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l’uva da tavola
paesaggio Uva da tavola in Puglia Donato Antonacci, Antonio Romito, Lucia Rosaria Forleo
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paesaggio Uva da tavola in Puglia Introduzione Analizzare il paesaggio significa studiarne l’aspetto strutturale, partendo dalla conoscenza degli aspetti morfologici, ecologici e antropici; in particolare analizzare il paesaggio agrario significa “osservare” quella porzione di territorio modellata nel tempo dall’esercizio di attività colturali e di allevamento da parte dell’uomo. Il paesaggio deve essere quindi visto come l’insieme di tutti gli elementi, i processi e le relazioni che costituiscono l’ecosfera affinché ne emerga la sua complessità. Oro-geografia essenziale della Puglia e origine del suo nome La Puglia, essendo la regione più orientale d’Italia, è da sempre il naturale ponte che unisce l’Europa occidentale al vicino Oriente. Essa si presenta di forma allungata con ben 784 km di coste e lambita dal mar Adriatico a nord e dal mar Ionio a sud. L’Appennino Dauno rappresenta il confine naturale con la Campania; il torrente Saccione e il fiume Fortore la separano dal Molise mentre la Fossa Bradanica insieme al fiume Bradano dalla Basilicata. La sua superficie è in prevalenza pianeggiante, infatti su 19.350 kmq il 53,7% (10.300 kmq) è piana, mentre solo l’1,4% (290 kmq) ha quote superiori a 700 m e il 45,2% (8760 kmq) può considerarsi area collinare. La vetta più alta della regione è rappresentata dal monte Cornacchia (1151 m s.l.m.) presente nel Sub-Appenino Dauno, mentre, nel Massiccio del Gargano abbiamo come quota massima il monte Calvo (1056 m s.l.m.), la parte
Vigneto di uva Italia coperto con copertura in plastica Foto M. Curci
Foto R. Angelini
Vista aerea dei tendoni tra Noicattaro e Rutigliano Le Murge costituiscono la parte centrale della Puglia
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uva da tavola in Puglia centrale della regione è caratterizzata dal rilievo delle Murge con la massima altezza raggiunta dal monte Caccia (680 m s.l.m.). La Penisola Salentina infine presenta alture con quote assai modeste (199 m s.l.m.), le cosiddette Serre Salentine. Tra il Gargano e le Murge si estende il Tavoliere, la seconda pianura italiana (4000 kmq), attraversata dai maggiori corsi d’acqua pugliesi, il Cervaro, il Carapelle, il Candelaro, il Fortore e l’Ofanto. L’idrografia superficiale è limitata a questi e pochi altri trascurabili corsi d’acqua; causa di ciò sono l’assoluta mancanza di spiccata orografia e la costituzione quasi tutta calcarea del terreno, il quale assorbe voracemente le precipitazioni piovose. La costituzione prevalentemente calcarea e la mancanza di idrografia superficiale sono alla base di alcune ipotesi sull’origine del nome della regione. Secondo alcuni autori il nome Puglia, dal latino Apulia, deriverebbe da a-pluvia, non precisamente nel significato letterale di “priva di pioggia”, ma in quello oraziano, cioè “assetata, arida”, anche se per altri autori questa denominazione antica della regione era riferita al popolo degli Apuli (dal greco iapudes) che si riferiva e identificava i popoli che venivano dall’altra sponda dell’Adriatico.
Orazio (Epodi, 3, 16)
• “Apuglia è detta, ch ’l caldo v’è tale che la terra vi perde alcuna volta la sua vertù e fruttifica male”
Ere geologiche Ere
Murge Le Murge, dalla voce latina murex-icis che significa “sasso sporgente”, insieme al Gargano e al Salento vanno a costituire l’Avampaese Apulo, vasta piattaforma carbonatica di età mesozoica, costituita da sedimenti calcareo-dolomitici di età triassico-cretacea, ricoperti da depositi detritici neogenici e quaternari, poggiante su crosta continentale. La piattaforma carbonatica presenta spessori complessivi differenti, così pure lo spessore dei depositi risulta minore sul versante adriatico e maggiore su quello ionico. Morfologicamente le Murge si presentano come un altopiano a forma di quadrilatero; si sogliono distinguere le Murge di NordOvest dalle Murge di Sud-Est, le prime più alte delle seconde. L’altopiano è bordato, parallelamente al mar Adriatico e al mar Ionio, da una serie di terrazzi. I terrazzi si sono formati nel corso del Quaternario a seguito del lentissimo sollevamento, dal mare, della zona murgiana; il mare, infatti, spianava i tratti costieri e creava delle fasce di terreni pianeggianti, che le successive fasi di emersione trasformavano in pianure litoranee prima e in terrazzi di altipiano dopo. Con il sollevamento definitivo dell’area di cui si fa riferimento, le terre venivano a contatto con gli agenti atmosferici, in particolare le piogge, che cominciavano a incidere le rocce formatesi durante il periodo plio-pleistocenico, creando le gravine, le lame e le doline. Si formavano, così, anche sedimentazioni di detriti di varia natura, quali calcari sabbiosi detti tufi, marne argillose e sabbie giallastre.
Quaternaria
Cenozoica
Mesozoica
Paleozoica
Periodi
Scala cronologica (Ma)
Olocene
0,01
Pleistocene
2 ± 0,6
Pliocene
7
Miocene
26
Oligocene
37
Eocene
53
Paleocene
65
Cretaceo
140
Giurassico
195
Triassico
230
Permiano
280
Carbonifero
345
Devoniano
395
Siluriano
435
Ordoviciano Cambriano Archeozoica
570 4750
Fonte: La nuova enciclopedia delle scienze Garzanti
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paesaggio Studio geo-pedologico Nella regione possono individuarsi grandi zone geo-pedologiche profondamente differenti tra di loro. Queste si differenziano principalmente in: Tavoliere, Gargano e Murge, fascia pianeggiante del Litorale Ionico e del Salento. Il Tavoliere nasce a seguito del riempimento del corrispondente grande bacino marino. I suoli risultano argillosi o argillo-limosi. Questo, anche per effetto delle “colmate” determinate da esondazioni dei corsi d’acqua del territorio, frequenti nella stagione autunno-invernale. In termini diversi, trattasi di terreni con media-elevata potenzialità produttiva. Altri pedotipi abbastanza diffusi sono: sabbio-limosi, sabbio-argillosi, sabbio-calcarei e sabbio-silicei. I relativi suoli sono al pari dei precedenti di media fertilità; va però notato che l’eliminazione del crostone mediante rottura, frantumazione e incorporamento nel terreno ne migliora le proprietà agronomiche. Questi terreni si incontrano nella zona del Sub-Appennino e lungo i corsi dei fiumi (Ofanto, Fortore ecc.) o sui pendii collinari emergenti dalla pianura. I tipi di suolo più diffusi sono però quelli derivati da calcari mesozoici e poggianti su di essi, che costituiscono la quasi totalità del promontorio garganico e della provincia di Bari, delle parti più elevate delle province di Taranto e Brindisi e delle cosiddette “Serre Salentine”, un insieme di modestissime colline alte meno di 60 m. Questi suoli, una volta noti quali “terre rosse mediterranee” hanno scarso spessore. Molto diffusi sono i terreni derivati dalle calcareniti pleistoceniche posti lungo il litorale a sud dell’Ofanto o ai piedi delle scarpate di frattura del Tavolato calcareo. In questi casi i substrati pedogenetici sono costituiti da tufi calcarei o sabbie cementate da calcare, ricchi di fossili, variabili per consistenza e spessore, poggianti direttamente
Foto R. Angelini
Foto R. Angelini
Terre rosse mediterranee nel Brindisino
Foto R. Angelini
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uva da tavola in Puglia su calcari mesozoici. La loro capacità produttiva dipende dallo spessore, a volte limitato, o dal contenuto in carbonati. Abbastanza comuni sono pure i terreni sviluppatisi su formazioni costiere, fluviali, lagunari e alluvionali, diffuse in particolare nel bacino dell’Ofanto e, in continuazione, nella vasta zona compresa fra il solco vallivo della Fossa Bradanica e il ciglio interno delle Murge, da Minervino a Laterza. Le superfici interessate da tali terreni sono piane e uniformi, a pendenza trascurabile. Tali terreni, fra i più produttivi della regione, non accusano problemi di drenaggio. Caratteristiche simili a questi ultimi posseggono i suoli dei terrazzi marini dell’Arco Ionico, tra la stretta pianura litoranea e i primi rilievi meridionali dell’altopiano delle Murge. Il territorio della regione Puglia nel quale la coltivazione di uva da tavola è maggiormente diffusa è caratterizzato quindi da terreni variabili per origine, natura e composizione fisica, ma sempre sufficientemente leggeri e drenati con prevalenza di quelli pianeggianti, del tipo terre rosse su roccia calcarea.
