si deve inoltre considerare che negli afidi si verifica il fenomeno noto come “inscatolamento delle generazioni”. Le femmine partenogenetiche della maggior parte degli afidi, fra cui quelle dannose al pesco,
- Dioico: si svolge su due specie ospiti - Eteroico: si svolge su più specie ospiti - Omotopo: l’intera vita dell’afide si svolge sulla stessa parte della pianta (per es. solo sulle foglie) - Eterotopo: la vita dell’afide si alterna su parti diverse della pianta (per es. radici e foglie)
Ciclo di un afide olociclico dioico Ospite primario
Virginogenie Fondatrigenie
Fondatrice
Virginogenie
Primavera
Uovo d’inverno
Inverno
Ospite secondario
Estate Autunno
Femmina anfigonica
Virginogenie Virginogenie
Fondatrigenie Capo e apparato boccale di Brachycaudus schwartzi al microscopio
Maschio
187
coltivazione Ciclo di un afide anolociclico
Primavera Inverno
Estate Autunno
sono vivipare e le neanidi neonate hanno già avviato nei loro ovari lo sviluppo degli embrioni delle generazioni successive che, quindi, si succedono in tempi brevissimi. Negli afidi non si ha, dunque, una successione di generazioni ben separate tra loro. Quando le condizioni sono favorevoli, si ha una tumultuosa proliferazione che porta a rapidissimi incrementi numerici delle popolazioni. I campionamenti degli afidi del pesco devono dunque tener conto di questo comportamento ed essere frequenti e accurati, particolarmente alla ripresa vegetativa e in tutto il periodo primaverile. Il ciclo biologico di base (olociclo) prevede frequentemente anche una variazione di piante ospiti (olociclo dioico). Le piante del genere Prunus sono gli ospiti primari di alcuni afidi, che su di esse compiono la generazione anfigonica, svernano e compiono poi le prime generazioni primaverili di femmine partenogenetiche. Questo è
Brachycaudus persicae sulla radice dell’ospite secondario Foto R. Angelini
Hyalopterus sp. su ospite secondario (Phragmites communis) Adulto alato di Myzus persicae
188
parassiti animali
Foto R. Angelini
Femmina alata di neanide (a sinistra) e Myzus varians (a destra)
il comportamento tipico dell’afide verde Myzus persicae, dell’afide sigaraio Myzus varians e dell’afide farinoso Hyalopterus amygdali. L’afide bruno, Brachycaudus schwartzi, compie invece interamente il suo ciclo nella parte aerea del pesco (olociclo monoico omotopo). Altri afidi manifestano comportamenti variabili. L’afide nero, Brachycaudus persicae, compie di norma l’intero ciclo su pesco, ma sono segnalate anche parziali migrazioni su piante erbacee della famiglia delle scrofulariacee. Su pesco può compiere un olociclo con deposizione dell’uovo durevole nei ripari della corteccia, ma, più frequentemente, si ha la migrazione di femmine attere sulle radici ove svernano. Lo spostamento si verifica già nel periodo estivo. In questo ciclo non compare la generazione anfigonica (anolociclo eterotropo). Sul pesco si possono trovare anche altre specie di afidi la cui importanza è però da considerare trascurabile. Oltre ai danni diretti, meritano menzione anche quelli dovuti alla trasmissione di virus. Per le drupacee il ruolo degli afidi è rilevante nella diffusione del virus della vaiolatura o sharka (PPV).
Colonia di Brachycaudus schwartzi con due uova bianche di sirfidi Foto R. Angelini
Foto R. Angelini
Colonia di afidi predata da una larva di dittero sirfide Larve predatrici di afidi
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coltivazione Afide verde (Myzus persicae). Nonostante il suo nome comune, questo afide ha una colorazione variabile. Oltre a popolazioni di colore verde chiaro, sono frequenti quelle giallastre e altre con tonalità rossastre. Nella scelta dell’ospite primario è molto selettivo e manifesta una spiccata preferenza per il pesco. Al contrario si comporta, invece, nei confronti delle piante erbacee che rappresentano i suoi ospiti secondari. Risultano così infestate varie piante sia spontanee sia coltivate, in campo e in serra.
Foto R. Angelini
Foto R. Angelini
Larve e adulti di coccinella sono attivi predatori naturali di afidi
Colonia di afide verde Foto R. Angelini
L’afide verde è responsabile della trasmissione di virus a numerose colture, sicché è fatto oggetto di frequenti trattamenti insetticidi che accrescono il rischio della selezione di ceppi resistenti. Nelle aree a peschicoltura specializzata è certamente l’afide di maggiore importanza. Lo svernamento avviene sul pesco sotto forma di uovo durevole di un colore nero brillante. La schiusa delle uova avviene piuttosto precocemente e le prime femmine partenogenetiche, le fondatrici, si possono trovare già prima della fioritura.
Infestazione di afide verde su germoglio Fondatrigenia alata di M. persicae
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parassiti animali Foto R. Angelini
Foto R. Angelini
Colonia di afidi e relativo danno su apice vegetativo
La mortalità delle uova svernanti è elevatissima sicché all’inizio della primavera le popolazioni di partenza sono generalmente piuttosto basse. La capacità riproduttiva di questo afide è prodigiosa e se le condizioni ambientali sono favorevoli si possono verificare rapidissimi incrementi delle infestazioni. Le colonie si localizzano sui germogli in fase di rapido sviluppo. Sulle nettarine, però, possono essere coinvolti anche i frutticini, che, essendo privi della tipica tomentosità delle pesche, risultano particolarmente vulnerabili. Le punture determinano aree decolorate che rimangono evidenti con la crescita del frutto. La vigoria delle piante ha una diretta conseguenza sulla moltiplicazione degli afidi. Una concimazione equilibrata rende, quindi, le piante meno vulnerabili.
Danno su germoglio: sono evidenti l’abbondante produzione di melata e le esuvie bianche lasciate dalla colonia Foto R. Angelini
Foto R. Angelini
Deformazioni provocate dalle punture di M. persicae su nettarina
Gli afidi prediligono le nettarine alle pesche in quanto sprovviste di peluria protettiva. Le punture provocano aree depresse e decolorate e successive deformazioni nello sviluppo
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coltivazione Afide sigaraio (Myzus varians). Morfologicamente è simile alla specie precedente. Le differenze rilevabili in campo, con l’aiuto di una lente, riguardano la colorazione della parte terminale dei sifoni e degli articoli antennali che nell’afide sigaraio sono scuri. I sintomi sono, invece, molto più semplici da riconoscere in quanto le foglie attaccate si arrotolano a sigaro lungo la nervatura principale. I sintomi sono rilevabili anche dopo la migrazione dell’afide su piante del genere Clematis che rappresentano gli ospiti secondari. Questo afide, piuttosto sensibile ai trattamenti insetticidi, può dare origine a infestazioni di rilievo in aree collinari ove la peschicoltura è meno intensiva, oppure su piante isolate o in piccoli frutteti familiari.
Foto R. Angelini
Foto R. Angelini
Tipico arrotolamento fogliare provocato dall’afide sigaraio Foto R. Angelini
Danno su foglia provocato da afide sigaraio Colonia di M. varians all’interno di una foglia
Foto R. Angelini
Afide farinoso (Hyalopterus amygdali). Si riconosce per la colorazione verdognola e la secrezione cerosa che ricopre il corpo. Le colonie si localizzano sulla pagina inferiore delle foglie che rimangono distese. Questo afide produce abbondante melata, che provoca l’occlusione degli stomi creando condizioni di asfissia delle foglie e dei germogli. H. amygdali compie il suo olociclo fra il pesco (che rappresenta l’ospite primario) e alcune graminacee spontanee. A fine primavera migra sulla canna di palude (Phragmites communis) e su altre graminacee spontanee. La migrazione può essere parziale e le colonie che rimangono sul pesco possono rendere necessari interventi anche nei mesi estivi. Sono però molto temute le infestazioni precoci, contro le quali è importante intervenire, anche solo con trattamenti localizzati sulle prime piante infestate.
Foglia infestata da afide farinoso
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parassiti animali Afide bruno del pesco (Brachycaudus schwartzi). Le punture dell’afide bruno inducono accartocciamenti fogliari molto simili a quelli di M. persicae. Le differenze morfologiche tra le due specie sono marcate. La codicola è breve e di forma semicircolare. La colorazione del corpo è bruna con fasce nerastre ben evidenti nell’area dorsale del torace e dell’addome. Sovente l’afide bruno e l’afide verde formano colonie miste. L’afide bruno compie il suo ciclo interamente sulla parte aerea del pesco.
Foto L. Riccioni
Foto R. Angelini
Infestazioni estive da Brachycaudus schwartzi
Colonia di afide bruno
Afide nero del pesco (Brachycaudus persicae). Morfologicamente è simile alla specie precedente, da cui è però facilmente riconoscibile per il colore nero lucente. Le sue infestazioni possono essere molto limitate. Già a fine inverno si può avere la colonizzazione della parte aerea con insediamenti sui rametti e sulle gemme, all’inizio del rigonfiamento, da parte delle femmine che hanno trascorso i mesi più freddi sulle radici. Foto R. Angelini
Femmina partenogenetica di Brachycaudus schwartzi all’atto di partorire Colonia di Brachycaudus persicae
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coltivazione Foto R. Angelini
Colonia di afide nero su fiori di pesco
Formica alla ricerca di melata su una colonia di B. persicae
Successivamente le colonie possono interessare i fiori e i frutticini. Più avanti nella stagione si localizzano sui piccioli e lungo le nervature principali delle foglie. Non si hanno deformazioni fogliari. Sono particolarmente temute le infestazioni precoci. Afidone corticicolo delle drupacee (Pterochloroides persicae). La presenza di questo afide è stata segnalata nelle regioni dell’Italia meridionale a partire dal 1975. La specie è ritenuta originaria del Medio Oriente, dove compie l’olociclo monoico su piante del genere Prunus. In Italia non è mai stato segnalato il ciclo completo con lo svernamento allo stato di uovo. Nelle aree meridionali italiane le femmine partenogenetiche sono in grado di sopportare le temperature invernali non eccessivamente rigide dando origine a un anolociclo. Questo afide ha dimensioni grandi (lunghezza da 2,5 a 4,2 mm) ed è di colore bruno con maculature nere. Le infestazioni si localizzano sulla corteccia della base del tronco e delle branche principali. Si ha una produzione di melata molto abbondante su cui sviluppa una vistosa fumaggine. Le infestazioni si manifestano alla ripresa vegetativa, ma raramente raggiungono livelli preoccupanti e rimangono limitate a una parte delle piante del frutteto.
Colonia di B. persicae su germoglio
Esemplari di B. persicae
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parassiti animali Cocciniglie (Superfamiglia Coccoidea) Le cocciniglie manifestano i più spinti adattamenti alla vita a carico delle piante. Pur essendo sistematicamente vicine agli afidi, hanno comportamento biologico assai diverso. Una delle prime considerazioni sulle cocciniglie riguarda la differenza fra i due sessi. Oltre a un vistoso dimorfismo, maschi e femmine differiscono anche per lo sviluppo postembrionale attraverso trasformazioni successive differenti, portando ad adulti che si stenta a credere siano maschi e femmine della stessa specie.
Cocciniglie
• I danni prodotti dalle cocciniglie
consistono nell’aspirazione di linfa e del contenuto delle cellule e nella immissione di saliva che circola nelle piante determinando uno stato di intossicazione generalizzato
• Molte cocciniglie producono melata. Sul pesco il Parthenolecanium corni ha questa caratteristica
Foto R. Angelini
Femmina adulta (a sinistra) e neanidi (a destra) di Parthenolecanium corni o cocciniglia del corniolo su rametto di pesco
I maschi sono alati. Solo le ali anteriori sono ben sviluppate, mentre al posto di quelle posteriori sono presenti due “bilanceri”, per cui è facile commettere l’errore di scambiarli per Ditteri. I maschi adulti hanno vita molto breve, non si nutrono e hanno esclusivamente funzione riproduttiva. Le femmine, invece, hanno un aspetto che denota la loro specializzazione. Nell’ambito della superfamiglia si rileva una progressiva perdita di mobilità delle femmine.
Aspetto di un maschio alato (a destra) di diaspino Foto R. Angelini
Foto R. Angelini
Cocciniglia bianca su germoglio Danno da cocciniglie su ramo
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coltivazione Tra le cocciniglie di maggiore rilevanza per il pesco si ricorda la famiglia dei Diaspididi. In tale famiglia le femmine sono mobili solo allo stato di neanide di prima età. Dopo un breve spostamento per allontanarsi dalla madre, le neanidi si fissano, iniziano ad alimentarsi e danno origine a femmine adulte prive di zampe. In altre famiglie la mobilità è maggiore e le femmine possiedono zampe, anche se variamente ridotte e funzionanti. L’apparato boccale è caratterizzato da stiletti notevolmente allungati che, allo stato di riposo, vengono tenuti arrotolati in una tasca interna (crumena). Le specie appartenenti alla famiglia dei Diaspididi non emettono melata. Varie specie polifaghe di Diaspididi si possono trovare anche sul pesco, ma solo la cocciniglia bianca del gelso e del pesco Pseudaulacaspis pentagona e la cocciniglia di S. José Quadraspidiotus perniciosus hanno rilevanza per diffusione e dannosità. Entrambe le specie sono state introdotte accidentalmente in Europa tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento. Le ricerche nei paesi d’origine dei loro antagonisti naturali e l’introduzione delle specie ritenute più efficaci rappresentano esempi classici di lotta biologica. Antonio Berlese ottenne, all’inizio del Novecento, ottimi risultati con la diffusione di Encarsia berlesei, Imenottero parassitoide di P. pentagona. In seguito, anche per la cocciniglia di S. Josè venne introdotta Encarsia perniciosi. L’azione di questi parassitoidi non consente, però, di rinunciare ad altri interventi di difesa. L’individuazione di momenti ottimali in cui effettuare i trattamenti e la scelta dei principi attivi devono comunque tener ben presente la necessità di interferire il meno possibile con l’entomofauna utile.
Cocciniglie
• Il maschio ha un corpo di piccolissime dimensioni, esile e allungato, con le regioni corporee ben distinte. Il torace è ben sviluppato, con zampe sottili e allungate. Le ali sono del tutto assenti oppure è presente un solo paio
• La femmina presenta particolari
adattamenti anatomici e funzionali che la rendono inconfondibile. Apparentemente si potrebbe pensare a una forma di vita poco evoluta, in realtà si tratta di un adattamento spinto al regime dietetico fitofago. Il corpo, simile a quello degli stadi giovanili, è generalmente appiattito o convesso, di forma variabile ma con una estrema semplificazione delle strutture morfologiche: il capo è spesso fuso con il torace, mancano le ali e le zampe sono ridotte o del tutto assenti. Il corpo è mascherato da abbondanti secrezioni di cera, seta, lacca, oppure ricoperto da un follicolo detto scudetto
• Le cocciniglie si riproducono per via
Foto R. Angelini
sessuale, ma sono frequenti anche i casi di partenogenesi. La maggior parte delle specie è ovipara, ma sono frequenti anche le specie vivipare e quelle ovovivipare
Femmine adulte di Pseudaulacaspis pentagona su tronco
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parassiti animali Cocciniglia bianca del gelso o del pesco (Pseudaulacaspis pentagona). La cocciniglia bianca del gelso e del pesco sverna come femmina fecondata e la prima deposizione delle uova avviene in primavera. Nelle aree a clima più mite dell’Italia meridionale le prime uova vengono deposte già all’inizio di aprile, mentre in zone più settentrionali l’ovideposizione va da fine aprile a inizio maggio. Una femmina ovidepone per circa due settimane; le uova di colore arancione daranno origine a femmine, quelle biancastre a maschi.
Foto R. Angelini
Colonia di Pseudaulacaspis pentagona su ramo
Foto R. Angelini
Particolare di un follicolo maschile
Una volta schiuse le uova, le neanidi neonate si allontanano dalla madre; quelle maschili, in particolare, tentano di aggregarsi formando ammassi che diventano ben evidenti con la formazione dei bianchi follicoli. Dopo la fase mobile di dispersione le neanidi si fissano e iniziano a formare il tipico follicolo. Lo sviluppo post embrionale delle femmine passa attraverso un secondo stadio di neanide e da adulte hanno il corpo di colore arancione ricoperto da un follicolo subcircolare biancastro (2-2,8 mm), con le esuvie delle neanidi di I e II età in posizione eccentrica. Lo sviluppo postembrionale maschile avviene attraverso due stadi di neanide, uno di prepupa e uno di pupa. I maschi adulti possiedono un paio di ali funzionanti, un apparato boccale atrofico e vita molto breve. In un anno la specie compie due o tre generazioni.
Cocciniglia bianca del gelso su ramo e gemme di pesco
Femmine adulte private dello scudetto. L’esemplare a destra è parassitizzato, come si vede dalla macchia nera all’interno del corpo
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coltivazione Cocciniglia di S. Josè (Quadraspidiotus perniciosus). La cocciniglia di S. Josè sverna come neanide di I età nella fase di punto nero; il follicolo neoformato delle neanidi è di colore biancastro, progressivamente, però, imbrunisce fino a diventare nero nelle neanidi svernanti. I maschi hanno un secondo stadio di neanide e poi quelli di prepupa e pupa. Gli adulti sono alati. Foto R. Angelini
Femmine di Q. perniciosus private dello scudetto Foto R. Angelini
Danno su frutti provocato dalla cocciniglia di S. Josè
Le femmine hanno invece solo un secondo stadio di neanide a cui segue l’adulto; da adulte hanno corpo giallo ricoperto da un follicolo grigio (1,8 mm) con esuvie subcentrali. Le femmine completano il loro sviluppo e si accoppiano in primavera. Q. perniciosus è specie vivipara: nell’arco dell’anno si susseguono tre generazioni, in gran parte sovrapposte. La grande scalarità con cui si ha la presenza di neanidi è il motivo per cui si attribuisce fondamentale importanza ai trattamenti contro le neanidi svernanti.
Particolare di cocciniglia di S. Josè Foto R. Angelini
Foto F. Falchieri
Grave infestazione di Q. perniciosus su branca
Foto F. Falchieri
Particolare dello scudetto femminile, tondo e biancastro, e di quello maschile, allungato e giallo
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parassiti animali Cicaline Alcune specie della famiglia Cicadellidae (Homoptera, sezione Auchenorrhyncha), che fino all’inizio dell’estate vivono prevalentemente su specie erbacee, si possono poi spostare su piante arboree. Frequentemente questo comportamento è attribuito ad Asymmetrasca decedens. Su agrumi, le sue punture provocano la “maculatura gialla”, alterazione nota anche come “fetola”. Negli ambienti meridionali anche i pescheti, particolarmente quelli irrigui, possono risentire di elevata presenza di cicaline. Il fenomeno, a lungo ritenuto limitato all’area mediterranea, si sta verificando anche nei frutteti dell’Italia settentrionale. Il pesco è danneggiato prevalentemente nella fase di allevamento.
Foto R. Angelini
Miridi Questa famiglia appartiene al sottordine degli Heteroptera e presenta una minore specializzazione alla fitofagia. Alcuni miridi sono predatori di insetti e di acari e come tali considerati utili e studiati per il loro possibile utilizzo in lotta biologica. Altri sono però fitofagi. Su pesco sono noti i danni provocati da Lygus rugulipennis, Adelphocoris lineolartus e Calocoris norvegicus. I danni maggiori si verificano a carico degli apici vegetativi delle piante in allevamento. Poiché i miridi sono abbondanti sulle piante erbacee, è opportuno gestire accuratamente il loro sviluppo nel frutteto. Le misure di prevenzione sono quelle che consentono i migliori risultati.
Piante gravemente danneggiate da cicaline
Foto R. Angelini
Adulto di Lygus rugulipennis Danno da miridi su frutti di pesco
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coltivazione Tisanotteri Questo ordine comprende specie di piccole dimensioni (alcuni mm), dotate di un apparato boccale adatto a pungere e succhiare.
Uova, larva e adulto di tripide La difesa da tripidi è importante soprattutto per le nettarine, sulle quali occorre intervenire tempestivamente, appena prima o subito dopo la fioritura
La singolarità più evidente è che tale apparato è asimmetrico in quanto solo una delle due mandibole, quella sinistra, è ben sviluppata e stilettiforme. Foto R. Angelini
Tripidi
• Danneggiano fiori e frutticini di nettarine e cultivar di pesche con superficie poco tomentosa, con le punture di nutrizione. La saliva tossica iniettata provoca deformazioni e lesioni superficiali che successivamente necrotizzano e suberificano
• Il frutto delle nettarine, per mancanza
del rivestimento peloso, è maggiormente esposto all’attacco Danno da Thrips meridionalis su frutticini
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parassiti animali A questo stiletto si aggiungono gli altri due, che derivano dalla modificazione delle mascelle a formare un complesso che viene portato all’interno di un cono boccale. La puntura avviene mediante l’estroflessione dei tre stiletti del cono boccale. Per la brevità degli stiletti le punture sono poco profonde e avvengono generalmente a carico di tessuti poco consistenti oppure ancora in fase di accrescimento. Spesso i sintomi risultano evidenti a distanza di tempo a causa dell’anomalo sviluppo dei tessuti colpiti. Si notano così deformazioni varie, necrosi, variazioni di colore, rugginosità a carico di foglie e frutti. I frutti delle nettarine sono vulnerabili agli attacchi di alcune specie di tisanotteri appartenenti alla famiglia Thripidae (Thysanoptera, Terebrantia), che è la più importante nelle regioni temperate. Le femmine di Thrips meridionalis e, in misura minore, Thrips major si portano sui bottoni fiorali delle nettarine. Le uova vengono deposte entro i filamenti degli stami. Le neanidi nascono durante la fioritura e si nutrono pungendo l’ovario da poco fecondato. La presenza dei tripidi è maggiore in aree collinari. In prossimità della maturazione i frutti delle nettarine possono essere ancora danneggiati dai tripidi. Nel periodo estivo è T. major la specie più abbondante nell’Italia settentrionale, mentre al Sud i danni maggiori sono provocati da Frankliniella occidentalis.
Foto R. Angelini
Foto R. Angelini
Foto R. Angelini
Le punture dei tripidi causano la necrosi delle cellule epidermiche. In fase di ingrossamento frutti, tali cellule non sono in grado di assecondare l’espansione dei tessuti provocando spaccature della buccia
Le nettarine sono più sensibili all’attacco dei tripidi per la mancanza dei peli superficiali dell’epidermide
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coltivazione Ditteri Nell’ambito di quest’ordine va segnalata la famiglia dei Tefritidi, le cui larve sviluppano a carico dei frutti. A questa famiglia appartengono anche la mosca delle olive Bactrocera oleae e la mosca delle ciliegie, Rhagoletis cerasi. Mosca mediterranea della frutta (Ceratitis capitata). Questa mosca è molto polifaga e le sue larve si sviluppano praticamente su tutti i frutti. Negli ambienti a clima mediterraneo è in grado di compiere una serie continua di 6-7 generazioni annue. A nord dell’Appennino incontra difficoltà a superare il periodo invernale, ma appare accertato che, almeno in alcune località favorevoli, questo avvenga. Anche in assenza di svernamento, negli ambienti settentrionali, a causa degli intensi trasferimenti di frutta dal meridione, le popolazioni di C. capitata possono raggiungere, a fine estate, elevata intensità. Nell’Italia del Nord, quindi, C. capitata può saltuariamente infestare le varietà tardive di pesche, oltre alle pomacee. Ben diversa è invece la situazione al Sud. Il pesco è interessato generalmente da fine giugno-inizio luglio. Le cultivar che maturano dopo tale periodo devono, quindi, essere difese dagli attacchi di C. capitata. I frutti diventano sensibili in corrispondenza dell’invaiatura. La mosca è in grado di compiere lunghi spostamenti e interessare in momenti successivi colture con diverse epoche di maturazione dei frutti. Risulta importante il monitoraggio degli adulti per avere indicazioni attendibili sul momento in cui iniziare la lotta. Si possono così evitare danni nei casi di una presenza anticipata rispetto a una data presunta, oppure si può evitare di effettuare trattamenti non necessari in caso di ritardi nella comparsa. Il monitoraggio degli adulti può essere effettuato con trappole cromotropiche gialle. Sarebbe opportuno effettuare il monitoraggio degli adulti anche nelle aree settentrionali per poter prevenire i danni di infestazioni che sono saltuarie, ma che, nelle annate in cui si verificano, possono essere molto gravi.
Adulto di mosca mediterranea della frutta
Larve di Ceratitis capitata Foto E. Marmiroli
Trappola per il monitoraggio della mosca mediterranea della frutta Ovideposizione all’interno di un frutto di agrume
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parassiti animali Coleotteri Scolitidi e Buprestidi Le piante debilitate da carenza idrica possono essere infestate da Scolitidi. La specie più frequente è Scolytus rugulosus. Le gallerie interessano il floema di fusti e rami di modeste dimensioni e inducono la produzione di gomma. I danni maggiori sono quelli a carico di piante giovani. L’esecuzione di irrigazioni di soccorso può costituire un valido mezzo di prevenzione. La mancanza di possibilità irrigue comporta il rischio di attacchi del Buprestide Capnodis tenebrionis. Le larve scavano gallerie subcorticali al colletto che risultano particolarmente gravi per le piante in vivaio e nei primi anni di impianto. La situazione di rischio, ben nota per gli ambienti mediterranei, sta progressivamente interessando anche aree più settentrionali in Italia e in varie altre parti dell’Europa. Il ricorso all’irrigazione, considerato come un intervento di elevata efficacia, non sempre consente di eliminare le infestazioni.
Foto R. Angelini
“Impallinature” del ramo provocate da scolitidi
Adulto di Capnodis tenebrionis Danno al tronco provocato da Capnodis tenebrionis
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coltivazione Acari Sul pesco si possono verificare infestazioni sia da acari tetranichidi sia da eriofioidei. Panonychus ulmi e Tetranychus urticae sono i tetranichidi più frequenti. L’aggravarsi della dannosità degli acari è stato considerato come un sintomo di squilibrio provocato dall’eccessivo ricorso a mezzi chimici di lotta privi di selettività.
Adulto di Panonychus ulmi
Stadi giovanili di P. ulmi
L’adozione di strategie di difesa più attente nell’evitare effetti collaterali negativi ha infatti comportato una progressiva diminuzione dell’importanza degli acari tetranichidi. Per cause difficili da individuare con certezza, limitatamente ad alcune aree e in certe annate, sono segnalate pullulazioni di acari. Foto R. Angelini
Uova di P. ulmi
Danni da acari tetranichidi
• I danni sono dovuti al progressivo
svuotamento del parenchima fogliare causato dalle punture di nutrizione, con conseguenti “bronzature” e riflessi negativi quali-quantitativi sulla produzione
• Per il contenimento di questi fitofagi è
fondamentale il rispetto dei loro nemici naturali (fitoseidi in particolare, alcuni antocoridi e coleotteri coccinellidi quale Stethorus punctillum) Danno da P. ulmi su foglia
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parassiti animali Nelle aree meridionali con temperature elevate aumenta la frequenza di T. urticae, mentre al settentrione la specie più importante rimane P. ulmi. Bisogna inoltre ricordare anche un altro aspetto negativo che riguarda il rischio di fenomeni allergici o di irritazioni cutanee a carico del personale addetto alla raccolta dei frutti. Sovente i trattamenti contro gli acari sono effettuati anche per questa motivazione. Gli eriofioidei si caratterizzano per le piccole dimensioni, per l’aspetto vermiforme e per possedere solo due paia di zampe.
Foto F. Laffi
Foto F. Laffi
Colonia di femmine invernali alla base della gemma Foto F. Laffi
Alla scamiciatura gli eriofidi si trasferiscono sull’ovario in accrescimento
Per il pesco merita di essere segnalato l’eriofide delle drupacee, Aculus fockeui. Provoca sintomi evidenti particolarmente verso la fine dell’estate. Le foglie assumono una colorazione argentea, per cui è noto anche come agente del falso mal del piombo. Foto F. Laffi
Le foglie infestate da eriofidi presentano maculature giallastre in trasparenza Foto F. Laffi
Forme estive di Aculus fockeui
Confronto tra foglie di pesco sane (a destra) e colpite da Aculus fockeui (a sinistra)
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coltivazione Foto F. Laffi
Foto F. Laffi
Le lamine delle foglie mature attaccate dall’eriofide non subiscono deformazioni ma manifestano un’argentatura uniforme che può interessare l’intera chioma
Si possono verificare anche attacchi nel periodo primaverile. In queste infestazioni precoci le foglie presentano una maculatura giallastra e il margine ripiegato verso l’alto. Le infestazioni più frequenti sono quelle che si verificano a fine stagione. Raramente sono necessari specifici interventi di difesa.
Le foglie in accrescimento, in seguito all’attacco di Aculus fockeui, appaiono ripiegate a doccia con i lembi ripiegati verso la nervatura centrale
Foto F. Laffi
Foto F. Laffi
Anellatura rugginosa dell’area peripeduncolare
Sulle nettarine gli eriofidi provocano la formazione di un’anellatura rugginosa sui frutti in accrescimento. In caso di forti attacchi si possono riscontrare sull’intero frutto striature rugginose di varia forma ed estensione
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parassiti animali Difesa Le prime ricerche di difesa integrata del pesco risalgono agli inizi degli anni ’70 del secolo scorso. Nel tempo sono poi aumentate le conoscenze sulla biologia del complesso di specie potenzialmente dannose e dei loro antagonisti naturali. Sono stati meglio conosciuti gli effetti collaterali degli agrofarmaci e dell’insieme delle pratiche di coltivazione, consentendo così l’applicazione, ormai consolidata da tempo, dei concetti di produzione integrata. Le numerose e prolungate esperienze condotte nelle diverse regioni italiane consentono ora di applicare con sicurezza metodiche di lotta antiparassitaria rispettose dell’ambiente. Un grande contributo al conseguimento del progresso compiuto negli ultimi decenni è derivato dall’impiego dei feromoni sia per il monitoraggio sia per la lotta contro i lepidotteri. La messa a punto di modelli previsionali sullo sviluppo di specie dannose e l’aumentata disponibilità di reti di rilevamento agro-meteorologiche hanno consentito di migliorare la tempestività e la precisione nelle individuazioni dei momenti in cui effettuare i trattamenti insetticidi con principi attivi dotati di maggiore efficacia e minori effetti collaterali negativi. Nei riguardi di Cydia molesta, per l’individuazione della necessità di effettuare un trattamento insetticida e del momento migliore per l’intervento, sono largamente utilizzate le trappole a feromone. Le trappole di C. molesta devono essere collocate entro la metà di aprile. La fertilità degli adulti del primo sfarfallamento annuale è inferiore a quella che si ha successivamente. Inoltre, nel periodo primaverile le larve manifestano una spiccata preferenza per i germogli, trascurando i frutticini a causa della loro elevata consistenza. Pertanto, la soglia di intervento che viene adottata per il primo volo è più elevata. In Emilia-Romagna si consiglia di intervenire solo al superamento di una media di 30 catture settimanali per trappola.
Confusione sessuale e disorientamento
• Appositi erogatori, in numero variabile
secondo le loro caratteristiche, consentono di diffondere il feromone in quantitativo tale da “coprire” i richiami naturali emessi dalle femmine. In questo caso si parla di “confusione sessuale”. Nei casi, invece, in cui il numero di punti di erogazione è sensibilmente più elevato rispetto al precedente, ma la quantità di feromone emessa da ogni punto è nell’ordine di quella emessa dalle femmine, si parla di “disorientamento”. L’inibizione degli accoppiamenti avviene infatti perché le “false tracce” generate dagli erogatori di feromone di sintesi impediscono ai maschi di individuare le vere tracce odorose emesse dalle femmine
Foto E. Marmiroli
Foto E. Marmiroli
Trappola per il monitoraggio di C. molesta Erogatore di feromoni ad ampolla per la confusione sessuale
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coltivazione In seguito la soglia si abbassa a 10 catture settimanali per trappola. La soglia basata sulle catture con trappole a feromone, molto semplice da utilizzare, lascia però varie incertezze. La disponibilità di diversi modelli di trappole porta a ottenere risultati incostanti e difficilmente confrontabili fra loro. Per quanto riguarda, invece, gli insetticidi utilizzabili si constata una progressiva diminuzione degli esteri fosforici, la disponibilità di vari regolatori di crescita e l’avvento di nuovi prodotti con interessanti meccanismi d’azione. Esiste anche la possibilità di utilizzare preparati microbiologici a base di Bacillus thuringiensis oppure di far ricorso ai feromoni secondo il metodo della confusione o del disorientamento sessuale. L’uso dei feromoni come mezzo di lotta, ammesso anche dalle norme sull’agricoltura biologica, ha comportato un ulteriore miglioramento nell’adozione di metodi di difesa rispettosi dell’ambiente. La crescente attenzione a ridurre ed eliminare completamente la presenza di residui di agrofarmaci nei prodotti agricoli ha imposto strategie di difesa in grado di consentire la drastica riduzione dei trattamenti chimici in prossimità della raccolta. L’uso combinato di interventi con insetticidi convenzionali nella prima fase dell’anno e di feromoni o preparati microbiologici all’avvicinarsi della maturazione dei frutti viene molto apprezzato anche nella cosiddetta agricoltura “convenzionale”. I feromoni possono essere utilizzati anche come mezzo diretto di lotta secondo metodi noti come confusione sessuale o disorientamento. Entrambi i metodi si basano sull’interferenza dei segnali che le femmine dei Lepidotteri emettono per richiamare i maschi. Risulta quindi possibile inibire gli accoppiamenti e abbassare la dannosità della specie senza l’uso degli insetticidi tradizionali.
