La vite & il vino botanica | storia e arte | alimentazione | paesaggio coltivazione | ricerca | utilizzazione | mondo e mercato
la vite e il vino
coltivazione Viticoltura di territorio Osvaldo Failla,
Luigi Mariani, Luca Toninato
www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche.
coltivazione Viticoltura di territorio Risorse climatiche L’adattabilità della vite a una vasta gamma di climi e ambienti ha le proprie radici nella base genetica delle specie, ma viene enfatizzata dalla grande varietà dei sistemi colturali, frutto di una lunga evoluzione storica. Alle latitudini più elevate, il fattore principale limitante per la coltura è la temperatura, per cui la coltivazione si rende possibile in presenza di accorgimenti particolari, posti in atto, per esempio, per proteggere i ceppi dal gelo; negli ambienti meridionali, caratterizzati da insufficiente disponibilità idrica, il fattore limitante principale è l’acqua e la viticoltura moderna è possibile solo in presenza di irrigazione. In base a tali elementi è possibile tentare un’individuazione di larga massima degli areali favorevoli alla coltura della vite.
Viticoltura di territorio
• La viticoltura di territorio studia i
rapporti tra i modelli vitienologici e le risorse territoriali. Si basa sulle conoscenze di ecologia e di ecofisiologia della vite, sulle applicazioni della pedologia e della climatologia allo studio agroecologico dei territori viticoli, e tiene conto degli obiettivi enologici perseguiti e perseguibili nei contesti territoriali studiati
Mappa dei regimi termici
Risorse climatiche A lato sono riportate le mappe relative ai regimi termici, pluviometrici e gli areali viticoli mondiali
Meno di 10° C
• La carta dei regimi termici evidenzia
Tra 10°C e 20° C
Più di 20° C
Mappa degli areali viticoli e del deficit idrico
in verde i territori con temperature comprese fra 10 e 20 °C, ritenuti favorevoli alla viticoltura. In azzurro sono invece evidenziati i territori inadatti perché troppo freddi, mentre in rosso si evidenziano gli ambienti inadatti in quanto torridi
• Nella carta sottostante sono evidenziati in rosso gli areali viticoli mondiali, mentre in tratteggio le parti dell’areale in cui è presente un deficit pluviometrico, nei quali la viticoltura è praticabile con l’ausilio dell’irrigazione
Distribuzione della viticoltura nel mondo
236
Deficit pluviometrici
viticoltura di territorio Esigenze radiative Per la vite, la radiazione solare è fonte di energia e di informazione, e il rapporto fra la pianta e la luce si svolge attraverso una serie particolare di molecole (pigmenti), classificabili in quattro categorie: antociani, carotenoidi, clorofille e fitocromo. La clorofilla è il pigmento alla base della trasformazione dell’energia solare in energia di legame chimico (fotosintesi); gli antociani sono i responsabili di varie colorazioni degli organi vegetali e nel caso della vite hanno un effetto considerevole sulla qualità del vino. I carotenoidi sono pigmenti accessori per la fotosintesi, proteggendo la clorofilla da fotossidazioni, infine il fitocromo ha il compito di indicare alla pianta se si trova al buio o alla luce. La necessità di fare giungere alla chioma della vite una quantità ottimale di radiazione solare è alla base di molte scelte agronomiche. I sistemi di allevamento attualmente adottati sono tutt’altro che efficienti rispetto alla possibilità di sfruttare la radiazione solare per fini fotosintetici. Le misure indicano infatti che in viti allevate a spalliera, solo il 40-50% della radiazione solare totale viene intercettata dalle foglie, mentre il 50-60% arriva al terreno. Tale inefficienza è il prezzo che si deve pagare alla necessità di arieggiare la chioma e di garantire il transito delle macchine operatrici. La scarsa capacità di intercettare radiazione rende particolarmente negativi i periodi con copertura nuvolosa persistente, mentre meglio sopportata è la copertura intermittente, propria di condizioni meteorologiche di variabilità. Si ricorda infine che, per quanto riguarda le esigenze legate al fotoperiodo, la vite è una specie longidiurna quantitativa, nel senso che se esposta a condizioni di giorno lungo aumenta la fertilità (numero di grappoli per tralcio).
40-50%
50-60%
Nei sistemi d’allevamento come la spalliera, meno della metà della radiazione solare è intercettata dalla chioma
Temperature cardinali e critiche
• In presenza di basse temperature per
Esigenze termiche La vite presenta una temperatura cardinale minima di circa 10 °C, una crescita sensibilmente limitata per temperature inferiori a 15 °C, temperature cardinali ottimali per lo sviluppo fra 22 e 28 °C e una temperatura cardinale massima di circa 33-34 °C. Temperature superiori a 34 °C sono limitanti per la coltura in virtù delle abbondanti perdite di sostanza organica per respirazione. Tuttavia, i danni legati alle alte temperature sono contenuti in presenza di abbondanti disponibilità idriche. La temperatura critica minima della coltura varia in funzione del periodo dell’anno. Infatti, nel pieno dell’inverno le piante pongono in atto un insieme di meccanismi fisiologici noti come la lignificazione dei tessuti (agostamento) che consentono loro di sopportare temperature molto basse; in tale periodo la temperatura critica minima si colloca intorno ai –15-20 °C. A fine inverno invece assistiamo alla progressiva reidratazione dei tessuti in coincidenza con la quale la temperatura critica minima risale progressivamente per collocarsi intorno a –2 °C durante la fase di germogliamento, in coincidenza della quale la pianta è incapace di sopportare il gelo.