Foto R. Angelini
Foto R. Angelini
Aspetti climatici La Puglia è situata all’incirca tra 18°31’ (Capo d’Otranto) e 14°57’ (ansa del Fortore) di longitudine dal meridiano di Greenwich e tra 41°54’ (Peschici) e 39°47’ (Punta Ristola) di latitudine nord. I suoi confini sono bagnati per circa il 65% dai mari Adriatico e Ionio. Essendo il territorio praticamente privo di rilievi, la Puglia è una regione a clima spiccatamente mediterraneo, cioè caldoasciutto, con inverni miti, primavere corte, estati calde e lunghe e autunni piovosi. Il mese più caldo dell’anno è prevalentemente agosto mentre il più freddo è gennaio. Le temperature medie annue si aggirano su circa 16°. Le zone più fredde sono quelle condizionate dal fattore altitudine, cioè l’Appennino Dauno,
Vigneti e oliveti vicino alla costa ionica
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Pianura salentina con tendoni
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paesaggio il Gargano e le Murge, mentre la zona più calda del territorio risulta il Salento. Il regime pluviometrico della regione Puglia è quello tipico delle regioni caldo-aride, con piogge totali intorno a 550 mm/anno. Il mese più piovoso è ottobre, quello più secco luglio. In genere, l’80% delle precipitazioni annue cade nel periodo autunno-invernale, tra ottobre e marzo, mentre il restante 20% cade tra aprile e settembre. La regione Puglia è esposta in primavera-estate a correnti d’aria fredda in quota e provenienti da nord; pertanto può essere definita “grandinigena”, con danni che, a seconda dell’intensità della meteora, possono compromettere la produzione pendente e, in maniera meno grave, quella dell’anno successivo.
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Vite a uva da tavola nel paesaggio agrario pugliese La Puglia, come conseguenza delle vicende storiche vissute nel periodo compreso fra l’epoca protostorica e la fine del Medioevo, è stata un crocevia di popoli provenienti da nord e da sud (fenici, greci, bizantini, svevi, angioini, spagnoli) i quali vi hanno dimorato in tempi successivi e vi hanno lasciato la loro impronta, anche nella viticoltura. La vite ha trovato in Puglia le sue condizioni ideali di sviluppo; infatti per svilupparsi in modo ottimale deve crescere in un ambiente caldo e con elevata eliofania, mentre teme il freddo e l’umidità. Le piogge che precedono la vendemmia non solo diluiscono i succhi abbassandone il titolo zuccherino, ma rendono più sensibili gli acini all’attacco dei marciumi. Cresce bene, quindi, nei Paesi a clima asciutto, caldo o temperato come quello dei paesi del bacino del Mediterraneo. Periodo preistorico. In Puglia le più antiche manifestazioni umane risalgono al primo periodo dell’era quaternaria, definito glaciale o pleistocene.
Foto R. Angelini
Oliveti e tendoni di uva da tavola presso il dolmen di Bisceglie (BA)
Foto R. Angelini
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uva da tavola in Puglia Interessante risulta il periodo neolitico, quando l’uomo pervenne a un’economia basata sull’agricoltura non più nomade ma stanziale. Sono di tale epoca i resti di circa 200 insediamenti, rinvenuti nelle zone marginali del Tavoliere, dove la vite era molto presente. Dai Fenici all’inizio della colonizzazione greca. I Fenici, che conoscevano e praticavano la viticoltura già nel 2000 a.C., nella loro azione colonizzatrice introdussero nella regione nuove varietà di vite e nuove tecniche colturali. Poi, nel XV secolo a.C. iniziarono i contatti con i greci, più esattamente di navi micenee con il Meridione d’Italia, che si protrassero fino al XII secolo. La colonizzazione micenea determinò i primi rapporti dell’Apulia con l’ellenismo e la schiusero alla storia. Con l’inizio della colonizzazione da parte dei Greci, nel VII secolo a.C., si avviò una conduzione agraria organizzata, con fattorie presenti sul territorio e con una vera e propria programmazione delle infrastrutture, dando luogo a ordinati assetti locali, con una fitta rete di centri abitati, che fino al IV secolo a.C. caratterizzarono il territorio. La colonizzazione greca integrò la sua cultura con quella locale, dando seguito a un’influenza greca già intervenuta anteriormente alla colonizzazione stessa. Esaminando la distribuzione delle antiche presenze etniche sul territorio della penisola, si può osservare che a esse corrispondono assetti viticoli strettamente correlati alle etnie esistenti prima del processo di colonizzazione greca dell’VIII-VII secolo a.C. Declino delle colonie greche. Alla fine della II guerra punica, Roma espropriò una rilevante parte del territorio delle antiche pòleis e lo trasformò in ager publicus, con la conseguenza del riaffermarsi dell’agricoltura estensiva e la scomparsa di tutte le coltivazioni intensive quale per esempio la vite, alla quale invece era stata dedicata una grande cura dai coloni greci. Venuta così meno
Foto R. Angelini
Foto R. Angelini
Tendone coperto a Noicàttaro (BA)
Foto M. Curci
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paesaggio l’agricoltura intensiva, sulla quale si basava in buona parte la loro economia, le colonie greche si avviarono al definitivo tramonto. Si costituirono così vaste proprietà terriere e grandi allevamenti di bestiame, particolarmente in Sicilia e nell’attuale Puglia. Sotto il dominio di Roma. L’occupazione romana trova in Puglia un paesaggio contraddistinto da una diffusa e fiorente viticoltura, con vigneti poli-varietali, costituiti da vitigni di uva da tavola e da vitigni di uva da vino. Nel III secolo a.C. cambia nuovamente il paesaggio pugliese. Il modello di occupazione agraria delle fattorie cominciò a entrare in forte crisi, passando a quel latifondo che durerà per molti secoli. Il territorio pugliese venne ristrutturato in funzione della politica mediterranea della potenza romana, divenendo così prevalentemente una regione di semplice attraversamento per i collegamenti con l’Oriente. L’Apulia si avvantaggiò di un lungo periodo di tranquillità e di un certo benessere che poggiava sull’ordine giuridico, sulla sicurezza civile, sulla buona amministrazione, sulla costruzione di strade ed edifici pubblici nonché sull’esportazione di animali da carne dalla Daunia e di olio di oliva dalla Peucezia e dall’attuale Salento, allora denominato Calabria. La viticoltura fu attiva nella parte settentrionale della Puglia, mentre un grande impulso fu dato, specialmente nella parte meridionale, all’olivicoltura. Tale situazione durò fino alla conquista bizantina, nel VI secolo d.C., e al collasso dell’organizzazione romana. Vite nel passaggio dal periodo bizantino al Medioevo. Nel periodo bizantino non cambia significativamente l’assetto del territorio. Le proprietà monastiche intrecciano rapporti con quelle private. Si diffondono le colture sostenute dal monachesimo greco (X sec. d.C.) e in particolare la sericoltura. Nelle documentazioni delle proprietà monastiche si citano vigne di 6000 ceppi. La vi-
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Trani: vista sulla cattedrale (XI-XIII sec.) posta in riva al mare di fronte al castello normanno-svevo
Foto S.Somma
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uva da tavola in Puglia ticoltura, anche se su piccola dimensione, continua a esistere. Nel X e XI secolo riparte un processo di rinascita agricola, in una facies economica del tutto diversa rispetto all’antico assetto produttivo del territorio, esistente prima della conquista romana. In tale situazione la viticoltura, pur cominciando a riaffermarsi, non viene utilizzata come coltivazione caratterizzante. Dal Medioevo al XVI secolo. Il Medioevo ebbe inizio con la caduta dell’Impero Romano, ma per l’Italia meridionale i primordi si verificarono dopo la dominazione bizantina. Successivamente, con l’arrivo dei Normanno-Svevi, per il regno delle due Sicilie e in particolare per la Puglia fu un secolo d’oro. Lo stesso Federico II, visitando le masserie della Puglia, impartiva disposizioni circa la loro conduzione, insistendo sull’impianto di oliveti e vigneti. Nella provincia di Bari i primi riferimenti scritti, comprovanti l’esistenza nella zona dell’uva da tavola in particolare, si identificano nei catasti antichi, così come anche nelle dichiarazioni dei redditi contenute nei registri fiscali del Cinquecento. Dall’analisi di tali documenti, emerge che gli appezzamenti terrieri individuati nella Terra di Bari, coltivati a viticoltura da tavola, costituivano, in numero (essendo indicati negli antichi catasti a corpo e non per superficie), il 24% dei terreni coltivati nella provincia di Bari. Dalle fonti storiche su citate, inoltre, emerge una funzione sociale dell’uva da tavola dei territori di Bari. Infatti, poiché il Cinquecento, nella storia locale, è caratterizzato da un incremento della pressione demografica, la coltura dell’uva da tavola diventa essenziale per la sopravvivenza della popolazione, soprattutto quella detenente o, comunque, occupata in appezzamenti di piccole dimensioni e, quindi, meno agiata. Infatti, poiché richiede un minor numero di anni per diventare produttiva, la vite è la coltura
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Castel del Monte
Il castello di Federico II a Castel del Monte domina ancora oggi la Terra di Bari. Federico II favorì l’impianto di oliveti e vigneti, in particolare nella Terra di Bari, già a quel tempo destinata per il 24% a vite da tavola
Foto R. Angelini
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paesaggio più adatta a soddisfare le esigenze dei piccoli produttori, i quali non avevano la possibilità di attendere il compimento di un più lungo ciclo di anni dopo l’impianto iniziale della coltura. Nel caso specifico, queste necessità stimolavano un processo di valorizzazione fondiaria su terre da lungo tempo non coltivate a causa del progressivo impoverimento del suolo. Per tutta la durata del XVI secolo, si rinvengono nei protocolli notarili numerose concessioni di terre sterili che, mediante forme contrattuali a lunga scadenza, prevedono l’attuazione di miglioramenti fondiari con l’inserimento della coltura della vite. In definitiva, durante il XVI secolo, nella provincia di Bari si evidenzia un incremento della viticoltura da tavola, con un aumento della superficie coltivata, dipendente anche dalla pratica di contratti di concessione ad plantandas vites che si moltiplicano sui terreni incolti o si rinnovano sui vigneti vecchi. Arrivo in Europa di tre nuovi pericolosi parassiti della vite. Le vicende storiche susseguitesi dalla scoperta dell’America, avvenuta nel 1492 (che segna la fine del Medioevo), ebbero grandi ripercussioni sulla viticoltura dei Paesi europei; infatti oltre all’introduzione di nuovo materiale vegetale arrivarono anche nuovi parassiti che avrebbero rivoluzionato la viticoltura del vecchio continente. La comparsa delle avversità introdotte dall’America portò a cambiamenti che rivoluzionarono la stessa tecnica di coltivazione. A distanza di pochi anni, si diffusero tre pericolosi parassiti, ognuno dei quali, ove non adeguatamente combattuto, poteva portare alla scomparsa della viticoltura. Si trattava dell’oidio, della fillossera e della peronospora.