Foto E. Marmiroli
Erogatore a feromoni Foto E. Marmiroli
Trappola “attract and kill”. Tale trappola non solo disorienta il maschio alla ricerca della femmina, ma lo uccide per la presenza di un insetticida che ne impregna le pareti
Foto E. Marmiroli
Foto E. Marmiroli
Erogatore contemporaneo di feromoni per cydia e anarsia
Erogatore di feromoni. Il maschio che passa attraverso la trappola si impregna di feromone, che è presente in forma polverulenta, e in seguito, volando, lo diffonde nel frutteto
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parassiti animali L’impiego dei feromoni per la lotta contro C. molesta e altri lepidotteri dannosi è fortemente raccomandato dall’agricoltura ecocompatibile, sia biologica sia integrata. Anche per anarsia valgono molte considerazioni già esposte per C. molesta sia per il monitoraggio sia per la lotta. In merito ai feromoni di anarsia merita però ricordare che, allo stato attuale, la loro affidabilità è inferiore a quella di altre specie e che, a volte, pur con basse catture, si sono verificati danni di particolare gravità. Le soglie adottate in Emilia-Romagna, a causa dell’incertezza evidenziata, sono state prudentemente indicate in 7 catture settimanali per trappola oppure 10 catture per trappola effettuate nell’arco di 2 settimane. I metodi della “confusione” e del “disorientamento” si possono applicare anche per anarsia, pur con qualche risultato meno soddisfacente rispetto a quelli ottenuti contro C. molesta. Anche contro anarsia si ha la possibilità di impiego di preparati a base di Bacillus thuringiensis, che manifestano ottima efficacia. Per quanto riguarda la lotta contro gli afidi, in particolare contro M. persicae, questa deve avvenire secondo una strategia che assicuri una buona efficacia e non favorisca l’affermarsi di popolazioni resistenti. Un successo nella lotta contro gli afidi si è ottenuto con la disponibilità degli insetticidi del gruppo dei neonicotinoidi. La loro efficacia è molto elevata, ma è opportuno non ripetere il loro impiego nell’arco dell’anno. I trattamenti più efficaci sono quelli più precoci che possono essere rivolti alle fondatrici nella fase dei bottoni rosa o contro le colonie primarie prima della fioritura (3% di organi infestati).
Foto A. Perciaccante
Esecuzione di un trattamento in vegetazione
Confronto tra piante trattate e non per il controllo degli afidi
Foto R. Angelini
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coltivazione I rischi maggiori riguardano i frutti delle nettarine, che possono essere danneggiati direttamente. Per le nettarine la soglia, anche dopo la fioritura, rimane del 3% di germogli infestati. Per pesche e percoche, dopo la fioritura la soglia viene innalzata orientativamente al 10% di germogli infestati. Una seconda specie di afidi, che deve essere attentamente considerata per l’abbondante melata che produce, è l’afide farinoso Hyalopterus amygdali. Questo afide ha anche la particolarità di non migrare completamente negli ospiti secondari. Le colonie che rimangono sul pesco possono raggiungere densità elevata e richiedere interventi di difesa. Perciò si ritiene importante verificare la presenza durante l’intera buona stagione e intervenire, anche con trattamenti localizzati sulle prime piante infestate. Quando la presenza è elevata le piante sono fortemente danneggiate. La produzione di melata richiama vari insetti pronubi, per cui è bene intervenire il più presto possibile. La strategia di lotta contro le due principali specie di cocciniglie è differente a causa del loro diverso ciclo biologico. Contro P. pentagona ha grande importanza intervenire sulle neanidi della prima generazione nel mese di maggio. La maggiore scalarità di comparsa delle neanidi di Q. perniciosus rende invece fondamentale, per questa seconda specie, intervenire contro le neanidi svernanti. Le femmine emettono feromoni sessuali. In commercio sono disponibili trappole a feromone per la cattura dei maschi sia di P. pentagona sia di Q. perniciosus. Nel periodo invernale si può intervenire efficacemente contro la cocciniglia di S. Josè, che sverna come forma giovane. I trattamenti contro P. pentagona consentono risultati inferiori in quanto lo svernamento avviene come femmina adulta, ben protetta dallo scudetto completamente formato. Sulle piante in riposo si possono usare il polisolfuro di calcio oppure olii bianchi. Nel caso si decidesse di utilizzare, contro Q. perniciosus, insetticidi che agiscono come regolatori di crescita, il momento più adatto è alla ripresa di attività che si verifica a fine inverno, in corrispondenza della muta a neanidi, di seconda età e poi a femmina adulta. Per P. pentagona si dovrà, invece, attendere la comparsa delle prime neanidi che avviene generalmente durante il mese di maggio. Le operazioni di potatura consentono un’accurata ispezione delle piante e l’eliminazione dei rami più intensamente infestati. La presenza di cocciniglie riveste una rilevante importanza sia per la qualità della produzione sia per la vitalità delle piante. L’attenta osservazione può, quindi, consentire di intervenire quando le popolazioni sono ancora basse. Per la difesa delle nettarine dai tisanotteri nelle zone a rischio sono necessari specifici trattamenti da effettuare appena prima della fioritura o alla caduta dei petali. Un altro momento che comporta rischio di danno è quello che precede di poco la raccolta dei frutti.
Foto R. Angelini
Per il contenimento degli afidi è necessario intervenire precocemente, alla comparsa dei primi individui
La difesa delle piante dalle cocciniglie riveste una particolare importanza non solo per i danni diretti alle produzioni, ma anche per la vitalità delle piante stesse
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parassiti animali La diversa consistenza dei frutti a partire dall’invaiatura li rende vulnerabili alle punture di F. occidentalis, negli ambienti meridionali e di altre specie, tra cui molto frequente è T. major nelle aree settentrionali. La lotta chimica trova difficoltà per la vicinanza del momento della raccolta. Un’efficace misura di prevenzione consiste nella gestione delle piante erbacee spontanee nel pescheto e nella scelta delle colture negli appezzamenti limitrofi. Si è visto che nell’erba medica sono spesso presenti elevate popolazioni di tripidi, per cui gli sfalci devono essere effettuati in modo da non provocare la loro migrazione nelle nettarine nella fase di invaiatura dei frutti.
Epoche di comparsa dei fitofagi principali Gemma Bottoni Caduta Fioritura ferma rosa petali
Scamiciatura
Marzo
Accrescimento frutti
Aprile
Maggio
Giugno
Cydia larve Cydia volo
Cydia larve Cydia volo
Anarsia larve
Anarsia larve Anarsia volo
Anarsia volo
Euzophera larve
Euzophera larve
Euzophera volo
Euzophera volo
Pseudaulacaspis pentagona neanidi
Pseudaulacaspis pentagona neanidi
Aspidioto neanidi
Aspidioto neanidi
Tripidi adulti
Tripidi adulti Litocollete larve
Litocollete larve
Litocollete volo
Litocollete volo Cicaline Afide verde e farinoso Afide bruno e nero
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il pesco
coltivazione Malattie Ivan Ponti
www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche. Crediti: le foto alle pagine 16 in alto a destra (Bvdc), 78 in alto (Huan), al centro (Pinkcandy) e in basso (Teoteoteo), 79 (Amitai), 80 in basso (Miszmasz), 81 (Looby), 82 (Karcich), 86 (Yasonya), 88 in basso (Lissdoc), 96 (Hurry), 98 in alto a sinistra (Hurry), 108 in alto (Tinker) e in basso (Meengen), 408 (Matka_wariatka), 409 (Elkeflorida), 416 al centro (Uksus) e in basso (Vladacanon), 417 in alto (Icefront), 421 in basso (Robynmac), 422 in alto (Palolilo), 474 in basso (Emily2k), 479 in basso (Elenathewise) sono dell’agenzia Dreamstime.com.
coltivazione Malattie Introduzione Nel corso degli ultimi anni il quadro relativo alle malattie fungine e batteriche che interessano il pesco si è progressivamente modificato, soprattutto in seguito alla diffusione di nuove tecniche colturali, alla concentrazione in alcune aree di impianti specializzati e alla costituzione di nuove cultivar più rispondenti a esigenze commerciali ma, in alcuni casi, più suscettibili nei confronti di alcune avversità. Anche l’introduzione di materiali di moltiplicazione da altri Paesi o continenti ha contribuito alla diffusione di nuovi patogeni o di funghi e batteri noti da lungo tempo, ma con caratteristiche di patogenicità molto diverse. Gli stessi cambiamenti nei piani di difesa antiparassitaria, messi in atto prevalentemente a partire dagli anni ’90 del secolo scorso, sotto lo stimolo di una pressante e non eludibile richiesta di tutela dell’ambiente e di sicurezza per i consumatori, hanno portato a una riduzione considerevole del numero dei trattamenti fungicidi, con significativi risvolti positivi ma, a volte, sotto il profilo strettamente fitoiatrico, non sempre adeguati per contenere efficacemente tutti i patogeni che possono essere presenti nell’ambiente in cui si opera. Nelle pagine che seguono sono descritte le principali malattie fungine del pesco, nonché quelle di origine batterica tra le quali la maculatura batterica causata da Xanthomonas arboricola pv. pruni e la scabbia batterica da Pseudomonas syringae pv. syringae di recente diffusione nel nostro Paese. Per ciascuna avversità sono illustrati i più comuni sintomi che si possono riscontrare sui diversi organi della pianta, il ciclo biologico del patogeno e i vari aspetti epidemiologici collegati all’andamento del processo infettivo e alla gravità dell’attacco. Al termine di questa rassegna sono indicate le più recenti strategie di difesa anticrittogamica, in linea con i disciplinari di produzione integrata.
Uredospora di Tranzschelia pruni-spinosae, agente della ruggine
Aschi con ascospore di Taphrina deformans, agente della bolla del pesco
Conidi di Wilsonomyces carpophilus Conidi di Monilia laxa, agente della moniliosi
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malattie Bolla (Taphrina deformans) L’ascomicete responsabile di questa malattia è diffuso in forma endemica in tutte le aree peschicole italiane e ogni anno, in primavera, può causare danni molto gravi, soprattutto se l’andamento stagionale risulta molto umido e piovoso e non sono stati effettuati adeguati trattamenti fungicidi per ridurre il potenziale d’inoculo svernante e per prevenire le infezioni primarie. I sintomi di questa malattia si osservano a carico di tutti gli organi in fase di attiva crescita: foglie, germogli, fiori e frutti. Le foglie, a cominciare dalle fasi iniziali del loro accrescimento, possono manifestare ampie bollosità negli spazi internervali, con la parte convessa rivolta verso la pagina superiore. I tessuti parenchimatici interessati dall’alterazione assumono uno spessore e una turgidità maggiori del normale, una pigmentazione rosso-vinosa o clorotica, un aspetto ceroso, quasi pruinoso. Con il passare del tempo queste porzioni del lembo vanno soggette a degenerazione e la foglia si distacca dalla pianta. I germogli manifestano escrescenze carnose, ispessimenti, malformazioni e raccorciamento degli internodi. I frutti colpiti presentano escrescenze, più o meno ampie, di colore verde chiaro o rossastro. Gli attacchi sui frutti non si manifestano tutti gli anni ma sono strettamente correlati all’andamento climatico e in particolare alle piogge nel periodo post-fiorale. Gli studi più recenti in merito alla biologia e all’epidemiologia di questa malattia hanno messo in evidenza che le spore di Taphrina deformans riprendono la loro attività patogenetica a fine inverno, in concomitanza della ripresa vegetativa del pesco. Il processo infettivo prende avvio dalla fase di punte verdi, quando inizia a essere visibile la porzione apicale delle giovani foglie e le temperature medie risultano comprese tra 3 e 15 °C, con piante bagnate per almeno 15 ore. Le infezioni più gravi su foglie e germogli si registrano con bagnature superiori alle 24 ore nel periodo compreso fra punte verdi e caduta petali, mentre dalla caduta petali e per le successive 3-4 settimane sono i frutticini in rapido accrescimento a essere particolarmente esposti agli attacchi di bolla. I frutti di nettarine
Sintomi di bolla su foglie e germoglio
Grave attacco di Taphrina deformans su germoglio Pescheto completamente attaccato da bolla
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coltivazione
Defogliazione precoce dei rami colpiti da bolla
Necrosi e bollosità fogliare conseguente all’attacco di Taphrina deformans
sono in genere più suscettibili a questa malattia rispetto alle pesche, probabilmente per l’assenza della tomentosità che costituisce una naturale barriera all’aggressione del patogeno.Affinché il processo infettivo si possa poi compiere è necessario che durante il periodo di incubazione, che dura in genere 2-3 settimane, le temperature medie si mantengano al di sotto dei 18-20 °C. Dopo la comparsa dei caratteristici sintomi della bolla sui vari organi della pianta si può osservare, in particolare sulle foglie inizialmente interessate dall’infezione, lo sviluppo di un ammasso polverulento biancastro, costituito da aschi liberi al cui interno si trovano in genere otto ascospore. A queste ultime si deve la diffusione del micete nell’ambiente e la successiva formazione di blastospore o conidi-gemma, che si riproducono abbondantemente fino all’autunno con un processo simile a quello dei lieviti, ridistribuendosi su tutta la pianta in forma saprofitaria.
Esiti di un attacco di bolla a carico del germoglio e del fiore
Foto R. Angelini
Foto R. Angelini
Sintomi di bolla su frutto di nettarina Danni da bolla su frutti e foglie di pesco
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malattie Corineo (Wilsonomyces carpophilus) L’agente di questa malattia, tradizionalmente indicato come Coryneum beijerinkii, è stato oggetto di vari aggiornamenti sistematici che lo hanno portato ad assumere prima la denominazione di Stigmina carpophila e, più recentemente, di Wilsonomyces carpophilus. Da segnalare che in questi ultimi anni, dopo un lungo periodo di modesta presenza della malattia, confinata per lo più in impianti mal gestiti, si sta registrando una nuova fase di recrudescenza, collegata probabilmente a una consistente riduzione dei trattamenti fungicidi nei mesi primaverili. I sintomi della malattia compaiono inizialmente sulle foglie sotto forma di piccole tacche rosso-violacee circondate da un alone clorotico. Con il progredire dell’infezione le aree colpite si allargano, fino a raggiungere la dimensione di alcuni millimetri, mantenendo però una decisa separazione fra la zona infetta e quella sana. Le parti di lembo fogliare ammalate tendono a distaccarsi, lasciando in tal modo la foglia più o meno bucherellata. Sui rami, l’infezione si evidenzia attraverso lesioni di varie dimensioni, che possono evolversi fino a raggiungere l’aspetto di “cancri aperti”, dai quali solitamente fuoriesce un abbondante essudato gommoso. La parte distale del ramo colpito finisce talvolta per disseccare totalmente. Anche sui frutti ammalati si formano inizialmente delle piccole aree rossastre di 1-2 mm, che in prossimità della maturazione appaiono più estese e ricoperte di incrostazioni gommose. Questo microrganismo esplica la sua attività vegetativa e patogenetica in condizioni di elevata umidità e temperature comprese fra i 5 e i 26 °C, con valori ottimali intorno ai 15 °C. L’umidità rappresenta in ogni caso l’elemento di maggiore importanza, poiché la differenziazione e la germinazione dei conidi avvengono solamente alla presenza di un velo d’acqua. L’attività vegetativa di questo microrganismo si arresta durante i mesi estivi in concomitanza di periodi caldoasciutti; per contro, raggiunge la massima diffusione nei mesi primaverili piovosi e umidi. Gli attacchi più gravi si hanno di norma dopo inverni miti e su piante indebolite o danneggiate dal gelo.
Foto R. Angelini
Danni da corineo su foglie e rami
Caratteristica bucherellatura causata da infezioni di Wilsonomyces carpophilus Foto R. Angelini
Foto R. Angelini
Grave attacco di corineo su frutto (sopra) e su rametto (a lato)
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coltivazione Nerume (Cladosporium carpophilum) Questa malattia, nota anche come “ticchiolatura”, può colpire tutte le drupacee e in particolare il pesco, causando in alcune annate umide e piovose danni di una certa gravità. Sono interessati dall’infezione le foglie, i rami e, soprattutto, i frutti causando, su questi ultimi, piccole macchie scure, superficiali, che tendono poi a confluire, fino a interessare un’ampia superficie, in corrispondenza della quale l’epidermide non si accresce più regolarmente. Il deuteromicete responsabile di questa malattia si perpetua da un anno all’altro per opera del micelio presente sui tessuti colpiti. In primavera, dopo abbondanti precipitazioni, il fungo riprende la sua attività vegetativa dando origine a conidi che, giunti a contatto di nuovi tessuti vegetali recettivi, danno avvio al processo infettivo. Di norma l’incubazione dura circa due settimane, dopodiché si differenziano nuovi conidi responsabili di successive infezioni. L’aggressività di C. carpophilum è particolarmente intensa subito dopo la fioritura o in prossimità della maturazione, perché il tomento che ricopre l’epidermide del frutto durante l’accrescimento rende molto difficile la penetrazione del patogeno. Le cultivar più suscettibili sono in genere quelle a maturazione tardiva. Studi epidemiologici sono ancora in corso per meglio chiarire le relazioni tra infezione, andamento climatico e sensibilità dei vari organi della pianta.
Foto R. Angelini
Mal bianco (Sphaerotecha pannosa var. persicae) Questa malattia interessa prevalentemente i pescheti collinari o dell’Italia centro-meridionale e può manifestarsi su tutti gli organi erbacei sin dalle prime fasi di ingrossamento dei frutticini; in genere, però, gli esiti dell’attacco assumono una particolare gravità nella primavera inoltrata o verso la fine dell’estate. Il fungo risul-
Diverse manifestazioni di nerume su frutto
Foto R. Angelini
Asco di Sphaerotecha pannosa var. persicae contenente ascospore Sintomi di oidio su frutti di nettarine
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malattie ta particolarmente dannoso sui frutti nel periodo compreso tra la scamiciatura e l’indurimento del nocciolo e sui germogli in concomitanza con il loro rapido accrescimento. È noto che esiste una differente sensibilità delle varietà a quest’avversità, ma anche tutti i fattori che interferiscono sulle condizioni vegetative della pianta (carico produttivo, portinnesto, irrigazione, concimazione azotata) influiscono notevolmente sulla gravità delle infezioni oidiche sui germogli. I sintomi dell’infezione appaiono inizialmente sotto forma di chiazze biancastre, per poi assumere un colore ocraceo. I frutti colpiti precocemente tendono a cadere oppure rimangono deformati e deprezzati sotto il profilo commerciale. Sulle foglie la malattia si manifesta inizialmente per la difficoltà che denotano le due parti della lamina fogliare a staccarsi e per la posizione ondulata che assume solitamente la foglia colpita. In seguito sulla superficie fogliare si osservano delle aree decolorate, di forma irregolare, in corrispondenza delle quali compare la caratteristica muffa bianca che, poco alla volta, si estende a quasi tutto il resto della lamina. La diffusione primaverile-estiva della malattia avviene per opera dei conidi della forma agamica Oidium leucoconium, che hanno origine dal micelio presente sulla superficie degli organi vegetali infetti. Questo germe è ostacolato, nella sua propagazione, dalle piogge e perde virulenza quando la temperatura supera i 28-30 °C e l’umidità relativa è inferiore al 65-70%. La durata del periodo di incubazione varia da 25 giorni con temperature di 5-6 °C fino a 6-11 giorni con valori ottimali intorno ai 23 °C.
Caratteristica muffa bianca di oidio
Le foglie colpite da oidio presentano un tipico andamento ondulato Foto R. Angelini
Attacco di mal bianco su germoglio I giovani germogli risultano particolarmente suscettibili agli attacchi di oidio
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coltivazione Fusicocco (Fusicoccum amygdali) Il più comune microrganismo fungino responsabile di cancri e seccumi dei rami di pesco è il F. amygdali (= Phomopsis amygdali). Segnalato in Italia su pesco e mandorlo fin dall’inizio del 1900, fortunatamente non si è ancora diffuso in tutte le aree peschicole, anche se, proprio in questi ultimi anni, le segnalazioni di attacchi di questo deuteromicete si sono moltiplicate e hanno riguardato zone finora non interessate da questa affezione. L’intensità degli attacchi è strettamente correlata all’andamento climatico e alla suscettibilità varietale. Di norma le percoche sono molto sensibili, ma anche tra le nettarine e le pesche si segnalano varietà molto recettive come Stark RedGold o Maria Bianca. La malattia si evidenzia principalmente sui rami di un anno con lesioni ellittiche, di colore nocciola o bruno, centrate su una gemma e localizzate di preferenza alla base dei getti. Nei casi gravi il cancro interessa l’intera circonferenza del rametto provocando la morte della porzione distale, mentre le gemme poste inferiormente riescono a vegetare normalmente. Gli attacchi sul tronco o sulle branche si evidenziano per la presenza di porzioni di corteccia necrotizzate, spesso contornate da un’abbondante produzione gommosa. Le piante colpite si presentano fortemente debilitate e, nei casi più gravi, nell’arco di pochi anni disseccano. L’infezione può interessare anche le foglie con aree necrotiche, spesso contornate da un alone giallo-rossastro. Le alterazioni sui vari organi della pianta sono legate a una tossina (fusicoccina) prodotta dal fungo. La perpetuazione della malattia è affidata alle fruttificazioni picnidiche del patogeno che sono costituite da piccolissime masserelle nerastre, rotondeggianti, dapprima sottoepidermiche e poi erompenti, che si ritrovano sulle tacche necrotiche dei rametti colpiti. Dai picnidi maturi fuoriescono, sotto forma di cirri biancastri, i conidi che, trasportati dalla pioggia, diffondono la malattia. In particolare le infezioni si verificano durante i mesi autunnali e primaverili caratterizzati da piogge ripetute o da prolungate bagnature; l’insediamento del patogeno all’interno della pianta avviene prevalentemente attraverso le lesioni che si verificano a seguito del distacco delle foglie o di colpi di grandine. Altri microrganismi fungini responsabili di seccumi rameali su pesco sono Cytospora leucostoma e C. cincta. Questi miceti si differenziano sostanzialmente dal Fusicoccum amygdali per il minore potere patogenetico e, di norma, si insediano su piante debilitate o colpite originariamente da fusicocco, anche se in alcuni casi sono stati isolati ceppi di Cytospora dotati di un’elevata aggressività.
Foto R. Angelini
Germoglio colpito da fusicocco
I frutti inseriti sui rami ammalati possono manifestare sintomi indiretti di malattia
Picnidio di Fusicoccum amygdali in sezione
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malattie Monilia (Monilinia laxa) Questa malattia è causata principalmente da Monilia laxa (forma agamica della Monilinia laxa ). Sui frutti si possono verificare infezioni anche da parte di M. fructigena. I fiori e i frutti sono gli organi sui quali si registrano i maggiori danni. I fiori colpiti avvizziscono e imbruniscono rapidamente. Dal fiore l’infezione si può estendere ai rami, provocando la comparsa di tacche depresse che spesso portano al disseccamento della parte distale del ramo colpito. Quando le condizioni climatiche durante la fioritura sono favorevoli all’insediamento del patogeno e l’inoculo nel pescheto è elevato sono possibili anche danni gravi, tali da compromettere la produzione dell’anno. Recenti studi epidemiologici hanno permesso di accertare che la formazione dei conidi di M. laxa si realizza anche a basse temperature (5-6 °C) e, se giungono a contatto di organi della pianta suscettibili, germinano più o meno rapidamente e danno avvio al processo infettivo. La penetrazione del micelio fungino all’interno dei tessuti vegetali avviene in presenza di un velo liquido e con un range termico compreso tra 5 e 30 °C. Il periodo di incubazione, prima della comparsa dei sintomi, può variare da pochi giorni a due settimane in funzione della temperatura. Di norma i danni che la monilia può provocare in campo rimangono a livelli trascurabili, mentre molto gravi possono essere le conseguenze delle infezioni nelle fasi di post-raccolta e di commercializzazione. Relativamente a questi ultimi aspetti si rimanda al capitolo del post-raccolta.
Foto R. Angelini
Fiore colpito da monilia Foto R. Angelini
Sintomi di monilia su foglie di albicocco Foto R. Angelini
I frutti colpiti da monilia disseccano progressivamente e assumono una colorazione bruno-nerastra Pesche colpite da monilia
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coltivazione Ruggine (Tranzschelia pruni-spinosae) Gli esiti degli attacchi di ruggine si manifestano sulle foglie a fine estate o in autunno sotto forma di piccole macchie giallastre presenti sulla pagina superiore, mentre in quella inferiore appaiono numerose pustole localizzate prevalentemente in corrispondenza delle nervature. I danni sulla pianta prodotti da questa malattia non sono quasi mai rilevanti e si traducono per lo più in un’anticipata defogliazione. In alcuni impianti, soprattutto dell’Italia centro-meridionale, possono venire colpiti anche i frutti, sui quali appaiono delle piccole lesioni rotondeggianti. L’agente di questa malattia è un fungo eteroico, che svolge il suo ciclo biologico su due differenti ospiti. Sulle drupacee si differenziano le uredospore e le teleutospore, che consentono la sopravvivenza del micete durante i mesi invernali. In primavera il fungo si trasferisce sull’altro ospite, costituito da piante erbacee quali anemoni e ranuncoli, ove differenzia prima i picnidi poi gli ecidi, contenenti le ecidiospore. Queste ultime, trasportate dal vento, reinfettano le piante di pesco dando avvio alla formazione degli uredosori. Le infezioni si ripetono più volte nel corso dell’anno, fino a quando le condizioni climatiche sono favorevoli allo sviluppo di questo basidiomicete.
Pustole di ruggine sulla lamina fogliare
Piccole tacche necrotiche di ruggine su pesca
I primi sintomi della ruggine si presentano sulla pagina superiore delle foglie
A fine stagione le pustole di ruggine assumono una colorazione nerastra (teleutosori)
Verticilliosi (Verticillium albo-atrum; V. dahliae) I primi sintomi di questa malattia interessano di solito una o poche branche, per poi estendersi progressivamente a tutta la pianta. Gli esiti dell’infezione si evidenziano solitamente in primavera e interessano in genere un numero limitato di piante. I funghi responsabili di questa malattia si sviluppano all’interno dei vasi legnosi, impedendo il movimento ascendente della linfa grezza e provocando nel contempo alterazioni a livello dell’equilibrio ormonico e metabolico, con conseguente appassimento e disseccamento delle foglie a partire da quelle più alte.
Sintomi di verticilliosi a carico dei tessuti legnosi esterni
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malattie La perpetuazione di questi microrganismi può avvenire sia in forma parassitaria, su numerose piante ospiti coltivate o spontanee, sia allo stato saprofitario nei residui vegetali; possono anche sopravvivere per parecchi anni nel terreno, sotto forma di strutture miceliali ispessite (microsclerozi). La penetrazione nella pianta ospite avviene generalmente attraverso ferite o lesioni, che si verificano soprattutto in vivaio o nella fase di trapianto. Mal del piombo (Chondrostereum purpureum) Gli esiti di questa micopatia si manifestano inizialmente sulle foglie, le quali assumono una caratteristica colorazione metallica rifrangente; successivamente le foglie “piombate” risultano deformate, bollose e ripiegate a doccia. Nei casi più gravi le piante colpite presentano foglie molto piccole, fortemente argentate e raccolte a rosetta sul ramo. I sintomi caratteristici di questa micopatia si ritrovano nei tessuti legnosi del tronco, delle branche più vecchie e delle radici sotto forma di aree imbrunite irregolarmente circolari. Le alterzioni sopra descritte sono la conseguenza di sostanze tossiche prodotte dal C. purpureum. L’evoluzione dell’infezione è imprevedibile in quanto il decorso della malattia può essere di tipo acuto, con morte della pianta in breve tempo, oppure di tipo cronico con le alterazioni fogliari che si manifestano in modo più o meno accentuato per diversi anni. Questa malattia non va confusa con altre affezioni che provocano anch’esse argentature fogliari, come ad esempio il “mal del piombo tardivo”, causato dalle alte temperature estive, o il “falso mal del piombo”, provocato dall’acaro eriofide Aculus fockeui.
In seguito all’attacco di verticilliosi i giovani rami presentano i vasi legnosi occlusi
Le foglie colpite (a destra) si presentano più piccole e argentate rispetto a quelle sane (a sinistra)
Tronco sezionato con la parte centrale del legno imbrunita e cariata
Le piante attaccate da mal del piombo deperiscono più o meno lentamente e muoiono
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coltivazione Marciume radicale (Armillaria mellea; Rosellinia necatrix) Il marciume radicale si manifesta con un indebolimento generale della pianta, vegetazione stentata, clorosi e appassimento progressivo delle foglie. I sintomi caratteristici dell’infezione sono chiaramente evidenti solo a livello dell’apparato radicale o nella parte basale del tronco, ove sono presenti le strutture vegetative dei miceti responsabili di questa malattia. Nel caso del marciume radicale lanoso, causato da Rosellinia necatrix, le radici appaiono avvolte da una rete miceliale dapprima biancastra e poi bruna, che si espande in masse feltrose sfioccate alla periferia. Le infezioni provocate da Armillaria mellea (marciume radicale fibroso) sono caratterizzate da un feltro miceliale di color crema, con una caratteristica conformazione a ventaglio nella parte periferica. Le radici colpite da questo micete emanano un caratteristico odore di fungo fresco. A volte, durante i mesi autunnali sono osservabili i tipici corpi fruttiferi del patogeno (chiodini o famigliole). L’insediamento nella pianta ospite di questi microrganismi, altamente polifagi, in grado di svilupparsi a carico di molte specie arboree coltivate o spontanee, si realizza attraverso lesioni di varia origine. Sono generalmente interessate da marciumi radicali le piante di pesco coltivate in terreni molto ricchi di sostanza organica e con problemi di asfissia radicale.
Pianta colpita da marciume radicale in grave stato di sofferenza
Radici avvolte dal micelio di Rosellinia necatrix
Carpofori di A. mellea, comunemente detti “chiodini” o “famigliole”
Il micelio di A. mellea assume spesso un aspetto “a ventaglio”
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Radici avvolte dal micelio di Armillaria mellea
malattie Maculatura batterica (Xanthomonas campestris pv. pruni) In diversi impianti di pesco, in particolare su varietà molto suscettibili come Spring Red o Elegant Lady, si ritrovano con una certa frequenza attacchi da parte di questo batterio, soprattutto in concomitanza di periodi caldo-umidi e piovosi. Le infezioni si manifestano generalmente in forma più grave su piante con elevato vigore vegetativo, ad esempio concimate abbondantemente con fertilizzanti azotati, con elevata disponibilità idrica o innestate su portinnesti molto vigorosi. Si ricorda che ceppi di questo batterio possono colpire anche il susino, per lo più le varietà cino-giapponesi. Gli esiti delle infezioni su pesco si evidenziano su foglie, gemme e germogli, rami e frutti. Su questi ultimi si manifestano maculature brunastre rotondeggianti, leggermente depresse, a volte con screpolature ulcerose. Le foglie infette presentano aree a contorno poligonale, dapprima idropiche e poi bruno-nerastre. Il lembo fogliare ingiallisce progressivamente e tende a disseccare, soprattutto nella parte apicale. In caso di gravi attacchi si assiste anche a una consistente caduta anticipata delle foglie. Sui rami il batterio causa, sia nella primavera inoltrata sia nella tarda estate, disseccamenti apicali con necrosi delle gemme. La sopravvivenza del batterio da un anno all’altro avviene prevalentemente nella parte distale dei rami, in corrispondenza delle gemme e delle cicatrici fogliari. Nella primavera successiva le cellule batteriche iniziano a moltiplicarsi per poi diffondersi nell’ambiente per mezzo del vento, della pioggia o degli insetti fino a giungere a contatto e infettare germogli, foglie e frutti. La penetrazione nei tessuti della pianta ospite avviene attraverso stomi, lenticelle e lesioni.