ogni specie è possibile stabilire due soglie, cioè la temperatura cardinale minima (temperatura al di sotto della quale lo sviluppo si arresta per essere ripreso non appena la soglia viene di nuovo superata in salita) e la temperatura critica minima (temperatura al di sotto della quale si verifica la morte di tessuti o dell’intera pianta). Soglie analoghe possono essere definite per le alte temperature, in tal caso si parla di temperatura cardinale e critica massima
• Si definisce infine cardinale ottimale
l’intervallo di temperature all’interno del quale i processi fisiologici hanno luogo in modo ottimale
237
coltivazione La variabilità nella resistenza ai freddi invernali è relativamente modesta tra i vitigni di Vitis vinifera. Grazie all’esperienza conseguita nei Paesi viticoli più settentrionali e dei dati raccolti alle nostre latitudini, in occasione di inverni particolarmente freddi come per esempio quello del 1985, disponiamo di qualche informazione in proposito. Nei modelli viticoli tradizionali di alcune regioni a clima continentale (per esempio Armenia, Georgia ecc.) era consuetudine interrare i ceppi prima dell’arrivo dell’inverno, affinché fossero protetti dal suolo e dall’eventuale copertura nevosa dalle minime termiche. La suscettibilità alle gelate tardive (primaverili) dipende in buona parte, ma non solamente, dalla precocità del germogliamento. Le alte temperature notturne stimolano la respirazione, ciò giustifica l’importanza che viene comunemente attribuita alle escursioni termiche per l’ottenimento di vini di qualità. Il regime termico risulta determinante sul compimento del ciclo di fruttificazione e di maturazione. Un indicatore vocazionale particolarmente considerato nel caso della vite è dato dai cumuli di unità termiche (GG = somma delle temperature medie giornaliere superiori ai 10 °C) caratteristici di un determinato territorio. I GG, se calcolati per il periodo 1 aprile-31 ottobre, sono chiamati gradi Winkler, dal nome del ricercatore che, utilizzando un sistema a somme termiche, produsse, verso la fine degli anni ’30 del secolo scorso, la zonazione viticola della California. In base all’indice di Winkler è possibile classificare le varietà in relazione all’epoca di maturazione e definire le esigenze minime di fabbisogno in caldo, che esse hanno per raggiungere una maturità dell’uva adeguata alla produzione di uno specifico tipo di vino. Le condizioni termiche del periodo di maturazione vera e propria dell’uva condizionano il profilo di maturità dell’uva stessa. Questo aspetto è stato modellizzato più recentemente da Jackson e Lombard, quando proposero la definizione delle cosiddette zone alfa e beta.
Resistenza al freddo invernale delle varietà coltivate in Renania Molto resistenti
Müller Thurgau, Silvaner, Schiava Grossa
Mediamente resistenti
Bacchus, Pinot Grigio, Pinot Nero
Poco resistenti
Riesling renano, Pinot Meunier
Molto poco resistenti
Kerner
Foto R. Angelini
Foto R. Angelini
Suscettibilità alle gelate primaverili di alcune varietà (rilievi effettuati in Toscana dopo le gelate del 18 aprile 1997 e 15 aprile 2000) Molto alta Cabernet franc Cabernet Sauvignon Dolcetto Malvasia bianca lunga Malvasia di Candia Malvasia istriana Riesling italico Trebbiano toscano Danni da gelo sui germogli Fonte: Egger et al., 2002
238
Alta
Media
Scarsa
Merlot Pinot nero Sauvignon Vernaccia di S. Gimignano
Aleatico Greco Greco di Tufo Malvasia nera Pinot bianco Refosco Sangiovese cloni CH21, CH22, F9 A5 48, M42, P1, R24, T2, T12 Teroldego Vermentino
Chardonnay Malvasia aromatica Nebbiolo Sangiovese cloni CH20, R10, AP SG 2
viticoltura di territorio Relazione tra disponibilità termica, scelta varietale e stile del vino 1200-1400 GG
1400-1500 GG
1500-1600 GG
1600-1800 GG
Vitigni precoci e per vini freschi e fruttati o per basi spumante (Chardonnay, Pinot nero, grigio e bianco, Gamay, Primitivo)
Vitigni precoci per vini da affinamento e vitigni di media epoca per vini bianchi o rossi di pronta beva (Chardonnay, Pinot nero, grigio e bianco, Riesling, Merlot, Dolcetto, Syrah)
Vitigni di epoca media per vini da affinamento (Sangiovese, Barbera, Cabernet Sauvignon, Nero d’Avola)
Vitigni tardivi (Sagrantino, Raboso, Nebbiolo, Montepulciano, Trebbiano toscano)
Esigenze termiche
• Per la viticoltura il regime termico è al
contempo un vincolo, per la frequenza e l’intensità delle gelate, e una risorsa da valorizzare per l’andamento delle temperatura nel corso del ciclo vegetativo e in particolar modo durante la maturazione dell’uva