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Oidio
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Fillossera Peronospora
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uva da tavola in Puglia Situazione viticola pugliese verso la fine dell’Ottocento. Nel 1896 le caratteristiche della viticoltura pugliese in uno scritto dell’epoca vengono indicate così: “Uniformità di vitigni a uva nera o rossa, i quali si riducono a una o due varietà, nei vigneti via via piantati da un ventennio a questa parte; promiscuità di vitigni a uva nera o rossa e a uva bianca nei vecchi vigneti, dove assai numerose sono le varietà di essi vitigni e non poca confusione regna nella loro sinonimia. In ogni luogo si suol dare la preferenza a pochi, i quali, si può dire, caratterizzano il sito stesso”. Circa il sistema di allevamento: “La vite si suol tenere bassa, senza sostegno, a coltura esclusiva, e forma immensi vigneti; in qualche contrada però è allevata più alta, sostenuta o da canne o da paletti; e in qualche luogo si marita anche all’albero, ma siffatto sistema di coltura è davvero assai raro ed eccezionale. Più frequente è l’uso dei pergolati”. A testimonianza di come non vi fosse una netta separazione spaziale tra vigneti da tavola e vigneti da vino, la Baresana, tipico vitigno da tavola, veniva spesso elencata tra i vitigni da vino coltivati in Puglia. Il Froio nei suoi Studi ampelografici della provincia di Lecce-Bollettino Ampelografico (1881) ci dà informazioni circa i vitigni da tavola maggiormente presenti all’epoca nella nostra regione. Tra le nere vi sono Menna‑Vacca e Moscadellone nero; tra le bianche Moscadellone, Prunesta bianca e Uva lunga; tra le rosse vi è la Prunesta. Lo stesso Di Rovasenda nel Varietà coltivate in Puglia. Saggio di un’ampelografia universale (1877) ci riconferma la presenza sul territorio pugliese dei vitigni Moscadellone bianco, Menna di Vacca e Prunesta; ma a questi aggiunge Lattuario bianco, Lattuario nero, Olivella, Pizzuto nero, Prunesca bianca, Prunesca nera, Rossa di Bitonto, Uva lunga bianca e Uva sacra bianca. Molto probabilmente Prunesca potrebbe essere sinonimo di Prunesta, mentre Lattuario e Turca bianca non sono altro che sinonimi di Baresana, questo perché lo stesso vitigno in aree geografiche differenti veniva individuato con nomi diversi. Sicuramente si cominciava a guardare al vitigno come fattore importante per dare una migliore base qualitativa alle produzioni. Infine su questo argomento: “… il piantare le diverse qualità in quadri separati è un fatto compiuto, resta la scelta razionale dei vitigni; qualche cosa si va facendo, il tempo, lo studio e l’intelligente volere faranno il resto”. Si assiste, quindi, alla nascita di una sensibilità specifica che porterà alla realizzazione di vigneti appositamente dedicati alle uve da tavola, sui quali praticare le tecniche colturali più adatte per la produzione di uve destinate al consumo fresco. In un articolo redatto in occasione della mostra di uve da tavola di Portici (NA) del 1900, si riferisce che il Prof. Montanari così ebbe a esprimersi: “La provincia di Bari ha riportato la palma, sia per la qualità che per la quantità della produzione, sia per la lavorazione di questa che per l’imballaggio… Detta provincia dà veramente alla Patria
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Masseria, oliveti e vigneti Foto R. Angelini
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paesaggio un ottimo esempio d’industria paziente e sagace delle uve mangerecce. … e del prodotto i baresi hanno saputo procurarsi lo smercio nell’Alta Italia e all’estero, in Isvizzera e Germania specialmente … Insomma, si tratta di una industria quasi perfetta, a basi solidissime, che acquisterà sempre maggior credito e la quale può servire di modello a ogni altra provincia d’Italia”. Fu Sergio Musci che nel 1869 dette corso da Bisceglie (Bari) alle prime spedizioni di uva da tavola verso Milano, Torino, Bologna, mentre nel 1880 dalla Puglia il cav. Francesco De Villagomez, sempre biscegliese, iniziò le spedizioni di uva da tavola in Germania. I mercati di quel fine secolo erano, come visto, soprattutto Germania e Svizzera. Per l’Inghilterra, che consumava più uva fresca di Germania e Svizzera unite e che importava soprattutto dalla Spagna, si opponevano questioni di trasporto e questioni di qualità. Comunque la via era aperta e l’esportazione si faceva strada e così dal 1905 anche la statistica doganale italiana iniziava a distinguere finalmente l’uva da tavola da quella da vino. Inoltre con la lunghezza del viaggio, prendeva sempre maggiore consistenza il problema della conservabilità del prodotto (a raspo verde o a raspo secco) e quello pugliese cominciava a mostrare anche in questo campo migliore attitudine poiché, anche se un viaggio Bisceglie‑Berlino o Amsterdam durava 6 giorni, le uve si conservavano bene per un tempo doppio. A riguardo F.A. Sannino nel 1910 insisteva, dopo una visita a Catania, dove il Comm. Dante Marchiori di Lendinara gli faceva osservare che per l’esportazione all’estero i negozianti del Piacentino profittavano delle uve pugliesi e algerine trascurando quelle siciliane meno resistenti ai trasporti: “orbene, in Sicilia non si dovrebbe esitare a introdurre la coltivazione delle buone varietà della provincia di Bari ... Come si vede, il problema è essenzialmente ampelografico...”. È del 1913 un’altra importante annotazione di F.A. Sannino che consigliava di coltivare le uve tardive solo nei paesi del sud della nazione proprio perché, diceva, “il maggiore nemico è l’umidità”. Si iniziava anche a parlare ufficialmente di ampeloterapia, ma soprattutto si proseguiva a dibattere di problemi tecnici riguardanti la base ampelografica, le forme di allevamento, le tecniche di conservazione, perché sempre più emergeva l’importanza della dilatazione del periodo di commercializzazione. Dimostrazione di una “vocazione”, data da clima, orografia e suolo, che l’uomo ha reso produttiva, applicando metodi e mezzi colturali adatti a questa realtà ambientale, andando così di conseguenza a creare il paesaggio attuale. Con queste note, si definisce un primo periodo, precedente la crisi provocata dall’infestazione fillosserica, nel quale da una coltura empirica e arcaica emergevano le prime indicazioni tecniche e coerenti indirizzate verso la qualificazione delle produzioni. Problemi tecnici della nuova viticoltura pugliese all’inizio del XX secolo. La Puglia, prima che la fillossera devastatrice avesse
Primi dati per il 1905-1908-1909 di uva esportata (soprattutto in Germania) Anno
q
1905
147.202
1908
338.165
1909
274.440
Foto G. Cortese
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I tendoni di uva da tavola si spingono fino alla costa adriatica e cingono le città