Tipiche maculature e lieve clorosi del lembo fogliare causate da maculatura batterica
Foto R. Angelini
Foto R. Angelini
Diverse manifestazioni delle lesioni di aspetto vescicoloso provocate dal batterio sul frutto
Esiti di attacchi di maculatura batterica su gemme e rametti
Particolare della necrosi risultante dalla confluenza di più maculature localizzate lungo la nervatura
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coltivazione Scabbia batterica dei frutti (Pseudomonas syringae pv. syringae) Si tratta di una malattia recentemente segnalata in Italia, che provoca sui frutti piccole lesioni necrotiche superficiali, tendenzialmente rotondeggianti e di colore bruno-nerastro. Con il passare del tempo le aree necrotiche si approfondiscono sull’epidermide del frutto e tendono a confluire interessandone ampie superfici. In concomitanza delle lesioni si può osservare la fuoriuscita di essudati gommosi. A volte questa malattia batterica può indurre ingiallimenti e disseccamenti sulle foglie, prevalentemente nella parte apicale. L’agente di questa malattia è un batterio ubiquitario e polifago che può svilupparsi come epifita su numerose piante arboree ed erbacee. La sua attività patogenetica si realizza prevalentemente durante i periodi freddi e umidi.
Foto Gardan
Emissione di gomma in corrispondenza di una lesione batterica su frutto
Tumore batterico (Agrobacterium tumefaciens) Gli attacchi di questo batterio su pesco sono frequenti, ma raramente provocano gravi ripercussioni nello sviluppo della pianta. Solo nel caso in cui la massa tumorale invada gran parte dell’apparato radicale o sia localizzata al colletto, gli effetti negativi si evidenziano con un progressivo deperimento della pianta. I tumori si presentano inizialmente come piccole protuberanze rotondeggianti, di colore bruno chiaro; con il passare del tempo assumono un colore scuro, consistenza legnosa, superficie rugosa e aumentano di dimensione. La massa tumorale tende poi a disgregarsi liberando le cellule batteriche, che vanno a contaminare ulteriormente il terreno. Il processo infettivo a carico della pianta ospite avviene esclusivamente attraverso lesioni che consentono al batterio di raggiungere le cellule corticali, sulle quali provoca alterazioni genetiche e processi di abnorme moltiplicazione.
Foto Gardan
Maculature fogliari provocate da Pseudomonas syringae pv. syringae
Tumori sulle radici provocati da Agrobacterium tumefaciens
A. tumefaciens causa la formazione di tumori di varie dimensioni in corrispondenza di ferite presenti sulle radici
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malattie Difesa dalle malattie Nel quadro complessivo delle tecniche di coltivazione del pesco, la gestione fitosanitaria occupa un posto di primo piano e deve essere correttamente impostata fin dalla fase di impianto del pescheto. Prima di procedere alla costituzione di un nuovo impianto, è buona norma controllare accuratamente il materiale di moltiplicazione per accertare la presenza di malattie che possono creare seri problemi alla coltura. In particolare è opportuno verificare, anche con esami di laboratorio, che sugli astoni non siano presenti esiti di infezioni batteriche o fungine causate, ad esempio, da Fusicoccum amygdali e Cytospora spp., mentre sull’apparato radicale ed sul colletto non devono essere presenti tumori di Agrobacterium tumefaciens o marciumi causati da Armillaria mellea, Rosellinia necatrix, Pythium spp., Phytophthora spp. Nel caso siano presenti alterazioni causate da questi miceti è necessario eliminare le piante colpite e disinfettare le altre immergendo le radici e il colletto in una soluzione di sali di rame. Nel caso di A. tumefaciens esiste la possibilità di una lotta biologica, da attuare prima della messa a dimora delle piante, somministrando un agrobatterio non tumorigeno (Agrobacterium radiobacter K84). Quest’ultimo, applicato sull’apparato radicale e sul colletto, svolge un’azione competitiva nei confronti del batterio tumorigeno, conferendo così un’efficace e prolungata protezione. La selezione del materiale di moltiplicazione dovrebbe avvenire prima della commercializzazione presso le aziende vivaistiche, anche con l’ausilio di personale qualificato appartenente agli Enti preposti alla vigilanza e alla certificazione, ma è consigliabile che gli stessi frutticoltori effettuino un ulteriore controllo delle piante consegnate in azienda prima della messa a dimora. Per quanto riguarda la scelta varietale, è di fondamentale importanza valutare
Astone di pesco colpito da Phytophthora spp. alla base del tronco e sulle radici. L’esame delle piante prima della messa a dimora deve essere eseguito accuratamente al fine di eliminare quelle che presentano esiti di attacchi parassitari o di alterazioni causate da agenti biotici o abiotici
Trattamento in vegetazione
Foto A. Perciaccante
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coltivazione attentamente la suscettibilità delle diverse cultivar nei confronti delle principali fitopatie diffuse nella zona in cui si opera. Si dovranno, ad esempio, escludere varietà tardive molto recettive agli attacchi di Monilia laxa e di altri agenti di marciumi dei frutti, in zone umide e poco ventilate. In alcune aree gli attacchi di Xanthomonas campestris pv. pruni sono oramai diffusi in forma endemica e pertanto in queste zone è opportuno non costituire nuovi impianti con cultivar molto suscettibili quali Elegant Lady, Iris rosso, Venus, Spring Red, Maria Laura, Maria Emilia, Royal Glory, Top Lady. Da evitare, inoltre, in zone molto umide interessate frequentemente da attacchi di Fusicoccum amygdali e Cytospora spp., le percoche ma anche le varietà di pesche e nettarine molto suscettibili. La scelta del portinnesto dovrà essere effettuata valutando attentamente anche la suscettibilità nei confronti dei parassiti tellurici. Nei terreni contaminati da Agrobacterium tumefaciens è preferibile ricorrere a Damasco 1869, dotato di una certa tolleranza. La sanità di un impianto dipende poi dagli interventi e dalle operazioni colturali attuati nella fase di impianto, quali la concimazione, e la sistemazione idraulica del suolo. Il terreno da destinare al nuovo impianto non dovrebbe aver ospitato negli ultimi 3-4 anni piante arboree, soprattutto della stessa specie. In caso di necessità di reimpianto andrebbero evitati gli appezzamenti nei quali sono state osservate morie di piante a seguito di attacchi di Armillaria mellea, Rosellinia necatrix e Phytophthora spp. Dopo la costituzione dell’impianto è indispensabile mettere in atto specifici interventi di difesa contro le principali malattie, fin dalla fase di allevamento delle piante. La prima malattia sulla quale il produttore deve porre la massima attenzione è la bolla, anche in considerazione dell’elevato potenziale di inoculo di questo germe presente ovunque. È pertanto indispensabile effettuare un primo trattamento in autunno, preferibilmente a completa caduta foglie, per devitalizzare le spore presenti sulle piante in modo tale da ridurre i rischi di infezione alla ripresa vegetativa. A fine inverno,
Appassimento delle foglie di alcuni rametti in conseguenza all’attacco di cancro rameale
Cancri perenni presenti su rami e branche di pesco. Contro questa avversità è necessario asportare e bruciare le parti legnose infette In sequenza, cirri biancastri di Fusicoccum ed essudati rosso-aranciati di Cytospora
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malattie superata la fase di rottura gemme, e in ogni caso sempre prima che si verifichino piogge o prolungate bagnature tali da dare avvio al processo infettivo, è necessario eseguire un secondo trattamento contro la bolla che va eventualmente ripetuto nelle fasi di pre-fioritura e di scamiciatura. Da considerare che anche i trattamenti fungicidi normalmente eseguiti contro oidio e monilia esplicano una certa attività preventiva nei riguardi degli attacchi di bolla, poiché devitalizzano parte delle spore di T. deformans presenti sulla pianta durante i mesi primaverili, estivi e autunnali. Nei riguardi del corineo la strategia di difesa è imperniata tradizionalmente su due interventi da eseguirsi, il primo, in autunno (subito dopo la caduta delle foglie) e il secondo in inverno (solitamente nel mese di febbraio, appena la temperatura tende a innalzarsi). Questi interventi “al bruno” hanno finalità estintive contro le forme ibernanti del fungo presenti nelle anfrattuosità corticali o tra le perule delle gemme. I fungicidi più usati a questo scopo sono gli stessi impiegati contro la bolla. Nelle annate caratterizzate da primavere molto piovose o quando la lotta invernale non abbia debellato completamente l’infezione, potranno rendersi necessari anche uno o due interventi in vegetazione, solitamente durante i mesi di marzo e aprile. È importante sottolineare l’esigenza di una difesa preventiva contro le forme svernanti di questo patogeno, perché se da un lato il suo insediamento è relativamente lento, dall’altro risulta difficile sradicare le infezioni in atto, specialmente di tipo lignicolo. Per limitare la suscettibilità delle piante a questa malattia è, inoltre, buona norma ridurre le concimazioni azotate e le irrigazioni che tendono a rallentare i processi di lignificazione dei rami. Si raccomanda, infine, come misura profilattica, di costituire nuovi impianti con varietà poco sensibili al corineo in zone molto umide e poco ventilate e di asportare durante la potatura tutti gli organi della pianta colpiti dalla malattia.
Foto R. Angelini
Per prevenire gli attacchi di bolla è indispensabile intervenire in autunno, a caduta foglie, e alla ripresa vegetativa prima del verificarsi delle infezioni causate dalle spore ibernanti presenti sulla pianta In primo piano sono ben evidenti piante colpite da bolla, non adeguatamente trattate da fungicidi
Foto R. Angelini
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coltivazione Per quanto riguarda il nerume, interventi specifici sono consigliati solo negli impianti generalmente interessati da questa malattia e si effettuano a partire dalla fase di accrescimento frutti, impiegando preferibilmente zolfo bagnabile. Da sottolineare che le ripetute applicazioni con fungicidi contro le diverse malattie crittogamiche esplicano una discreta efficacia anche nei riguardi di Cladosporium carpophilum. Per combattere adeguatamente il mal bianco nelle aree peschicole dove l’infezione si presenta ogni anno con particolare virulenza, è opportuno eseguire alcune applicazioni preventive nelle fasi di scamiciatura e ingrossamento dei frutticini, mentre in tutti gli altri casi si può intervenire dopo la comparsa dei sintomi. A questo proposito si raccomanda di iniziare i trattamenti appena si notano i primi esiti dell’infezione, evitando in tal modo il pericolo che la malattia possa diffondersi gravemente nel pescheto. Relativamente ai prodotti da impiegare, la scelta dovrà di norma cadere sullo zolfo, riservando l’uso dei più efficaci antioidici di sintesi ai soli casi in cui la malattia si manifesta tutti gli anni con una certa intensità. Per quanto riguarda l’intervallo di tempo fra una applicazione e la successiva, esso varia fortemente in relazione alle condizioni ambientali, allo stadio vegetativo della pianta e al fungicida impiegato. Nei periodi di massima recettività all’infezione è necessario adottare turni molto ravvicinati, variabili da un minimo di 7-8 giorni sino a 12-14 giorni. Collateralmente all’attuazione della lotta chimica, si raccomanda di eliminare i germogli coperti dal feltro miceliale, asportare durante il diradamento i frutticini ammalati ed evitare un uso eccessivo di fertilizzanti azotati. Inoltre, per i nuovi impianti in zone molto soggette a questa malattia è bene scegliere cultivar poco suscettibili al mal bianco. La lotta contro gli agenti di cancri rameali, da attuarsi solo negli impianti ad alto rischio o già interessati dalla malattia, si basa su trattamenti preventivi da ripetersi più volte durante i mesi autunnali e primaverili, in concomitanza di piogge o di periodi di prolungata bagnatura delle piante. Oltre agli interventi chimici, un razionale piano di lotta contro queste alterazioni non può prescindere dall’accurata asportazione e distruzione di tutti i rami secchi. Si deve infine evitare la pratica dello sfibramento e interramento dei rami tagliati con la potatura, il ricorso a sistemi di irrigazione che bagnino i rami e rendano le piante più suscettibili al patogeno e, infine, l’uso eccessivo di fertilizzanti azotati. Per contenere i danni provocati principalmente da Monilia laxa, e in misura nettamente inferiore da M. fructigena, è necessario in primo luogo ricorrere a misure agronomiche finalizzate a limitare la suscettibilità dei fiori e dei frutti e ad abbassare il potenzia-
Foto R. Angelini
Danni da mal bianco su nettarine
Difesa dal mal bianco
• Gli interventi contro il mal bianco
del pesco devono essere effettuati preventivamente nelle aree collinari o sulle varietà particolarmente suscettibili a questa malattia
• Nelle situazioni a basso rischio
si può intervenire con zolfi bagnabili o antioidici di sintesi alla comparsa dei primi sintomi dell’infezione
• Evitare l’impiego di zolfo se
le temperature sono molto elevate in quanto si potrebbero verificare effetti fitotossici
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malattie le di inoculo. A questo proposito è opportuno limitare le irrigazioni e le concimazioni azotate, asportare e distruggere i frutti mummificati appesi alla pianta o caduti a terra, nonché i rametti parzialmente o totalmente disseccati a seguito di attacchi verificatisi durante il periodo fiorale. Si dovrà poi evitare di lesionare i frutti nelle fasi di raccolta e di selezione in magazzino, allontanare immediatamente quelli marcescenti dai locali di lavorazione e, soprattutto, ridurre al massimo i tempi di conservazione e di commercializzazione. La difesa chimica andrà realizzata in pre-raccolta effettuando nelle due-tre settimane precedenti l’inizio della raccolta una o due applicazioni con specifici preparati antimonilia. Può inoltre essere opportuno eseguire un intervento anche nella fase di fioritura se questo periodo è caratterizzato da piogge frequenti, elevata umidità o prolungata bagnatura della pianta. Per prevenire infine gli attacchi delle malattie batteriche, oltre al ricorso ai preparati cuprici durante i mesi primaverili e invernali, sono di fondamentale importanza l’impiego di materiali di moltiplicazione sani e la tempestiva asportazione e distruzione dei residui di foglie e frutti infetti caduti a terra, nonché dei rami interessati da cancri batterici.
Foto R. Angelini
Presupposto per una corretta difesa contro la monilia è la tempestiva eliminazione a fine inverno dei frutti mummificati ancora appesi alla pianta
Momenti di intervento nelle diverse fasi fenologiche contro le principali malattie
Gemma ferma
Bottoni rosa
Fioritura
Caduta petali
Scamiciatura
Accrescimento frutti
Maturazione frutti
Caduta foglie
Bolla
Bolla
Corineo
Corineo
Monilia
Monilia Mal bianco Fusicocco
Fusicocco
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il pesco
coltivazione Virosi e fitoplasmosi Luciano Giunchedi
www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche. Crediti: le foto alle pagine 16 in alto a destra (Bvdc), 78 in alto (Huan), al centro (Pinkcandy) e in basso (Teoteoteo), 79 (Amitai), 80 in basso (Miszmasz), 81 (Looby), 82 (Karcich), 86 (Yasonya), 88 in basso (Lissdoc), 96 (Hurry), 98 in alto a sinistra (Hurry), 108 in alto (Tinker) e in basso (Meengen), 408 (Matka_wariatka), 409 (Elkeflorida), 416 al centro (Uksus) e in basso (Vladacanon), 417 in alto (Icefront), 421 in basso (Robynmac), 422 in alto (Palolilo), 474 in basso (Emily2k), 479 in basso (Elenathewise) sono dell’agenzia Dreamstime.com.
coltivazione Virosi e fitoplasmosi Introduzione Le malattie da virus, viroidi e fitoplasmi, di solito, sono trattate assieme per il fatto che presentano sintomi, aspetti patogenetici e, soprattutto, epidemiologici simili, tanto che, per lungo tempo e fino alla determinazione esatta della loro eziologia, le malattie da viroidi e fitoplasmi sono state annoverate fra quelle a presunta eziologia virale. Di seguito, si illustrano brevemente le caratteristiche generali degli agenti infettivi in esame.
Denominazione dei virus e dei viroidi
• La denominazione ufficiale dei virus e
dei viroidi è indicata con due termini in inglese derivati, di solito, dal nome della pianta ospite principale o di quella in cui l’agente infettivo è stato individuato la prima volta e dalla manifestazione da esso indotta ritenuta più caratteristica
Gli agenti infettivi: caratteristiche generali Il termine virus, derivante da una parola latina che significa veleno, fu usato per la prima volta in riferimento a un elemento infettivo dal botanico olandese Martinus W. Beijerinck in uno scritto del 1899, nel quale postulò che la causa del mosaico del tabacco fosse un’entità mai riscontrata prima, di dimensioni talmente ridotte da non essere trattenuta dai filtri amicrobici a candela di porcellana di Chamberlain e in grado di diffondersi attraverso substrati di agar, contrariamente ai microrganismi visibili al microscopio ottico (funghi e batteri) e ritenuti a quel tempo gli unici in grado di indurre malattie. Per queste caratteristiche e in seguito alla trasmissione dell’infezione da una pianta di tabacco all’altra per inoculazioni con succo infetto ripetute in successione, Beijerinck dedusse si trattasse di un’entità “non corpusculare” capace di replicarsi, e quindi viva, che descrisse come contagium vivum fluidum (liquido vivente contagioso) o virus, aprendo, in quel modo, la via allo studio dei virus. Egli, poi, concluse la sua storica pubblicazione con la predizione che parecchie altre malattie “non parassitarie” – nel senso di non essere causate da funghi e batteri – a eziologia sconosciuta, quali, per esempio, la rosetta e il giallume del pesco, avrebbero potuto essere indotte da virus. In seguito, fin verso la fine degli anni ’30, tutte le entità infettive caratterizzate da filtrabilità vennero indicate con il termine “virus filtrabile”. Negli anni successivi, con la purificazione, cristallizzazione e caratterizzazione chimica del virus del mosaico del tabacco (Stanley, 1935) e l’osservazione al microscopio elettronico di particelle del medesimo virus (anni ’40), l’epiteto “filtrabile” fu lasciato cadere. I virus possono essere definiti come elementi biochimici, essenzialmente di natura nucleoproteica, costituiti da una o più molecole di un solo tipo di acido nucleico (RNA = acido ribonucleico o DNA = acido desossiribonucleico) depositario del codice genetico del virus (genoma) e funzionalmente attivo soltanto all’interno
• Al nome di ciascuna specie corrisponde
una sigla, generalmente formata dalle iniziali a carattere maiuscolo delle parole che designano la specie. Nel caso dei viroidi, alle lettere che formano la sigla del nome viene aggiunta la lettera “d” a carattere minuscolo
RNA
Subunità proteica Filamentosa A bastoncino rigido
Bacilliforme Poliedrica Diversi tipi di particelle virali
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virosi e fitoplasmosi di un’appropriata cellula viva, circondato da un involucro proteico o lipoproteico. L’acido nucleico può essere a singolo o a doppio filamento, lineare (le molecole di RNA) o circolare (le molecole di DNA), di polarità positiva (può essere direttamente tradotto in proteine) o negativa (non può fungere direttamente da messaggero ma deve essere prima sintetizzato il suo filamento complementare). Esso porta le informazioni per l’espressione dell’attività patogenetica e per dirigere la sintesi di proteine virali, inoltre agisce da stampo per la formazione di nuove catene nucleotidiche identiche a quelle originarie. L’involucro proteico, detto capside o capsidio, è costituito da parecchie subunità, chimicamente identiche le une alle altre o di pochi tipi, impacchettate fra loro in modo geometrico. Il capside, oltre alla funzione principale di protezione del genoma, in alcuni virus determina la gamma di piante ospiti, in altri regola la trasmissione delle particelle virali da una pianta all’altra mediante vettori ecc. I virus, quindi, non hanno una struttura cellulare e sono privi di attività fisiologica e biochimica proprie. Per la loro attività di sintesi proteica e di replicazione del genoma sfruttano l’apparato sintetico e i nucleotidi della cellula ospite instaurando con essa, in tal modo, un rapporto parassitario di tipo genetico.
Ciclo replicativo dei virus a RNA
• Inoculazione di particelle virali
nelle cellule di una pianta ospite
• Separazione dell’RNA dal rivestimento proteico (decapsidazione)
• Traduzione della porzione iniziale
dell’RNA a livello dei ribosomi della cellula ospite con la sintesi di proteine funzionali coinvolte nella replicazione dell’RNA (RNA polimerasi ecc.)
• Replicazione dell’RNA secondo un
meccanismo che prevede la sintesi sul filamento di RNA infettante (RNA stampo) del filamento complementare, a partire dai nucleotidi della cellula, il quale a sua volta agisce da stampo per la sintesi ripetuta di nuovi filamenti di RNA identici all’RNA iniziale
• Traduzione del restante genoma
con produzione di proteine funzionali (coinvolte nella diffusione dell’infezione all’interno della pianta, nella trasmissione del virus tramite vettori ecc.) e di una o più proteine strutturali
Ciclo replicativo dei virus a RNA Trasmissione del virus ad altre piante
Inoculazione di particelle virali nella cellula ospite
• Formazione di particelle complete
Decapsidazione e sintesi di proteine che catalizzano la replicazione dell’RNA
mediante associazione dell’RNA di nuova sintesi con le subunità proteiche del rivestimento
• Diffusione e replicazione dell’infezione in pressoché tutta la pianta e, successivamente, trasmissione delle particelle virali ad altre piante
Formazione di particelle virali complete
Sintesi di altre proteine funzionali e di quella strutturale (proteina del capsidio)
Replicazione dell’RNA
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coltivazione Per quanto riguarda la morfologia, i virus sono costituiti da particelle, dette virioni, di forma, dimensione e aspetto caratteristici per ogni specie virale. Nell’ambito dei virus delle piante si riscontrano specie con particelle sferiche o poliedriche, di diametro attorno ai 30 nm (nm = nanometro, pari a 1 milionesimo di mm), bacilliformi, a bastoncelli lineari, di lunghezza compresa fra i 100 e i 300 nm e filamentose, lunghe fino a 2000 nm. Per quanto riguarda i viroidi, sono elementi infettivi costituiti esclusivamente da un RNA circolare, a singola elica, molto corto, di lunghezza variabile da 246 a 399 nucleotidi, a seconda del viroide. Essi costituiscono i più piccoli agenti infettivi attualmente conosciuti in grado di replicarsi all’interno di una cellula ospite senza dipendere da altri agenti patogeni, come avviene per i virus satelliti e gli RNA satelliti, i quali si replicano soltanto in cellule coinfettate da un virus specifico (virus di supporto o helper) che codifica l’enzima necessario per la loro replicazione. L’RNA dei viroidi non codifica la sintesi di proteine. In ogni modo, contiene le informazioni genetiche che regolano lo svolgimento della sua attività patogenetica e di replicazione. Esso possiede delle brevi regioni a filamento singolo alternate ad altre a doppio filamento per l’appaiamento di sequenze nucleotidiche complementari, per cui si forma una struttura secondaria con anse e ramificazioni, essenziali per la realizzazione delle sue proprietà biologiche. Di fatto, la mancanza di estremità libere e la presenza di regioni a doppio filamento proteggono l’RNA viroidale dalla degradazione enzimatica, mentre le ripiegature della struttura secondaria costituiscono i segnali che, direttamente o attraverso l’interazione con componenti cellulari, consentono l’attività del viroide. Le fasi principali che si susseguono nel processo infettivo dei viroidi sono le stesse degli altri agenti patogeni, ossia: inoculazione, replicazione e diffusione dell’RNA all’interno dell’ospite, replicazione nei nuovi centri d’infezione, trasferimento ad altre piante. I quadri sintomatologici prodotti dai viroidi sono molto simili a quelli indotti dai virus e possono andare dalla completa assenza di sintomi a fessurazioni, rugginosità o decolorazioni della superficie dei frutti o di altri organi carnosi, desquamazioni della corteccia, deformazioni e alterazioni di colore della lamina fogliare, arresto di sviluppo, deperimento progressivo fino alla morte della pianta. In genere la replicazione dei viroidi e l’espressione dei sintomi sono favorite dalle temperature e dall’intensità luminosa elevate. L’altro gruppo di agenti patogeni spesso trattato assieme ai virus, come già menzionato, è quello dei fitoplasmi. A differenza dei virus e dei viroidi, che non hanno struttura cellulare, i fitoplasmi sono organismi unicellulari la cui caratteristica più rilevante è la mancanza di parete. Le cellule dei fitoplasmi sono delimitate
Viroidi
• Il termine “viroide” è stato usato per
la prima volta nel 1971 per indicare un piccolo RNA senza rivestimento proteico associato alla malattia della patata nota come tubero fusiforme. Da allora sono state identificate 29 specie di viroidi con oltre 100 varianti di sequenza. Al momento sono stati riscontrati unicamente in piante superiori
• In base a certe caratteristiche della
sequenza nucleotidica dell’RNA dei viroidi e, soprattutto, alla sua capacità di autoscindersi o meno, i viroidi vengono distinti in due famiglie. La famiglia Avsunviroidae comprende il genere Pelamoviroid con l’agente del mosaico latente del pesco
G = Guanina A = Adenina C = Citosina U = Uracile Struttura primaria e secondaria del viroide del mosaico latente del pesco (PLMVd)
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virosi e fitoplasmosi da una membrana citoplasmatica tristratificata, hanno dimensioni submicroscopiche, che oscillano da 200 a 800 nm, una forma variabile, di tipo sferoidale o allungata, dovuta alla mancanza di parete cellulare (caratteristica che li rende resistenti agli antibiotici del gruppo delle penicilline) e un’organizzazione molto semplice. Esse, infatti, mancano di un nucleo morfologicamente distinto, in quanto privo di membrana di rivestimento che lo separi dal citoplasma (cellula procariota), e possiedono un genoma molto ridotto, costituito da un’unica molecola di DNA circolare a doppia elica che varia dalle 530 alle 1350 kilopaia di basi. Infine, si moltiplicano solo per via agamica. I fitoplasmi sono parassiti obbligati, non coltivabili in vitro (a differenza degli spiroplasmi, altro gruppo di procarioti, privi di parete cellulare, agenti di alcune malattie nelle piante), localizzati esclusivamente all’interno dei tubi cribrosi delle piante ospiti e nel corpo degli insetti vettori. I sintomi indotti dai fitoplasmi derivano dal danneggiamento del tessuto floematico e da alterazioni del metabolismo delle sostanze ormonali che determinano il ristagno dei prodotti della fotosintesi nelle foglie a cui si accompagnano ingiallimenti, accartocciamento del lembo fogliare, prematuro arrossamento e caduta anticipata delle foglie, sviluppo prematuro di gemme ascellari dormienti che originano esili rametti affastellati (scopazzi), sviluppo di gemme a fiore e/o a legno a fine estate, ripresa vegetativa primaverile anticipata rispetto alle piante sane, inverdimento di parti colorate del fiore (virescenza), trasformazione degli annessi fiorali in strutture di tipo fogliare (filloidia), deperimento progressivo fino alla morte della pianta. Per quanto riguarda la sistematica dei fitoplasmi, la mancata coltivazione su substrati artificiali in vitro non consente di classificarli in conformità ai criteri convenzionali adottati per i procarioti coltivabili in vitro, che si basano su un complesso di proprietà genetiche e biologiche determinate esaminando delle colture pure. Per questo motivo, per la classificazione dei fitoplasmi nelle unità sistematiche di genere e specie si è ricorso alle categorie Candidatae, ossia a unità tassonomiche provvisorie nelle quali si raggruppano i procarioti attualmente non coltivabili in vitro ma caratterizzati molecolarmente. Più in particolare, i fitoplasmi sono attualmente assegnati al genere Candidatus Phytoplasma, nell’ambito della classe Mollicutes, che comprende circa 25 specie Candidatae. Per quel che ci interessa in questa sede, l’agente del giallume europeo delle drupacee è denominato Candidatus Phytoplasma prunorum.
Fitoplasmi
• La prima segnalazione, nei vegetali, di
microrganismi procarioti privi di parete cellulare (mollicuti) risale al 1967, quando ricercatori giapponesi li riscontrarono, tramite osservazioni al microscopio elettronico, in sezioni ultra-sottili di floema di piante di gelso con nanismo, Paulownia e patata con scopazzi e astro con giallume e dimostrarono la scomparsa di tali sintomi a seguito di trattamenti con antibiotici del gruppo delle tetracicline
• Questi microrganismi, fino ai primi anni
’90, sono stati indicati con il termine di organismi simili ai micoplasmi (MLO) per la loro somiglianza morfologica con questi ultimi, conosciuti da tempo come agenti di malattie nell’uomo e negli animali. Successivamente, in considerazione della loro diversificazione filogenetica dagli altri mollicuti, delle loro proprietà fitopatogene e del loro habitat floematico, sono stati denominati fitoplasmi Foto M. Conti
Epidemiologia Prima di procedere oltre è utile accennare a due caratteristiche fondamentali di tipo patogenetico-epidemiologico comuni agli
Fotografia al microscopio elettronico di fitoplasmi all’interno di un tubo cribroso
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coltivazione agenti infettivi in esame. La prima concerne la loro incapacità di superare sia la cuticola che riveste la superficie esterna della parte aerea delle piante sia la parete cellulare. Per avviare il processo infettivo le particelle virali e i filamenti di RNA viroidale devono essere introdotti direttamente all’interno di una cellula suscettibile, mentre le particelle di alcuni gruppi di virus circoscritti al floema e le cellule dei fitoplasmi devono essere introdotte nei tubi cribrosi di una pianta ospite. In natura, l’inoculazione di queste entità infettive in cellule e tessuti di una pianta ospite può avvenire per l’azione di organismi, indicati con il nome di vettori, che acquisiscono l’infezione da una pianta infetta in seguito allo svolgimento della loro attività trofica o di qualche fase del loro ciclo biologico e la trasmettono a una pianta sana mentre eseguono nuovamente la medesima operazione o svolgono la stessa fase biologica. Nel caso dei virus, adempiono alla funzione di vettori varie specie di insetti, soprattutto ad apparato boccale pungente succhiante, ma anche acari, nematodi e, limitatamente a virus di piante erbacee, alcune specie di protozoi e di funghi. Per quanto concerne i fitoplasmi, in natura, la loro trasmissione è operata unicamente da insetti omotteri floeomizi, appartenenti per lo più a cicaline (Famiglia Cicadellidae, sottofamiglia Deltocephaline), ma anche da cixiidi e, per quel che riguarda i fitoplasmi presenti in Europa, delle pomacee e drupacee, da alcune specie di psille. La trasmissione tramite vettori è un processo caratterizzato da specifiche relazioni biochimiche fra vettore e virus o fitoplasma e avviene secondo diverse modalità, di cui quelle relative agli agenti di ma-
Tramissione da pianta a pianta
• La trasmissione degli agenti infettivi
da una pianta malata ad altre sane può essere di tipo orizzontale o verticale
• Nel primo caso, l’infezione passa
da una pianta infetta ad altre della stessa generazione, originariamente sane per l’intervento di vettori, tramite il polline, per succo (indicata anche per via meccanica) e, talvolta, anche per innesto radicale
• Nel secondo caso, l’infezione passa
direttamente da una pianta infetta alla sua progenie tramite il seme o gli organi di moltiplicazione vegetativa provenienti da una pianta madre ammalata, cosicché le nuove piante sono infette fin dalla fase iniziale del loro sviluppo. Quest’ultima modalità è di gran lunga la più importante per le piante da frutto
Modalità di trasmissione da pianta a pianta di virus, viroidi e fitoplasmi in Italia Per seme
Per ferite da taglio
Trasmissione del virus alla giovane pianta
Pianta infetta Seme infetto
Attraverso la potatura
Per polline
Per moltiplicazione vegetativa
Innesto a gemma
Polline da pianta infetta
Innesto a marza
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Diffusione del virus attraverso il polline
Trasmissione del virus dal polline al fiore mediata da tripidi
virosi e fitoplasmosi lattie del pesco saranno esaminate nella parte dedicata alle singole affezioni. Nel caso dei viroidi, la trasmissione per vettori non sembra rivestire importanza pratica ai fini epidemiologici. Caratteristica di questi agenti infettivi, a differenza di quanto si verifica per i virus delle piante arboree e per tutti i fitoplasmi, è la trasmissione da una pianta all’altra attraverso le ferite da taglio che occorrono durante le operazioni colturali (potatura, scacchiatura ecc.), in particolare quando le lesioni interessano i tessuti vascolari. Continuando con le modalità naturali di trasmissione, parecchi virus e alcuni viroidi, nel corso del processo evolutivo, hanno sviluppato dei meccanismi che sfruttano il processo di riproduzione naturale delle piante e rendono possibile la loro trasmissione attraverso il seme di qualche pianta ospite nonché il loro trasporto da una pianta all’altra per mezzo del polline e il successivo passaggio, tramite fiori fecondati o per l’azione di tripidi, ai tessuti della pianta madre dei fiori. Altra notevole caratteristica degli agenti infettivi in esame è quella di dare origine a infezioni di tipo sistemico, cioè, anziché rimanere confinati a determinati organi o porzioni della pianta ospite, tendono a diffondersi in tutte o quasi le parti di questa. Riguardo ai fitoplasmi, come già visto, la loro diffusione interessa unicamente i tubi cribrosi. Nel caso dei virus e dei viroidi, la diffusione del materiale infettivo dalla cellula d’infezione e di replicazione primaria, solitamente del parenchima fogliare, ad altre parti della pianta avviene attraverso il passaggio intercellulare, tramite i plasmodesmi, fino a raggiungere gli elementi di conduzione del floema (tranne pochi virus di piante erbacee che si diffondono attraverso gli elementi conduttori xilematici o entrambi i sistemi di conduzione). A questa fase segue la diffusione generalizzata dell’infezione con la corrente dei fotoassimilati.