La classificazione si basa sul confronto del regime termico atteso durante la maturazione e il decorso fenologico di una particolare varietà. Secondo la proposta degli Autori, una varietà si trova in zona alfa quando matura con un regime termico, definito in base alla temperatura media giornaliera, inferiore ai 15 °C, ma comunque superiore ai 9. Si trova invece in zona beta, quando il regime termico è di temperature medie giornaliere superiori ai 15 °C. È importante sottolineare che le zone vengono classificate in alfa o beta non in assoluto, ma in relazione a uno specifico vitigno. Quando un vitigno matura in una zona alfa richiede vendemmie relativamente tardive per raggiungere un’adeguata maturità tecnologica e fenolica; la maturità aromatica si caratterizza in genere per le note fruttate, vegetali e floreali. Quando un vitigno matura in una zona beta non ha in genere problemi a raggiungere una maturità tecnologica più che completa, è più sensibile agli effetti dannosi che gli eccessi termici possono avere sulla maturità fenolica, e la maturità aromatica si caratterizzata per aromi di fruttato maturo e fenolico. Peraltro, rispetto a questi comportamenti tendenziali, le varietà si differenziano molto nella reattività alle modificazioni del regime termico in maturazione. È per questo motivo che la risposta varietale al regime termico, e più in generale alle variazioni ambientali, deve essere sempre studiato localmente. La vite presenta esigenze di freddo invernale, nel senso che per la ripresa vegetativa necessita di circa 200 ore di freddo valutate secondo le metodologie standard. Alle nostre latitudini il soddisfacimento di un fabbisogno di freddo tanto limitato si verifica già nel corso dell’autunno. Al contrario, il soddisfacimento del fabbisogno di freddo si rivela un problema per le coltivazioni tropicali, dove il superamento viene stimolato tramite trattamenti con prodotti chimici.
Foto Vivai Rauscedo
Il vitigno Primitivo è precoce e ha basse esigenze termiche
Esigenze idriche
• La quantità e la distribuzione delle
piogge hanno una grande influenza sulla viticoltura. Il loro effetto varia però in relazione ai tipi di suolo e al regime termico della zona e alla precocità di maturazione del vitigno
Esigenze idriche Le precipitazioni (pioggia e neve) sono fondamentali per l’approvvigionamento idrico del vigneto. Tuttavia, precipitazioni intense e persistenti possono dare luogo a fenomeni negativi quali il dilavamento di elementi nutritivi e il ruscellamento dell’acqua sulla 239
coltivazione superficie del suolo, cui si accompagnano fenomeni più o meno gravi di erosione del suolo. Le piogge hanno inoltre un effetto importante sul quadro fitopatologico della coltura. In termini agronomici, per siccità si intende la condizione di mancanza di acqua utilizzabile nello strato esplorato dalle radici della vite. Pertanto un indicatore di siccità può essere la prolungata assenza di precipitazioni, anche se una valutazione più realistica del fenomeno si ottiene con strumenti più efficaci come il bilancio idrico fra apporti e perdite di acqua a livello di campo. Se una moderata siccità nel periodo che va dall’invaiatura alla raccolta può presentare effetti positivi sulla qualità delle uve, siccità intense e prolungate sono da temere in quanto espongono il vigneto a cali di produzione e a scadimento qualitativo, nelle zone a clima mediterraneo, nel quale la siccità estiva è la norma, la viticoltura è spesso assistita dall’irrigazione. Le precipitazioni caratteristiche dell’areale mondiale di diffusione della vite si collocano fra i 200 e i 3000 mm/anno. La vite è un consumatore di acqua più parsimonioso rispetto a colture quali il mais o l’erba medica. Tuttavia, i consumi idrici per evapotraspirazione non sono affatto trascurabili. Si prenda per esempio una giornata soleggiata di luglio con temperatura di 26 °C e venti deboli a regime di brezza, in un ambiente viticolo del nord Italia. In tali condizioni, un vigneto su terreno lavorato o sottoposto a pratiche di inerbimento controllato presenta un consumo giornaliero di circa 3-5 mm (30-50 m3/ha), mentre il consumo medio mensile sarà dell’ordine dei 120 mm (1200 m3/ha). L’entità e la distribuzione delle piogge condiziona enormemente il comportamento vegeto-produttivo del vigneto. Da questo punto di vista hanno anche un grande rilievo le caratteristiche del suolo che possono enfatizzare o minimizzare tanto gli effetti dell’eccesso, quanto quelli del difetto idrico. Il regime pluviometrico più favorevole per il vigneto è quello che consente un buon ripristino delle riserve idriche del suolo, nel corso del periodo del riposo invernale della vite, e che consente poi un adeguato rifornimento idrico primaverile che assicuri una buona crescita vegetativa, senza però provocare fenomeni di asfissia radicale. Il periodo dello sviluppo delle bacche non dovrebbe caratterizzarsi da troppa disponibilità idrica per evitare un’eccessiva crescita delle bacche stesse e per non prolungare nel tempo la crescita dei germogli. Quindi la vite dovrebbe, nelle condizioni delle zone meno favorite termicamente (zone alfa), proseguire il ciclo in condizioni di moderato deficit idrico affinché la maturazione possa essere anticipata e completa. Nelle condizioni più favorite termicamente (zone beta) non risulta in genere utile che i processi di maturazione siano anticipati, e una certa disponibilità idrica risulta più favorevole a una maturazione più regolare ed equilibrata. Le piogge, la bagnatura di foglie e grappoli, e l’alta umidità relativa sono poi in genere predisponenti agli attacchi
Bilancio idrico
• Il bilancio idrico si fonda sul principio della conservazione della massa applicato al terreno e prevede la valutazione degli apporti e delle perdite rispetto alla riserva utile
• Fra gli apporti si considerano