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uva da tavola in Puglia fatto in essa la sua triste apparizione, possedeva una superficie vitata di 319.091 ha, mentre dopo il suo avvento la superficie vitata rimasta si calcolava intorno ai 63.000 ha. Il Cav. Prof. Giuseppe R. Musci, Delegato tecnico, direttore dei Consorzi Viticoli in Bari, nel 1921 nella sua relazione I problemi tecnici della nuova viticoltura pugliese mette in evidenza come la Puglia, una delle regioni d’Italia più adatte alla coltura della vite, per le sue speciali condizioni climatiche, con l’avvento della fillossera abbia perso non solo i suoi lussureggianti vigneti ma si è trovata a fronteggiare una vera questione sociale dovuta allo spettro della disoccupazione. La coltura della vite, infatti, investiva tutta l’economia della regione pugliese. Il problema della ricostituzione dei vigneti su ceppo americano apparve da quel giorno in tutta la sua entità e importanza, in questa fase di ricostituzione i porta‑innesti consigliati per il “serio e sicuro affidamento per l’adattamento ai diversi terreni” furono il 420 A e il 3309. Data la natura prevalentemente calcarea del suolo, per lo scasso dei terreni si faceva spesso ricorso agli esplosivi residuati dalla guerra. L’uomo, da sempre, ha dovuto adoperarsi per utilizzare il territorio a sua disposizione per i suoi fini; in questa realtà territoriale il viticoltore è stato costretto a modificare maggiormente le forme dell’ambiente trovato, per renderlo produttivo. Solo in questo modo sono state portate a coltura ampie superfici altrimenti destinate a rimanere marginali. L’opera più mirabile di utilizzazione e trasformazione economica l’uomo l’ha fatta in Puglia, proprio con quel materiale calcareo che costituisce l’ostacolo maggiore alla floridezza agricola delle terre pugliesi. Nelle campagne l’agricoltore ha raccolto una a una le pietre sparse nel suo campo, le ha accumulate in un solo punto e ne ha fatto una specchia; le ha disposto al limite del suo fondo e ha elevato, al posto della siepe, il muretto a secco. Non mancarono in Puglia impianti di vigneti da tavola fatti in consociazione con piante arboree; il piantamento in quadrato era il più diffuso anche se quello a filari semplici e abbinati si andava diffondendo per ragioni di economia, in quanto consentiva la sostituzione dell’aratro alla zappa per la coltivazione del vigneto. La coltivazione consociata ha caratterizzato il paesaggio per un periodo di tempo relativamente lungo, interessando soprattutto il territorio della provincia di Bari. Nei vigneti ad alberello e a spalliera, ai filari di vite si alternavano file di alberi di olivo, mandorlo, ciliegio e fichi. Non mancavano campi dove con le piante arboree si consociavano piante erbacee: frumento di grano duro, fave, ceci, cicerchia. In questo modo, in una realtà agricola caratterizzata da piccole proprietà e piccoli appezzamenti, la coltura promiscua poteva garantire la sopravvivenza e un certo reddito alla famiglia; poter utilizzare al meglio ogni singolo appezzamento, che le braccia di un’intera famiglia avevano strappato alle pietre, era un im-
Foto R. Angelini
Bisceglie vista dal porto naturale che sorge su una “lama”, tipica erosione profonda del territorio pugliese Foto R. Angelini
Bisceglie (vista dall’aereo) ha avuto un ruolo determinante dal 1869 per affermare l’uva da tavola nei mercati del Nord Italia prima e in quelli esteri poi, a fine ’800
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paesaggio perativo categorico e a ciò rispondeva questo tipo di coltivazione promiscua spinta. Le forti variazioni della superficie coltivata, la nuova organizzazione produttiva, che vedeva nuovamente la diffusa presenza della vite, anche in coltivazione promiscua con olivo e fruttiferi, o in coltura specializzata, caratterizzano l’evoluzione del paesaggio regionale. In questi anni si andavano affermando sempre più le varietà da tavola, tanto che al Congresso di Arboricoltura tenutosi a Napoli nel 1921, il Prof. Gaetano Briganti, fondatore e primo Direttore della cattedra ambulante di agricoltura di Bari, propose la diffusione della coltura delle uve tardive da tavola nella provincia di Bari. Mentre F.A. Sannino nel 1923 sulla Rivista di Ampelografia riferiva importanti considerazioni “per aumentare il consumo delle uve da tavola”, osservando che il consumo stesso andava soprattutto dilatato nei mesi di luglio e di agosto e che “volendo aumentare sul serio il consumo delle uve da tavola, bisogna diffondere, estendere la coltivazione delle varietà precoci...”. Altri problemi tecnici fondamentali, come ricordato, erano quelli della conservazione del prodotto oltre all’anticipo o posticipo della raccolta. Problemi ancora attuali che in questo periodo hanno profonde, sofferte, studiate, sperimentate, radici. L’87,5% della superficie coltivata si trovava nella provincia di Bari, la restante parte era suddivisa tra le altre quattro province. La proposta del prof. Briganti di diffondere le varietà tardive fu subito accolta e attuata dal dott. Musci che, insieme a Vito Dipierro, pioniere della viticoltura da tavola pugliese “moderna/ specializzata”, introdusse sia la Regina bianca o Mennavacca sia la cultivar spagnola Ohanez o Uva di Almeria. L’insegnante e imprenditore Vito Di Pierro, originario di Noicattaro (BA), si rese subito conto che la conservazione dei grappoli di Regina
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Ancora oggi l’uva da tavola in coltura specializzata si divide il territorio con le colture arboree Foto R. Angelini
A sud di Bari i tendoni di uva da tavola si alternano a ulivi, fichi e mandorli
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uva da tavola in Puglia bianca sulla pianta non era di facile attuazione, deducendo che quanto più i grappoli erano situati in ambiente asciutto e ben areato tanto più si sarebbero conservati bene sulla pianta. Pertanto l’introduzione delle varietà tardive provocò come primo effetto quello di pensare a una forma di allevamento che sostituisse il classico alberello pugliese e che fosse più alta ed espansa, tale da creare un ambiente asciutto e ben areato. Sull’argomento così scriveva Musci (1928): “Perché si possa ottenere una produzione abbondante e scelta, una maturazione completa e perfetta e una lunga serbevolezza è necessario adottare sistemi di allevamento piuttosto alti (pergolati), i quali servono ad allontanare, per quanto più possibile, l’uva dal terreno”. Da queste considerazioni l’idea di realizzare nel 1922-1923 l’elevazione della controspalliera a 1,7 m in un appezzamento del fondo denominato “La Serra” in agro di Noicattaro; la resistenza dell’armatura di sostegno ideata e appositamente rinforzata non risultò soddisfacente tanto che questa forma di allevamento fu subito abbandonata. Vito Di Pierro, su indicazioni di Musci, il quale aveva fatto una prima esperienza su un vigneto di San Francesco all’Arena, fu il primo a eseguire nel 1922 l’impianto della vite a tendone o pergolato su un terreno dell’agro di Noicattaro. La diffusione del sistema di allevamento a pergolato o tendone, a causa dei diversi problemi legati sia alla sistemazione dei sostegni (pali e fili di ferro) sia alla razionale determinazione dei sesti e alla potatura, per alcuni anni rimase circoscritta. È interessante ricordare come piante di vite allevate a pergola erano presenti in prossimità di case coloniche, all’ingresso di case padronali o nei cortili. Questo sistema si diffuse soprattutto nei dintorni di Bari e in modo particolare a Mola di Bari: molte vie dell’abitato presentavano maestosi pergolati che costituivano una caratteristica/ peculiarità della bianca cittadina. Intanto, nel 1926 veniva messa in commercio la nuova varietà Italia (ibridazione del Pirovano, di Bicane x Moscato d’Amburgo) come la migliore delle varietà da serbo della categoria di lusso e si evidenziava sempre meglio anche il problema delle uve senza vinaccioli: le apirene. Intanto una rassegna nazionale, tenutasi a Palermo nel 1931 con l’esposizione di 74 varietà, affermava che il 32% della produzione viticola era classificabile fra le uve da tavola e di questa la Puglia ne produceva il 18% affermandosi al secondo posto dopo il Lazio. Le varietà maggiormente coltivate in questo periodo cominciavano a essere Baresana, Chasselas e Regina, quest’ultima terrà degnamente i mercati anche nel periodo critico della concorrenza. Alla vigilia della Seconda guerra mondiale si faceva via via più evidente, quindi, l’avanzata delle zone meridionali del Paese, quali zone particolarmente vocate. La progressiva affermazione del “tendone” incide fortemente sull’evoluzione del paesaggio agrario.