Modalità di trasmissione di virus, viroidi e fitoplasmi in Italia Tramite vettori aerei o ipogei (ipogei non rappresentati)
Virus, viroidi e fitoplasmi riscontrati in piante di pesco in Italia. In neretto quelli che rivestono importanza economica presi in considerazione VIRUS Virus associato alla necrosi della corteccia e all’infossatura del legno del susino Virus della maculatura anulare latente della fragola Virus della maculatura anulare necrotica delle drupacee Virus della maculatura clorotica fogliare del melo Virus della vaiolatura del susino Virus del mosaico del melo Virus del nanismo del susino Virus 1 della ciliegia nana
Per innesto radicale
VIROIDI Viroide del mosaico latente del pesco Viroide del nanismo del luppolo FITOPLASMI Fitoplasma del giallume europeo delle drupacee
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coltivazione Quindi, in seguito alla generalizzazione dell’infezione, ogni parte distaccata da una pianta ammalata per formare un nuovo individuo (per es. marza, gemma, talea ecc.) potenzialmente contiene l’elemento infettivo, il quale si diffonde alla vegetazione della nuova pianta. In realtà, le pratiche colturali di moltiplicazione delle piante per via vegetativa rappresentano la forma più comune di propagazione degli agenti infettivi in esame.
Afide
Virus, viroidi e fitoplasmi nella peschicoltura italiana Per chiarezza, specifichiamo che nel prosieguo il termine pesco verrà usato in senso lato per indicare anche le piante di nettarine e percoche. Tra le malattie da virus, viroidi e fitoplasmi che interessano le drupacee in esame, nel nostro Paese assumono un ruolo di particolare rilievo quelle indotte dal virus della vaiolatura del susino (sharka) e dal viroide del mosaico latente del pesco. Il primo, riscontrato nel nostro Paese in piante di pesco nel 1992, è stato causa di rilevanti abbattimenti di peschi in alcune aree centro-settentrionali e ancora adesso arreca danni considerevoli. Il secondo si evidenzia e assume un’importanza di rilievo specialmente sui frutti di alcune varietà, con maggior frequenza per quelli di pesco. In aggiunta agli agenti infettivi sopra menzionati, nei pescheti costituiti con materiale di propagazione non controllato sanitariamente, possono presentare una certa diffusione e produrre danni di qualche importanza pratica anche i virus della maculatura anulare necrotica delle drupacee e del nanismo del susino, mentre il virus della maculatura clorotica fogliare del melo infetta le piante di pesco in forma latente, tranne alcuni ceppi producenti saltuarie alterazioni cromatiche delle foglie o la falsa vaiolatura delle pesche, e non riveste alcuna importanza economica. Continuando con gli agenti patogeni rinvenuti su pesco in Italia, vanno ricordati: il virus agente della rosetta a foglie saliciformi del pesco, poco diffuso ma responsabile della completa perdita della fruttificazione delle piante colpite; il cosiddetto virus associato alla necrosi della corteccia e all’infossatura del legno del susino, messo in evidenza recentemente in peschi con infossature della superficie del cilindro legnoso, a livello del tronco e delle branche individuabili sollevando la corteccia, il quale pare presentare una certa diffusione e potrebbe rivestire qualche importanza economica; il virus del mosaico del melo, agente di maculature anulari della lamina fogliare, e il viroide del nanismo del luppolo, riscontrato in associazione con quello del mosaico latente del pesco, entrambi di comparsa del tutto occasionale e privi di importanza pratica. Di recente, in peschi asintomatici, è stato rinvenuto anche il virus 1 della ciliegia nana. Per quanto riguarda le infezioni da fitoplasmi, i nostri pescheti possono essere attaccati dall’agente del giallume europeo delle drupacee. Questo fitoplasma, assai comune e responsabile di gravi danni agli impianti di albicocco e di susino cino-giapponese, si riscontra invece piuttosto raramente in quelli di pesco e
Psilla
Nematodi
Gruppi di animali vettori di virus e fitoplasmi del pesco in Italia
Foto R. Angelini
Colonia di afidi su rametto di pesco
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virosi e fitoplasmosi induce manifestazioni patologiche quasi esclusivamente in peschi su portinnesti sensibili. Nel novero delle malattie da virus o presunte tali segnalate su pesco in Italia, vanno menzionate anche alcune affezioni descritte negli anni ’40-’50 del secolo scorso. Di fatto, per alcune di queste, come è stato, per esempio, per il mosaico e la pesca verrucosa, non fu dimostrata la loro natura infettiva e probabilmente si trattava di manifestazioni non parassitarie a sintomatologia analoga a quella di affezioni virali diffuse negli Stati Uniti d’America. Per ciò che riguarda il cosiddetto mosaico con rosetta, dopo la prima individuazione in alcuni peschi di varietà di origine americana, non è stato più rinvenuto, per cui si può ritenere che il suo agente eziologico sia stato introdotto nel nostro paese tramite materiale di propagazione vegetativo infetto di provenienza straniera e non sia stato successivamente trasmesso ad altri peschi con la pratica dell’innesto o mediante vettori naturali. Relativamente al giallume, considerato simile a quello responsabile della morte di numerosi peschi nelle regioni temperate orientali del Nord America a cavallo del XVIII e XIX secolo, è verosimile si trattasse, per un complesso di caratteristiche sintomatologiche ed epidemiologiche, della malattia da fitoplasmi sopra menzionata, all’epoca non ancora individuata in peschi ma già diffusa su albicocco e susino. Infine, in riferimento ai quadri sintomatologici denominati mosaico giallo o calico e maculatura clorotica, originariamente ritenuti l’espressione di specifici agenti patogeni, sono risultati essere sindromi distinte prodotte dal viroide agente del cosiddetto mosaico latente del pesco. Di seguito verranno descritti i quadri sintomatologici delle malattie che, per la loro diffusione e frequenza nei nostri pescheti e per gli effetti negativi sulla produttività e/o sulle caratteristiche qualitative dei frutti delle piante colpite, sono in grado di determinare danni rilevanti alla coltura, accennando poi le principali caratteristiche generali e gli aspetti epidemiologici dei rispettivi agenti eziologici nonché le misure per il loro contenimento. Più precisamente, verranno prese in considerazione prima le malattie prodotte dai virus della vaiolatura e del nanismo del susino, da quello della maculatura anulare necrotica delle drupacee e dall’agente della rosetta a foglie saliciformi, poi l’alterazione causata dal viroide del mosaico latente e, infine, quella a eziologia fitoplasmatica. Quest’ultima, per quanto rivesta, al momento, un’importanza piuttosto secondaria, potrebbe divenire dannosa per l’avvenire in seguito alla diffusione di portinnesti e/o di varietà sensibili al fitoplasma o in conseguenza di cambiamenti nella strategia di lotta agli insetti della drupacea, basata sull’adozione di insetticidi a basso impatto ambientale che potrebbero esercitare una minore azione di contenimento della popolazione dello psillide vettore del fitoplasma negli impianti di pesco.
A
Canale mascellare
Epidermide B
Ghiandole salivari Emocele
Apparato digerente Epidermide Parenchima Elementi del tubo cribroso
Trasmissione di un virus ad opera di un afide
• I disegni in alto mostrano
la trasmissione di un virus ad opera di un afide secondo le modalità della non persistenza (A) e della persistenza (B). Nella prima modalità, l’acquisizione e l’inoculazione delle particelle virali avvengono mediante punture della durata di pochi secondi (dette di assaggio) nei tessuti superficiali. Le particelle virali aderiscono, così, alla parte distale degli stiletti mascellari del vettore. Nella trasmissione persistente l’acquisizione delle particelle virali avviene con punture di alimentazione nel floema. Esse attraversano poi la parete dell’intestino medio e si diffondono nel corpo del vettore fino a penetrare nelle ghiandole salivari accessorie dalle quali sono inoculate in nuove piante ospiti con la saliva
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coltivazione Sharka o vaiolatura delle drupacee Il virus agente della vaiolatura induce sintomi sui frutti e sulle foglie delle piante colpite e, nel caso specifico del pesco, anche sulla corteccia dei giovani rametti e sui petali dei fiori di tipo rosaceo, mentre, in genere, non influisce sull’attività vegetativa e produttiva delle piante. Le manifestazioni della virosi interessano più o meno tutta la chioma, nel caso di piante costituite con materiale di propagazione vegetativa infetto, mentre interessano solamente una parte dell’albero se l’infezione è avvenuta da poco tempo tramite afide. Inoltre, l’intensità dei sintomi, sia sulle foglie sia sui frutti, è influenzata da diversi fattori fra cui, in primo luogo, la sensibilità varietale e il ceppo dell’agente virale e, in minore misura, le condizioni di crescita delle piante e quelle climatiche. In genere non esiste alcuna relazione fra l’intensità dei sintomi sui frutti e quella sulle foglie, e dunque si può verificare che essi siano poco evidenti sulle foglie e accentuati sui frutti o viceversa. I sintomi fogliari sono visibili soprattutto sulle foglie che si formano all’inizio della primavera, in piante con un buon vigore vegetativo e con clima fresco, per poi attenuarsi fino a scomparire successivamente e per ripresentarsi in settembre su giovani foglie della seconda vegetazione. In particolare, i sintomi iniziano a comparire sulle prime foglie che si formano in primavera sotto forma di schiarimenti di tratti più o meno ampi di nervature secondarie e terziarie, accompagnati, a volte, da una leggera distorsione o increspatura del lembo. Nelle foglie che si differenziano successivamente e fino all’ottavadecima di un germoglio si evidenziano delle sottili striature o delle linee sinuose leggermente clorotiche che si chiudono ad anello o anulature dal contorno sfumato, talvolta rossastro, con un’area verde al centro, tutte localizzate su tratti di nervature secondarie o terziarie.
Sharka
• Agente eziologico: Plum pox virus (virus della vaiolatura del susino)
• Acronimo: PPV • Posizione tassonomica: Fam. Potyviridae, Gen. Potyvirus
• Piante ospiti principali: specie del genere Prunus
• Trasmissione naturale: mediante afidi secondo la modalità della non persistenza
• Categorizzazione fitosanitaria:
organismo nocivo da quarantena di cui devono essere impedite l’introduzione e la diffusione in tutti gli Stati membri dell’Unione Europea se presente su vegetali di Prunus destinati alla piantagione, a eccezione delle sementi, ai sensi dell’allegato II della direttiva 2000/29/ CEE
Foto M. Conti
Fotografia al microscopio elettronico di particelle di PPV Nettarine Caldesi 2010 gravemente danneggiate da PPV
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virosi e fitoplasmosi
Cenni storici e diffusione geografica della sharka
• I primi reperimenti della virosi risalgono al 1915-17, quando i sintomi della malattia furono riscontrati su frutti di susino in Bulgaria, dove le fu dato il nome di sharka. Tale appellativo, che in lingua bulgara significa vaiolo, deriva dal fatto che i sintomi della virosi sui frutti maturi della cultivar Kjustendil, in cui fu reperita originariamente, mostravano delle aree depresse, leggermente infossate, simili alle cicatrici del vaiolo sulla pelle. L’infezione rimase circoscritta a quel Paese fino al 1935, quando comparve nell’ex Jugoslavia, diffondendosi poi, nell’arco di vent’anni, all’Albania, alla Romania e all’Europa centrale
Pesca Springcrest con sintomi indotti da PPV
In pratica, nei mesi di giugno-luglio, il virus arresta la sua replicazione, di conseguenza i sintomi sulle lamine fogliari perdono gradualmente di colore fino a scomparire, cosicché le foglie riprendono un aspetto apparentemente normale, ad eccezione di qualche foglia che rimane in ombra all’interno della chioma, sulla quale possono persistere i sintomi. Sui frutti la manifestazione tipica della virosi è rappresentata da decolorazioni superficiali, tendenzialmente anuliformi, di colore verde-giallo, che si evidenziano a partire dall’invaiatura e che, con il prosieguo della maturazione, possono divenire ben evidenti o attenuarsi fino a scomparire, a seconda della varietà. Altre volte, specialmente sui frutti di pesco e di nettarina a polpa gialla, si possono evidenziare delle aree depigmentate di varia dimensione, oppure delle depressioni rotondeggianti a colorazione verdastra, anche a maturità dei frutti, o, ancora, delle protuberan-
• Nel 1956 venne segnalata in Germania e nel 1962 fu riscontrata, per la prima volta su pesco, in Ungheria
• Nel corso degli anni ’60 e ’70 si diffuse in gran parte dei Paesi europei tra cui la Francia (1970) e l’Italia (1973)
• Nei primi anni ’90 fu riscontrata
in piante di ciliegio acido in Moldavia e Bulgaria e di ciliegio dolce in Bulgaria e Italia (Basilicata), ritenute immuni fino ad allora
• La virosi è stata poi riscontrata
in Cile (1992), quindi in India (1994), Pennsylvania (USA, 1999), Ontario e Nuova Scozia (Canada, 2000), Cina (2000), Argentina (2004), Pakistan (2005) e nello Stato di New York (USA, 2006)
Sintomi di PPV su frutti di Elegant Lady
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coltivazione
Foto M. Conti
Pesche Redhaven con manifestazioni di PPV
ze alternate a infossature della superficie che provocano evidenti deformazioni del profilo del frutto. I sintomi sui petali, come accennato, si evidenziano solo sui fiori con corolla di tipo rosaceo e, di preferenza, sulle varietà a fioritura tardiva. Sono rappresentati da una variegatura di colore rosa-violaceo più scuro del fondo, in forma di areole rotondeggianti o allungate. Altro sintomo della sharka che si può riscontrare sul pesco è una maculatura rotondeggiante o a forma di anello, di colore verde chiaro, accentrata nella parte inferiore dei rametti di un anno, che si rivela durante il periodo invernale e scompare con l’arrossamento della corteccia in primavera. Agente della sharka è una specie appartenente al genere Potyvirus, con particelle filamentose, flessuose, lunghe 660-750 nm, contenenti un filamento di RNA a singola elica. All’interno del genere Potyvirus rientrano circa 200 specie, molte delle quali largamente diffuse in natura e agenti di rilevanti malat-
Decolorazioni delle nervature indotte da PPV
Manifestazioni di PPV su foglie di Elegant Lady
Fiori di Suncrest da pianta infetta da PPV (a sinistra) e da pianta sana (a destra)
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virosi e fitoplasmosi tie di piante erbacee e, raramente, legnose, simili per caratteristiche molecolari e strutturali e con la comune proprietà di essere trasmesse da afidi secondo la modalità della non-persistenza. Il PPV comprende svariati isolati e ceppi che si possono classificare in tre gruppi principali, indicati con le sigle PPV-M (Marcus), PPV-D (Dideron) e PPV-Rc (Ricombinante) e tre minori, distinti tra loro da diverse caratteristiche sierologiche e molecolari, per virulenza, gamma di ospiti, efficienza di trasmissione tramite afidi e diffusione geografica. Nelle coltivazioni di pesco europee gli isolati più frequenti sono quelli del gruppo PPV-M, che sono diffusi dagli afidi con maggior efficienza rispetto a quelli degli altri gruppi e inducono sintomi più evidenti. Gli isolati del gruppo PPV-D sono rintracciabili quasi esclusivamente nelle coltivazioni di susino e albicocco, mentre si trovano molto più raramente in quelle di pesco (anche se in USA, Canada e marginalmente in Francia, l’infezione nei pescheti è dovuta a isolati atipici del gruppo PPV-D). Nei peschi la diffusione degli isolati del gruppo M, dalla foglia inoculata dall’afide a tutto il resto della pianta, avviene nel giro di 4-5 anni, a differenza, per esempio, delle piante di susino e albicocco infettate con isolati del gruppo D o M, nelle quali l’infezione rimane spesso circoscritta al ramo o alla branca in cui essa è cominciata. Inoltre, il pesco costituisce un’efficiente sorgente d’inoculo del virus per gli afidi vettori, dalla ripresa vegetativa fino ad agosto, mentre il susino e l’albicocco terminano questo periodo nel mese di giugno. Tutte le caratteristiche appena menzionate contribuiscono all’elevata potenzialità di diffusione, in campo, degli isolati del gruppo PPV-M, considerati la forma epidemica del virus, rendendo possibile la loro rapida espansione all’interno di un pescheto, anche a partire da pochi centri iniziali d’infezione, qualora non si intervenga tempestivamente con l’abbattimento delle piante infette. Gli isolati appartenenti al gruppo PPV-Rc si distinguono per essere stati generati dalla ricombinazione dell’RNA genomico di un
Sharka in Italia
• La malattia è stata riscontrata per la
prima volta in Trentino Alto Adige, nel biennio 1973-74, in piante di albicocco e di susino costituite con portinnesti infetti di provenienza straniera, per poi essere ritrovata, alcuni anni dopo (1982), anche in Emilia-Romagna, in astoni e alcuni impianti di susino e albicocco, e in Piemonte, dove presentava una particolare diffusione in impianti di albicocco. Nel corso del 1992 fu individuata anche in coltivazioni di pesco della Basilicata e, pochi anni dopo (1995-96), in pescheti nella zona intorno a Cesena e, in misura molto più grave, in provincia di Verona, su peschi costituiti con marze importate dalla Francia e risultate infette con il ceppo M del virus
• Negli anni successivi, la virosi è stata
riscontrata, essenzialmente in piante di susino e albicocco, in quasi tutte le regioni italiane, in alcune delle quali soltanto in campi sperimentali costituiti con materiale importato
Esempi di afidi vettori di PPV Specie che colonizzano le Prunoidee
Specie che non colonizzano le Prunoidee
Brachycaudus helichrysi*
Aphis craccivora
B. persicae
A. fabae
Hyalopterus pruni
A. gossypii
Myzus persicae*
A. spiraecola*
M. varians
Brachycaudus cardui* Rametti di pesco nel periodo invernale con maculature clorotiche indotte da PPV
Phorodon humuli* * Specie molto efficiente nella trasmissione di PPV
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coltivazione isolato di PPV-M e uno di PPV-D (o dei loro ancestrali) presenti entrambi nella stessa pianta. Questi isolati sono piuttosto frequenti in coltivazioni di susino e, in minor misura, di albicocco dell’Europa centrale. Più in particolare, l’ex Jugoslavia è stata indicata come loro centro di dispersione. I tre gruppi minori sono: – PPV-C (Ciliegio): si tratta di isolati rinvenuti in ciliegio acido e dolce e limitati geograficamente all’area europea centro-orientale, nonostante siano stati individuati alcuni ciliegi cv Ferrovia infetti in Basilicata (1992). Sperimentalmente sono stati trasmessi ad altre specie di Prunus quali pesco, susino e albicocco, i quali evidenziano sintomi analoghi a quelli indotti da altri isolati; – PPV-EA (EL Amar): include gli isolati rinvenuti in alcuni impianti di albicocco in Egitto; – PPV-W (Winona): comprende isolati da susini trovati in Canada. Relativamente alle piante ospiti, isolati sia di PPV-M sia di PPV-D sono stati individuati, in natura, in piante di albicocco, pesco, nettarine, percoche, susino europeo e cino-giapponese, mandorlo e nei portinnesti di P. insititia (San Giuliano) e P. cerasifera (mirabolano). Il virus è stato riscontrato anche in specie spontanee e ornamentali di Prunus, le quali potrebbero essere importanti per la conservazione dell’infezione nelle aree in cui essa è stata eradicata dalle coltivazioni da frutto. In particolare, per esempio, l’infezione in P. spinosa, un arbusto piuttosto diffuso nelle aree incolte, potrebbe fungere da serbatoio naturale e fonte d’infezione del virus per afidi vettori di PPV in quanto ospite secondario di alcuni di questi insetti (Brachycaudus helicrysi, Phorodon humuli). Anche alcune specie erbacee, tra cui è possibile identificare varie componenti della flora spontanea dei frutteti, sono state riscontrate, in natura, infette da PPV, ma si ritiene che esse non rivestano alcuna importanza pratica quali sorgenti d’inoculo per gli afidi
Incidenza economica della sharka
• La sharka è considerata la malattia che
arreca i maggiori danni alle coltivazioni di albicocco, susino europeo e, in minor misura, pesco, in Europa e nei Paesi del bacino del Mediterraneo
• Si ritiene che la virosi determini,
in complesso, nelle zone colpite perdite di produzioni annuali dell’ordine di 0,6 e 1,5 milioni di tonnellate rispettivamente per l’albicocco e il susino europeo
• Relativamente al pesco, nelle aree dove è presente il ceppo M, si calcola una decurtazione della produzione annuale dell’ordine del 5%
• Si stima che il costo globale della sharka, a livello mondiale, esclusi i danni indiretti di natura commerciale, sia stato, negli ultimi 30 anni, superiore ai 10.000 milioni di euro
Prunoidee ospiti naturali di PPV
Aree clorotiche indotte da PPV su foglie di Silver Giant
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Prunus amygdalus (mandorlo)
Prunus insititia (San Giuliano)
Prunus armeniaca (albicocco)
Prunus japonica (ciliegio coreano)
Prunus avium (ciliegio)
Prunus marianna
Prunus blireana (susino da fiore)
Prunus persica (pesco)
Prunus brigantina (pruno del Delfinato)
Prunus persica var. nectarina
Prunus cerasifera (mirabolano)
Prunus persica x davidopersica atropurpurea
Prunus cerasus (visciolo)
Prunus salicina (susino giapponese)
Prunus domestica (susino europeo)
Prunus serotina (ciliegio nero)
Prunus glandulosa (mandorlo da fiore)
Prunus spinosa (prugnolo)
virosi e fitoplasmosi Erbe della flora spontanea, dei frutteti di drupacee, riscontrate infette da PPV in Europa Ajuga genevensis (bugula o marandola)
Silene vulgaris (strigoli o bubbolini)
Capsella bursa-pastoris (borsa pastore comune)
Rorippa sylvestris (crescione selvatico)
Cichorium sp. (cicoria)
Rumex crispus (romice crespo)
Cirsium arvense (cardo campestre)
Solanum dulcamara (dulcamara)
Clematis sp. (clematide)
Solanum nigrum (erba morella)
Convolvulus arvensis (vilucchio)
Sonchus sp. (grespino)
Lactuca serriola (lattuga selvatica)
Taraxacum officinale (soffione)
Lamium album (falsa ortica bianca)
Trifolium sp. (trifoglio)
Lithospermum arvense (erba perla maggiore) Ranunculus sp. (ranuncolo)
Veronica hederifolia (veronica a foglia d’edera)
vettori, data la loro esigua massa fogliare rispetto a quella delle piante arboree infettate da PPV. Come tutti i virus, PPV si trasmette con la moltiplicazione vegetativa di piante infette, mentre si ritiene non si trasmetta per seme e per polline, a prescindere dai ceppi del virus. Inoltre, in campo, come accennato sopra, il virus è diffuso da una pianta all’altra da afidi, secondo la modalità della non persistenza. In questa modalità le particelle del virus sono acquisite dagli afidi vettori da una pianta infetta e poi inoculate a piante sane durante punture dette di “assaggio” che gli afidi eseguono al termine del volo, in rapida successione e su più piante per il riconoscimento delle specie ospiti. Nella fase di acquisizione, le particelle virali, in sospensione nel citoplasma di cellule epidermiche, sono adsorbite a recettori localizzati sulla cuticola del tratto distale degli stiletti mascellari degli afidi vettori, quindi sono inoculate con la saliva in cellule epidermiche di nuove piante nel corso di successive punture di assaggio. I tempi di acquisizione e di inoculazione sono molto brevi, di 5-10 secondi; relativamente breve, al più 2-3 ore, è anche il periodo di tempo in cui l’afide conserva la capacità di trasmettere l’infezione senza successive acquisizioni. Per effetto della trasmissione del virus durante punture di assaggio, anziché punture di alimentazione come avviene nella modalità di trasmissione di tipo persistente, si comportano da vettori del virus sia specie di afidi infeudati alle Prunoidee sia specie che non colonizzano Prunoidee ma le visitano occasionalmente, con forme alate, effettuandovi punture di assaggio. Conseguenza, invece, della trasmissione in tempi molto brevi, unitamente alla sua realizzazione anche da afidi che non colonizzano le Prunoidee, è che i trattamenti aficidi non prevengono la diffusione del virus in campo, in quanto gli afidi vettori riescono ad
La sharka determina i danni maggiori sui frutti di susino (in alto di Angeleno) e di albicocco (al centro e in basso di Precoce Cremonini), producendo aree depresse in corrispondenza delle quali l’epidermide può necrotizzare, mentre la polpa sottostante si impregna di gomma o assume una consistenza spugnosa
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coltivazione acquisire le particelle virali da una pianta infetta e a trasmetterle a nuove piante prima di subire l’effetto letale dell’insetticida. In pratica, la disseminazione primaria del virus, a media e a grande distanza, si realizza attraverso marze e portinnesti infetti, mentre la sua diffusione secondaria, nell’ambito di una coltivazione o nelle sue vicinanze, avviene per mezzo degli afidi vettori. La diffusione naturale dell’infezione in campo è maggiore nei periodi primaverile e autunnale, mentre è limitata in luglio-agosto. A oggi l’unico metodo di lotta a questa virosi è di carattere preventivo e si concretizza nella realizzazione di nuovi impianti con materiale di propagazione sicuramente sano e nell’eliminazione delle piante infette per ridurre le possibilità di diffusione del virus alle piante sane da parte degli afidi. A tal riguardo si sottolinea il ruolo fondamentale del controllo sanitario dei vivai, dal momento che la rapida diffusione dell’infezione avviene proprio tramite le operazioni vivaistiche. Una volta che l’infezione abbia cominciato a diffondersi in un frutteto, l’unica attività mirata alla sua eliminazione è costituita dall’abbattimento delle piante ammalate, tanto più efficace quanto più è realizzato tempestivamente, in ottemperanza anche al decreto di lotta obbligatoria contro la virosi. L’importanza della distruzione immediata degli alberi infetti è sottolineata anche dagli studi condotti sulla dinamica spaziale della sharka in impianti di peschi infettati con isolati di PPV-M dai quali risulta che la diffusione del virus da una pianta all’altra di un pescheto avviene, nell’80% dei casi, in alberi situati entro 12 metri da un albero infetto. Considerando invece distanze più ampie, è stato evidenziato che il 90% dei nuovi peschi infetti si trova a meno di 200 metri da uno infetto, anche se la diffusione del virus è possibile a distanze che superano i 600 metri. Nelle aree in cui l’infezione è recente, l’eliminazione completa della malattia è possibile a patto che gli interventi di distruzione delle piante infette siano predisposti tempestivamente, quando c’è ancora un numero ridotto di centri infettivi, mentre con il passare del tempo si rivela estremamente difficile e onerosa per il
Lotta obbligatoria contro la sharka
• Il Decreto 29/11/1996 contiene le
disposizioni per la lotta obbligatoria contro la sharka, in sostituzione di analogo decreto del 1992. Esso prescrive: - il monitoraggio annuale, a cura del Servizio Fitosanitario Regionale, dei frutteti e dei vivai per individuare le piante infette; - l’obbligo di denuncia dei casi sospetti al Servizio Fitosanitario Regionale competente per il Territorio; - l’estirpazione obbligatoria delle piante infette, con la possibilità di imporre l’abbattimento di tutto il frutteto se le piante con sharka raggiungono il 10%; - le norme per l’approvvigionamento, da parte dei vivaisti, del materiale di propagazione da fonti accertate sane e situate in zone esenti da sharka; - le modalità di gestione dei campi di piante madri e vivai con l’obbligo, in presenza di piante infette, di distruzione di tutte quelle della varietà o del portinnesto interessato; - l’obbligo, per le strutture di lavorazione o di commercializzazione e per le industrie di trasformazione dei frutti di drupacee, di segnalare la presenza e la provenienza di frutti con sintomi sospetti
Piante di drupacee estirpate per l’applicazione di interventi di lotta obbligatoria Regione
Anno
Piante e ha estirpati
Emilia-Romagna
1997-2007
169.7321
Lombardia
1995-2007
18.917 e 26 ha2
Piemonte
1983-2007
57.4573
Veneto
1996-2007
84.350 e 794 ha4
In maggior parte peschi, quindi susini e albicocchi; prevalentemente peschi; essenzialmente albicocchi; 4 essenzialmente peschi. Fonte: Servizi Fitosanitari Regionali 1 3
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2
virosi e fitoplasmosi naturale diffondersi del virus. Nelle aree dove la malattia è ormai diffusa ampiamente, la rimozione tempestiva e costante degli alberi infetti ha lo scopo di ridurre le sorgenti d’inoculo per gli afidi vettori e di conseguenza diminuire il potenziale di diffusione naturale del virus. Studi condotti con modelli statistici hanno dimostrato che la mancata estirpazione delle piante infette, in pescheti interessati da isolati di PPV-M, causerebbe la diffusione del virus alla totalità dei peschi di un frutteto in un arco temporale di 5-6 anni dalla prima individuazione. Inoltre, nel caso di pescheti in cui l’infezione sia ancora in una fase iniziale con diffusione inferiore all’1% delle piante, l’abbattimento immediato di quelle ammalate – identificate dalla presenza di sintomi nel corso di 2-3 sopralluoghi annuali – limiterebbe il numero di nuove piante infette al 2-3% annuale, per i successivi 7-10 anni.
Prevenzione della sharka
• Nonostante i programmi di eradicazione, negli ultimi anni la diffusione della sharka in Italia è andata aggravandosi. Un ruolo fondamentale è svolto dai frutticoltori, mediante la costituzione di nuovi impianti con materiale sano, la segnalazione dei casi sospetti e l’estirpazione delle piante infette
Similarità di altre virosi con la sharka
• Alcuni virus si manifestano
saltuariamente sulle foglie e/o sui frutti con alterazioni simili a quelle dovute alla sharka. Esse sono: - falsa vaiolatura delle pesche, dovuta all’azione del virus della maculatura clorotica fogliare del melo (ACLSV) - maculature fogliari, provocate dal virus del mosaico del melo (ApMV), da ceppi del virus della maculatura anulare necrotica delle drupacee e di ACLSV
Springcrest con sintomi di falsa vaiolatura Manifestazioni di ApMV (in alto) e di ACLSV (in basso)
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coltivazione Nanismo Si tratta di una sindrome a volte presente in coltivazioni di pesco costituite con materiale di propagazione vegetativa non qualificato sanitariamente. Le piante infette manifestano un lieve ritardo nella ripresa vegetativa, ma il sintomo maggiormente caratteristico, da cui deriva il nome dato alla malattia, è un accrescimento molto più lento della nuova vegetazione rispetto alle piante sane. Le foglie sono di colore verde pallido con portamento eretto, di dimensioni più ridotte, con i bordi ondulati e ripiegati verso l’alto lungo la nervatura mediana. Le piante infettate da poco tempo si riconoscono facilmente per il rosettamento della vegetazione di una o due branche e lo sviluppo di germogli vigorosi nella restante parte della pianta. All’inizio della stagione calda, la vegetazione degli alberi infetti presenta un aspetto simile a quella delle piante sane. In ogni caso, però, gli alberi malati presentano uno sviluppo complessivamente ridotto, dovuto in parte anche alla morte di gemme a legno, e una produzione fortemente ridotta. La trasmissione del virus da pianta a pianta verrà esaminata di seguito, unitamente a quella del virus della maculatura anulare necrotica delle drupacee.