la precipitazione, l’irrigazione e la risalita di falda, mentre fra le perdite si considerano l’evapotraspirazione, il ruscellamento e l’infiltrazione profonda
Foto R. Angelini
- Precipitazione - Irrigazione - Risalita di falda IN
OUT
- Evapotraspirazione - Ruscellamento - Infiltrazione profonda Variabili del bilancio idrico
240
viticoltura di territorio dei funghi patogeni. In particolar modo, le piogge nelle ultime fasi della maturazione dell’uva possono avere effetti devastanti sulla produttività e sulla qualità dell’uva in conseguenza di attacchi di muffa grigia. Da questo punto di vista esistono significative differenze nella suscettibilità varietale.
Foto S. Musacchi
Umidità ed evapotraspirazione Elevate umidità relative favoriscono lo sviluppo di patogeni fungini e riducono i quantitativi di acqua traspirata. Quest’ultimo fenomeno si traduce in una riduzione dell’assorbimento di alcuni nutrienti minerali (calcio e boro soprattutto) che con la linfa grezza fluiscono dal terreno, con possibili influenze negative su quantità e qualità della produzione, come per esempio la fisiopatia del disseccamento del rachide. Pertanto, diverse pratiche agronomiche (scelta di zone di impianto non troppo umide, evitando per esempio i fondovalle stretti e scarsamente ventilati, scelta dei sesti di impianto e delle forme di allevamento, potature destinate ad arieggiare la chioma) hanno come finalità principale o accessoria il mantenimento dell’umidità a livelli non troppo elevati.
Pluviometro
Risorse pedologiche
Fertilità del suolo
Fertilità del suolo e viticoltura Il concetto di fertilità del suolo è un tipico concetto sistemico, ossia che deriva non dai singoli fattori, ma dalla reciproca interazione. Per esempio un suolo caratterizzato da una buona dotazione in nutrienti minerali sarà più o meno fertile in relazione al regime delle piogge. A questo proposito sono da considerare, oltre ai fattori naturali della fertilità, anche quelli antropici. Così, per esempio, irrigazione, concimazione, lavorazioni meccaniche opportune, influenzano la fertilità di un suolo in modo decisivo.
• La fertilità è la conseguenza delle
caratteristiche fisiche, chimiche e microbiologiche del suolo. Le viticolture tradizionali si realizzano su suoli molto diversi e spesso limitanti. Le viticolture economicamente più competitive richiedono condizioni di maggiore fertilità
Foto V. Bellettato
241
coltivazione In generale, tuttavia, il concetto di fertilità è associato alla capacità di un suolo di indurre un’intensa crescita delle piante. La crescita indotta può anche andare oltre la misura desiderata, inducendo fenomeni di lussureggiamento, negativi per la produttività o la qualità del prodotto. In questo caso si parla paradossalmente di eccesso di fertilità. Poiché le diverse colture hanno diverse esigenze di qualità del suolo è più appropriato definire non tanto un concetto generale di fertilità del suolo, quanto piuttosto il concetto di vocazionalità di un suolo a una specifica coltura. Da questo punto di vista si deve constatare che la viticoltura tradizionale si è realizzata sui più svariati tipi di suolo e che in generale si è spesso affermata come coltura importante per l’economia locale come per esempio nelle Cinque Terre, in Valtellina o a Pantelleria, in suoli molto limitanti per la crescita di altre piante agrarie, per aridità, pietrosità, acclività, acidità o alcalinità. Spesso ciò è stato possibile grazie a un forte innalzamento della fertilità dovuta a fattori antropici. Lavori di spietramento e terrazzamento, interventi ammendanti e fertilizzanti hanno spessissimo reso adatti alla viticoltura suoli altrimenti non coltivabili. In altri contesti, meno limitanti, come per esempio in molte aree collinari dell’Appenino (Chianti, Oltrepò pavese), la viticoltura si è affermata e si è sviluppata grazie alla capacità della vite di sostenere un maggiore reddito rispetto alle altre piante agrarie. In contesti di suoli più fertili, anche in conseguenza alla diffusione dell’irrigazione, come in buona parte della Pianura padana, è invece accaduto che la viticoltura fosse abbandonata o marginalizzata a favore di sistemi agrari più redditizi, quali quello foraggero o cerealicolo. Si è però verificato che in alcune zone di suoli fertili per fattori naturali e antropici, quali per esempio le pianure e i fondovalle veneti, romagnoli, pugliesi e della Sicilia occidentale, si sia affermata e consolidata una viticoltura capace di abbinare elevata produttività a bassi costi di produzione. Le viticolture tradizionali su suoli difficili non possono competere con quelle più meccanizzabili, su suoli non limitanti, e possono sopravvivere solo se riescono a mantenere sul mercato una forte identità, conseguenza di un altrettanto forte legame con il territorio. Le viticolture meccanizzabili, pur mantenendo un legame con il territorio, possono e devono invece competere con il mercato globale, sfruttando la maggiore flessibilità che le più favorevoli condizioni ambientali consentono loro. Questa breve premessa vuole sottolineare come la viticoltura possa esprimersi su suoli molto diversi, per natura e fertilità, sebbene aderendo a modelli vitivinicoli differenti.