Foto R. Angelini
Foto R. Angelini
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La progressiva affermazione del tendone ha inciso sull’evoluzione del paesaggio agrario
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paesaggio Viticoltura dell’uva da tavola dopo la Seconda guerra mondiale. Arriviamo così nel 1945, anno nel quale le statistiche denunciavano i seguenti dati: uve destinate al consumo diretto 3.874.000 q delle quali uve da tavola 1.336.000 q. Nel 1947, la situazione praticamente non era variata. La produzione nasceva già per oltre il 50% del totale in Puglia e Sicilia. L’esportazione, ripresa nel 1947, era di 160.000 q circa. Un terzo di questa uva era fornito dalla Puglia. Negli anni a seguire la Puglia s’imporrà finalmente come leader delle regioni italiane e la Regina sarà la varietà maggiormente presente nelle esportazioni. Alla fine del 1956, la coltura della vite specializzata col sistema a tendone risulterà ormai presente in quasi tutti i comuni della provincia di Bari. Il tendone, che ha una stretta analogia con la pergola, conosciuta già dagli Egizi, imprime al paesaggio il tipico aspetto definito dai francesi “paesaggio di mare” per la sensazione che si avverte nell’osservare, da postazioni elevate, la distesa di foglie verdi. Agli inizi degli anni ’70 la Puglia da sola raggiungeva una percentuale pari al 53% della produzione di uva da tavola nazionale, il paesaggio subiva quei cambiamenti che gli conferiranno peculiari caratteri, quali la regolarità (il succedersi di aree quadrate o leggermente rettangolari dei verdi tendoni) e la simmetria delle linee. Di pari passo continuava il crescente, eccezionale successo in esportazione, dimostrando quindi definitivamente il consolidamento della vocazione alla coltura in ben definite aree; si sottolinea comunque che oltre al favorevole ambiente ecopedologico si è anche definitivamente imposta una specializzazione dell’uomo a completare un quadro vocazionale più complesso. La Puglia diventa la regione di riferimento per l’uva da tavola che, per vaste aree, diventa la coltura caratterizzante il paesaggio agrario.
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Panoramica sulla viticoltura pugliese definita dai francesi “paesaggio di mare” per la sensazione che si prova nell’osservare dall’alto le distese di foglie verdi
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uva da tavola in Puglia Paesaggio della viticoltura da tavola nella Puglia di fine millennio. L’ultimo ventennio del secolo scorso è contraddistinto da una grossa novità: la messa a punto e il progressivo affermarsi della tecnica di coltivazione protetta, nelle sue diverse tipologie, per anticipo della raccolta, sotto rete, per ritardo della raccolta. I vantaggi consentiti da tale tecnica portano nel decennio successivo alla sua adozione sulla quasi totalità dei nuovi impianti. Oggi è impensabile realizzare un nuovo impianto di vigneto di uva da tavola senza predisporlo alla coltivazione protetta. Il tendone modifica il suo tetto, da impalco semplice a doppio impalco, modifica la sua sommità da pianeggiante a struttura con sezione triangolare, organizzata per reggere il telo o la rete di protezione su un filo di colmo (posto superiormente al filare) e con falde oblique, a spiovente, che quasi si collegano nei bordi inferiori, nel caso della coltura protetta per anticipo della raccolta, oppure lasciando fra questi un “canaletto” di ventilazione, nel caso della coltivazione protetta per ritardo della raccolta. Il paesaggio di Puglia cambia significativamente. Il sistema ambientale, infatti, non è qualcosa di stabile nel tempo, non può essere scisso dall’idea di territorio antropizzato: esso è il frutto di un’interazione secolare, continua, immancabile tra l’uomo e il suo territorio di insediamento. La nuova tecnica si contraddistingue per la migliore protezione naturale del vigneto nel suo complesso, della vegetazione e dei grappoli in particolare, da eventi climatici come le piogge, riducendo il rischio di attacchi di pericolose crittogame (peronospora, marciumi), migliorando la sostenibilità della produzione di uva da tavola. Man mano si perfezionano e si adeguano i materiali necessari per la realizzazione della nuova tipologia di impianto del vigneto, con copripali, legacci, varie tipologie di telo. Anche le nuove possibilità offerte dalle attrezzature mecca-
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Roccia calcarea frantumata
Martelloni in azione per frantumare la roccia calcarea
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paesaggio niche per la rottura e frantumazione delle rocce calcaree, così tipiche di larga parte del territorio pugliese e del Barese in particolare, hanno fatto conquistare di recente zone dove queste sono piuttosto superficiali, ampliando la coltivazione dell’uva da tavola su vaste aree ad andamento quasi terrazzato, con il loro dolce degradare dagli altopiani collinari delle Murge verso il mare, specialmente nel Barese e nel Tarantino. I terreni derivati dalla rottura della roccia fino a 80-100 cm di profondità e dal mescolamento dell’originario strato di terreno agrario superficiale, spesso alcune decine di cm, con la roccia calcarea frantumata, conferiscono al suolo che ne deriva una straordinaria capacità di ospitare la vite a uva da tavola, per la loro caratteristica di essere permeabili, sufficientemente dotati delle sostanze nutritive utili per lo sviluppo della vite a uva da tavola, di facile sgrondo delle acque in eccesso, con l’importante caratteristica di consentire rapidamente, già nel giorno successivo ad abbondanti piogge, il passaggio delle trattrici e delle attrezzature necessarie per gli interventi colturali eventualmente necessari. Infine, l’elevata disponibilità di calcio di questi terreni facilita la produzione di acini con buccia sufficientemente ricca di pectati di calcio, il cemento cellulare, che conferisce loro quella croccantezza particolarmente apprezzata dai consumatori. Negli ultimi tempi, la sempre più sentita esigenza di tutelare e salvaguardare il paesaggio sta portando verso la sperimentazione di interventi pre-impianto meno drastici, rispettando, nelle zone più regolari, la morfologia originaria delle superfici. Questo utilizzando per gli interventi più profondi la “rippatura” che non modifica la stratigrafia, oppure l’apertura di limitate trincee, larghe circa 30 cm, con l’ausilio di attrezzature meccaniche con apposita ruota dentata, solo in corrispondenza del filare.
Funzione dei muretti
• L’uso di tali muri, nonostante la tecnica
costruttiva sia rimasta nei millenni invariata, ha seguito l’evolversi del paesaggio agrario e il processo storico che lo ha plasmato. Pertanto abbiamo muri di tutte le età e caratteristiche; oltre che per le funzioni già citate, anche come recinzione, come mezzo di difesa del suolo nei terrazzamenti, come difesa del terreno contro l’azione violenta delle acque selvagge e del vento. Importante, specialmente in alcuni periodi del trascorso storico, con intensa attività antropica, la possibilità di delimitare le proprietà man mano più frammentate, nelle divisioni ereditarie o per altre motivazioni
• Il contadino sapeva quale fosse
il valore del terreno, di seguito al taglio dei boschi, esso non sarebbe stato più in grado di resistere all’impeto della corrente, e lo tratteneva con queste opere difensive, che egli incessantemente sorveglia ancora oggi, ripara, riadatta e ricostruisce. Essi rappresentano il più semplice strumento di resistenza che la natura abbia messo a disposizione dell’uomo in una terra povera ma sempre più densamente abitata. I muretti segnano l’inizio di una profonda trasformazione agraria, ma rappresentano nello stesso tempo l’inizio di una lotta senza fine
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Ceppo tra le pietre a Bisceglie
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uva da tavola in Puglia Muretti a secco nel paesaggio agrario pugliese Sull’altopiano delle Murge natura e storia si sono compenetrate per secoli fino a produrre un originale paesaggio agrario, unione di valori paesaggistici, naturalistici, archeologici e storico-culturali. Tra le dune calcaree, chilometri di muretti a secco si confondono con l’ambiente circostante. La ricchezza di pietre ha reso, tra l’altro, possibile la loro utilizzazione per delimitare i campi, interrompendo l’omogeneità del territorio, fungendo anche da corridoi ecologici, consentendo una continuità ambientale tra diverse aree e favorendo il mantenimento della biodiversità. I muretti a secco hanno da sempre accompagnato e contraddistinto le varie fasi di insediamento umano sul territorio e i contemporanei processi di messa a coltura dei suoli. Le prime costruzioni rurali che furono erette su questa terra di sassi probabilmente furono i muretti a secco. Assoggettare la terra del nostro territorio ha comportato da sempre una dura fatica per i nostri contadini; per bonificarla si rendeva necessario rompere la roccia affiorante, spesso rappresentata da strati sovrapposti di spessore variabile, da una decina di centimetri ad alcune decine. La loro rottura dava luogo a pietre abbastanza regolari e quasi parallele, suscettibili di essere sovrapposte, per la realizzazione di muri “a correre”. I blocchi o i grossi pezzi di calcare duro, divelti dai loro alloggiamenti, si prestavano alla realizzazione di muri e muretti di vario tipo. Questo soddisfaceva diverse esigenze pratiche: rendere più sicura la coltivazione da pascolamenti indesiderati, definire le proprietà di pascolo, rendere possibili sequenze di pascolamento. Il materiale calcareo veniva quindi utilizzato per delimitare i campi, e si sviluppò un’arte che, da padre in figlio, venne tramandata attraverso i secoli (quella dei “paritàru”).