Nanismo
• Agente eziologico: Prune dwarf virus (virus del nanismo del susino)
• Acronimo: PDV • Posizione tassonomica: Fam. Bromoviridae, Gen. Ilarvirus
• Piante ospiti principali: specie del genere Prunus
• Trasmissione naturale: mediante polline e seme
• Categorizzazione fitosanitaria:
patogeno espressamente indicato fra quelli pregiudizievoli alla qualità delle piante di pesco di cui il materiale di moltiplicazione deve essere sostanzialmente privo, ai sensi dell’allegato II del D.M. 14/4/1997
Riduzione di sviluppo di foglie di pesco con PDV. A destra, foglia sana
Maculatura anulare necrotica La malattia è abbastanza diffusa, provocando anche danni non trascurabili, nelle coltivazioni di pesco costituite con materiale non qualificato sanitariamente. I sintomi che si manifestano sulle piante sono molto diversi a seconda della sensibilità varietale, delle condizioni di crescita della pianta e, soprattutto, in relazione al differente grado di patogenecità del ceppo virale responsabile della malattia. In ogni caso, alle manifestazioni della virosi sui peschi e sulle al-
Differenza di sviluppo fra germoglio da pianta infetta da PDV (a sinistra) e uno da pianta sana (a destra)
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virosi e fitoplasmosi tre drupacee da frutto, seguono due fasi: una iniziale, durante il primo e il secondo ciclo vegetativo successivi all’infezione, detta “acuta” o di “shock”, e un’altra, che si manifesta in seguito, detta “cronica”. Il sintomo principale, durante la fase acuta dell’infezione, è la comparsa, sulle foglie, di anelli, visibili molto bene per trasparenza, della dimensione di qualche millimetro, di colorazione giallo-verde e di forma circolare o anche irregolare. In seguito, i tessuti clorotici possono necrotizzare e staccarsi da quelli intorno sani, facendo così apparire la lamina perforata in vari punti. L’alterazione cromatica si verifica su poche foglie per germoglio, le quali cadono dopo qualche settimana dall’emissione, mentre le nuove foglie che si formano solitamente non mostrano sintomi. Durante i primi anni della malattia è possibile riscontrare anche un leggero ritardo nella ripresa vegetativa, il disseccamento della parte apicale dei rami di un anno, la comparsa di piccoli cancri rameali a livello dei nodi e la necrosi di gemme a legno e a fiore durante il rigonfiamento. Nella fase cronica dell’infezione e in presenza di ceppi necrotici si verifica una diminuzione dell’attività vegetativa e produttiva degli alberi colpiti, che varia in relazione alla sensibilità varietale, e, successivamente, il disseccamento della parte apicale dei rametti e la morte di gemme a fiore e a legno. Di frequente si ha anche la comparsa, sulla corteccia delle branche e dei rami, di necrosi o fessurazioni longitudinali che possono causare la morte della porzione distale del ramo e sono spesso la sede di attacchi di Cytospora, che contribuiscono ad aggravare gli effetti della malattia. A volte, i petali dei fiori di tipo rosaceo possono presentare delle lineature biancastre di tipo anulare. Per quanto riguarda i sintomi sui frutti, in alcuni casi e in presenza di ceppi particolari, le pesche possono presentare piccole anulature bruno-rossastre sull’epidermide o piccole infossature sulla superficie. I frutti poi, a seconda della varietà, possono maturare leggermente in anticipo o in ritardo. Gli effetti della malattia sulla produttività degli alberi costituiti con materiale di propagazione già infetto sono in genere molto evidenti, in particolare sulle nettarine. Al contrario, nelle piante infettatesi per polline, quando hanno completato il loro sviluppo, l’influenza della virosi sulla produzione è trascurabile. Va aggiunto che la presenza di PNRSV e PDV nella stessa pianta determina un accentuato raccorciamento degli internodi della vegetazione primaverile, accompagnato da foglie più piccole del normale e clorotiche. Inoltre, la presenza di PNRSV o PDV nel portinnesto e/o nel gentile determina la produzione di essudati gommosi a livello del punto d’innesto, con conseguenti elevate manifestazioni di fallimento degli innesti.
Maculatura anulare necrotica
• Agente eziologico: Prunus necrotic
ringspot virus (virus della maculatura anulare necrotica delle drupacee)
• Acronimo: PNRSV • Posizione tassonomica: Fam. Bromoviridae, Gen. Ilarvirus
• Piante ospiti principali: piante dei generi Prunus, Rosa e Humulus
• Trasmissione naturale: mediante polline e seme
• Categorizzazione fitosanitaria:
patogeno espressamente indicato fra quelli pregiudizievoli alla qualità delle piante di pesco di cui il materiale di moltiplicazione deve essere sostanzialmente privo, ai sensi dell’allegato II del D.M. 14/4/1997
Anulature clorotiche indotte da PNRSV
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coltivazione Trasmissione di PNRSV e di PDV. I due virus si trasmettono, oltre che attraverso il materiale di propagazione vegetativa infetto, anche tramite il polline e il seme di diverse specie di drupacee e questo contribuisce alla loro elevata diffusione nelle coltivazioni di queste piante. Il polline può agire da vettore per la trasmissione di PDV e PNRSV sia da una pianta all’altra sia al sacco embrionale e quindi al seme. Vale la pena di notare che la possibilità che i due virus raggiungano il sacco embrionale, oltre che tramite l’ovario, anche attraverso il polline, dà come risultato la produzione di semi virosati anche da piante sane. A ogni modo, la percentuale di semi infetti prodotti da una pianta virosata è piuttosto limitata, inferiore all’8-10%. Per quanto riguarda la trasmissione da pianta a pianta di PDV e PNRSV attraverso il polline, essa non sembra connessa al complesso di fenomeni che seguono l’impollinazione, mentre si ritiene sia legata all’azione di tripidi (Thrips imaginis, T. australis, T. tabaci, Frankliniella occidentalis) che, durante le punture di alimentazione su polline virulifero presente sulla superficie dei fiori (trasportato di fiore in fiore direttamente dai tripidi o da insetti pronubi) perforerebbero anche le cellule epidermiche dei fiori stessi, le quali possono, così, venire infettate dal virus. In questo processo potrebbe svolgere un ruolo importante anche la fecondazione fiorale nel prevenire il distacco del fiore dalla matrice, in modo da permettere la diffusione del virus ai tessuti vascolari del fiore e quindi all’albero. Bisogna aggiungere che anche le api sembrano responsabili della trasmissione dei due virus dal polline ai tessuti del fiore che lo riceve.
Sintomi di PNRSV su foglie di Armking
Necrosi fogliare indotta da PNRSV su foglie di Stark RedGold
Sintomi di PNRSV su foglie di Armking Disseccamento apicale e necrosi delle gemme su rametti affetti da PNRSV
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virosi e fitoplasmosi Rosetta a foglie saliciformi Le principali manifestazioni con cui si presenta questa affezione sono: un ritardo di 1-2 settimane nella ripresa vegetativa, un accentuato accorciamento degli internodi dei germogli che si sviluppano durante la stagione primaverile e la presenza di foglie, di colore verde-chiaro, con la lamina più stretta rispetto a quella delle piante sane, con il lembo rivolto verso l’alto in modo contorto e una consistenza superiore alla norma.
Rosetta a foglie saliciformi
• Agente eziologico: Strawberry latent
ringspot virus (virus della maculatura anulare latente della fragola)
• Acronimo: SLRSV • Posizione tassonomica: Gen. Sadwavirus • Piante ospiti principali: specie dei generi
Prunus, Vitis, Rosa, Olea e altre arbustive ed erbacee coltivate e spontanee
• Trasmissione naturale: mediante
il nematode Xiphinema diversicaudatum e tramite il seme di alcune specie erbacee
• Categorizzazione fitosanitaria:
espressamente indicato fra gli organismi nocivi di cui deve essere libero il materiale di moltiplicazione di pesco delle categorie “certificato virus-esente” o “certificato virus controllato”
Germogli infetti da SLRSV. A destra, germoglio sano
Al contrario, la vegetazione del periodo estivo si presenta pressoché normale, anche se in alcune varietà (Michelini, Redhaven) resta evidente il raccorciamento degli internodi dei germogli. In ogni caso, le piante infette mostrano uno sviluppo e una produzione notevolmente ridotti, unitamente alla morte di gemme a fiore e a legno e dei rami più giovani (1-2 anni). Tali sintomi, nei peschi infettatisi in campo, incominciano su qualche ramo, per poi estendersi all’intera chioma. La diffusione dell’infezione in un frutteto è, in genere, molto lenta in relazione alla scarsa mobilità dei nematodi vettori e, di norma, le piante virosate hanno una distribuzione a chiazze.
Germoglio infetto da SLRSV a confronto con foglia sana Branca di Stark RedGold con manifestazioni di rosetta e foglie saliciformi
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coltivazione Mosaico latente del pesco Il viroide del mosaico latente del pesco produce due quadri sintomatologici fondamentali. Di questi, l’alterazione conosciuta come calico o mosaico giallo si evidenzia a carico delle foglie, dei germogli e dei frutti, mentre la forma che comunemente si riscontra in campo e ritenuta ordinaria si distingue per la mancanza di sintomi fogliari, da cui la denominazione di mosaico latente dato alla malattia e al suo agente eziologico. Nei primi anni d’impianto, gli alberi interessati dall’infezione presentano uno sviluppo vegetativo leggermente inferiore a quello degli alberi sani che favorisce l’entrata in produzione. Soltanto negli anni successivi si evidenziano le manifestazioni della malattia sotto forma di un ritardo di 3-4 giorni nella ripresa vegetativa primaverile e nella fioritura degli alberi ammalati rispetto a quelli sani. Inoltre, in presenza di temperature elevate, durante il periodo della fioritura, i petali dei fiori con la corolla di tipo rosaceo possono presentare delle striature di colore rosato. Le manifestazioni descritte si avvertono facilmente in presenza di piante infette frammiste ad altre sane, mentre passano inosservate quando tutti gli esemplari di un frutteto, caso non infrequente, sono interessati dal viroide. In effetti, in diversi casi, i ritardi nella fioritura e soprattutto nella maturazione dei frutti, attribuiti inizialmente a pratiche colturali o addirittura a nuovi cloni, sono risultati, poi, indotti dal viroide. Gli alberi infetti possono andare soggetti alla necrosi di gemme sia a legno sia a fiore e al dissecamento di rametti. Altri sintomi che si possono osservare sono alterazioni a carico del cilindro legnoso delle branche sotto forma di piccole infossature longitudinali, visibili sollevando la corteccia. Le piante malate diventano anche maggiormente sensibili ai funghi e ai batteri agenti di cancri rameali e ai danni da freddo. Le manifestazioni a carico della pianta si presentano in maniera più o meno accentuata fino a divenire assai deboli o completamente latenti in funzione della virulenza dell’isolato del viroide, della sensibilità della varietà, delle condizioni di crescita della pianta e a seconda che si tratti di alberi infetti fin dall’impianto o che invece abbiano contratto l’infezione successivamente. In complesso, dal 5°-6° anno d’impianto, i peschi colpiti possono subire un precoce invecchiamento e andare incontro a una progressiva perdita di vegetazione. Ne consegue la formazione di chioma con fogliame sparso, con una conformazione detta “aperta” per l’incompleta lignificazione dei rami, e una fruttificazione scarsa e poco pregevole. Sui frutti maturi gli aspetti sintomatologici più frequenti consistono in aree circolari sull’epidermide, di qualche millimetro di diametro, di colore bianco crema e/o in piccole fessure trasversali a livello della sutura, la quale, soprattutto nelle percoche, può risultare anche leggermente sporgente e con piccole escrescenze suberose.
Mosaico latente
• Agente eziologico: Peach latent mosaic viroid (viroide del mosaico latente del pesco)
• Acronimo: PLMVd • Posizione tassonomica:
Fam. Avsunviroidae, Gen. Pelamoviroid
• Piante ospiti principali: pesco, nettarine, percoche e i loro ibridi
• Occasionalmente il viroide è stato
riscontrato in forma latente in altre drupacee (albicocco, ciliegio dolce, mandorlo, susino) e in peri coltivati e spontanei
• Trasmissione in campo: mediante ferite da taglio e, forse, per polline
• Categorizzazione fitosanitaria:
espressamente indicato soltanto fra gli organismi nocivi di cui deve essere libero il materiale di moltiplicazione di pesco delle categorie “certificato virus-esente” o “certificato virus controllato”
Sintomi di calico indotti da PLMVd su foglie di nettarina Stark RedGold
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virosi e fitoplasmosi La dimensione dei frutti di solito è normale o anche leggermente superiore a quella dei frutti sani, ma maturano in ritardo (4-6 giorni), particolarmente quelli di varietà precoci, sono di forma tendenzialmente appiattita o asimmetrica per la presenza di gibbosità a ridosso della sutura e sono inoltre privi di sapore e di aroma. Riguardo ai noccioli presentano una dimensione leggermente superiore alla norma e forma rotondeggiante. Le aree decolorate dell’epidermide dei frutti costituiscono la manifestazione più appariscente della malattia. Esse sono osservabili già al momento del diradamento sotto forma di areole rossastre o verde-giallastre, sono in numero vario e sparse irregolarmente su tutta la superficie del frutto. Non sempre l’intensità delle manifestazioni sui frutti è correlata con quelle sulla pianta. Negli impianti di pesco in Emilia-Romagna, per esempio, l’infezione si manifesta più che altro con le alterazioni cromatiche a carico dei frutti, mentre la sua influenza sull’attività vegetativa delle piante è poco evidente. Le manifestazioni del calico sono indotte da ceppi severi del viroide. Sulle foglie si evidenziano alterazioni cromatiche, interessanti porzioni più o meno ampie della lamina, che vanno dal colore giallo intenso fin quasi al bianchiccio man mano che la foglia invecchia. Macchie dello stesso colore si possono differenziare anche sulla corteccia dei germogli e sull’epidermide dei frutti. Si tratta, comunque, di una sindrome che si riscontra raramente, confinata di solito alle foglie di uno o pochi rametti della chioma, che compare improvvisamente in alberi fino ad allora senza sintomi e si evidenzia per alcune stagioni vegetative e poi scompare. Le diverse sindromi associate al viroide del mosaico latente dipendono dall’elevata variabilità nella sequenza nucleotidica delle molecole di RNA viroidale presenti nella pianta ospite. Di fatto, il viroide (come altri elementi infettivi a RNA), anziché essere costituito da molecole con identica sequenza nucleotidica, è composto da una popolazione eterogenea di molecole di RNA con sequenza nucleotidica quasi identica (varianti di sequenza), che formano due gruppi diversi in funzione della loro lunghezza, di cui uno con molecole di 336-338 nucleotidi e l’altro di 348-351. Le sequenze di quest’ultimo gruppo sono caratterizzate dalla presenza di un’inserzione di 12-13 nucleotidi, ricca di basi azotate adeniliche o uraciliche, localizzata in un’ansa della struttura secondaria del viroide. Le varianti di sequenza di 336-338 nucleotidi sono considerate tipiche del viroide e sono responsabili della sindrome che in genere non determina sintomi fogliari. Per contro, le varianti di sequenza di 348-351 ricche di basi uraciliche determinano la comparsa di calico: sembra interferiscano con qualche processo di trasformazione dei protoplastidi, organelli indifferenziati localizzati nelle cellule dei meristemi, in cloroplasti.
Foglie di pesco con sintomi di calico
Ritardo di vegetazione in rametti di pianta infetta da PLMVd (sopra). Sotto, rametti sani a confronto
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coltivazione
Diffusione del mosaico latente
• È diffuso in tutte le varietà di pesco,
nettarine e percoche di origine europea, americana e giapponese. Indagini sul germoplasma di queste drupacee hanno evidenziato percentuali d’infezione del 50% nel germoplasma coltivato in Italia e del 60%, 80-85% e 90% rispettivamente per quello coltivato in Nord America, Spagna e Giappone
Nettarine Red Fire con manifestazioni indotte da PLMVd
Le diverse varianti di sequenza del viroide si trovano irregolarmente distribuite nell’ambito della stessa pianta. Inoltre, l’inserzione nucleotidica può essere acquisita o perduta dalle molecole di RNA viroidale e anche generata de novo. Pertanto, la composizione della popolazione delle varianti di sequenza in una pianta non è costante, ma cambia continuamente. Con predominanza, in una determinata parte della pianta, delle varianti sintomatologiche si verifica la comparsa del calico, mentre con la prevalenza di quelle latenti si ha la sindrome che non induce sintomi fogliari. Ciò spiega la comparsa di sintomi di calico in piante previamente asintomatiche e la loro limitata persistenza nel tempo. Per quanto riguarda l’epidemiologia del viroide, la sua principale via di trasmissione, da una pianta all’altra, è attraverso il materiale di propagazione vegetativo infetto con il quale è stato trasferito da un paese all’altro e diffuso nelle coltivazioni peschicole.
Foto F. Faggioli
Pesco Red Diamond infetto da PLMVd con vegetazione fortemente stentata per la morte di gemme a legno Pesche Fayette con sintomi indotti da PLMVd
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virosi e fitoplasmosi Il viroide si diffonde anche orizzontalmente in campo. Sperimentalmente è stata ottenuta la sua trasmissione attraverso ferite da taglio, per cui alla sua trasmissione da pianta a pianta dovrebbero concorrere anche gli strumenti per le operazioni di potatura. La diffusione del viroide sembra avvenire anche attraverso polline infetto durante il processo di fecondazione, mentre non passa alla progenie attraverso il seme. La trasmissione mediante afidi, per quanto ottenuta sperimentalmente, si ritiene non abbia alcuna importanza pratica. L’importanza economica del viroide deriva dai suoi effetti nocivi sia sui frutti sia sulla pianta. Le alterazioni sui frutti portano a un generale deprezzamento della qualità. Particolarmente dannose sono le fessurazioni e le escrescenze suberose a livello della sutura, di cui le prime possono costituire la via di penetrazione di agenti di marciumi, mentre le seconde compromettono l’utilizzazione industriale delle percoche. Per quanto riguarda le piante, con l’età possono andare soggette, come già visto, a una progressiva riduzione sia della vegetazione sia della produzione, con conseguente raccorciamento della vita di un frutteto. Nel caso, poi, di piante sane frammiste ad altre con il viroide, le differenze nei periodi di fioritura e di maturazione dei frutti, fra le une e le altre, rendono difficili la programmazione degli interventi di difesa nonché l’esecuzione delle operazioni di diradamento dei frutticini e di raccolta dei frutti nel momento migliore. La lotta è esclusivamente preventiva e si realizza con l’impiego di materiale di propagazione certificato esente dal viroide, evitando assolutamente quello da piante per l’attivita produttiva. Fessurazioni e protuberanze suberose a livello della sutura (in alto) e deformazione (in basso) indotte da PLMVd su pesche Fayette
Tipiche alterazioni cromatiche indotte da PLMVd su pesca Redhaven Manifestazioni di PLMVd su frutti di pesco in accrescimento
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coltivazione Giallume europeo delle drupacee La prima segnalazione, in Italia, di peschi con sintomi identificabili con quelli della fitoplasmosi in esame, risale agli anni ’60. Comunque, la malattia su questa drupacea è stata sempre poco frequente anche se, negli ultimi anni, in alcuni comprensori peschicoli dell’Emilia-Romagna e del Veneto, sembra essere in lieve e costante aumento. La malattia si presenta all’inizio, in genere, soltanto su parte della chioma e successivamente, nel giro di 2-3 anni, sull’intero albero. Nelle piante di pesco, durante la primavera, i rami colpiti dall’infezione mostrano una vegetazione piuttosto ridotta, ma con fogliame che presenta un aspetto normale fino ai mesi di agostosettembre, periodo in cui le foglie ripiegano i lembi verso l’alto, parallelamente alla nervatura mediana, si torcono leggermente all’indietro e assumono un portamento pendulo. Allo stesso tempo la lamina si ispessisce, risulta più fragile del normale, e assume, a seconda della varietà, una colorazione verde chiaro con sfumature gialle o rossicce oppure rossa intensa con aree tendenti al violaceo, specialmente lungo le nervature e i bordi. Le foglie dei rami infetti cominciano a cadere molto presto, al punto che, verso la fine di settembre, la parte apicale dei rametti è spoglia. Altra manifestazione di questa malattia è l’ingrossamento del rachide e delle nervature principali delle foglie, unitamente alla comparsa di tessuto suberificato perinervale. Un ulteriore sintomo, di grande valore diagnostico, si manifesta verso la fine del periodo estivo e talvolta anche più avanti, quando è possibile riscontrare lo sviluppo di gemme a fiore e soprattutto foglifere, in particolare quelle terminali dei rametti, con produzione di germogli con internodi molto raccorciati e con foglie clorotiche e di piccole dimensioni. La ripresa vegetativa anticipata, nel caso delle piante di pesco, nettarine e percoche, non si presenta come una manifestazione
Giallume europeo
• Agente eziologico: Canditatus Phytoplasma prunorum
• Acronimo: ESFYP (European Stone Fruit Yellows Phytoplasma = fitoplasma del giallume europeo delle drupacee)
• Posizione tassonomica: gruppo scopazzi
del melo (sottogruppo ribosomico 16 SrX)
• Piante ospiti: specie del genere Prunus • Trasmissione naturale: mediante lo psillide Cacopsylla pruni
• Categorizzazione fitosanitaria: organismo
nocivo da quarantena di cui deve essere vietata l’introduzione e la diffusione in tutti gli Stati membri dell’Unione Europea, ai sensi del D.M. 19/8/2005
• Con il nome di giallume europeo delle
drupacee si designa un gruppo di sindromi indotte dal medesimo fitoplasma e conosciute con i nomi di leptonecrosi del susino, accartocciamento fogliare clorotico dell’albicocco, giallume o accartocciamento fogliare clorotico del pesco. Le prime due sono intensamente diffuse nelle rispettive coltivazioni in tutti i Paesi europei. La loro caratteristica saliente è la schiusura primaverile delle gemme a legno di qualche ramo o branca in anticipo rispetto alle piante circostanti sane
Ramo di pesco affetto da ESFYP con il caratteristico arrotolamento e portamento pendulo del lembo fogliare e sviluppo di gemme foglifere nel periodo autunnale
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virosi e fitoplasmosi generalizzata, a differenza di quanto avviene in albicocco e susino cino-giapponese, ma sembra piuttosto dipendere dalla sensibilità del portinnesto alla malattia, dalla fase di sviluppo dell’infezione e dalle condizioni di crescita della pianta. In ogni caso, anche in queste drupacee, le parti di pianta interessate al risveglio vegetativo anticipato emettono prima le foglie dei fiori. L’infezione si riscontra prevalentemente in piante su GF 677 e su Mr.S. 2/5, le quali, nello spazio di 2-4 anni dalla comparsa dei primi sintomi, vanno soggette al disseccamento dei rametti ed eventualmente di tutta la branca colpita. Per quanto riguarda gli alberi innestati su franco, in genere, presentano manifestazioni accentuate solamente se costituiti con materiale di propagazione vegetativa infetto o se infettati durante la fase di allevamento e soltanto nel corso dei primi anni dopo l’infezione, per poi mostrare, verso la fine dell’estate, le foglie di alcuni rami, situati nella parte più alta della chioma, leggermente accartocciate verso l’alto lungo la nervatura mediana, con arrossamento e portamento pendulo. In ogni caso, la loro produttività è ridotta e costituita da frutti piccoli. Il fitoplasma infetta, in natura, anche le piante di susino di tipo europeo, le quali, di solito, non manifestano sintomi, quelle di mandorlo, di ciliegio da fiore, di mirabolano, di San Giuliano, l’ibrido Marianna GF 8-1 e diverse specie di Prunoidee spontanee, fra cui il prugnolo. Questo arbusto costituisce la prima drupacea su cui si portano gli adulti dello psillide vettore del fitoplasma verso la fine dell’inverno, quando lasciano le piante in cui hanno svernato. Il fitoplasma si trasmette con il materiale di propagazione vegetativa infetto, prelevato sia durante il periodo vegetativo sia durante quello di riposo invernale. Inoltre, in campo, come accennato sopra, è diffuso dallo psillide Cacopsylla pruni in modo persistente propagativo. Esso viene acquisito dall’insetto con un periodo minimo di alimentazione, su una drupacea infetta, di 2-4 giorni ed è trasmesso, dopo una fase di latenza di 2-3 settimane, con un periodo di alimentazione, su una pianta sana, di 1-2 giorni. Durante la fase di latenza il fitoplasma si replica e si diffonde nei tessuti del vettore fino a penetrare nelle ghiandole salivari dalle quali viene inoculato nei tubi floematici con la saliva. Sia le ninfe sia gli adulti sono in grado di trasmettere l’infezione. L’insetto, una volta acquisito il fitoplasma, rimane infettivo per tutta la vita. Inoltre, secondo recenti acquisizioni, il fitoplasma passa alla prole per via transovarica. Lo psillide presenta una generazione all’anno e trascorre l’inverno come adulto su piante ospiti alternative, essenzialmente conifere. Verso fine febbraio-inizio marzo, gli adulti raggiungono le drupacee, in un primo momento quelle spontanee, specialmente il prugnolo, e poi le fruttifere, sulle quali depongono le uova. Ninfe e adulti emergono progressivamente, si nutrono e si diffondono nel frutteto fin verso l’inizio di luglio, quando i nuovi adulti migrano sugli ospiti secondari per passare l’inverno.
Foglia di percoca Jungerman su GF 677 con il caratteristico ingrossamento delle nervature provocato da infezioni di ESFYP
Percoca Jungerman su GF 677 colpita da ESFYP. Nel riquadro, sviluppo di gemme a fiore nel periodo autunnale
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coltivazione Misure di prevenzione Contro le malattie da virus, viroidi e fitoplasmi non è attuabile, a oggi, alcuna lotta in campo. Gli unici interventi possibili contro queste malattie sono di carattere preventivo e comprendono, nei loro lineamenti generali, interventi di: – esclusione, finalizzati a prevenire l’introduzione, negli impianti fruttiferi, degli agenti infettivi che si vogliono controllare; – eradicazione, atti a eliminare gli esemplari infetti da agenti trasmessi da una pianta all’altra da vettori animali, al fine di rallentarne la diffusione in campo attraverso la riduzione delle sorgenti d’infezioni all’interno dei frutteti. Tale intervento, come già menzionato, è assolutamente necessario nel caso di peschi infetti dal virus della sharka, in considerazione della sua pericolosità, sia per la velocità con cui si diffonde in campo da una pianta all’altra, sia per la gravità dei sintomi che determina sui frutti di pesco e soprattutto di albicocco e susino europeo. Riguardo alla possibilità di ottenere piante di pesco e, più in generale, di fruttiferi resistenti alle malattie da virus, viroidi e fitoplasmi, i metodi tradizionali di trasferimento di geni di resistenza a un determinato patogeno in una varietà desiderata, mediante una serie di incroci e selezioni, hanno portato a scarsi risultati, fondamentalmente per la mancanza di geni di resistenza in natura o la loro presenza in specie sessualmente non compatibili con la varietà da migliorare. Così, per esempio, nessuna fonte di resistenza al virus della sharka è stata finora riscontrata nel pesco. A partire dai primi anni ’80, ai metodi tradizionali di miglioramento genetico per la resistenza delle piante alle malattie si sono aggiunti metodi chiamati di “ingegneria genetica”, che permettono di inserire geni di qualunque origine nel genoma di una pianta portando alla costituzione di piante transgeniche. Il principio su cui si basa la resistenza transgenica ai patogeni è quello di “resistenza mediata dal patogeno” (Parasite Derived Resistance, PDR) per cui una pianta ospite, modificata attraverso l’inserimento, nel suo genoma, di una sequenza di acido nucleico (DNA o RNA), detta transgene, derivata da un patogeno, interferisce in maniera selettiva con la moltiplicazione di quest’ultimo. La prima dimostrazione di tale principio risale al 1986, quando piante di tabacco, in grado di produrre la proteina di rivestimento delle particelle del virus del mosaico del tabacco, risultarono resistenti allo stesso virus. Da allora, sono stati sperimentati vari tipi di sequenze nucleotidiche induttrici di resistenza e prodotte parecchie varietà di piante transgeniche, soprattutto erbacee, resistenti a virus, insetti, diserbanti, stress abiotici ecc. coltivate su vasta scala in paesi extra-europei oramai da un decennio. Riguardo ai fruttiferi, piante transgeniche di susino resistenti alla sharka sono soggette a sperimentazione in campo da diversi anni con promettenti risultati.
Accertamento dello stato sanitario di una pianta
• L’ispezione visiva, in campo, per la
ricerca di sintomi non basta, da sola, per verificare lo stato sanitario di una pianta nei confronti delle infezioni da virus e da agenti virus-simili a causa dei seguenti fattori: – presenza di agenti che infettano le piante senza indurre sintomi evidenti (infezioni latenti), pur influenzando il loro rendimento agronomico; – incostante espressione macroscopica di parecchie infezioni in relazione alla sensibilità varietale e alle condizioni di crescita della pianta e ambientali; – presenza di un periodo d’incubazione di solito molto lungo (fino ad alcuni anni) durante il quale la pianta è infetta senza mostrare sintomi
• L’esatta situazione sanitaria di una
pianta si stabilisce solamente tramite accertamenti specifici quali: – diagnosi biologica tramite piante “rivelatrici”; – diagnosi sierologica; – diagnosi con rilevamento di acidi nucleici
Piastra ELISA per analisi virologiche
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virosi e fitoplasmosi A ogni modo, a prescindere dalla metodologia, la realizzazione di piante resistenti è particolarmante importante nel caso delle malattie da virus, viroidi e fitoplasmi, nei confronti delle quali non esistono mezzi di lotta curativi.
Diagnosi immunoenzimatica
• La tecnica sierologica più utilizzata
Selezione sanitaria e risanamento Gli interventi di esclusione si attuano mediante la realizzazione dei nuovi impianti con materiale sano. Ne deriva il ruolo assolutamente fondamentale che assume la certificazione del materiale di propagazione, la quale consente agli agricoltori di disporre di materiali vivaistici sicuri, sia per idoneità sanitaria sia per rispondenza genetica. In quest’ambito, essenziale è l’individuazione di esemplari con idonei caratteri pomologici e sanitari con i quali costituire la cosiddetta “fonte primaria”, punto di partenza di tutto il processo di certificazione. La ricerca di piante capostipiti sane si effettua seguendo due linee
in virologia vegetale è quella immunoenzimatica (ELISA) in cui il legame fra l’antigene (per es. il virus di cui si cerca la presenza) e l’anticorpo specifico è rilevato mediante una reazione enzimatica
• Nella procedura più comune (DAS-
ELISA, a fianco), l’anticorpo per un determinato virus, nella forma di immunoglobulina IgG, è incubato in una apposita piastra di plastica (1). Quindi, in sequenza, si aggiungono: il succo estratto dal campione da esaminare (2), l’antisiero specifico coniugato con l’enzima (3) e il substrato per l’enzima (4). Il materiale non trattenuto nel pozzetto viene rimosso, dopo opportuna incubazione, tra un passaggio e l’altro tramite lavaggi con apposito tampone. In questo processo, le IgG fissate alle pareti del pozzetto (1a) trattengono in maniera specifica le particelle del virus omologo eventualmente presenti nel succo cellulare (2a), le quali trattengono, a loro volta, l’anticorpo specifico coniugato con l’enzima (3a). La reazione positiva si riconosce dal cambio di colore del substrato, idrolizzato dall’enzima trattenuto nel pozzetto (4a)
Schema test ELISA
1
3
= Anticorpo specifico 1a
= Antigene (virus) omologo ,
3a
= Antigene (virus) eterologo E = Anticorpo specifico coniugato
2
4
2a
4a
257
coltivazione procedurali complementari. La prima si fonda sulla scelta in campo di esemplari senza manifestazioni patologiche da virus o agenti virus-simili e sulla verifica del loro effettivo stato sanitario, attraverso esami di laboratorio e saggi biologici su piante indicatrici. L’altra si adotta nel caso non si riesca a reperire alcun esemplare di cultivar o di portinnesto sano e si basa sul risanamento di piante infette – ma con pregevoli caratteristiche pomologiche – attraverso la termoterapia e la coltura in vitro di meristemi, singolarmente o combinando le due tecniche, per aumentare l’efficacia della terapia. La terapia con aria calda si attua su piante allevate in vaso e mantenute per un periodo variabile di 4-6 settimane, a seconda degli agenti infettivi da eliminare, a una temperatura di 37-38 °C, in cella termostatica. In tali condizioni gli agenti infettivi si replicano e si diffondono con difficoltà nei nuovi germogli, dai quali viene asportata la porzione apicale di 3-4 cm di lunghezza e innestata su soggetti sani o posta a radicare. La coltura di meristemi si fonda sui principi che le cellule meristematiche di solito sono esenti da virus e viroidi e, dividendosi, originano una pianta completa. La tecnica consiste nel prelevare dall’apice vegetativo, con l’aiuto di uno stereomicroscopio e in condizioni asettiche, la cupola meristematica
Certificazione del materiale di moltiplicazione
• Complesso di norme da rispettare e
seguire per la produzione di materiale da destinare agli impianti per l’attività produttiva, garantito da una Istituzione ufficiale per quanto riguarda l’origine, l’identità e la purezza varietale e l’assenza di specifici agenti infettivi. Essa si basa sul principio della moltiplicazione, per filiazione, di esemplari capostipiti (fonti primarie) controllati singolarmente, secondo modalità ufficiali, per rispondenza genetica e idoneità sanitaria
• L’applicazione della certificazione,
costituisce un potente mezzo per il miglioramento sanitario degli impianti frutticoli
Procedura di certificazione del materiale di moltiplicazione Fasi della certificazione
Categorie del materiale di propagazione
Strutture
Fonte primaria (c/o costitutore) Conservazione per la premoltiplicazione
Prebase
Centro di conservazione per la premoltiplicazione
Premoltiplicazione
Base
Centro di premoltiplicazione
Moltiplicazione
Certificato
Centro di moltiplicazione
Piante certificate
Vivaio
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virosi e fitoplasmosi
Quarantena vegetale
• Il termine “quarantena” deriva dal
periodo di isolamento di 40 giorni che in passato le navi provenienti da zone dove erano presenti malattie contagiose (es. colera) dovevano trascorrere alla fonda prima dello sbarco di passeggeri e merci
• La pratica iniziò a Venezia nel XIV secolo e la durata di 40 giorni era ritenuta necessaria per superare il periodo d’incubazione e quindi per la comparsa della malattia e l’individuazione dei soggetti contagiosi prima dello sbarco
• Nel preciso significato del termine
e per analogia, la locuzione “quarantena vegetale” dovrebbe indicare il mantenimento di piante in isolamento per 40 giorni, per consentire l’eventuale comparsa di sintomi indotti da patogeni da quarantena. In pratica, si intende una strategia di controllo ufficale nei confronti di organismi da quarantena
Foglie di pesco con manifestazioni dovute a mutazione genetica (chimera). L’alterazione si distingue dai sintomi di calico per la presenza sulla stessa foglia di aree clorotiche con diversa gradazione di colore dal verde al bianco
Organismi nocivi da quarantena e regolamentati
con uno o due paia di primordi fogliari, della dimensione di 0,1-0,5 mm, e di porla in coltura su substrato nutritivo o trasferirla su una piantina da seme della stessa specie, allevata in vitro e appena decapitata. Le piantine provenienti da entrambe le tecniche vanno sottoposte a controlli per accertare il loro avvenuto risanamento. Con le attuali norme di certificazione genetico-sanitaria volontaria del materiale di propagazione delle piante da frutto, le procedure per la costituzione della “fonte primaria” e il suo mantenimento in sanità spettano al “costitutore”. Occorre, infine, sottolineare che dal momento in cui alcuni degli agenti infettivi in esame si trasmettono per seme e anche da una pianta all’altra per polline, per vettori o per ferite da taglio e nelle singole piante interessano tutti gli organi, è necessario evitare il prelievo sia di materiale selvatico sia di gentile da alberi in produzione, anche se originariamente sani, per non correre il rischio di ottenere esemplari infetti sin dalla fase iniziale del loro sviluppo.