Foto A. Scienza
Esigenze pedologiche della vite Tra le caratteristiche del suolo, la profondità è un aspetto importante. Più il suolo è profondo, maggiore è la possibilità di approfondimento dell’apparato radicale, di approvvigionamento idrico e nutrizionale. Spesso la limitazione alla profondità del suolo è
Anche in suoli poco adatti alla coltivazione delle piante agrarie possono essere coltivate le viti
242
viticoltura di territorio legata alla presenza di orizzonti non penetrabili dalle radici, per compattezza o per ristagni sottosuperficiali. Altre volte invece le radici riescono ad approfondirsi anche al di sotto del suolo, quando il sottosuolo è caratterizzato da depositi incoerenti e rocce friabili. Ciò spesso consente una buona nutrizione idrica senza stimolare eccessivamente il vigore delle piante. La composizione granulometrica del suolo ne definisce la ricchezza in scheletro e la tessitura. Tessiture grossolane e medie e una certa presenza di scheletro riducono il rischio di ristagni di acqua, ma lo rendono più suscettibile alla carenza di acqua. Profondità e granulometria del suolo determinano la capacità di ritenzione di acqua disponibile per le piante (di consueto definita con la sigla AWC dall’inglese Available Water Capacity) e la capacità di liberarsi dell’acqua in eccesso (drenaggio). L’interazione tra l’AWC e il regime pluviometrico è alla base dalla vocazionalità di un suolo alla viticoltura. Un buon drenaggio è sempre favorevole. I suoli eccessivamente drenati sono però quelli soggetti a forti deficit idrici. Reazione e carbonati sono due aspetti chimici del suolo che condizionano l’adattamento di alcuni portinnesti. Nei suoli con reazione neutra o sub-acida, la vite trova le migliori condizioni, tuttavia, i suoli leggermente calcarei possono esercitare un’azione favorevole nella riduzione del vigore della pianta. Quando invece il livello di carbonati solubili (calcare attivo) è elevato, si può manifestare una grave carenza nutrizionale, nota come clorosi ferrica, a cui la vite è divenuta sensibile in seguito all’adozione dei portinnesti di origine americana, perché a differenza della Vitis vinifera che è resistente, V. riparia e V. rupestris, da cui si selezionarono i primi portinnesti resistenti alla fillossera, sono invece molto sensibili alla clorosi ferrica. Nel suoli acidi, invece, la vite stenta a insediarsi, ma dopo averlo fatto non evidenzia particolari problemi di ordine nutrizionale o vegeto-produttivo. Anche per i suoli acidi sono disponibili portinnesti idonei.
Pedoclima e maturazione
• A parità di impostazione tecnica
del vigneto, la natura del suolo, accompagnata da una propria dotazione minerale, di calcare e da un diverso equilibrio tra microelementi, è in grado di contribuire a una sicura e ripetibile impronta organolettica ai vini. Una serie di osservazioni ricavate da un primo lavoro di zonazione dell’area DOC Soave, ha permesso di confrontare vini ottenuti con uve provenienti da suoli di natura basaltica (non calcarei), con vini ottenuti su suoli calcarei. Nel caso dei suoli non calcarei i vini si sono caratterizzati per i sentori speziati, di cannella e ciliegia, ma soprattutto per una pienezza gustativa non presente sui suoli calcarei. Nella seconda tipologia di suoli, invece, è prevalsa la persistenza e la finezza aromatica, e si sono evidenziati netti sentori di violetta e di fiori bianchi
Vigneti sull’Appennino bolognese
Foto R. Balestrazzi
243
coltivazione Suolo e paesaggio L’evoluzione del suolo è legata ai cosiddetti fattori della pedogenesi: clima, substrato, morfologia, vegetazione, tempo e attività antropica. Tutti questi elementi, tra loro più o meno interdipendenti, sono anche elementi o fattori in grado di condizionare l’evoluzione del paesaggio; da ciò deriva una sorta di parallelismo tra caratteri dei suoli e del paesaggio. Infatti è ampiamente verificato che in ambiti paesaggistici omogenei (identificabili con le unità di paesaggio), ossia laddove i fattori della pedogenesi convergono e agiscono allo stesso modo, solitamente si rinvengono coperture pedologiche omogenee. Questa stretta relazione è il nesso logico che consente di estendere alle superfici (e quindi di cartografare) i dati sostanzialmente puntiformi (trivellate, profili, ecc.) del rilevamento pedologico, come anche di correlare i suoli presenti su superfici fra loro distanti, ma simili in termini paesaggistici.