Tecnica costruttiva dei muretti a secco
• Individuato il banco di roccia
(generalmente presente sotto pochi centimetri di suolo fertile), si costruisce la base composta da due file parallele di pietre grosse sulle quali si appoggeranno le altre, cercando di giustapporre le facce in modo da lasciare il minor spazio vuoto tra l’una e l’altra; gli interstizi vengono poi riempiti da materiale più fine. Raggiunta l’altezza desiderata, la copertura è generalmente effettuata con lastre di pietre poste di taglio. Infine si chiudono le eventuali fessure delle facciate inserendovi a forza schegge e scaglie di pietra
Muri paralupi
• I “paretoni” che, in particolare,
recintano alcune masserie presentano un elemento che li differenzia dagli altri muri a secco; la zona terminale del muro è infatti costituita da un cordolo rialzato effettuato con grosse pietre piatte (cappeddthi), che sporgono dal muro (verso l’esterno), in modo da impedire agli animali selvatici di arrampicarsi e penetrare all’interno del recinto, là dove ci sono animali di piccola taglia e da cortile: galline, oche, conigli ecc. In particolare questo tipo di muro è stato costruito per fronteggiare le volpi e i lupi (un tempo molto frequenti nel nostro territorio), da ciò deriva la loro denominazione: muri paralupi
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Chilometri di muretti a secco si confondono con l’ambiente circostante
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l’uva da tavola
paesaggio Uva da tavola in Sicilia Donato Antonacci, Lucia Rosaria Forleo
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paesaggio Uva da tavola in Sicilia Foto G. Cortese
Introduzione La Sicilia è l’isola più vasta e importante del Mar Mediterraneo, la più ricca economicamente e la più ricca di storia, vantando numerosi reperti di grande importanza artistica. Presenta un panorama vario, passando da zone lussureggianti di vegetazione a zone semi desertiche riarse dal sole. L’isola ha la forma di un triangolo irregolare, i greci infatti la chiamavano Trinacria, che significa “tre punte”. Una delle caratteristiche della Sicilia è l’alta densità della popolazione, presente maggiormente nelle zone costiere, che sono le più fertili ed economicamente più sviluppate. Tali privilegiate condizioni interessano soprattutto le zone costiere settentrionali e orientali, che fin dalla colonizzazione greca e araba furono irrigate e intensamente coltivate. La Sicilia è un’isola prevalentemente montuosa, con pianure di limitata estensione e brevi fiumi. Tutte le vette sono dominate dal cono dell’Etna, il vulcano più alto d’Europa (3263 m). Esiste un grosso contrasto tra il paesaggio lussureggiante di vegetazione delle zone costiere tirreniche e ioniche rispetto alle zone aride e spoglie dell’interno e della parte meridionale della regione. Clima e ambiente Da un lato la Sicilia ha un clima tipicamente mediterraneo, dall’altro la sua natura montuosa e collinare contribuisce ad attenuarne anche a breve distanza dalla costa gli influssi. Abbastanza uniformi sono peraltro le temperature estive, con medie pressoché Foto S. Somma
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uva da tavola in Sicilia superiori ai 24 °C; gli inverni sono miti solo nelle fasce costiere, con medie sui 10 °C, ma sono freddi nell’interno. La Sicilia si caratterizza maggiormente per due sole stagioni: quella piovosa, tra novembre e febbraio, e quella asciutta, tra giugno e agosto. Le piogge sono più scarse sulle pianure costiere, la piovosità si accresce infatti verso l’interno, con punte anche superiori ai 1000 mm sui rilievi più elevati. L’isola conserva varie zone di grande interesse naturalistico: il parco regionale dell’Etna con la sua magnifica varietà di ambienti vegetali a seconda del succedersi dei piani altitudinali (al piano inferiore la macchia mediterranea con lecci, mista alle colture di olivi e vite; poi querce e castagni tra i 1000 e i 1500 m; successivamente pini, faggi, betulle; infine la macchia mediterranea tra le scure rocce laviche). Vaste le distese di olivi, dai fusti contorti e dalla tipica chioma verde argentata, e di agrumi (limoni, aranci ecc.), integrate dall’importante presenza della vite. Nelle zone più aride si trovano facilmente cespugli spinosi, come i cardi, e piante di palma nana. Un elemento che caratterizza inoltre il territorio siciliano è la presenza di piante grasse. Tra queste spiccano le agavi, dalle lunghe foglie carnose striate di giallo lungo i bordi, che solo una volta, alla fine della loro vita, si ornano di un’alta infiorescenza gialla chiara, molte varietà di cactacee e gli immancabili fichi d’India, che formano delle vere e proprie distese di “palette” verdi punteggiate, in estate, dal rosso, dall’arancione e dal giallo dei frutti.
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Paesaggio agrario A causa della natura del paesaggio, costituito in massima parte da pendii piuttosto dolci e facilmente accessibili, si può affermare che gran parte del territorio della Sicilia interna sia stata per lunghissimo tempo soggetta all’azione dell’uomo, la cui azione ha provocato una profonda trasformazione del paesaggio vegetale. Il paesaggio agrario nasce dall’incontro fra le colture e le strutture di abitazione e di esercizio a esse relative. Dopo lo sfruttamento estensivo del bosco in epoca romana e bizantina e le alterne vicende che videro durante l’alto Medioevo l’ampliarsi e il restringersi degli insediamenti e della popolazione, la Sicilia all’inizio del ’400 era ancora ricca di boschi, peraltro già insidiati dalla crescente industria dello zucchero da canna, coltivazione introdotta dagli arabi e incentivata da Federico II di Svevia (successivamente, con la scoperta dell’America, gli spagnoli introdussero la coltivazione della canna da zucchero a Cuba e nel Messico, i portoghesi in Brasile, inglesi e francesi nelle Antille, in quei territori cioè dell’America centrale e meridionale che ancora oggi ne sono tra i maggiori produttori. Poiché lo zucchero delle Americhe era migliore e meno costoso, le coltivazioni spagnole e italiane scomparirono, insieme ai traffici con i territori arabi). Tra le formazioni boschive, oltre ai consistenti querceti da ghiande, sfruttati per l’allevamento dei
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paesaggio maiali, esistevano ancora vaste superfici costituite da sughera, cerro, leccio, castagno, frassino, olmo, acero, carrubo, lentisco, terebinto, mirto. Dopo la grande colonizzazione interna dei secoli XVI e XVII, iniziarono massicci disboscamenti, che in parte hanno portato all’impianto di vigneti o altre colture arboree, ma più frequentemente alla cerealicoltura e al pascolo, con rapido inaridimento dei terreni disboscati più declivi ed erosi, processo che oggi si aggrava ulteriormente per l’abbandono delle coltivazioni e dei terrazzamenti collinari. La pressione antropica ha confinato le aree con copertura vegetale naturale nei distretti più inaccessibili e naturalmente difesi dall’azione diretta dell’uomo. Le superfici investite dalle colture agrarie occupano in Sicilia il 70% dell’intera superficie dell’isola, mentre, per esempio, le aree boscate, compresi i popolamenti forestali artificiali, le aree parzialmente boscate e i boschi degradati coprono l’8% della superficie totale. Ne risulta un territorio fortemente antropizzato, nel quale il paesaggio delle colture ha un elevato potere di caratterizzazione ambientale. Oggi si avverte sempre più l’esigenza di valorizzare quei territori e quei suoli maggiormente vocati alle attività agricole, potenzialmente suscettibili di consentire i redditi più elevati in agricoltura, per i loro caratteri climatici, di giacitura, pedologici e ancora del livello di infrastrutturazione e di presenza imprenditoriale.