• Organismi nocivi da quarantena:
sono potenzialmente molto dannosi per l’economia di un territorio, nel quale risultano assenti o presenti in modo sporadico, e soggetti a controlli ufficiali. La garanzia che tali vegetali sono esenti da questi organismi è fornita dal Passaporto delle piante
• Organismi nocivi regolamentati:
sono pregiudizievoli della qualità dei materiali di propagazione e sono presi in esame da norme che impongono ai vivaisti le linee da seguire per la loro produzione
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il pesco
coltivazione Flora spontanea Pasquale Viggiani
www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche. Crediti: le foto alle pagine 16 in alto a destra (Bvdc), 78 in alto (Huan), al centro (Pinkcandy) e in basso (Teoteoteo), 79 (Amitai), 80 in basso (Miszmasz), 81 (Looby), 82 (Karcich), 86 (Yasonya), 88 in basso (Lissdoc), 96 (Hurry), 98 in alto a sinistra (Hurry), 108 in alto (Tinker) e in basso (Meengen), 408 (Matka_wariatka), 409 (Elkeflorida), 416 al centro (Uksus) e in basso (Vladacanon), 417 in alto (Icefront), 421 in basso (Robynmac), 422 in alto (Palolilo), 474 in basso (Emily2k), 479 in basso (Elenathewise) sono dell’agenzia Dreamstime.com.
coltivazione Flora spontanea Caratterizzazione delle erbe del pescheto Tra le caratteristiche fisiologiche proprie di ogni specie preme qui ricordare: - le modalità di riproduzione; - la durata del ciclo vegetativo; - le epoche di nascita nel corso dell’anno. Queste caratteristiche regolano la convivenza fra le specie che vivono contemporaneamente sulla stessa superficie di terreno e che stabiliscono rapporti di competizione (in particolare per l’accaparramento di acqua, luce e sostanze nutritive) reciproci, con il prevalere di alcune di esse sulle altre. Il metodo classico di riproduzione delle erbe avviene per mezzo dei loro semi; alcune specie però possono moltiplicarsi anche tramite gemme che si trovano su radici ingrossate o su rizomi oppure su stoloni o su tuberi. Le piante che si riproducono esclusivamente per seme hanno una durata del ciclo vegetativo (dalla nascita alla maturazione dei semi) inferiore all’anno (piante annuali); quelle che si moltiplicano da gemme (piante vivaci) possono persistere per 2 o più anni (piante pluriennali, con gemme su radici ingrossate) o per moltissimi anni (piante perenni, con gemme su rizomi e/o su stoloni e su tuberi). Per quanto riguarda l’epoca di nascita, alcune specie annuali nascono in autunno e terminano il loro ciclo nella primavera successiva (piante a ciclo autunno-primaverile) mentre altre specie nascono in primavera e maturano i semi durante l’estate o l’autunno successivo (piante a ciclo primaverile-estivo-autunnale). Tra le piante annuali, inoltre, vi sono specie con ciclo molto corto
Pescheto con inerbimento dell’interfila nel Nord Italia
Pescheto nel Sud Italia, gestito con lavorazione dell’interfila e diserbo sulla fila
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flora spontanea che, in condizioni meteorologiche adatte, sono capaci di compiere più generazioni nell’arco dell’anno: nascono, maturano i semi e questi ultimi germinano e danno origine a nuove piante che ricominciano il ciclo. Le gemme delle piante vivaci sono in grado di originare altre piante in qualsiasi periodo dell’anno, con esclusione di quelli in cui si verificano eccessi, alti o bassi, di temperatura o nelle stagioni particolarmente siccitose. Per questi motivi esse risultano più adatte delle specie annuali per la costituzione del mantello vegetale dell’interfilare, tranne per quelle specie che raggiungono una taglia elevata in poco tempo e una consistenza oltremodo coriacea che ostacola le operazioni di sfalcio o di trinciatura periodiche. Le piante annuali, per la brevità del loro ciclo vitale e per la scarsa resistenza al calpestamento, sono meno adatte di quelle vivaci per questi scopi, tranne forse nei casi di qualcuna delle specie che si riproducono due o più volte all’anno e che costituiscono un intreccio abbastanza fitto di vegetazione superficiale. Per la gestione di questa vegetazione occorre anche tener presente il potenziale di competizione delle diverse specie, sia considerando la sola flora erbacea sia considerando i rapporti tra questa e le piante di pesco. Le specie annuali sono, in genere, meno competitive di quelle vivaci; queste ultime, inoltre, sono molto difficili da eradicare e comportano una complicata bonifica del terreno dopo l’espianto del pescheto.
Stoloni di gramigna comune
Vegetazione erbacea del pescheto Da apposite indagini, eseguite nel biennio 2006-07, in una decina di pescheti italiani sono state rilevate oltre un centinaio di specie spontanee, delle quali si riporta solo la descrizione di quelle più diffuse. Le specie più adatte a costituire l’inerbimento dell’interfilare sono quelle che assicurano l’insorgere di un prato permanente che garantisca la copertura del terreno durante tutto l’anno e che consenta il passaggio delle macchine e delle persone addette alle cure colturali anche nei periodi più piovosi. L’inerbimento dell’interfilare può essere ottenuto artificialmente o naturalmente. Nel primo caso si seminano appositamente essenze foraggere prative, per lo più graminacee, tipo Lolium o Festuca, o miscugli di semi di graminacee e dicotiledoni. Picris echioides Sonchus asper Conyza canadensis (Aspraggine volgare) (Grespino spinoso) (Saeppola canadese)
Bromus spp. (Forasacco)
Lolium spp. (Loglietto)
Calendula arvensis (Fiorrancio selvatico)
261
Hordeum murinum (Orzo selvatico)
Tribulus terrestris (Tribolo comune)
coltivazione L’inerbimento naturale, originato da una comunità di erbe che nascono spontaneamente, comporta una gestione molto oculata della vegetazione. Si tratta, in sintesi, di favorire la nascita e la persistenza di specie adatte a costituire un buon cotico erboso a scapito di altre che non sono adatte per questo scopo. L’attitudine delle diverse specie alla costituzione di un buon tappeto erboso dipende da fattori di natura fisiologica intrinseci alle specie stesse, e dalle loro caratteristiche ecologiche e ambientali derivanti dai rapporti della frazione vegetale con le altre componenti del sistema con i quali si trova a convivere. Questo tappeto vegetale condiziona fortemente l’assortimento floristico che si instaura sotto il filare del pescheto, poiché esso costituisce il serbatoio naturale dei semi e degli altri organi di moltiplicazione. Nel caso di inerbimento artificiale dell’interfilare, invece, la costituzione floristica sotto il filare dipenderà quasi esclusivamente dal tipo e dall’epoca del diserbo adottato in quest’area del frutteto e dalle condizioni climatiche e stagionali. L’equilibrio naturale tra queste specie, infatti, viene alterato qualora si attui il diserbo, chimico o meccanico che sia; gli effetti del diserbo chimico sono ampiamente trattati nel capitolo successivo; qui ricordiamo, invece, gli effetti dovuti alle lavorazioni del terreno (sarchiatura). In genere il diserbo fatto meccanicamente, tramite sarchiature ripetute, favorisce inizialmente le piante annuali, graminacee durante il periodo autunnale e invernale (per es. forasacco e orzo selvatico) e dicotiledoni (per es. amaranto, chenopodio, porcellana comune e saeppola canadese) durante la stagione più calda. Con il passare degli anni vengono favorite le specie perenni (per es. acetosella gialla, gramigna comune, piantaggine, romice, soffione e zigolo infestante), che hanno grande capacità di ricaccio perché dotate di organi di riproduzione come rizomi, stoloni, tuberi o bulbi.
Specie considerate (tra parentesi le famiglie)
• Acetosella gialla (Oxalidacee) • Amaranto comune (Amarantacee) • Aspraggine volgare (Composite=Asteracee) • Cardo campestre (Composite=Asteracee) • Centocchio comune (Cariofillacee) • Chenopodio (Chenopodiacee) • Fiorrancio selvatico (Composite=Asteracee) • Forasacco (Graminacee=Poacee) • Gramigna comune (Graminacee=Poacee) • Grespino (Composite=Asteracee) • Loglietto (Graminacee=Poacee) • Orzo selvatico (Graminacee=Poacee) • Pabbio (Graminacee=Poacee) • Piantaggine (Plantaginacee) • Poligono convolvolo (Poligonacee) • Porcellana comune (Portulacacee) • Ranuncolo strisciante (Ranunculacee) • Romice (Poligonacee) • Saeppola canadese (Composite=Asteracee) • Soffione (Composite=Asteracee) • Tribolo comune (Zigofillacee) • Veronica (Scrofulariacee) • Vilucchio comune (Convolvulacee) • Zigolo infestante (Cyperacee) Inerbimento naturale in un pescheto in EmiliaRomagna (a sinistra) e in Puglia (a destra)
262
flora spontanea Evoluzione della flora In assenza di lavorazioni o di altre pratiche di diserbo, fra le specie annuali costituenti l’inerbimento naturale dell’interfilare si stabiliscono rapporti di competizione che determinano la composizione floristica nelle diverse epoche dell’anno. In primavera la superficie del terreno è colonizzata dalle specie nate e cresciute durante l’autunno e l’inverno precedenti che sono sostituite da quelle che nascono nel corso di questa stagione e che terminano il ciclo in autunno. Questa flora, all’impianto del pescheto e per uno o due anni successivi, è costituita da moltissime specie in equilibrio fra loro. Con il passare degli anni il numero di specie si riduce sempre di più perché alcune si adattano velocemente alle condizioni pedo-climatiche e si sviluppano a scapito di altre che, invece, si adattano meno e perciò crescono con difficoltà e, con il tempo, spariscono. Dopo qualche anno, perciò, una o poche specie prendono il sopravvento su tutte le altre; in particolare si assiste, di solito, all’invadenza delle specie vivaci che, come già detto, nel corso degli anni colonizzano la quasi totalità della superficie del terreno. Nello schema seguente sono riportate le sequenze floristiche stagionali che si osservano nei pescheti italiani e in condizioni climatiche normali. Infestazione di acetosella gialla in un pescheto
Presenza stagionale delle erbe selvatiche Dall’autunno alla primavera successiva
Dalla primavera all’autunno successivo
Specie annuali Centocchio comune Fiorrancio selvatico Forasacco Grespino Loglio Orzo selvatico Poligono convolvolo Saeppola canadese Veronica
Specie annuali Amaranto comune Centocchio comune* Chenopodio bianco Fiorrancio selvatico* Pabbio Poligono convolvolo* Porcellana comune Tribolo comune Veronica*
Specie vivaci Acetosella gialla Cardo campestre Gramigna comune Piantaggine Ranuncolo strisciante Soffione Vilucchio comune
Specie vivaci Acetosella gialla Aspraggine volgare Gramigna comune Ranuncolo strisciante Romice Piantaggine Soffione Vilucchio comune Zigolo infestante
Infestazione di romice in un vecchio pescheto
*Solo in condizioni favorevoli di temperatura e umidità
263
coltivazione Descrizione delle specie Acetosella gialla (Oxalis pes-caprae). Verso la fine di marzo i pescheti dell’Italia meridionale diventano tavolozze di colori, fra i quali spiccano il verde delle foglie trifogliate e il contrasto tra il giallo brillante dei suoi fiori e il rosa carico dei fiori di pesco. Il nome di questa specie si riferisce al sapore acido delle sue foglie ricche di ossalati (dal greco oxys = acuto e hals = sale). La specie nasce durante l’autunno e le piante originano prevalentemente da piccoli tuberi in quanto difficilmente si ha la formazione e la maturazione dei semi.
Se non si diserba quanta (%) se ne trova di acetosella gialla nelle diverse epoche? 70 60 50 40 30 20 10 0
Sud Primavera
Nord Autunno
Amaranto comune (Amaranthus retroflexus). Apparentemente le piante di amaranto non invecchiano mai perché le pannocchie restano integre anche per molto tempo dopo la maturazione. A questa particolarità la pianta deve il nome latino (dal greco a = non e maraino = appassisco) e alla posizione reclina (retroflexus) delle stesse infiorescenze. Il fusto è molto tenace, alto anche più di un metro; le foglie, spesso soffuse di rosso-amaranto, sono intere, romboidali, con nervature chiare molto evidenti. I fiorellini sono senza petali e di colore verdastro.
Se non si diserba quanto (%) se ne trova di amaranto comune nelle diverse epoche?
Foto R. Angelini
70 60 50 40 30 20 10 0
Sud Primavera
Nord Autunno
264
Foto R. Angelini
flora spontanea Aspraggine volgare (Picris echioides). Il suo sapore amaro ha ispirato il nome latino e quello italiano, ma è proprio questo sapore che costituiva in passato una delle caratteristiche che rendevano questa pianta molto usata nella cucina popolare. Le foglie sono intere, lanceolate, dentate, cosparse di piccole pustole biancastre con una setola spinosa centrale (è a questa caratteristica che si riferisce l’aggettivo echiodes). I fiori compaiono in piena estate; sono gialli e raccolti su capolini sottesi da brattee spinosette. Foto R. Angelini
Se non si diserba quanta (%) se ne trova di aspraggine volgare nelle diverse epoche? 100 90
Foto R. Angelini
80 70 60 50 40 30 20 10 0
Sud Primavera
Cardo campestre o stoppione (Cirsium arvense). L’uso nell’antica Grecia per la cura delle varici ne ha ispirato il nome latino, dal greco kirsós (varice). Il primo nome italiano è giustificato dalla spinosità delle foglie mentre il secondo si riferisce alla grande diffusione di queste piante che nascono copiosamente sulle stoppie del grano dopo la raccolta. La pianta adulta raggiunge anche un metro di altezza. Il fusto è resistente, i fiori sono di colore rosa e sono riuniti su piccoli capolini. L’apparato radicale è ricoperto di gemme che sono in grado di generare altre piante. Foto R. Angelini
Nord Autunno
Se non si diserba quanto (%) se ne trova di cardo campestre nelle diverse epoche? 100 90 80
Foto R. Angelini
70 60 50 40 30 20 10 0
Sud Primavera
265
Nord Autunno
coltivazione Centocchio comune (Stellaria media). Il nome italiano e quello latino si riferiscono ai fiorellini composti da 5 petali bianchi disposti in modo da far assumere al fiore una forma di stella. La forma stellata ricorre anche sulla superficie dei piccolissimi semi, ricoperti di microscopiche verruchette stellate. Il fusto è liscio, con una linea di peli lungo la quale scorrono le goccioline di pioggia che vengono convogliate alla base di foglioline. Questa specie ha ciclo vegetativo molto corto ed è in grado di fiorire a lungo durante l’anno.
Se non si diserba quanto (%) se ne trova di centocchio comune nelle diverse epoche? 100 90
Foto R. Angelini
80 70 60 50 40 30 20 10 0
Sud Primavera
Nord Autunno
Chenopodio (Chenopodium spp.). Le foglie hanno forma simile a quella delle zampe delle oche; è a questa caratteristica che si ispira il nome (dal greco chen = oca e pus = piede). Un altro nome italiano è farinello perché le foglie, in particolare quelle più giovani, sono ricoperte di una fitta pruina biancastra, simile a un sottilissimo strato di farina. Nei pescheti del nord Italia si trova più frequentemente, che in quelli del sud, il chenodopio bianco (Ch. album), il quale ha pannocchie contratte, ma che, in condizioni di ampi spazi quali sono quelli dell’interfilare del pescheto, diventano lasse e rade.
Se non si diserba quanto (%) se ne trova di chenopodio nelle diverse epoche? 100 90 80
Foto R. Angelini
70 60 50 40 30 20 10 0
Sud Primavera
Nord Autunno
266
flora spontanea Fiorrancio selvatico (Calendula arvensis). È incredibile il colore aranciato dei suoi fiori, che in primavera brilla tra i filari dei pescheti meridionali Italiani. Pare che la fioritura di queste piante si ripeta anche per più mesi durante la primavera e pare che capiti sempre all’inizio del mese: è a questo che si riferisce il nome latino, che ricorda le kalendae dell’antica Roma. I fusti sono eretti e molto ramosi. Le foglie sono intere e lanceolate. I fiori sono raccolti su vistosi capolini. Tutta la pianta emana un intenso profumo. Foto R. Angelini
Se non si diserba quanto (%) se ne trova di fiorrancio selvatico nelle diverse epoche? 100 90
Foto R. Angelini
80 70 60 50 40 30 20 10 0
Sud Primavera
Forasacco (Bromus spp.). È così detto per le sue cariossidi appuntite che, quando si trovano in mezzo alla granella di frumento, perforano i sacchi di iuta all’interno dei quali si trasporta questo cereale. Il nome latino deriva dalla parola greca bròma (nutrimento) e si riferisce all’uso alimentare che se ne faceva in passato. Il fusto è cavo (culmo), ha foglie strette e lunghe. I fiori sono piccolissimi e raccolti su ampie pannocchie. Due specie sono particolarmente diffuse nei pescheti: Il forasacco rosso (B. sterilis) e il forasacco peloso (B. hordeaceus). Foto R. Angelini
Nord Autunno
Se non si diserba quanto (%) se ne trova di forasacco nelle diverse epoche? 100 90 80
Foto R. Angelini
70 60 50 40 30 20 10 0
Sud Primavera
267
Nord Autunno
coltivazione Gramigna comune (Cynodon dactylon). È odiata dagli agricoltori ma osannata dagli erboristi per le sue virtù medicinali. Le gemme sono sparse sui rizomi sotterranei e sembrano denti di cane (è questo il significato del nome latino cynodon). Il nome comune italiano viene ripreso anche in quello della famiglia: Graminaceae. Le foglie adulte sono nastriformi, lanceolate-allungate. I fiorellini si trovano su piccole spighe disposte in modo da sembrare le dita di una mano aperta (a questa caratteristica si deve l’aggettivo dàctylon).
Se non si diserba quanta (%) se ne trova di gramigna comune nelle diverse epoche? 90 80
Foto R. Angelini
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Foto R. Angelini
60 50 40 30 20 10 0
Sud Primavera
Nord Autunno
Grespino (Sonchus spp.). Ha fusto eretto ed è ricco di lattice bianco (e per questo in passato le piante erano date alle scrofe che allattavano, nelle quali, si diceva, stimolavano la secrezione del latte). Il grespino costituisce un’ottima verdura da cuocere, come si arguisce dall’aggettivo specifico latino del grespino comune (S. oleraceus). Un’altra specie molto presente nei pescheti è il grespino spinoso (S. asper), così detto per le sue foglie blandamente spinose sul bordo, anch’esso usato come verdura e munito di piccoli fiori giallastri raccolti in capolini.
Se non si diserba quanto (%) se ne trova di grespino nelle diverse epoche? 90 80
Foto R. Angelini
70 60 50 40 30 20 10 0
Sud Primavera
Nord Autunno
268
Foto R. Angelini
flora spontanea Loglio (Lolium spp.). Si riconosce per le foglie lucide e lanceolate. I microscopici fiori sono disposti su spighe, compresse e allungate. Il fusto è cavo e per questo è detto culmo; esso è rossastro alla base ed emette molti rami basali di “accestimento”. Il suo ciclo vegetativo nei pescheti è solitamente annuale ma, se non disturbato dall’opera dell’uomo, può comportarsi anche da specie vivace, tanto da costituire una delle specie adatte per la formazione di una copertura permanente dell’interfilare se appositamente seminato.
Se non si diserba quanto (%) se ne trova di loglio nelle diverse epoche? 100 90 80 70 60 50 40 30 20 10 0
Sud Primavera
Orzo selvatico (Hordeum murinum). Il nome latino deriva dalla parola greca horreo (inorridisco) e si riferisce alle lunghe e aguzze reste delle spighe che danno a questa pianta un aspetto poco rassicurante. Il fusto è eretto, cavo e nodoso esternamente, con molti rami che partono dalla sua base. Le foglie, come quelle delle altre graminacee, sono nastriformi strette, spesso ricoperte di una fitta peluria. L’orzo selvatico si riproduce solo per semi; nasce in autunno e rimane nel pescheto fino alla primavera successiva, dopo di che scompare.
Nord Autunno
Se non si diserba quanto (%) se ne trova di orzo selvatico nelle diverse epoche? 100 90 80 70 60 50 40 30 20 10 0
Sud Primavera
269
Nord Autunno
coltivazione Pabbio (Setaria spp.). Il suo fusto, come quello delle altre graminacee, è vuoto e nodoso. Le foglie delle plantule appena nate sono ovali-lanceolate mentre quelle delle piante adulte sono a forma di nastro, strette e lunghe. I fiorellini sono riuniti su pannocchie, più o meno cilindriche o ovoidali, cosparse di setole (da cui il nome latino) che derivano da fiori abortiti. Due sono le specie più diffuse nei pescheti: una è prevalente nei pescheti del nord Italia, il pabbio rossastro (S. glauca), l’altra, il pabbio verticillato (S. verticillata), in quelli del sud.
Se non si diserba quanto (%) se ne trova di pabbio nelle diverse epoche? 90 80 70 60 50 40 30 20 10 0
Sud Primavera
Nord Autunno
Plantaggine (Plantago spp.). Cresce appressata al terreno e le sue foglie sono simili a orme lasciate dalla “planta” del piede (da ciò derivano il nome comune e quello latino). Queste piante non hanno fusto e maturano spighe cilindriche poste alla sommità di lunghi peduncoli. Due specie sono particolarmente presenti nei pescheti italiani: la plantaggine lanceolata (P. lanceolata), che ha foglie lanceolate, e la plantaggine maggiore (P. major), con foglie ovoidali. Entrambe sono usate in erboristeria per le loro virtù medicinali: potere astringente, calmante e antiemorragico.
Se non si diserba quanta (%) se ne trova di plantaggine nelle diverse epoche? 90 80 70 60 50 40 30 20 10 0
Sud Primavera
Nord Autunno
270
flora spontanea Poligono convolvolo (Polygonum convolvulus = Fallopia c. = Bilderdykya c.). Il fusto e i rami delle piante adulte sono cosparsi di nodi e in presenza di sostegni, quali possono essere le piante di pesco, si avviticchiano su di essi avvolgendoli: da queste caratteristiche deriva il nome della specie (dal greco polys = molti, gony = ginocchi o nodi, e dal latino convolvolo = avvolgere). Le foglie sono cuoriformi. I fiori sono piccolissimi e servono per distinguere questa specie dal vilucchio comune, descritto in seguito, che ha, invece, grossi fiori imbutiformi.
Se non si diserba quanto (%) se ne trova di poligono convolvolo nelle diverse epoche? 100 90 80 70 60 50 40 30 20 10 0
Sud Primavera
Porcellana comune (Portulaca oleracea). Pare sia così chiamata per essere molto appetita dai maiali. Il nome latino si riferisce, invece, al tipo di apertura, una “portula” apicale, con la quale si apre il piccolo frutto a maturità. L’aggettivo oleracea sottolinea le sue qualità culinarie che la rendono un’ottima insalata, ancora oggi utilizzata dai buongustai. Il fusto è cilindrico, liscio, spesso rossastro, adagiato sul terreno e, come le foglie (spatolate), ha consistenza carnosetta. I fiorellini hanno corolla giallognola.
Nord Autunno
Se non si diserba quanta (%) se ne trova di porcellana comune nelle diverse epoche? 100 90 80
Foto R. Angelini
70 60 50 40 30 20 10 0
Sud Primavera
271
Nord Autunno
coltivazione Ranuncolo strisciante (Ranunculus repens). Ha fusto strisciante (repens) sul terreno ed emette stoloni che si allungano in varie direzioni. Le foglie sono lobate e nella forma ricordano il profilo di una rana in procinto di saltare: è forse a questo che si riferisce il nome latino? Oppure al fatto che, come le rane, queste piante preferiscono i terreni umidi e paludosi? I fiori sono gialli e i frutticini sembrano piccole lenticchie con un becco pronunciato. Come molte ranuncolacee questa specie è annoverata fra le piante velenose.
Se non si diserba quanto (%) se ne trova di ranuncolo strisciante nelle diverse epoche? 100 90
Foto R. Angelini
80 70 60 50 40 30 20 10 0
Sud Primavera
Nord Autunno
Romice (Rumex spp.). Il nome latino considera la forma delle foglie, simile a quella di una lancia (rumex). Anche i frutticini sembrano dei piccoli dardi. La radice è conica, carnosa, con gemme vitali e in grado di originare nuove piante; in passato veniva cotta e rappresentava un ottimo condimento per la carne. Il fusto è eretto e robusto. I fiori sono poco appariscenti e sono raccolti su ampie pannocchie che arrossiscono dopo la maturazione. Due sono le specie più diffuse nei pescheti: romice crespo (R. crispus) e romice comune (R. obtusifolius).
Se non si diserba quanto (%) se ne trova di romice nelle diverse epoche? 100 90 80
Foto R. Angelini
70 60 50 40 30 20 10 0
Sud Primavera
Nord Autunno
272
Foto R. Angelini
flora spontanea Saeppola canadese (Conyza canadensis). Pare che il nome scientifico derivi da quello greco della pulce (kónopos) perché di questo insetto ha il pungente odore. Fino a un paio di secoli fa non era conosciuta in Italia; di importazione americana (Stati Uniti e Canada), si è diffusa rapidamente perché produce una miriade di semi che hanno alla sommità un pappo leggerissimo e facilmente trasportato dal vento. Il fusto è eretto; le foglie sono lanceolate, intere. Matura snelli capolini che a maturità diventano piumosi. Foto R. Angelini
Se non si diserba quanta (%) se ne trova di saeppola canadese nelle diverse epoche? 90 80
Foto R. Angelini
70 60 50 40 30 20 10 0
Sud Primavera
Soffione (Taraxacum officinale). Come la specie precedente, matura semi piumosi, simili a piccoli paracaduti, facilmente trasportati dal vento (o da un soffio...ne) anche a lunghissima distanza dalla pianta madre. Questa specie è chiamata anche dente di leone, per via dei lobi delle foglie, appuntiti come canini di leone. Il nome scientifico deriva, invece, dalle sue proprietà medicinali (officinale) e in particolare all’uso, in passato, come rimedio (akos) all’intorbidimento della vista (táraxis). Dalle radici abbrustolite si ricava un surrogato del caffè.
Nord Autunno
Se non si diserba quanto (%) se ne trova di soffione nelle diverse epoche? 90 80
Foto R. Angelini
70 60 50 40 30 20 10 0
Sud Primavera
273
Nord Autunno
coltivazione Tribolo comune (Tribulus terrestris). Matura frutti tri...torzoluti, ovvero con tre frutticini spinosi saldati insieme: è a questo che si riferisce il nome latino. Il fusto è adagiato sul terreno. Le foglie sono composte da un numero dispari (7-13) di segmenti. I fiori sono piccoli e gialli. La specie preferisce i terreni sciolti, anche sabbiosi, delle spiagge dove spesso i frutti spinosi si conficcano nei piedi scalzi, valendo a questa specie il nome di baciapiedi. In compenso sembra che infusi di tribolo rinvigoriscano la mascolinità dei meno giovani.
Se non si diserba quanto (%) se ne trova di tribolo comune nelle diverse epoche? 100 90
Foto R. Angelini
80 70 60 50 40 30 20 10 0
Sud Primavera
Nord Autunno
Veronica (Veronica spp.). Il suo nome è dedicato a Santa Veronica. Il fusto cresce adagiato sul terreno; è sottile e per lo più contorto. Le foglie sono intere, tondeggianti o ovate, con margine dentato. I fiori sono piccoli, azzurrognoli e striati di chiaro. Il frutto è una piccola capsula e i semini sono incavati a conchiglia. Le specie più diffuse nei pescheti sono due: la veronica comune (V. persica) e la veronica con foglie d’edera (V. hederifolia); la prima matura capsule compresse con due lobi mentre le capsule della seconda sono pressoché sferiche.
Se non si diserba quanta (%) se ne trova di veronica nelle diverse epoche? 100 90 80
Foto R. Angelini
70 60 50 40 30 20 10 0
Sud Primavera
Nord Autunno
274
Foto R. Angelini
flora spontanea Vilucchio comune (Convolvulus arvensis). Ha il fusto flessuoso e avvolgente, che si arrampica e si attorciglia intorno alle altre piante o invischia qualsiasi supporto gli capiti nelle vicinanze; a questa caratteristica si riferisce il suo nome (dal latino convolvere = avvolgere). Le foglie sono intere, con due denti pronunciati alla base. I fiori, bianchi o rosati, hanno la corolla saldata a imbuto. I frutti sono capsule contenenti uno o più semi. Questa specie si riproduce, oltre che per semi, anche tramite gemme presenti sulle radici rizomatose.
Se non si diserba quanto (%) se ne trova di vilucchio comune nelle diverse epoche? 100 90 80 70 60 50 40 30 20 10 0
Sud Primavera
Zigolo infestante (Cyperus rotundus). Nei pescheti del Mezzogiorno, nelle zone più umide, vegeta copiosamente con il fusto eretto, liscio, senza rami. Questa specie non è né una dicotiledone né una graminacea: appartiene alla famiglia delle Cyperacee ed è simile nell’aspetto a una graminacea ma ha fusto pieno e a sezione triangolare. Si riproduce solitamente tramite un lungo e sottile rizoma sotterraneo. Inizialmente la sua diffusione interessa solo i bordi del pescheto per poi avanzare a macchia d’olio su tutta la superficie.