Rilievo pedologico
• La morfologia del paesaggio
e le caratteristiche dei suoli sono strettamente connesse. Devono pertanto essere studiate e rappresentate cartograficamente in modo congiunto. La definizione e la caratterizzazione delle unità di pedopaesaggio rappresentano il risultato del processo del rilievo pedologico Foto P. Viggiani
Il rilievo e la carta pedologica La prima parte del rilevamento porta all’individuazione dei diversi tipi di suolo presenti all’interno dell’area indagata. Successivamente, per ogni pedotipo, si scavano uno o più profili. Su ognuno di questi vengono individuati gli orizzonti presenti nel suolo, ossia gli strati o fasce omogenee, solitamente parallele alla superficie, che possono essere localizzati sul fronte di scavo. Ogni orizzonte viene descritto e campionato. I campioni di terreno vengono quindi inviati a un laboratorio presso il quale sono effettuate le determinazioni fisico-chimiche ritenute necessarie. L’insieme dei dati pedo-paesaggistici e di laboratorio consente di realizzare la carta pedo-paesaggistica, costituita dalla base topografica a cui si sovrappone la maglia delle delineazioni in cui il territorio è stato suddiviso. La superficie di ogni singola delineazione sarà caratterizzata da una combinazione suolo-paesaggio diversa da quelle contigue; quasi sempre una medesima combinazione compare anche in altre delineazioni poste in altre parti del territorio. Queste combinazioni suolopaesaggio prendono il nome di unità cartografiche; ognuna di esse è resa riconoscibile da un numero, ed eventualmente da un colore. La descrizione dei suoli e dei paesaggi è riportata nella legenda della carta pedologica. Relazioni tra vitigno e pedoclima Zona viticola La viticoltura territoriale si occupa dello studio dei rapporti tra vitigno e ambiente per definire metodologie di lavoro, volte a caratterizzare la vocazionalità ambientale di un territorio alla viticoltura e a rappresentarla cartograficamente. Questo pro-
Tensiometro e centrifuga per l’analisi del suolo
244
viticoltura di territorio cesso equivale allo sviluppo di quella che viene definita una carta tematica, perché dedicata a un aspetto specifico delle caratteristiche del territorio, che in questo caso è quello della vocazionalità alla viticoltura. Le singole unità tematiche individuate con una zonazione possono definirsi Unità vocazionali (Suitability units). In questo campo, nel recente passato sono state realizzate molte esperienze e notevoli progressi. Nei territori in cui già esiste una viticoltura consolidata, la metodologia seguita per le zonazioni mira a evidenziare le differenze nella vocazionalità tra unità territoriali diverse, ovvero le peculiarità di ciascuna di esse, piuttosto che di definire una graduatoria di vocazione. Il metodo sperimentale per la definizione della vocazionalità si basa sulla raccolta di dati di campo in una serie di parcelle realizzate in vigneti di riferimento scelti al fine di rappresentare la variabilità pedoclimatica e colturale dell’area di indagine. Si cerca di volta in volta di definire, nelle specifiche condizioni di risorse ambientali e di assortimento varietale e di obiettivi enologici, il più idoneo criterio di suddivisione del territorio in aree omogenee, sulla base di dati sperimentali e non sulla base di modelli di adattamento del vitigno all’ambiente, assunti come validi in via aprioristica o sulla base di osservazioni raccolte in contesti viticoli diversi. Il progetto di zonazione tenta dunque di definire delle relazioni tra variabilità dei suoli e del clima e risposta del vigneto. Per fare ciò, si possono seguire diversi approcci, dei quali si dispone ormai un’ampia casistica nazionale e internazionale. La zonazione vuole essere uno strumento al servizio del territorio e delle aziende. A scala territoriale costituisce uno strumento per la gestione del potenziale produttivo dell’area e per la programmazione del suo sviluppo. Le singole aziende possono disporre di una base conoscitiva attraverso la quale confrontarsi con le altre, ma soprattutto avranno una base di conoscenze delle risorse ambientali e della risposta varietale alla quale appoggiarsi per effettuare ulteriori approfondimenti alla loro scala operativa. Lo scopo della zonazione non è però solo quello di descrivere in modo obiettivo il comportamento dei vigneti nel territorio, ma anche quello di proporre adeguate strategie per la valorizzazione delle diversità ambientali, superando gli eventuali vincoli pedologici e climatici, e valorizzando i punti di forza che connotano ogni ambiente. Su tali basi, completano una zonazione una serie di tematismi agronomici di grande interesse e utili per dare delle indicazioni di massima relativamente alle scelte di impianto (vitigno, portinnesto, forma di allevamento, sesti e densità di impianto) e di tecnica colturale (gestione della pianta, fertilizzazione, irrigazione), che rappresentano la base del cosiddetto Manuale d’uso viticolo del territorio.