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Paesaggio viticolo nel passato La presenza importante dei vigneti si può far risalire alla dominazione araba (IX-XI sec. d.C.). Infatti, a quei tempi, erano frequenti i vigneti, condotti con tecniche non dissimili da quelle romane ma probabilmente, come riferiscono alcune fonti storiche, con un’attenzione particolare alla forma di allevamento che doveva rispondere anche a finalità estetiche. Infatti i giardini privati e reali erano il luogo privilegiato per l’introduzione delle specie nuove o della riscoperta di alcune prima non apprezzate. Avevano anche funzione di osservazione botanica e agronomica; erano luoghi speciali dove gli affari si mischiano al piacere, alla scienza, alle arti; le piante vi giungevano come curiosità ornamentali e, una volta riconosciuto un interesse economico, venivano riprodotte e diffuse nelle campagne. Documenti notarili, del notaio ericino Giovanni Maiorana, risalenti alla fine del XIII secolo, riportano come la gran parte dei poderi, dislocati in quelli che oggi costituiscono i territori autonomi di Erice, Valderice, Custonaci, Buseto Palizzolo, Castellammare del Golfo e Trapani erano coltivati a vite e come essi ormai rappresentavano una concreta realtà economica, andando così a modificare i connotati del paesaggio agrario. Inizialmente non vi era una netta distinzione tra la coltivazione di uve da vino e uve da tavola, infatti vitigni che diventeranno in seguito a vocazione prettamente vinicola venivano inizialmente coltivati anche per il consumo fresco. Un esempio ci viene dato dal vitigno Zibibbo,
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Tendoni di uva da tavola
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uva da tavola in Sicilia dall’arabo zebib, che significa uva secca, tipico dell’isola di Pantelleria. L’uva di questo vitigno veniva esportata allo stato naturale quale uva da tavola, commercializzazione che subirà negli anni la dura concorrenza delle nuove varietà e delle uve di terraferma. La sua coltivazione in terrazzamenti, costruiti dall’opera dell’uomo, caratterizza ancor oggi il paesaggio isolano. Le terrazze conferiscono al paesaggio un elevato valore estetico per la loro presenza ordinatrice e di connessione tra elementi di un paesaggio così ricco di contrasti da portare a scrivere che appare “un’opera più di giardinaggio che di agricoltura”. Ma con il passare degli anni la distinzione delle cultivar da tavola da quelle da vino diventerà sempre più marcata, fino ad arrivare agli inizi del ’900 dove la coltivazione di uva da tavola avrà ormai assunto dei propri connotati. In Sicilia, precisamente a Milazzo, un pioniere si metteva all’opera. Il Comm. Giuseppe Zirilli Lucifero nel 1887 aveva trasformato 14 ettari delle sue vigne a uva da vino in uve da tavola precoci con lo scopo di portare il prodotto in Germania come alternativa alle uve algerine. Dal ’900 iniziò così l’esportazione di Luglienga, Portoghese bleu e Chasselas di Fontainebleau, mentre venivano coltivate, a titolo sperimentale, Moscato d’Amburgo, Clairette Mazil, Gamay e Baresana. Furono piantati quindi altri vigneti a Spadafora, dove, oltre ai ricordati vitigni, furono coltivati Hoanez, Blak Alicante e Inzolia Imperiale. La produzione di uva da tavola, poi, nel 1933, si aggirava sui 142.720 quintali rispetto ai 317.090 quintali dell’uva da vino destinata al consumo diretto. Nei Nuovi Annali dell’Agricoltura, a cura del Ministero dell’Agricoltura e delle Foreste del 1934, venivano elencate le aree maggiormente vocate per la coltivazione dell’uva da tavola e veniva anche consigliato di disporre di irrigazione se si voleva produrre delle belle uve da tavola. Il Prof. Federico Paulsen nella relazione Per il miglioramento e l’incremento della coltivazione delle uve da tavola in Italia, del 1938, descrive come a Termini Imerese esistessero un centinaio di ettari di pergolati, situati quasi tutti nella conca di S. Leonardo, per la produzione delle tre uve da tavola tardive: la Ciminnita, la Marsigliana, di colore bianco, e la Lacrima di Maria, nera. Il principale mercato di consumo era Palermo, poi Catania. Viene anche detto che già nel 1929 erano attive le esportazioni all’estero; infatti, uva veniva spedita in Polonia e in Cecoslovacchia; citata anche “la concorrenza spagnuola che, con la Ohanez, offre, a minor prezzo, un’uva di qualità migliore e, soprattutto, più serbevole. Salvo casi eccezionali, la conservazione sulla pianta delle uve di Termini Imerese non va oltre le feste natalizie e la sua resistenza ai viaggi, alle soste di magazzino e a una conservazione in sostanze inerti, come si fa per l’uva spagnuola, non va oltre il gennaio, mentre che quest’ultima, com’è noto, arriva facilmente ad aprile e maggio. La minore serbevolezza delle uve di Termini Imerese è forse da attribuirsi, oltre che alla minore attitudine alla conservazione delle tre varietà rispetto all’Ohanez, anche all’am-
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Vista aerea dei tendoni coperti da rete Foto S. Somma
Baresana
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paesaggio biente e alla coltivazione: il primo troppo basso, chiuso e con terreno assai fertile che, già fresco di sua natura, viene frequentemente irrigato per le colture urtive che si fanno sotto i pergolati; e la seconda perché, con la consociazione di cui sopra, si ha una continua successione di culture erbacee che non solo sono irrigate, ma abbondantemente concimate con concimi organici”. Quindi, da questa descrizione possiamo dedurre come il paesaggio agrario fosse caratterizzato dalla presenza sul territorio di pergolati coltivati a uva da tavola, consociati a colture orticole. Sempre a questo periodo risalgono le prove, del Prof. Federico Paulsen, di adattamento e di affinità di innesto delle migliori uve da tavola con i principali soggetti americani. Soprattutto importanti sono le prove di coltivazione di uve da tavola precoci, Madeleine Angevine, Madeleine Salomon e le Luglienghe, con le quali è possibile ottenere dell’uva matura fra la fine di giugno e la prima decade di luglio, ossia con un anticipo di 15-20 giorni. Fra le molte uve a maturazione normale si ritrovano la Regina, lo Zibibbo, l’Italia, il Moscatello di Terracina, la Sultanina ecc. Venivano provati anche tre sistemi di coltivazione: ad alberello del tipo locale (ma con un sesto di piantagione più largo di quello comune), a cordone orizzontale speronato, con viti a 2 m fra le file e 1,5 m sulla fila, e a pergolati (come suggerito dal Prof. Longo). I pergolati erano però limitati alla sola cultivar Regina. Inoltre venivano provate in coltivazione varietà di uve apirene, per la produzione di uve passe senza vinaccioli (in sostituzione dello Zibibbo).
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Regina nera Foto S. Somma
Paesaggio viticolo oggi Grazie alla sua posizione geografica e alle caratteristiche climatiche, la Sicilia è oggi la seconda regione italiana (dopo la Puglia) per la produzione di uva da tavola. Il paesaggio del vigneto comprende espressioni differenti dal punto di vista percettivo, legate alle forme di coltivazione e al tipo di impianto, oltre che alla sostanziale differenza fra la produzione di uva da vino e di uva da mensa. La coltura della vite, molto diffusa in forma pura, raramente associata ad altre colture, tranne alcuni casi di associazione a seminativi, è estremamente varia sia per le tradizioni locali di coltivazione sia per la presenza di numerosi impianti recenti. L’accentuata frammentazione dei fondi, con presenza di siepi e viabilità poderale, inoltre, corrisponde in generale a un assetto agrario di tipo tradizionale, e particolarmente nelle aree collinari, rispecchia una situazione di diversità vegetale e animale più elevata. La coltivazione in forma intensiva dell’uva da tavola è iniziata intorno agli anni ’70, in sostituzione di colture come il grano, il mandorlo o la stessa vite da vino, là dove le condizioni pedoclimatiche lo consentirono. Oggi il comparto detiene un ruolo di rilievo nell’agricoltura regionale, infatti per molte vaste aree della Sicilia la viticoltura da tavola è un comparto produttivo molto importante che ha contribuito al progresso del reddito agricolo.
Regina bianca
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uva da tavola in Sicilia La coltivazione è concentrata principalmente nell’ambito di tre province, Agrigento, Caltanissetta e Catania. In particolare, la superficie investita a vigneti da tavola assume forti valori di concentrazione e di caratterizzazione del paesaggio agrario principalmente e per lungo tempo nel territorio dell’Agrigentino, specialmente per produzioni tardive. La Sicilia, attualmente, si caratterizza nel panorama della viticoltura nazionale per la peculiarità della coltura in serra, effettuata negli areali più precoci dei territori comunali delle province di Ragusa e Siracusa. Con la produzione proveniente dalle suddette tipologie colturali, il nostro Paese apre il calendario di offerta dell’uva da tavola in maggio. Nel corso degli ultimi anni, la distribuzione della coltivazione nelle diverse province siciliane sta registrando un drastico mutamento. La superficie vitata si è contratta nella provincia di Agrigento, nota per aver ottenuto l’Indicazione Geografica Protetta per l’Uva da tavola di Canicattì, con la varietà Italia, mentre si rileva un incremento sensibile nella provincia di Catania, dove la coltivazione si è diffusa, a partire dagli anni ’80, nell’hinterland del comune di Mazzarrone ottenendo anche qui IGP per l’Uva da tavola di Mazzarrone. Inoltre, misure della politica comunitaria hanno portato negli anni scorsi a notevoli “instabilità” dell’assetto complessivo del paesaggio colturale del vigneto, che ha visto contrazioni ed estensioni in dipendenza dell’erogazione di contributi per l’impianto e l’espianto. Sono state principalmente le aree collinari ad aver subito l’abbandono, con conseguente rapido inaridimento dei terreni più declivi ed erosi, con conseguenti mutamenti significativi del paesaggio.