Nord Autunno
Se non si diserba quanto (%) se ne trova di zigolo infestante nelle diverse epoche? 100 90 80 70 60 50 40 30 20 10 0
Sud Primavera
275
Nord Autunno
il pesco
coltivazione Gestione erbe e polloni Gabriele Rapparini, Giovanni Campagna
www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche. Crediti: le foto alle pagine 16 in alto a destra (Bvdc), 78 in alto (Huan), al centro (Pinkcandy) e in basso (Teoteoteo), 79 (Amitai), 80 in basso (Miszmasz), 81 (Looby), 82 (Karcich), 86 (Yasonya), 88 in basso (Lissdoc), 96 (Hurry), 98 in alto a sinistra (Hurry), 108 in alto (Tinker) e in basso (Meengen), 408 (Matka_wariatka), 409 (Elkeflorida), 416 al centro (Uksus) e in basso (Vladacanon), 417 in alto (Icefront), 421 in basso (Robynmac), 422 in alto (Palolilo), 474 in basso (Emily2k), 479 in basso (Elenathewise) sono dell’agenzia Dreamstime.com.
coltivazione Gestione erbe e polloni Dannosità delle malerbe Negli impianti di pesco si ritrova una variabilità di malerbe che dipende prevalentemente dalle condizioni pedoclimatiche, dall’età degli impianti e dal regime di coltivazione. Risultano particolarmente competitive durante i primi anni di impianto, mentre nel periodo di produzione possono offrire aspetti vantaggiosi se vengono ben gestite. Negli impianti giovani e in quelli adulti dove si effettuano frequenti lavorazioni meccaniche, prevale un’infestazione a ciclo annuale, più tipica delle colture sarchiate. Nel periodo autunno-primaverile compaiono specie microterme tipiche dei cereali vernini, mentre durante la primavera e l’estate succedono specie macroterme che si possono riscontrare nelle colture sarchiate, assai più competitive sia per lo sviluppo in altezza sia per la dissipazione di acqua durante il periodo estivo, manifestando un notevole intralcio a livello dei rami più bassi. Negli impianti adulti, in particolare se mal lavorati o dove si pratica l’inerbimento spontaneo, compaiono gradualmente le specie a ciclo biennale e pluriennale tipiche degli ambienti di transizione verso gli incolti, i prati e le zone di calpestamento. Tra queste Taraxacum, Torilis, Daucus, Plantago, Rumex, Artemisia, Cirsium ecc., che divengono più competitive sia per il maggior sviluppo sia per la maggiore sottrazione di acqua ed elementi minerali. Qualora si pratichi una gestione della flora presente mediante la trinciatura, come più di frequente si assiste nei moderni impianti adulti, almeno nelle fasce interfilari degli ambienti più umidi, tende a prevalere una flora tipica dei prati sfalciati, tra cui Poa, Dactylis e Festuca tra le graminacee e Plantago, Taraxacum e altre composite tra le dicotiledoni. Nelle fasce ove si pratica il diserbo sotto le file, possono comparire gradualmente le specie perennanti come Convolvulus arvensis, Calystegia sepium, Cirsium arvense, Malva sylvestris, Mentha arvensis, Bryonia dioica, Phytolacca americana, Potentilla reptans ecc., e tra le graminacee Cynodon dactylon e Agropyron repens. Negli impianti meno curati, soprattutto se in prossimità vi sono aree incolte e boschive, possono subentrare specie arbustive come Robinia pseudoacacia, Clematis vitalba, Hedera, Rubus ecc., che sono causa di intralcio, oltre che di intristimento degli impianti con conseguente riduzione delle produzioni. Nel periodo invernale con presenza di specie microterme a lenta crescita in genere non si rende necessaria la lotta, a differenza di quello di inizio primavera in cui, al contrario, si assiste a un vero e proprio risveglio vegetativo, in cui occorre intervenire per ridurre la competizione con la coltura in una fase in cui necessita di disporre di tutte le risorse per l’inizio dell’attività vegetativa.
Impianto con errata gestione delle malerbe
Piante di Artemisia vulgaris trattate con composti ormonici addizionati di un prodotto residuale
Infestazione di essenze graminacee, che nei mesi invernali possono presentare dei benefici effetti
276
gestione erbe e polloni Durante l’estate prevalgono invece le specie più resistenti alla siccità e alle alte temperature, che manifestano un elevato grado di competitività sia per gli impianti irrigui sia per quelli condotti in asciutta. In questi ultimi, alle prime piogge di fine estate, iniziano a germinare le specie a ciclo autunno-invernale, che concorrono a inerbire il pescheto in una fase in cui risente minimamente della competizione, con indubbi vantaggi sotto il punto di vista agronomico e gestionale. Evoluzione della tecnica colturale e implicazioni relative al controllo In questi ultimi decenni si è assistito a una notevole evoluzione della tecnica colturale del pesco sia per quanto riguarda la riduzione delle distanze di impianto e del vigore vegetativo delle piante, sia per le modalità di gestione della flora infestante, con un aumento delle superfici trattate con mezzi chimici, in particolare in localizzazione sotto la chioma dei filari. Gli spazi interfilari, invece, vengono sottoposti più spesso a lavorazione o anche a trinciatura, in un’ottica di tecnica di lotta integrata e in ottemperanza dei Disciplinari di Produzione Integrata. La sensibilizzazione operata dalle direttive comunitarie riguardo la riduzione dell’impatto ambientale e la diffusione degli impianti ad alta densità dotati di apparati radicali superficiali, hanno contribui to a fare evolvere la tecnica di gestione della flora infestante. Le lavorazioni interfilare si praticano prevalentemente nelle aree più seccagne e nei giovani impianti, a differenza della gestione dell’inerbimento con periodiche trinciature nelle aree più fresche e umide delle pianure. I vantaggi derivanti dall’applicazione della gestione integrata sono innegabili, con costi di gestione relativamente ridotti e rapidità di esecuzione delle operazioni, eliminazione delle lesioni radicali e corticali che si procurano con le lavorazioni meccaniche, mancata
Un incontrollato sviluppo delle infestanti nei mesi estivi è causa di gravi danni produttivi, fitosanitari e di ostacolo alle operazioni di raccolta Il mantenimento del cotico erboso nei mesi autunno-invernali riduce i danni da asfissia radicale, sia per l’impedimento di ristagni idrici sia per la riduzione del calpestamento
277
coltivazione formazione della suola di lavorazione e conseguente riduzione dei ristagni idrici, accanto all’eliminazione dell’erosione superficiale, in particolare nei terreni declivi, e a una migliore transitabilità dei mezzi meccanici, ma anche all’aumento della proliferazione di insetti utili per la lotta integrata e biologica del pescheto. La presenza del cotico erboso nelle fasce interfilari permette di assolvere alla funzione di cover crop (copertura vegetale) e di catch crop (cattura degli elementi nutritivi che potrebbero percolare lungo il profilo del terreno o ruscellare superficialmente nel periodo più piovoso autunno-invernale). La presenza della flora spontanea non deve essere vista in termini negativi, in quanto un’oculata gestione in termini sia spaziali (fila e interfila) sia temporali (utilità o minor danno arrecato in determinate stagioni anziché in altre), permette di migliorare la redditività dell’impianto. L’emissione di essudati radicali infatti, oltre all’arricchimento di sostanza organica nei primi strati del suolo, permette di ottimizzare le funzioni biologiche del terreno, compresa la rimobilizzazione di elementi minerali, ma anche la costituzione di una sorta di pacciamatura naturale a seguito del disseccamento delle malerbe nel periodo primaverile con tutti i benefici che ne derivano. Per contro il manto erboso deve essere ben curato come nella gestione dei tappeti erbosi, in quanto solo una sufficiente fertilizzazione con periodico sfalcio o trinciatura della flora avventizia senza asportazione dei residui permette alle piante coltivate di beneficiare del complessivo miglioramento dell’ambiente terricolo che sta alla base della salute e della nutrizione.
Interfila di impianto in produzione inerbita artificialmente con Bromus catharticus che dopo la trinciatura svolge un effetto pacciamante
Vantaggi e svantaggi del mantenimento della flora spontanea negli spazi interfilari dei pescheti specializzati Vantaggi
Suolo
• Maggiore ritenzione degli elementi lisciviabili • Minore erosione • Minore ruscellamento • Maggiore aerazione • Migliore struttura e attività biologica • Maggiore biodiversità e presenza di antagonisti di insetti
Svantaggi
• Eventuale incremento di parassiti e patogeni
e patogeni, oltre che di impollinatori
Impianto
• Minore asfissia radicale • Minore clorosi ferrica • Depressione del vigore vegetativo (utile solo per impianti
• Maggiore competizione idrica e nutrizionale • Depressione del vigore vegetativo
• Maggiore colore e qualità dei frutti
• Minore pezzatura del frutto
eccessivamente lussureggianti)
Produzione
278
gestione erbe e polloni Tecniche di lotta alle malerbe A differenza delle colture erbacee di pieno campo, la pratica del diserbo del pesco risulta meno generalizzata e la gestione delle malerbe viene diversificata in funzione del sistema di allevamento, dell’età degli impianti, degli ambienti pedoclimatici e dell’area di coltivazione secca o irrigua ecc. In funzione di questi aspetti, la gestione deve essere adattata considerando la disponibilità di mezzi meccanici aziendali per la lavorazione del terreno o per la trinciatura del manto erboso, degli erbicidi di possibile impiego, delle infestanti presenti e delle condizioni pedoclimatiche di coltivazione. Si tende a privilegiare la tecnica del diserbo sulla fila, in particolare nei moderni impianti specializzati a elevata densità di impianto, soprattutto per evitare di danneggiare l’apparato radicale e la base dei fusti a seguito dell’utilizzo dei mezzi meccanici, ma anche per ottenere un migliore contenimento delle malerbe attorno al fusto. Tuttavia si deve operare con cautela per non arrecare danni da fitotossicità alle piante e per non selezionare malerbe tolleranti o resistenti agli erbicidi. Anche per questo motivo nei frutteti specializzati, ma anche in quelli familiari, occorre praticare una gestione integrata combinando le differenti pratiche di contenimento delle malerbe sulle file e nelle interfile, come il diserbo chimico abbinato alle lavorazioni meccaniche, oppure la gestione del manto erboso interfilare con ripetuti sfalci negli impianti in produzione, avvalendosi della pacciamatura sotto la chioma per quelli di nuova costituzione. In particolare in questi ultimi la competizione esercitata dalle malerbe determina rallentamenti di crescita tanto più accentuati quanto più sono giovani le piante, con minore lignificazione e maggiore suscettibilità ai rigori del gelo invernale. La presenza delle malerbe, inoltre, può accentuare lo sviluppo di malattie fungine e di insetti dannosi, nonché creare squilibri termici nel delicato periodo primaverile di risveglio vegetativo, con maggior rischio di gelate.
Gestione delle malerbe nei pescheti Fila
Interfila
Inerbimento
Inerbimento
Lavorazione Lavorazione
Inerbimento Lavorazione
Diserbo Diserbo Diserbo
Inerbimento Lavorazione Diserbo
Pacciamatura Pacciamatura
Inerbimento Lavorazione
Nuovo impianto lavorato nell’interfila e diserbato sulla fila Tradizionale pescheto con aratura superficiale sulla fila e inerbimento spontaneo dell’interfila
279
coltivazione D’altro canto, un vantaggio derivante dall’alternanza delle differenti tecniche di contenimento delle malerbe può essere la maggiore eterogeneità della flora avventizia, utile sotto il punto di vista gestionale e della biodiversità.
Gestione integrata delle malerbe
• Nei frutteti è più corretto parlare
Gestione agronomica. Determinante ai fini di un’ottimale gestione delle malerbe risulta l’alternanza di differenti pratiche di contenimento delle stesse in funzione delle condizioni pedoclimatiche che caratterizzano l’area di coltivazione. Tuttavia non è possibile effettuare lavorazioni meccaniche dopo periodi prolungati di nonlavorazione, in quanto verrebbero arrecati gravi danni agli apparati radicali. Negli ambienti più caldi e siccitosi, in quelli collinari non irrigui e nei nuovi impianti si tendono a privilegiare le tecniche dell’aridocoltura, tra cui le lavorazioni rivestono un ruolo di primaria importanza. Negli ambienti più umidi e piovosi di pianura e di valle, come in quelli dotati di impianti di irrigazione, si tende a privilegiare la tecnica dell’inerbimento controllato, che offre una serie indiscutibile di vantaggi, anche se il mantenimento del manto erboso determina un aumento dei consumi idrici nel periodo estivo. Per questo occorre ricorrere agli apporti idrici, privilegiando i sistemi a goccia per contenere la nascita e lo sviluppo delle malerbe limitatamente alle aree inumidite, anche se le maggiori difficoltà di gestione insistono sotto la chioma delle piante, dove risulta più difficile operare per via meccanica, sia con le lavorazioni sia con lo sfalcio o la trinciatura. Il diserbo chimico, in questi casi, assume un ruolo di primaria importanza per il contenimento delle infestanti sia negli impianti più giovani sia in quelli in produzione e nei differenti ambienti pedoclimatici, anche perché gli interventi sottochioma risulterebbero più onerosi per la presenza dei rami, talvolta assai prostrati e le conseguenti difficoltà di avvicinamento. L’utilizzo di shelter o la collocazione di semplici tubi di plastica attorno alle piante dopo il trapianto delle stesse allo scopo di limitare sia la competizione delle malerbe nei confronti delle piante coltivate sia eventuali danni da selvaggina, risulta un valido accorgimento per una gestione integrata delle malerbe sotto le file. Inoltre è possibile evitare di danneggiare le giovani piante con l’impiego di erbicidi come il glifosate, che potrebbero essere assorbiti dai fusti delle drupacee, ma anche con le operazioni meccaniche o manuali (decespugliatore) di trinciatura dell’erba attorno ai fusti delle piante. Per quanto riguarda gli interventi manuali, che sono da evitare anche se si tratta di limitate superfici, occorre talvolta intervenire allo scopo di evitare che le giovani piantine possano essere danneggiate. Le operazioni di scerbatura, zappatura o anche vangatura attorno agli astoni negli impianti di nuova costituzione si possono
di gestione integrata delle malerbe anziché di controllo vero e proprio, in quanto si ricorre spesso alla combinazione di tecniche miste di gestione della flora infestante presente sulla fila e sull’interfila
Giovane impianto dotato di shelter per la protezione degli astoni
Impianto con inerbimento controllato
280
gestione erbe e polloni rendere occasionalmente necessarie, in particolare dove non sono stati posti gli shelter di protezione o non sia stata effettuata la pacciamatura. Se invece sono state prese tutte le misure necessarie in fase di impianto, può essere sufficiente intervenire con falcetti o decespugliatore per fare qualche ritocco e contenere qualche malerba eventualmente sfuggita, in particolare se perennante. Gestione meccanica. La gestione meccanica delle malerbe mediante lavorazioni meccaniche effettuate tra le file e sotto le chiome è sovente causa di danni sia agli apparati radicali sia ai fusti anche se vengono eseguite con particolare attenzione e con macchine specifiche dotate di congegni di “rientro”. Per questo è consigliabile realizzare le lavorazioni limitatamente negli spazi interfilari e solo negli ambienti più siccitosi, evitando di avvicinarsi troppo ai fusti delle piante. Si possono utilizzare macchine a elementi fissi, mobili o azionati da presa di potenza. Gli erpici a elementi fissi possono effettuare lavorazioni, tra l’altro poco energiche, solo negli spazi interfilari. Gli erpici a dischi, eventualmente dotati di congegni di rientro per avvicinarsi maggiormente ai fusti senza danneggiarli, permettono di conciliare il minor spreco di energie accanto a un lavoro energico e superficiale, più adatto per i frutteti, allo scopo di danneggiare il meno possibile gli apparati radicali. Gli erpici con elementi azionati da presa di potenza e che girano su un asse orizzontale (fresatrice) o verticale (erpice rotante) possono essere dotati di organi di rientro ed effettuano un lavoro energico, ma assorbono maggior potenza e possono causare la formazione della suola di lavorazione che tende a rendere asfittico il terreno e causare ristagni idrici. Altra operazione meccanica è la trinciatura del manto erboso sia sull’interfila, sia sotto la fila, mediante gli appositi congegni di rientro. Le macchine con elementi che girano su
Lavorazione meccanica con fresa
Tradizionali lavorazioni meccaniche sotto chioma e nell’interfila su terreni collinari Lavorazione sulla fila con erpice a dischi, che consente l’interramento dei concimi e il contenimento delle infestanti perenni più difficili come Urtica, Artemisia ecc.
281
coltivazione un asse orizzontale (trinciastocchi) effettuano una trinciatura più grossolana, ma sono più indicate per trinciare malerbe più sviluppate e anche residui di potatura. Le macchine munite di elementi che girano su un asse verticale, invece, eseguono uno sfalcio più preciso, ma occorre intervenire più di frequente. Vi sono poi modelli muniti di fruste che girano su un asse orizzontale, adatti per la spollonatura meccanica, ma che permettono di contenere parzialmente anche le malerbe se non sono eccessivamente sviluppate.
Pacciamatura
• L’uso della pacciamatura si rivela
particolarmente utile per gli impianti molto fitti
• L’impiego di materiali biodegradabili consente di contenere le malerbe per un periodo più limitato di tempo (1-3 anni), senza dover ricorrere alla successiva raccolta dei frammenti di telo
Gestione biologica. Il ricorso alle scerbature e alle zappature, pur essendo alquanto dispendioso, è la prima modalità di lotta biologica, in particolare nei giovani impianti dove la competizione esercitata dalle malerbe risulta assai dannosa. Per limitare i più faticosi interventi manuali si può ricorrere all’utilizzo dei film plastici neri, anche se nel tempo si possono riscontrare maggiori attacchi da parte di roditori, oltre la costituzione di una minore riserva idrica che necessita di irrigazioni di soccorso o la preventiva stesura di manichette sotto al telo. La predisposizione degli shelter permette di ottenere, oltre al contenimento delle malerbe nei giovani impianti, un primo e immediato tutoraggio e una lieve forzatura termica in virtù dell’innalzamento delle temperature nel periodo di fine inverno-inizio primavera, con protezione termica durante i rigori invernali. Gestione chimica. Il diserbo chimico assume un ruolo di primaria importanza per il contenimento delle infestanti sotto la chioma delle piante, sia negli impianti più giovani sia in quelli in produzione, dove si presentano le maggiori difficoltà di controllo delle malerbe, consentendo di assicurare una gestione più ecocompatibile dell’ambiente e di ridurre eventuali rischi di danni da fitotossicità alle piante, in virtù della riduzione delle superfici trattate e delle minori dosi di utilizzo complessive. Per limitare l’emergenza delle malerbe attorno alle piante, è possibile utilizzare erbicidi ad azione residuale che agiscono attraverso l’assorbimento radicale o sui germogli dei semi durante l’emergenza. La selettività, in genere, sussiste per modalità stratigrafiche: i principi attivi residuali, rimanendo in superficie, non vengono assorbiti, o solo in dosi trascurabili, da parte delle radici della coltura che si trovano a una maggiore profondità. Per questo motivo è sconsigliabile intervenire su terreni molto sciolti e irrigui, allo scopo di evitare la comparsa di fenomeni di fitotossicità. La valutazione del decorso climatico e della flora infestante presente è invece importante ai fini della scelta dell’erbicida fogliare. Negli impianti in produzione, nonostante l’applicazione degli erbicidi fogliari possa essere attuata in ogni momento del ciclo vegetativo con l’avvertenza di non interessare al trattamento le foglie delle piante, si tende a intervenire non prima della primavera inol-
Pacciamatura mediante film nero biodegradabile, steso in pre-trapianto
Diserbo totale su impianto a elevata densità
282
gestione erbe e polloni trata, allo scopo di ridurre il numero degli interventi (due, massimo tre applicazioni). Evoluzione della gestione chimica
Diffusione della tecnica del diserbo chimico La pratica del diserbo chimico lungo i filari dei pescheti al nord viene effettuata sulla maggior parte degli impianti, con una gestione delle malerbe indirizzata verso un’integrazione delle differenti pratiche che prevedono periodiche trinciature e lavorazioni meccaniche delle interfile nelle aree più secche. Più limitato è il ricorso alla tecnica del diserbo localizzato sotto le file negli impianti del centro e del sud Italia, dove si preferisce effettuare prevalentemente le lavorazioni meccaniche. Nei pescheti specializzati è diffuso il diserbo autunnale, anche se in questi ultimi tempi si tende più agli interventi di fine inverno, per proseguire con 1-2 interventi durante la fine della primavera e l’estate, in particolare se la stagione decorre piovosa o in caso di irrigazione.
• L’impiego dei disseccanti dipiridilici è
stato accantonato a favore del glifosate e del più selettivo glufosinate ammonio. La revisione europea dei fitofarmaci e la contingentazione dell’uso di certi principi attivi hanno portato al quasi generalizzato abbandono dei prodotti residuali, prevedendo l’applicazione dei soli fogliari durante i periodi di maggiore dannosità delle malerbe. Nel periodo di maggior accrescimento delle malerbe, invece, si ricorre ancora all’impiego di dosi ridotte di oxifluorfen attivanti il glifosate
Strategie di diserbo chimico Le tecniche di diserbo chimico devono essere messe in atto in funzione della composizione malerbologica e delle condizioni pedoclimatiche, nonché dell’età e del tipo degli impianti. Vivai. Il diserbo dei vivai deve essere effettuato mediante barre schermate tra le file, con ripetuti trattamenti fogliari a base dei più selettivi disseccanti dipiridilici, oltre a glufosinate ammonio, ai quali possono essere addizionati con cautela i più selettivi erbicidi residuali, in particolare con le piante meno sviluppate e sui terreni più sciolti. L’impiego di questi ultimi, tuttavia, risulta più propizio a pieno campo alla fine dell’inverno del secondo anno di vegetazione con gemme dormienti. Qualora vengano impiegati prodotti come oxadiazon e oxifluorfen, occorre avere l’avvertenza di non bagnare le gemme delle giovani piante arboree.
Barra umettante schermata con fili di nylon
283
coltivazione Nuovi impianti. Alla stregua dei vivai, a partire dal primo anno della messa a dimora delle piante, subito dopo l’impianto, con terreno lavorato e privo di infestanti nate, si possono distribuire sulle file i diserbanti ad azione residuale. I più idonei per questo tipo di impiego sono gli stessi che vengono applicati nel diserbo dei vivai, con preferenziale utilizzo di quelli a più lunga persistenza e ridotta percolazione. In alternativa all’esecuzione dei preventivi trattamenti con prodotti residuali, il diserbo dei giovani impianti può essere effettuato con l’impiego dei soli erbicidi fogliari ad azione di contatto, per poi utilizzare, su piante ben lignificate, anche glufosinate ammonio, sebbene in via cautelativa sarebbe più opportuno intervenire dal secondo anno di impianto. Per il controllo delle infestanti perenni, graminacee e dicotiledoni, è consigliabile intervenire sulle chiazze con il sistemico glifosate, distribuito con barre assolutamente schermate o con attrezzature umettanti. Un più sicuro impiego nei trattamenti su tutto il filare può essere effettuato qualora dopo la messa a dimora degli astoni vengano posizionate le apposite schermature, evitando di operare con i prodotti a base di glifosate nei terreni molto sciolti, a causa del potenziale rischio di danno una volta giunto a contatto con gli apparati radicali delle giovani piante arboree. Come per il diserbo dei vivai e degli impianti in produzione, per una più razionale lotta contro le infestanti dei giovani impianti, si rivela più conveniente ricorrere all’impiego simultaneo di prodotti fogliari di contatto con quelli residuali nelle due epoche fondamentali di fine inverno e inizio estate, con possibilità di ricorrere anche a interventi autunnali dopo il primo anno di impianto.
Impianto diserbato sulla fila con disseccante di contatto e con inerbimento spontaneo dell’interfila
Impianti in produzione. Dal quarto anno di vegetazione dopo la messa a dimora delle piante, i fusti si presentano lignificati, tuttavia nel pesco, come in tutte le drupacee, la corteccia presenta delle soluzioni di continuità (lenticelle), attraverso le quali è possibile l’assorbimento degli erbicidi. Nel caso si prosegua con l’impostazione delle strategie di lotta effettuate negli anni precedenti sui giovani impianti, ci si trova di fronte in genere a una maggiore presenza di specie perenni rap-
Esecuzione di un trattamento con barra schermata
Programma di diserbo chimico nei nuovi impianti Ott.
Nov.
Dic.
Gen.
residuali ± fogliari di contatto
Feb.
Mar.
Apr.
Mag.
Giu.
Lug.
Ago.
fogliari di contatto o graminicidi specifici
Set.
Note Impiegare dosi di prodotti residuali proporzionate alla natura del terreno Utilizzare i prodotti fogliari di contatto solo su fusti lignificati e non bagnare le piante Evitare la deriva
284
gestione erbe e polloni presentate da convolvulacee, equisetacee, crucifere, malvacee e altre erbe di sostituzione e di difficile eliminazione con dosi ridotte di soli prodotti fogliari. Nel caso invece si imposti la lotta chimica a seguito di una coltivazione, che nel nuovo impianto veniva effettuata con sole lavorazioni meccaniche o pacciamatura, il potenziale di inerbimento sarà rappresentato prevalentemente da specie annuali, comprese quelle più tradizionali di tutti i coltivi come Veronica, Senecio, Sonchus, Solanum, poligonacee, amarantacee, chenopodiacee ecc., e con abbondanti presenze di chiazze di specie perenni meglio contenute dai film plastici rispetto alle periodiche lavorazioni del terreno. Il più mirato impiego di erbicidi fogliari secondo i nuovi orientamenti di diserbo prevede di valorizzare le acquisite conoscenze sui tempi di emergenza delle malerbe e sulle caratteristiche dei singoli principi attivi, ottimizzando i calendari di intervento in funzione del tipo di impianto e della disponibilità di impianti irrigui, e non impostando strategie a calendario secondo le tradizionali epoche di impiego. Per questo occorre prendere in rassegna le differenti epoche di intervento mediante trattamenti: − autunnali, prima della caduta delle foglie, con infestanti alte 10-15 cm; − autunno-invernali, dopo la caduta delle foglie, con infestanti alte 10-15 cm; − di fine inverno, prima della ripresa vegetativa delle piante di pesco; − primaverili, dopo la ripresa vegetativa, prima o dopo la fioritura; − primaverili-estivi, qualora siano sfuggite malerbe. I trattamenti autunnali sono necessari in presenza di un elevato potenziale di infestazione, in particolare nei giovani impianti, e qualora si attuino programmi di diserbo solo con prodotti fogliari. Le applicazioni autunnali possono essere effettuate, in assenza di malerbe sotto le file, con miscele di erbicidi fogliari e residuali, consentendo di migliorare il grado di lignificazione dei rami con conseguente aumento della resistenza al freddo e riduzione dei danni alla base delle piante causati da topi, insetti o malattie fungine. Le favorevoli condizioni di assorbimento degli erbicidi che si verificano in questo periodo permettono di ottimizzare il contenimento delle malerbe con dosi relativamente ridotte, aumentando il grado di devitalizzazione delle specie perenni sensibili agli erbicidi fogliari sistemici come glifosate, che offrono migliori opportunità di contenimento nelle zone particolarmente inerbite da Cynodon dactylon e Convolvulus arvensis. Di queste ultime, seppure non vengano completamente devitalizzate, ritardano i ricacci primaverili, consentendo di semplificare i successivi programmi di diserbo. Eliminando tutta la vegetazione infestante presente vengono facilitate le operazioni colturali di potatura, asportazione delle ramaglie e spollonatura.
Infestazione di Solanum dulcamara, contenibile con dicotiledonicidi sistemici
Impianto di pesco diserbato in autunno sulla fila con erbicida ad azione di contatto e con inerbimento spontaneo dell’interfila
Esiti di un trattamento eseguito a fine inverno con un devitalizzante fogliare sistemico
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coltivazione I trattamenti autunno-invernali o di fine inverno effettuati prima della ripresa vegetativa in alternativa alle strategie di intervento autunnali permettono di contenere malerbe non ancora molto sviluppate, evitando i danni da competizione con il pescheto, beneficiando nel contempo degli altri vantaggi derivanti dallo sviluppo della flora avventizia. La ritardata applicazione allo stadio di gemme gonfie o dopo la ripresa vegetativa può essere effettuata solo con attrezzature schermate e quando sussista la necessità di eliminare contemporaneamente specie annuali e perenni a nascita più ritardata come Cirsium, Equisetum, Rumex ecc. Si possono applicare disseccanti fogliari di contatto come glufosinate ammonio senza apposite attrezzature schermate, con l’avvertenza di non interessare i germogli erbacei dei rami basali del pesco, o con maggiori precauzioni con il sistemico glifosate, evitando di bagnare i fusti delle piante. L’eventuale impiego dei prodotti residuali in miscela con i fogliari richiede un terreno libero da malerbe e da foglie, e possibilmente lavorato e sminuzzato, consentendo un migliore effetto del grado di efficacia erbicida. Negli impianti in produzione si tende a intervenire non prima della primavera inoltrata, allo scopo di ridurre il numero delle applicazioni anche se si ricorre all’utilizzo dei soli erbicidi fogliari (due, massimo tre applicazioni). Nonostante l’aspetto estetico non risulti ottimale, il manto erboso più sviluppato, una volta disseccato dal trattamento, consente di sortire un effetto pacciamante, con il principale effetto positivo di ridurre l’emergenza di nuove malerbe. In genere il primo intervento si fa cadere verso la fine della primavera, il secondo viene indirizzato per il contenimento delle malerbe a sviluppo pluriennale ed eretto che disturba la produzione delle giovani piante o di quelle allevate a forme piuttosto basse, mentre il terzo si potrebbe rendere necessario negli impianti con forme di allevamento relativamente basse e nel caso di decorsi
Esiti di un trattamento sulla fila a fine inverno con un prodotto ad azione di contatto
Sottofila mantenuto esente dalle infestanti nei mesi primaverili-estivi mediante applicazione a fine inverno di oxadiazon
Risultati di un ottimale trattamento estivo di pre-raccolta sulla fila con glufosinate ammonio
Comparazione di diversi sistemi di coltivazione dell’interfila: in primo piano la parcella trattata con erbicida fogliare sistemico
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gestione erbe e polloni climatici favorevoli allo sviluppo delle malerbe estive e nei terreni più fertili. Inerbimenti successivi che sviluppano nel corso dell’autunno in genere non disturbano più l’accrescimento delle piante, e consentono di ricostituire un manto erboso nel periodo invernale che, una volta disseccato nel corso della primavera successiva, consente di sortire il summenzionato effetto pacciamante. Le applicazioni primaverili-estive sono necessarie qualora siano sfuggite malerbe a sviluppo perenne, o nei terreni più fertili e irrigui. I trattamenti successivi possono essere ripetuti nel periodo autunnale con miscele di prodotti fogliari e residuali prima della caduta delle foglie o durante l’inverno, in funzione delle specie di malerbe annuali o perenni presenti. Questa scelta assicura una più protratta azione e una riduzione del numero degli interventi.
Scelta dell’erbicida fogliare
• È funzione del decorso climatico e della flora infestante presente: il glufosinate ammonio è più adatto per malerbe annuali a foglia larga, con temperature non troppo basse e per il contenimento dei polloni, mentre il glifosate si presta anche per temperature più basse e in presenza di malerbe perenni
Principali programmi di diserbo chimico negli impianti in produzione Tipo di programma
Autunnale
Ott. Nov. Dic. Gen. Feb. Mar. Apr. Mag. Giu. Lug. Ago. Set. fogliari di contatto (polloni) o sistemici (Cirsium) ± residuale
fogliari + residuali
fogliari di contatto o fogliari sistemici ± residuale (impianti irrigui)
Note
Programma indicato preferibilmente per gli impianti irrigati nei mesi estivi
Programma indicato preferibilmente per gli impianti già diserbati negli anni precedenti
fogliari di contatto (polloni) o sistemici (Cirsium)
fogliari di contatto o sistemici (perenni)
Primaverile
fogliari di contatto (polloni) o sistemici (Cirsium)
fogliari di contatto o sistemici ± residuale
L’addizione dei residuali nei mesi estivi è richiesta negli impianti irrigati e nei terreni sciolti
Solo fogliare e integrato
fogliari di contatto (polloni) o sistemici (Cirsium)
fogliari di contatto (polloni) o sistemici (perenni)
Trattamenti da eseguire nei mesi primaverili-estivi ogni 45-60 giorni
lavorazioni o sfalci meccanici
Interventi meccanici da eseguire 4-5 volte
fogliari + residuali
Fine inverno
fogliari di contatto o sistemici
fogliari di contatto (polloni) o sistemici (perenni)
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I trattamenti primaverili con fogliari sistemici vanno eseguiti solo con presenza di infestanti di sostituzione e perenni
coltivazione Spollonatura Il rallentamento del flusso linfatico originato da una ridotta affinità tra nesto e portainnesto genera sovente germogli assai vigorosi (succhioni) a partire dalle gemme latenti presenti sul fusto o sulle branche, ma soprattutto dei germogli originati dalle gemme avventizie situate alla base delle piante innestate (polloni). Tali emissioni risultano indesiderate in quanto costituiscono un inutile spreco di risorse energetiche ai danni della produzione, creando disagi nella gestione delle pratiche colturali, nonché costituendo un rifugio per gli insetti dannosi o vettori di patologie. Inoltre le operazioni di potatura invernale divengono più onerose e costose se non si procede a eliminare i polloni nel periodo vegetativo, per cui si rende obbligatorio il ricorso alle operazioni di spollonatura “al verde” durante il periodo primaverile-estivo. Spesso viene effettuata manualmente, richiedendo però un notevole dispiego di manodopera. Per ridurre i costi si ricorre talvolta alle operazioni meccanizzate, anche se il loro impiego risulta spesso dannoso in quanto può arrecare gravi abrasioni e ferite, con traumi per l’intera pianta e la compromissione dello stato fitosanitario a seguito della diffusione di patologie come per esempio la valsa. Un’altra alternativa è la spollonatura chimica effettuata con glufosinate ammonio, con azione congiunta nei confronti della maggior parte delle malerbe presenti sotto le file delle piante di pesco. In tal caso occorre intervenire su polloni di consistenza erbacea, lunghi appena 15-20 cm o comunque prima della loro lignificazione, con un’unica applicazione o meglio mediante due interventi ben cadenzati che consentono di ottimizzare anche il contenimento delle malerbe.