Zonazione viticola
• Il termine zonazione deve considerarsi
l’italianizzazione del francese zonage e dell’inglese zoning. In termini generali, zonazione significa suddivisione di un territorio in aree distinte secondo particolari criteri. Nel caso specifico delle zonazioni viticole, il territorio viene suddiviso in unità vocazionali caratterizzate per una condizione pedologica e climatica relativamente uniforme e per un potenziale qualitativo viti-enologico omogeneo, in relazione alla coltivazione di uno specifico vitigno, o assortimento varietale, e per un determinato obiettivo enologico
Metodologie di zonazione
• Una prima metodologia prevede
la definizione di aree omogenee dal punto di vista pedologico e climatico, assunte implicitamente come Unità vocazionali, e quindi la successiva caratterizzazione del comportamento dei vigneti
• Una seconda metodologia prevede
lo studio del comportamento dei vigneti in relazione ai molteplici descrittori dei suoli e del clima
• Il primo approccio tende a consolidare, in termini scientificamente corretti, una suddivisione del territorio generalmente già riconosciuta, mentre il secondo è più utile per il progresso delle conoscenze dell’eco-fisiologia della vite e più informativo circa le potenzialità territoriali
245
la vite e il vino
coltivazione Vivaismo viticolo Marco Stefanini, Eugenio Sartori
www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche.
coltivazione Vivaismo viticolo Tecnica vivaistica La vite, pianta i cui frutti sono stati utilizzati dall’uomo già 9000 anni prima di Cristo, ha avuto essenzialmente per molti millenni due modi per essere propagata, come diverse specie legnose. La prima modalità era quella legata alla semina dei vinaccioli recuperati dalla bacca dopo averla mangiata o utilizzata per la produzione di bevande fermentate e uva passa; la seconda è legata alla possibilità che hanno parti di pianta (tralci) di produrre radici e di dare vita a una nuova pianta.
Vivaismo viticolo
• La moltiplicazione delle piante di vite
ha avuto nei secoli una variazione sensibile nelle modalità che ha visto dapprima la moltiplicazione da seme o gamica e successivamente, con la necessità di avere produzioni omogenee per produttività e qualità, la tecnica di moltiplicazione da talea o agamica. Da oltre un secolo, attraverso la tecnica dell’innesto è possibile produrre piante con apparato radicale e parte aerea appartenenti a specie o ibridi di specie diverse. Negli ultimi decenni si sono affinate tecnologie di moltiplicazione del materiale viticolo erbaceo, come la moltiplicazione in vitro o la produzione di piante innestate partendo da materiale erbaceo
Moltiplicazione per seme La vite in natura presenta un ciclo biologico che porta alla produzione di fiori dove maturano i gameti maschili e/o femminili e, in seguito alla fecondazione delle cellula uovo con polline della stessa pianta, si ha la produzione di semi (vinaccioli). All’interno del vinacciolo c’è il nuovo embrione, che darà origine alla nuova pianta, ricoperto da tegumenti di origine materna. Mettendo i vinaccioli di vite nelle condizioni di germinare, si possono ottenere nuove piante, differenti tra di loro. Questo sistema di moltiplicazione delle piante di vite è stato quello più frequente fino al momento in cui l’uomo ha deciso di coltivare la pianta. Infatti, l’uomo raccoglieva e utilizzava il frutto prodotto dalle stesse viti, che cresceva spontaneamente nei boschi o ambienti ricchi di acqua. L’ampia variabilità ottenuta dalla moltiplicazione per seme delle piante di vite è stata la base di partenza della selezione, moltiplicando nel tempo le piante che meglio rispondevano alle caratteristiche ritenute positive in quel momento. La prima selezione è stata quella di moltiplicare le piante che presentavano i frutti, successivamente ha riguardato quelle piante che presentavano sullo stesso fiore organi maschili (produzione di polline) e femminili (pistillo ben formato).