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Italia
Red Globe pronta al taglio
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l’uva da tavola
paesaggio Uva da tavola in Basilicata Carmelo Mennone, Giuseppe Sicuro
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paesaggio Uva da tavola in Basilicata Areale di coltivazione La coltivazione dell’uva da tavola in Basilicata è praticata nell’area le metapontino, dove ha trovato condizioni pedoclimatiche otti mali che hanno favorito il conseguimento di un prodotto di alta qualità, apprezzato sui mercati nazionali e stranieri. Le miti condizioni climatiche invernali e le estati calde consentono una maturazione ottimale delle bacche, con un adeguato conte nuto zuccherino e un aroma gradevole. L’uva da tavola in Basilicata è stata introdotta a partire dagli an ni ’50, da agricoltori provenienti dalla vicina Puglia, regione che con i suoi viticoltori ha avuto un ruolo di primo piano non solo in questa fase di introduzione ma anche in quelle successive di rinnovamento. Il bacino di maggiore sviluppo è stato nei comuni limitrofi alla Puglia come Montescaglioso, dove nel 1950 vi è stato il primo tendone di uva da tavola presso l’azienda Caruso in contrada Tre selle. Negli anni ’70-’80 si è diffusa in tutti i comuni del litorale ionico, ma è nei comuni di Bernalda e Pisticci che ha raggiunto il culmine in termini di superficie e di innovazioni tecniche. La coltivazione ha avuto alti e bassi in funzione dei risultati com merciali, proprio in virtù di queste situazioni, l’imprenditore per
Uva da tavola in Basilicata
• La presenza dell’uva in Basilicata ha
origini antiche, difatti resti biologici di vinaccioli sono stati riscontrati in tombe rinvenute in scavi effettuati nel Metapontino, in particolare presso la necropoli dell’AASD Pantanello a Metaponto
Le Tavole Palatine, nel Metaponto, testimoniano la colonizzazione da parte dei greci e la loro influenza nello sviluppo della viticoltura nel Meridione d’Italia
Foto R. Angelini
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uva da tavola in Basilicata superare queste fasi critiche ha saputo aggiornare la coltura con l’introduzione di nuove varietà, tecniche innovative che hanno consentito di creare nuove tipologie di prodotto, di destagionaliz zare la produzione per coprire un’ampia fascia di mercato. Andamento delle superfici Certamente la Basilicata in termini numerici non compete con la limitrofa Puglia e la Sicilia, però la coltura dall’introduzione a oggi ha avuto forti impulsi innovativi, che hanno permesso di stare al passo con le esigenze provenienti dai mercati di com mercializzazione. Osservando l’andamento decennale della superficie si nota che nel 1971 era di circa 940 ha, salita a 1309 ha nel 1981. Dal decen nio successivo si è avuta una graduale riduzione, difatti nel 1991 si contavano 1167 ha, nel 2001 circa 530 ha, saliti a 864 nel 2007. Questa ultima inversione di tendenza nella superficie coltivata è dovuta soprattutto al rinnovamento varietale con l’introduzione delle uve apirene. Attualmente la superficie sembra che si sia assestata e i nuovi investimenti sono indirizzati alle uve apirene con calendario di raccolta che parte da luglio e si protrae fino a novembre, questo grazie a una maggiore disponibilità di varietà e ai sistemi di forza tura dell’epoca di raccolta.
Particolare della produzione di uva Italia, che ha rappresentato la varietà più diffusa nel territorio
Varietà La scelta varietale ha seguito le esigenze dei mercati nazionali, ma soprattutto stranieri. Difatti la maggior parte delle varietà di uva prodotte in Basilicata viene commercializzata sui mercati esteri, che sono particolarmente interessati alle innovazioni di prodotto. Un esempio è quello del mercato inglese che da sempre ha ap prezzato l’uva apirene. Le varietà coltivate nelle fasi iniziali sono state la Regina dei vigneti, la Primus e la Baresana. A partire dagli anni ’60 ven ne introdotta l’Italia, che soppiantò queste cultivar, si affermò sui mercati nazionali e stranieri, come la Germania, il Belgio, la Francia e il Regno Unito, e, ancora oggi, rimane la varietà mag giormente rappresentata. Un cambiamento importante si ebbe nei primi anni ’80 con l’in troduzione delle varietà apirene come la Regular Superior Seed less, la Early Superior Seedless, la Perlon e la Pasiga. Di queste introduzioni quella che ha dato i migliori risultati e che ha avuto ulteriore diffusione è stata la prima meglio conosciuta oggigiorno come Sugraone. Insieme alle uve apirene sono state introdotte quelle con semi con diverso colore della buccia come la bianca precoce Victoria, la nera Black Magic, la Red Globe a bacca ros sa. Delle tre quella che ha avuto maggiore diffusione, soprattutto negli anni ’90, è stata la Victoria, coltivata anche in coltura forzata per l’anticipo della raccolta.
Produzione di Crimson Seedless, che trova nel Metapontino condizioni ambientali favorevoli
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paesaggio Anche in questa regione inizialmente le uve apirene hanno avu to una diffusione molto lenta a causa delle difficoltà produtti ve, inizialmente attribuite alle caratteristiche varietali e non alle imperizie colturali. Nel corso degli anni le conoscenze tecniche delle uve apirene sono molto migliorate e grazie anche alle favo revoli condizioni pedoclimatiche esse si sono diffuse in maniera proporzionalmente maggiore rispetto ad altre regioni. La varietà apirena più coltivata è la Sugraone, che lungo la fascia litorale ionica esprime eccellenti performance quali-quantitative. Ben rappresentata è la Crimson Seedless, a bacca rossa e a matura zione tardiva. Oltre a queste due cultivar, negli ultimi anni sono state provate anche altre varietà apirene quali la Centennial e la Thompson ma, a parte l’entusiasmo dei primissimi anni, non hanno avuto una grande diffusione. Negli anni più recenti si sta registrando l’ingresso di nuove varietà apirene con ottime pre stazioni produttive. Portinnesti Nell’ambito dei portinnesti i primi campi furono innestati sul 157.11, sul 420 A e sul 225. Con l’introduzione delle uve apire ne si è avuto il passaggio ai portinnesti Berlandieri x Rupestris, come il 1103, il 779, il 775 Paulsen e il 140 Ruggeri, che meglio si adattano a condizioni di terreni pesanti e calcarei e con una buona affinità rispetto alle esigenze delle nuove varietà intro dotte.
Tendone coltivato a Sugraone, una delle prime uve apirene introdotte nel territorio come Regular Superior Seedless Foto R. Angelini
Forme di allevamento La forma di allevamento adottata per l’uva da tavola è stato il ten done, che in virtù delle esigenze colturali ha subito varie modifi che, fino all’affermazione di quello a doppio tetto orizzontale tipo Puglia. Questa forma di allevamento è stata introdotta in Basilicata da imprenditori agricoli pugliesi della provincia di Taranto e Bari. Negli ultimi anni, sia per adattarsi alle nuove varietà apirene che essendo più vigorose hanno bisogno di una migliore gestione della luce, sia per agevolare alcune operazioni colturali, si regi stra un’ulteriore evoluzione del tendone con l’adozione di forme a parete quali l’Y (gable) o siepone. Il sesto di impianto utilizzato nei primi anni era di 2,2 × 2,2 m fino ad arrivare a 2,5 × 3,5 con gli impianti di uva apirene. Tecnica colturale Anche la tecnica colturale ha subito notevoli cambiamenti nel corso degli anni. Inizialmente la coltivazione si effettuava senza ausilio dell’irrigazione, solo negli anni ’60 si introdusse l’irriga zione per aspersione, prima soprachioma poi sottochioma, e negli anni ’70 si utilizzarono i primi impianti a zampillo e a goc cia. Attualmente il sistema irriguo utilizzato è quello a goccia con alcuni esempi di subirrigazione.
Red Globe
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uva da tavola in Basilicata Grazie all’ausilio di sistemi automatizzati si pratica la fertirriga zione, al terreno vengono somministrati ammendanti e conci mi organici. Per conseguire produzioni di qualità e correggere e prevenire alcune fisiopatie non parassitarie viene praticata la concimazione fogliare. Con l’introduzione delle nuove varietà apirene vi è stato un forte affinamento e perfezionamento della tecnica colturale, che va ca librata in base alle varietà coltivate. Per conseguire un prodotto di alta qualità risulta indispensabi le effettuare degli interventi al grappolo, attenti interventi con microelementi e fitoregolatori, adeguati sistemi di potatura, e adottare dei sistemi di copertura per la protezione, anticipo e posticipo della raccolta. Oltre a questa pratica, anche per queste varietà vengono applicate le tecniche di diradamento dei grappoli per migliorare lo standard qualitativo del prodotto, anche se con modalità diverse dalle cultivar con semi. Sistemi di forzatura Un ruolo fondamentale per la destagionalizzazione della produ zione nella fase precoce e tardiva si è avuta grazie alla copertura con reti e film plastici. Questo tipo di copertura viene effettuato per: – anticipare l’epoca di maturazione; – proteggere il prodotto dalla grandine, dalle piogge, dal vento e da attacchi parassitari; – posticipare l’epoca di raccolta. La necessità della copertura con reti e film plastici ha determinato un adeguamento delle forme di allevamento e delle strutture per consentire la disposizione dei film plastici e/o delle reti.
Tendone di Superior Seedless nel Metapontino Foto R. Angelini
Raccolta, imballaggio e commercializzazione Le raccolte sono scaglionate dagli inizi di luglio sino a dicembre, secondo la cultivar, l’andamento meteorologico e l’andamento commerciale. Così come in altre regioni, chi si occupa della commercializzazio ne è un commerciante privato, spesso proveniente dalla limitrofa Puglia, mentre le Organizzazioni di Produttori, ben rappresentate in questa regione, detengono una piccola parte della produzione. Le uve destinate al consumo fresco sono solitamente raccolte e confezionate in campo da personale specializzato oppure suc cessivamente nel magazzino di lavorazione. L’uva viene generalmente confezionata in cassette di plastica con grappoli sfusi oppure in cestini o buste a seconda delle ri chieste commerciali e alle attitudini qualitative del prodotto. Nel più breve tempo possibile, l’uva viene trasportata nel ma gazzino di lavorazione dove viene sottoposta a pre-cooling, controllo qualitativo e successiva spedizione al mercato finale, nazionale ed europeo.
Uva apirena (senza semi)
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