Polloni radicali di mirabolano, eliminabili con decespugliatore a corda oppure, allo stato erbaceo, anche con disseccanti fogliari come glufosinate ammonio
Aspetti collaterali nell’impiego del diserbo
• Per i diserbanti ad azione fogliare
sono: il grado di umidità del terreno e dell’aria, la temperatura, nonché lo stadio di sviluppo delle malerbe
• Per quelli ad azione residuale sono: la tipologia del terreno, la presenza di residui colturali o di foglie e le precipitazioni o gli interventi irrigui
Problematiche relative all’impiego irrazionale del diserbo In un contesto di gestione integrata delle malerbe con il ricorso ai mezzi chimici non si registrano, in genere, inconvenienti in seguito all’impiego ripetuto dei prodotti residuali e fogliari. Eventuali danni che si potrebbero riscontrare a seguito di un impiego irrazionale sono circoscritti prevalentemente ai giovani impianti, in particolare ove non si operi con adeguata sicurezza di impiego per un’insufficiente conoscenza dei meccanismi di selettività dei diversi principi attivi. In particolare, con portainnesti poco vigorosi e apparato radicale molto superficiale, occorre prestare particolare attenzione all’impiego degli erbicidi residuali, allo scopo di evitare intossicazioni delle giovani piante. È sconsigliato il ricorso al glifosate in presenza di giovani impianti e di polloni radicali, poiché quantità di principio attivo, seppur minime, possono essere assorbite dalle piante, soprattutto se non vengono utilizzate attrezzature schermate.
• Minore importanza rivestono gli aspetti collaterali negli impianti in produzione, più ombreggiati e con un microclima caratterizzato da un maggior tenore di umidità e rugiada, a differenza dei giovani impianti che nei periodi di siccità presentano malerbe più esposte agli avversi decorsi climatici e quindi maggiormente stressate, con una minore sensibilità agli erbicidi e conseguente riduzione del grado di efficacia
288
gestione erbe e polloni Il diserbo dell’intera superficie (non coltura), che prevede la totale eliminazione delle lavorazioni per la gestione delle malerbe, può essere praticato con precauzione nei giovani impianti per evitare danni da fitotossicità per via fogliare e anche radicale nel caso si utilizzino erbicidi ad azione residuale. Qualora venga adottato negli impianti in produzione su terreni collinari, occorre evitare di intervenire per periodi prolungati di tempo allo scopo di scongiurare l’insorgenza di una flora di sostituzione e di selezione di malerbe chemioresistenti e arbustive di difficile gestione e contenimento, oltre al possibile rischio di accumulo di residui nel terreno e di danni da fitotossicità alle piante. I sovradosaggi vanno sempre evitati, in particolare dove si praticano abbondanti interventi irrigui su terreni più sciolti e dotati di un minore potere adsorbente. Le soluzioni erbicide a base di prodotti sistemici non selettivi come il glifosate possono essere assorbite tramite le lenticelle, abbondanti in tutte le drupacee. Negli impianti in produzione devono essere presi in considerazione la superficialità degli apparati radicali e il periodo della durata dell’abscissione delle foglie, che varia in funzione delle varietà coltivate e dell’andamento climatico, onde evitare il rischio di assorbimento dei prodotti sistemici e conseguente comparsa di gravi fenomeni di fitotossicità. L’apporto di dosi ridotte di oxifluorfen attivanti il glifosate deve essere eseguito con cautela negli impianti particolarmente bassi, allo scopo di evitare di danneggiare la vegetazione. In ogni caso è opportuno evitare di operare in giornate ventose e con barre non schermate, assicurando un ottimale grado di bagnatura delle infestanti e all’occorrenza dei polloni radicali. L’alternanza di diversi principi attivi e la diversificazione della gestione delle malerbe devono essere messe in atto al fine di scongiurare la comparsa di infestanti resistenti.
Corretto impiego delle attrezzature irroranti
• Con attrezzature irroranti non
sufficientemente efficienti e affidabili, occorre impiegare in via precauzionale glufosinate ammonio allo scopo di evitare danni da fitotossicità, permettendo di svolgere un’azione spollonante, nonostante l’eventuale presenza di malerbe perenni dove risulterebbe più indicato il ricorso al glifosate. Con le più difficili infestazioni di Convolvulus e Cynodon, che spesso non vengono sufficientemente devitalizzate, si consiglia di intervenire con dosi piene di glifosate durante il periodo di maggiore sensibilità (dopo le prime piogge estive), con l’avvertenza di intervenire esclusivamente sulle chiazze inerbite e di prestare particolare attenzione con l’utilizzo di apparecchiature completamente schermate e munite di campane di protezione o di attrezzature lambenti
Tradizionale impianto di pesco con lavorazione dell’interfila e diserbo sulla fila con disseccanti fogliari
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il pesco
coltivazione Post-raccolta Marta Mari
www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche. Crediti: le foto alle pagine 16 in alto a destra (Bvdc), 78 in alto (Huan), al centro (Pinkcandy) e in basso (Teoteoteo), 79 (Amitai), 80 in basso (Miszmasz), 81 (Looby), 82 (Karcich), 86 (Yasonya), 88 in basso (Lissdoc), 96 (Hurry), 98 in alto a sinistra (Hurry), 108 in alto (Tinker) e in basso (Meengen), 408 (Matka_wariatka), 409 (Elkeflorida), 416 al centro (Uksus) e in basso (Vladacanon), 417 in alto (Icefront), 421 in basso (Robynmac), 422 in alto (Palolilo), 474 in basso (Emily2k), 479 in basso (Elenathewise) sono dell’agenzia Dreamstime.com.
coltivazione Post-raccolta Foto E. Marmiroli
Introduzione La vita post-raccolta dei frutti inizia nel momento stesso in cui vengono staccati dall’albero e termina sulla tavola del consumatore. In seguito al distacco dalla pianta, se da un lato si interrompono gli apporti di acqua e zucchero al frutto, dall’altro continuano in esso numerosi processi fisiologici e metabolici (respirazione, traspirazione, intenerimento della polpa ecc.) a velocità strettamente correlata alla temperatura di conservazione. Pertanto, un abbassamento repentino della temperatura del frutto comporta un rallentamento della sua attività respiratoria e di conseguenza del rammollimento della polpa, prolungandone la vita commerciale. Per permettere un veloce raffreddamento dei frutti si utilizzano apposite celle, a elevata capacità frigorifera e dotate di un sistema di ventilazione forzata che consente in poche ore di allontanare il calore di campo e portare la temperatura dei frutti a valori prossimi a 0 °C. L’introduzione di avanzate tecnologie e le approfondite conoscenze della fisiologia dei frutti permettono la conservazione di pesche e nettarine anche per 1 mese. Questi risultati sono raggiungibili solo combinando tra loro diversi fattori, primo fra tutti l’anticipo di raccolta, che però va quasi sempre a scapito della qualità organolettica dei frutti. D’altra parte la commercializzazione di pesche e nettarine più mature, con migliori caratteristiche organolettiche, crea non pochi problemi tecnici legati principalmente a una ridotta vita di scaffale (shelf-life), a causa di una rapida e generalizzata senescenza
Conferimento delle pesche all’industria di lavorazione
Foto Orogel
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post-raccolta Conservabilità delle pesche a polpa gialla e bianca dopo un periodo di post-conservazione a 20 °C Cultivar
Foto E. Marmiroli
Giorni di conservazione a –0,5 °C 1
8
15
20
35
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Pesche a polpa gialla Maycrest Springcrest Springbelle Lara Star Royal Glory Royal Gem Rich Lady Maria Marta Red Top Diamond Princess Symphonie Suncrest Rome Star Fayette Elegant Lady Summer Lady Padana O’Henry Summer Rich Flavorcrest
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•• ••• •• ••• •• • ••• ••• ••• •• ••• • •• •• •• ••• •• • •• •
-
Raccolta (n. 3 stacchi) Trasferimento al magazzino (entro 1-2 ore)
Conservazione in atmosfera controllata (–0,5 °C; UR 90-95%; O2 1,5-2%; CO2 5%; 30 gg)
Lavorazione (10 °C)
Pesche a polpa bianca
••• ••• •• Maria Bianca ••• ••• ••• Maria Delizia ••• ••• •• Duchessa d’Este •• •• • Regina di Londa ••• •• • complessivo scarso; •• = giudizio complessivo medio; • = giudizio ••• = giudizio complessivo ottimo Rosa del West
Conservazione refrigerata (–0,5 °C; UR 90-95%; 20 gg)
• •• •• • •
• • • • •
Confezionamento (10 °C) Prerefrigerazione (0-2 °C) Trasporto (0-5 °C) Diagramma di flusso post-raccolta
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coltivazione Foto Orogel
Foto E. Marmiroli
Lavorazione del prodotto prima del confezionamento
con conseguente aumento degli scarti, dovuti soprattutto a patie infettive, in particolare durante le fasi di commercializzazione e consumo. L’impiego di un’idonea tecnologia di conservazione è quindi indispensabile per rallentare il processo di maturazione-senescenza dei frutti e impedirne un repentino decadimento dello standard qualitativo. Inoltre, non meno importante, la conservazione può avere lo scopo di prolungare il periodo di offerta mercantile, oppure, nei momenti di maggiore afflusso sul mercato, di sottrarre temporaneamente il prodotto in eccesso. Pesche e nettarine possono essere conservate da –0,5 a 0 °C, in refrigerazione normale (RN) per un massimo di 3 settimane; trascorso tale periodo, è probabile che compaiano danni fisio-
Appena raccolte, le pesche vengono caricate su un carro per essere trasferite al centro di conservazione e lavorazione Foto E. Marmiroli
Foto Orogel
I frutti scartati sono conferiti ai centri di raccolta separatamente da quelli sani Pallettizzazione
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post-raccolta Conservabilità delle nettarine a polpa gialla e bianca dopo un periodo di post-conservazione a 20 °C Cultivar
Foto Orogel
Giorni di conservazione a –0,5 °C 1
8
15
20
35
• • • • • • • ••• ••• •• • • •• •• • • •• • ••
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Nettarine a polpa gialla May Star Spring Bright Spring Red Big Top Superior Super Star Lydi Star Orion Stark Red Gold Lady Erica Maria Aurelia Nectaross Venus Maria Dolce Sweet Red August Red Morsiani 51 Sweet Lady Clara Morsiani 90 Rose Diamond
•• •• ••• •• •• ••• •• ••• ••• •• •• ••• ••• ••• ••• •• ••• • ••• ••
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• • • • • ••• ••• ••• •• •• • •• ••• ••• •• • ••• • ••• ••
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• • • -
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Reggettatura dei pallet destinati al commercio immediato
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Foto Orogel
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Nettarine a polpa bianca
••• ••• ••• ••• Silver Ray ••• ••• ••• •• Caldesi 2010 •• • • • Silver Giant ••• ••• ••• •• Silver Star •• •• • • Caldesi 2020 ••• ••• ••• •• = giudizio complessivo scarso; = giudizio complessivo medio; • •• ••• = giudizio complessivo ottimo Caldesi 2000
•• ••• • • • Etichettatura del prodotto
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coltivazione logici, quali pastosità o mal raggiante. Il ricorso all’atmosfera controllata (AC) (riduzione della concentrazione di ossigeno e aumento dell’anidride carbonica) consente di prolungare il periodo di permanenza dei frutti, alle basse temperature, fino a 30 giorni. In linea generale, la formula adottata prevede una concentrazione dell’ossigeno dell’1,5-2% sia per le pesche sia per le nettarine, mentre quella dell’anidiride carbonica è rispettivamente del 5 e dell’8%. A causa della suscettibilità di pesche e nettarine al freddo, la refrigerazione non può prolungarsi eccessivamente, come d’altra parte anche la conservazione in atmosfera controllata; queste tecniche non sono facilmente generalizzabili e richiedono attente verifiche in funzione delle varietà. Alcuni parametri qualitativi, come l’aroma e l’acidità, sono sensibilmente influenzati da conservazioni prolungate, nonché dalla comparsa di alterazioni fisiologiche e parassitarie che si evidenziano in seguito all’innalzamento della temperatura durante le fasi di lavorazione e commercializzazione, e infine quando i frutti giungono nella casa del consumatore. Prima dell’immissione sul mercato, le pesche e le nettarine sono sottoposte alle seguenti lavorazioni: spazzolatura per ridurre la tomentosità (limitatamente alle pesche), calibrazione e confezionamento. In questa fase è molto importante ridurre al massimo i danni di origine meccanica (contusioni e ferite), che costituiscono i presupposti per successive infezioni da parte dei patogeni fungini. Un altro importante momento della vita post-raccolta di pesche e nettarine è rappresentato dal trasporto, che non può che essere refrigerato, soprattutto se i frutti devono raggiungere mercati lontani dalle zone di produzione. I frutti prerefrigerati sono caricati con l’utilizzo di tunnel estensibili, onde evitare l’interruzione della catena del freddo con conseguenti sbalzi termici che, producendo condensa sui frutti, favorirebbero le infezioni fungine.
Foto Apo Conerpo
Scarto per marcata area verde e rameggiatura su Sweet Lady Foto Apo Conerpo
Scarto per marcata fessurazione della polpa su Stark RedGold Difetti di buccia su Rich Lady (a sinistra); scatolato aperto su Flavorcrest (al centro); marcata deformazione su Royal Glory (a destra)
Foto Apo Conerpo
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post-raccolta Alterazioni post-raccolta Le più importanti micopatie che si riscontrano su pesche e nettarine dopo la raccolta sono: – marciume bruno da Monilinia spp.; – marciume nero da Rhizopus stolonifer; – muffa grigia da Botrytis cinerea; – muffa verde-azzurra da Penicillium spp. Occasionalmente su frutti conservati per periodi troppo lunghi o senescenti si possono rinvenire marciumi causati anche da altri patogeni: Alternaria spp., Cladosporium herbarum, Fusarium spp. I funghi fin qui citati sono tutti patogeni da ferita e penetrano nei frutti attraverso microferite prodotte da diverse cause come fori di penetrazione, punture di insetti, microlesioni dell’epidermide per eccesso idrico, o traumi prodottisi durante le operazioni di raccolta e trasporto. Come già accennato, la refrigerazione delle pesche e delle nettarine comporta uno stress fisiologico nei frutti in grado di innescare processi patologici complessi e con sindrome assai articolata. Tra le fisiopatie si distinguono principalmente mal raggiante e pastosità. Queste alterazioni rappresentano un fattore limitante non solo per la conservazione ma anche per il trasporto, e la successiva distribuzione, e costituiscono un motivo di disaffezione da parte dei consumatori a questo tipo di frutto.
Alterazioni post-raccolta
• Le perdite causate da agenti
infettivi dopo la raccolta possono essere economicamente ingenti, in quanto i frutti raccolti, conservati e commercializzati presentano un valore aggiunto superiore rispetto ai frutti in campo. Inoltre, la legislazione europea non consente di effettuare trattamenti chimici sulle drupacee nella fase postraccolta; gli unici interventi ammessi sono trattamenti di campo, i cui esiti, se non correttamente eseguiti, sono a volte insoddisfacenti Foto R. Angelini
Foto E. Marmiroli
Foto R. Angelini
I danni provocati da numerosi insetti, per esempio da Cydia pomonella, favoriscono i patogeni del post-raccolta (in basso monilia sviluppata su foro di Cydia). Fondamentale risulta il controllo in campo
Tutti i fattori, biotici o abiotici, che determinano lesioni al frutto nella fase di campo facilitano l’ingresso dei patogeni responsabili delle micopatie del post-raccolta. È quindi indispensabile che i frutti danneggiati vengano conferiti separatamente rispetto a quelli sani
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coltivazione Micopatie Marciume bruno (Monilinia spp.) È tra le più importanti affezioni fungine che colpiscono i frutti di drupacee: si manifesta in campo, in prossimità della raccolta, ma anche durante la conservazione, la successiva fase di distribuzione e nelle case dei consumatori. L’agente responsabile è Monilinia, genere a cui appartengono tre specie: M. fructicola, M. fructigena e M. laxa, collettivamente definite “funghi del marciume bruno dei frutti” a causa della stretta somiglianza dei loro cicli biologici, dei sintomi prodotti e degli ospiti. La specie M. laxa è diffusa in ambito europeo; in Italia è maggiormente presente nelle regioni del Nord caratterizzate da più elevata umidità. Nelle regioni meridionali il patogeno compare meno frequentemente, tuttavia, in annate segnate da primavere piovose, può causare notevoli danni, soprattutto su ciliegio. Le perdite si aggirano mediamente attorno al 10-15% della produzione, ma spesso tali valori vengono abbondantemente superati, in particolare quando si verificano condizioni climatiche
Ciclo biologico dell’agente fungino responsabile del marciume bruno
• Il patogeno sverna, agamicamente,
sotto forma di micelio, nelle mummie e nei cancri rameali
• In primavera, produce un notevole
numero di conidi che possono infettare i fiori: dalla germinazione di questi conidi, l’infezione si propaga, attraverso il canale stilare, ai peduncoli fiorali e poi ai rametti, dove provoca la morte della porzione distale
• I conidi infettano i frutti originando
infezioni che possono rimanere latenti fino al sopraggiungere della maturazione. La penetrazione ha come vie preferenziali ferite provocate da insetti o da eventi meteorologici (grandine, freddo ecc.) o può avvenire tramite stomi e lenticelle. È importante anche la struttura della buccia: la cuticola presenta numerose microfessure, che possono raggiungere l’epidermide e talora le prime cellule dell’ipoderma. In tali microfessure si accumulano i conidi in attesa della germinazione, che avverrà in coincidenza di condizioni favorevoli
Ciclo biologico di Monilinia laxa
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296
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sua gravità durante la conservazione; qui le infezioni riescono a propagarsi molto rapidamente anche attraverso il contatto tra frutti infetti e frutti sani
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• La malattia si manifesta in tutta la
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post-raccolta favorevoli allo sviluppo del patogeno, come temperature miti, elevata piovosità e alta umidità relativa. M. fructigena attacca prevalentemente le pomacee e in maniera sporadica le drupacee. Sui frutti determina sintomi simili a quelli prodotti da M. laxa, anche se distinguibili da essi per la comparsa di fruttificazioni riunite in cuscinetti di colore nocciola e disposti a circoli concentrici. M. fructicola è, invece, il principale agente di marciume bruno nei Paesi extra-europei, dove produce gravi perdite, in particolare su pesche e nettarine, in Nord e Sud America, Australia e Nuova Zelanda. In Europa viene considerato un patogeno da quarantena e inserito nella lista A2 dell’European Plant Protection Organization (EPPO), in quanto ritenuto non presente. Una sua prima segnalazione ufficiale è stata, però, riportata in Francia e in un secondo tempo in Ungheria, su pesche importate dall’Italia e dalla Spagna. I primi sintomi di M. laxa compaiono in campo nel periodo primaverile. Sul pesco, alla base dei fiori infettati compaiono tacche imbrunite e depresse, localizzate intorno ai peduncoli fiorali, dalle quali spesso trasudano sostanze gommose. Le lesioni, poi, si estendono interessando l’intero diametro del rametto, con successiva formazione di cancri che determinano il disseccamento dei giovani germogli e l’avvizzimento delle foglie da essi portati. Questo tipo di danno genera dispendio energetico e stress per la pianta, ma non causa un’elevata perdita di produttività. I fiori e i frutti non ancora maturi disseccano rapidamente e restano attaccati alla pianta, rappresentando una notevole fonte di inoculo per le infezioni che si realizzano nelle successive fasi fenologiche e in particolare durante la maturazione. Ben più gravi sono gli esiti sui frutti che si manifestano con maggiore frequenza al sopraggiungere della maturazione. All’inizio compaiono piccole tacche brune circolari, che molto velocemente si allargano confluendo fra loro. Quando il marciume è abbastanza esteso, possono manifestarsi all’esterno, in corrispondenza delle aree colpite, le tipiche fruttificazioni del patogeno. Il processo di marcescenza progredisce fino al totale disfacimento dei frutti colpiti che si trasformano nelle caratteristiche mummie raggrinzite e accartocciate per effetto di successive disidratazioni. La malattia si manifesta in tutta la sua gravità durante la conservazione, a causa delle numerose infezioni latenti che si sviluppano solo quando il frutto è prossimo alla maturazione e che non sono visibili esternamente al momento della raccolta. Inoltre, sempre in conservazione, le infezioni riescono a propagarsi molto rapidamente anche attraverso il contatto tra frutti infetti e frutti sani.
Frutto con infezioni di marciume bruno
Marciume da M. laxa su pesche
Tipica manifestazione di marciume bruno
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coltivazione Per quanto riguarda la difesa, essa è incentrata su interventi in campo poiché, come già accennato, in Europa non sono ammessi trattamenti con fungicidi nella fase post-raccolta. In questo contesto assumono molta importanza tutti quegli interventi agronomici tendenti a ridurre il potenziale di inoculo del patogeno e a favorire lo sviluppo della pianta quali: eliminazione delle mummie e dei frutti marcescenti pendenti o già caduti a terra, asportazione dei cimali colpiti da cancri, mantenimento di una chioma ben aerata con potature in produzione. Sono inoltre sconsigliate le irrigazioni soprachioma, mentre le operazioni di raccolta dovrebbero essere molto accurate, onde evitare danneggiamenti, quali lesioni e ferite. Relativamente alla lotta chimica, i disciplinari di produzione integrata prevedono due o tre trattamenti: uno in fioritura-allegagione su varietà sensibili e in presenza di un andamento climatico piovoso e/o umido e uno o due in pre-raccolta su varietà molto suscettibili e a maturazione tardiva. Tra i principi attivi utilizzati, accanto ad alcuni di recente introduzione come i triazoli e le anilinopirimidine, ve ne sono altri come i dicarbossimidici, le triforine e i benzimidazolici, che, a causa di un uso prolungato in passato, hanno ridotto la loro efficacia, determinando la comparsa di ceppi resistenti. Sono allo studio numerosi biofungicidi a base di microrganismi antagonisti (batteri, funghi e lieviti) per trattamenti da effettuare in post-raccolta. I risultati fin qui ottenuti sembrerebbero promettenti, nonostante appaia ancora lontana una loro applicazione a livello operativo. Foto R. Angelini
Manifestazioni di monilia su frutti in postraccolta
“Nidi” di infezione formatisi per il contatto tra frutti sani e malati
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post-raccolta Muffa grigia (Botrytis cinerea) La malattia, anche se non in forma grave, colpisce i frutti durante le fasi di conservazione e distribuzione; in particolare, la sensibilità dei frutti aumenta se la conservazione si protrae per alcune settimane e se si è in presenza di varietà tardive. Normalmente la perdita di prodotto non supera il 2-3%. L’agente responsabile della muffa grigia è B. cinerea, un micete polifago che si insedia su quasi tutti gli ortofrutticoli in conservazione. Esso penetra facilmente attraverso le microferite createsi nei frutti in occasione della raccolta e delle manipolazioni di magazzino. I primi sintomi si evidenziano con tacche leggermente decolorate che in seguito virano verso tonalità più scure. Nei primi stadi di sviluppo tali sintomi sono facilmente confusi con quelli prodotti da M. laxa, ma la comparsa di una muffosità bianco-grigia, in ambiente a elevata umidità, o di abbondante sporificazione, in condizioni di bassa umidità, permette una facile identificazione. L’accrescimento del patogeno avviene anche a bassa temperatura (–1 °C) e su frutti non maturi, ma a temperature elevate (22-25 °C) è decisamente molto rapido; la buccia può fessurarsi, mentre è rara la formazione di “nidi”. Il patogeno si conserva sotto forma di micelio e sclerozi, sia in campo, sulle più svariate matrici vegetali, sia in post-raccolta sui residui di frutti marcescenti o altro materiale organico abbandonato negli ambienti confinati dove sono stivati i frutti, sugli imballaggi, nelle linee di lavorazione. A causa della sporadicità degli attacchi non sono previsti interventi fitoiatrici specifici per contenere le infezioni di muffa grigia; si raccomanda unicamente di evitare la formazione di condensa sui frutti, che avviene per effetto degli sbalzi termici o interruzioni della “catena del freddo”.
Sintomi di muffa grigia: l’alterazione iniziale del frutto può essere confusa con quella da Monilinia laxa
Tipica muffa grigia di Botrytis cinerea
Sporificazione di Botrytis cinerea su nettarina
Se i frutti sono contigui, si ha facilmente la trasmissione per contatto, con la formazione di “nidi”
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coltivazione Marciume nero (Rhizopus stolonifer) Il marciume nero, o deliquescente, colpisce i frutti dopo la raccolta e, in particolare, quelli sovramaturi. Lo sviluppo dell’alterazione è fortemente rallentato dalle basse temperature di conservazione, mentre si diffonde velocemente a temperatura ambiente determinando perdite, che, mediamente, non superano l’1-2%, soprattutto durante il trasporto e la commercializzazione. In condizioni favorevoli allo sviluppo della malattia le perdite possono raggiungere anche il 10%. L’agente responsabile del marciume nero è R. stolonifer. Da un punto di vista sintomatologico, sui frutti colpiti compaiono dapprima macchie di colore marrone-brunastro, poi brune, non infossate, a rapidissimo accrescimento. Una caratteristica del marciume prodotto da R. stolonifer è la facilità con cui, in corrispondenza del marciume, la buccia si separa dalla polpa sottostante. A temperatura elevata, e in presenza di frutti maturi, le lesioni si accrescono velocemente, ricoprendosi di una muffosità biancastra-lanuginosa, che dopo la maturazione degli sporangi vira dal bianco al grigio scuro-nero. A causa della spiccata azione pectolitica svolta dagli enzimi prodotti dal fungo, i frutti infetti perdono la loro consistenza e divengono deliquescenti, emanando un forte odore di fermentato. Il patogeno si conserva come zoospora sui residui di frutti marci, all’interno degli imballaggi e nel terreno; penetra attraverso le ferite provocate da punture di insetti, grandine e screpolature sui frutti. I frutti infetti caduti al suolo consentono a R. stolonifer di accrescere il potenziale di inoculo fino al momento della raccolta. Dopo tale fase il micete può diffondersi da frutto a frutto anche per contatto, senza la presenza di ferite, formando i caratteristici “nidi”. La progressione della malattia è strettamente correlata alle temperature di conservazione; ottimali sono quelle comprese fra 21 e 26 °C, mentre al di sotto di 5 °C non si ha né la germinazione delle spore né lo sviluppo del micelio. Non sono previsti interventi fitoiatrici specifici nei confronti di R. stolonifer, occorre però limitare tutti i fattori di rischio predisponenti: uno stato avanzato di maturazione dei frutti, la presenza di ferite, il ritardo nel condizionamento termico subito dopo la raccolta e la condensazione dell’umidità a causa di sbalzi termici. Prove sperimentali hanno messo in evidenza che livelli di anidride carbonica uguali o superiori al 20% riducono la velocità di crescita del micete.
Le manifestazioni, in campo, del marciume nero sono abbastanza rare
Micelio di Rhizopus stolonifer evaso dal frutto in seguito all’infezione
Se i frutti sono contigui, si ha con facilità la trasmissione delle infezioni per contatto
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post-raccolta Muffa verde-azzurra (Penicillium spp.) Su pesche e nettarine la muffa verde-azzurra è un’alterazione di scarso rilievo. Solo sui frutti lungamente conservati e senescenti (in particolare le susine) si rileva un’incidenza dell’alterazione superiore al 10%. L’agente eziologico è prevalentemente P. expansum, che si manifesta con sintomi diversificati a seconda della specie ospite: su pesche e nettarine si evidenziano piccole fessurazioni della buccia; l’area interessata all’alterazione presenta tacche di modeste dimensioni, leggermente infossate, di colore marrone chiaro, a cui corrisponde un rammollimento della polpa
Muffa verde-azzurra su nettarina
Muffa verde-azzurra
• I funghi del genere Penicillium
si moltiplicano su qualsiasi sostanza organica vegetale viva o morta e per tale motivo i loro conidi sono facilmente reperibili in tutti gli ambienti e in particolare all’interno dei centri di lavorazione della frutta
Muffa verde-azzurra
sottostante. Sui tessuti danneggiati compare poi la caratteristica muffa, dapprima biancastra, quindi, in seguito alla sporulazione, verde-azzurra. Il patogeno sulle drupacee è essenzialmente un saprofita, infatti è stato rinvenuto su frutti trattati con microrganismi antagonisti o con prodotti naturali utilizzati nella lotta contro M. laxa. Non sono previsti interventi fitoiatrici specifici nei confronti di P. expansum sulle drupacee, in quanto su frutti prontamente commercializzati dopo la raccolta, o conservati per un breve periodo, l’incidenza della muffa verde-azzurra è pressoché nulla.
Muffa verde-azzurra su pesca
Muffa verde-azzurra: si manifesta, dapprima, con una muffosità biancastra, che successivamente, al centro, vira verso tonalità azzurre
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coltivazione Prevenzione delle alterazioni post-raccolta Le alterazioni fungine che sviluppano in post-raccolta (soprattutto nei riguardi di monilia), richiedono interventi specifici da attuarsi in vegetazione nelle fasi di pre-fioritura e preraccolta. Epoca e numero di trattamenti sono legati alla coltura e varietà, all’andamento stagionale e al livello di rischio della zona. La scelta del prodotto dipenderà anche dal suo spettro d’azione (necessità di controllare nello stesso periodo altri patogeni) e, soprattutto per il pre-raccolta, dal tempo di carenza breve e dalla sicurezza di attestarsi, anche con trattamenti ripetuti, al di sotto del limite di tolleranza.
Strategie di difesa dalle alterazioni post-raccolta
Monilinia laxa è il patogeno di maggiore importanza in post-raccolta per tutte le drupacee
Trattamento con prodotto efficace nei confronti di monilia
Trattamento con prodotto efficace nei confronti di monilia a 14 e 7 giorni dalla raccolta oppure trattamento con prodotto ad ampio spettro d’azione 1 giorno prima della raccolta
Botrytis cinerea
Muffa verde-azzurra su nettarina Muffa nera su pesche in conservazione
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post-raccolta Fisiopatie Mal raggiante o imbrunimento interno L’alterazione si manifesta con un disfacimento gelatinoso-sugoso, di colore marrone scuro, con sfumature rossastre della polpa in prossimità del nocciolo. Inizialmente sono interessati solo uno o più settori del mesocarpo, in particolare attorno al nocciolo; poi, con un andamento circolare e centrifugo, il danno si estende verso la periferia con frange a raggiera, da cui il nome tipico della malattia. Rispetto alla temperatura, l’incidenza della fisiopatia segue un andamento tipicamente gaussiano: la temperatura critica è 2 °C, mentre con una temperatura leggermente inferiore a 0 °C, o superiore a 6 °C, il danno è minore. Il mal raggiante è influenzato dallo stato di maturazione dei frutti, dalla cultivar e dal tempo di permanenza alle basse temperature. Le cultivar più tardive risultano meno sensibili e i frutti raccolti a uno stadio di maturazione avanzato più suscettibili; inoltre la malattia è favorita da un andamento stagionale caldo. In relazione alla durata della conservazione i primi sintomi di mal raggiante si possono evidenziare dopo circa 20 giorni di conservazione, ma a volte anche più tardi, dopo 40 giorni circa. Il danno si evidenzia soprattutto quando, al termine della conservazione, i frutti rimangono per 2 giorni a 18-20 °C. Pastosità L’alterazione si manifesta con una spiccata aridità dei tessuti e, di conseguenza, i frutti perdono sia la freschezza e la succosità sia l’aroma. La pastosità rappresenta un’anomalia di maturazione ed è correlata alla suscettibilità varietale, allo stato di maturazione alla raccolta (più suscettibili i frutti raccolti precocemente) e alla durata della conservazione. Anche in questo caso la morbilità presenta un andamento gaussiano del tutto simile a quello del mal raggiante. Da un punto di vista eziologico l’alterazione sembra legata a uno squilibrio tra l’attività di due enzimi pectolitici: poligalacturonasi e pectin-metilesterasi. Durante la conservazione l’attività della poligalacturonasi è inibita a differenza dell’attività della pectin-metilesterasi che aumenta. Per cui si assiste alla deesterificazione delle pectine che prosegue anche a basse temperature, non seguita dalla depolimerizzazione. Le lunghe catene di pectine deesterificate, ma non depolimerizzate, legano l’acqua presente nell’apoplasto, formando una struttura simile a un gel nelle pareti cellulari e causando l’aspetto asciutto dei tessuti colpiti. Al fine di prevenirne la comparsa, si consiglia la raccolta a uno stadio ottimale, un ritardo della refrigerazione innescando la maturazione dopo la conservazione e prima della commercializzazione, facendo sostare i frutti a una temperatura minima di 15 °C. Inoltre è importante destinare alla conservazione solo le cultivar meno suscettibili, adottando l’atmosfera controllata e non protraendo la conservazione oltre i 30 giorni.
Sintomi di mal raggiante o imbrunimento interno
Pastosità
• L’alterazione compare dopo
la conservazione refrigerata, quando i frutti arrivano nella casa del consumatore. All’assaggio, le pesche affette da pastosità presentano una polpa cedevole, ma nello stesso tempo di consistenza elastica, priva di succosità e aroma avente spesso un sapore anomalo (fermentato)
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