Semenzale di vite Piantine in semenzaio
246
vivaismo viticolo Moltiplicazione per talea Nel genere Vitis le piante presentano un’attitudine elevata a produrre radici, anche se è possibile incontrare specie con attitudine rizogena limitata. Le radici si sviluppano a livello dei singoli nodi e non è infrequente imbattersi nella produzione di radici aeree lungo il tralcio, soprattutto se l’ambiente è particolarmente umido. Tale attitudine ha permesso all’uomo di utilizzare i tralci lignificati o erbacei della vite per l’ottenimento di nuove piante perfettamente uguali alla pianta madre. Tra le diverse tecniche si annovera quella della margotta, della propaggine e della barbatella. La margotta consiste nel far sviluppare le radici dal tralcio della pianta, approssimando a livello di una gemma della terra umida, fino allo sviluppo dell’apparato radicale; successivamente la porzione del tralcio dalle radici verso l’apice può essere tagliata e dare origine a una nuova pianta. La propaggine prevede l’interramento parziale di un tralcio di vite; da esso si svilupperanno le radici che permetteranno, dopo il taglio del tralcio dalla pianta madre, la vita autonoma alla pianta. La necessità di realizzare vigneti specializzati ha determinato la messa a punto di diverse tecniche di forzatura per ottenere, da porzioni di tralcio di vite con almeno due gemme, piante con apparato radicale e germoglio sviluppato dette barbatelle, pronte per essere trapiantate in pieno campo. Tutti questi metodi di propagazione delle piante sono stati utilizzati per diversi secoli fino all’arrivo della fillossera che ha obbligato la produzione di piante bimembri, vista la suscettibilità dell’apparato radicale della Vitis vinifera (specie coltivata) agli attacchi dell’insetto.
Talea radicata Piantine di vite in tunnel
247
coltivazione Moltiplicazione per innesto La tecnica dell’innesto è una tecnica vivaistica che permette di realizzare piante complete di radici e gemme provenienti da piante geneticamente diverse. Queste piante bimembri presentano un unico sistema vascolare perfettamente integrato tra i due bionti che permette alla pianta di avere cicli biologici normali come le piante ottenute da seme o per talea. I genotipi utilizzati come portinnesti sono degli ibridi tra diverse specie di Vitis che presentano a livello di apparato radicale una tolleranza o resistenza agli attacchi della filossera. Naturalmente la necessità di propagare la vite come pianta bimembre (portinensto + marza) ha complicato lo scenario agronomico. Infatti, se è vero che Vitis vinifera si propaga facilmente e si adatta alle più svariate condizioni ambientali (sia climatiche sia pedologiche), le cose mutano molto nell’ambito del genere Vitis. Per esempio, per quanto riguarda la capacità di radicazione, la Vitis berlandieri presenta molti problemi ma si adatta bene ai terreni calcarei (la maggioranza dei terreni viticoli europei), invece, per quanto riguarda la capacità di adattamento ambientale, Vitis amurensis e Vitis riparia hanno colonizzato aree caratterizzate da inverni molto rigidi, mentre Vitis rupestris e Vitis berlandieri sono più diffuse in zone calde e quasi desertiche. L’innesto prevede l’inserzione di una marza (porzione di tralcio con almeno una gemma) su una talea (porzione di tralcio con due o più gemme accecate). Il materiale utilizzato per tale inserzione è legnoso e l’inserzione avviene al tavolo e dà origine all’innesto talea generalmente sottoposto a forzatura e messo in vivaio per ottenere la barbatella pronta da essere trapiantata in pieno campo. Per la produzione di talee di portinnesto è previsto l’allevamento delle piante madri di talee con diversi sistemi di allevamento co-
Evoluzione delle tecniche vivaistiche
• Nell’ultimo secolo il mondo viticolo
si è dovuto adattare a nuove necessità emergenti. Talea, margotta e propaggine sono state utilizzate fino alla comparsa della fillossera che ha imposto, come rimedio biologico ai suoi attacchi, l’innesto delle varietà di vite coltivata, su una specie diversa con apparato radicale tollerante agli attacchi della fillossera. A livello europeo vige una normativa dal 1968, ripetutamente modificata, che regola la produzione e la commercializzazione delle piante innestate (barbatelle) anche dal punto di vista sanitario
Innesto Sistema di allevamento dei portinnesti cosiddetto a bandiera
248
vivaismo viticolo me quello a scorrimento a terra, su sostegni o a bandiera. La raccolta del materiale inizia dopo la caduta delle foglie dalle piante madri. Sulla pianta madre vengono lasciate alcune gemme per la produzione dell’anno successivo e a tutti i tralci vengono eliminate le gemme (accecamento); successivamente vengono tagliati secondo la misura della barbatella voluta (30-60 cm) con un diametro minimo e massimo definito dalla normativa esistente (valori compresi tra 6,5-12 mm). Per la produzione delle marze invece si ricorre a sistemi di allevamento volti ad avere uno sviluppo dei germogli con gemme a intervalli di 8-12 cm. La preparazione delle marze avviene durante il periodo invernale. Esse sono costituite da una piccola porzione di tralcio (2-5 cm) con una gemma. Possono essere utilizzate le marze con diametro di dimensioni compreso tra 6,5-12 mm come previsto dalla normativa. Sia le marze sia le talee dei portinnesti vengono sottoposte a trattamenti per ridurre la carica di patogeni fungini per poi essere conservate a basse temperature (2 °C) in celle con umidità vicina al 100% fino alla realizzazione dell’innesto. L’innesto viene di norma realizzato all’inizio della primavera utilizzando macchine innestatrici al tavolo con taglio a Ω, che garantisce percentuali di attecchimento elevate e maggiore velocità di esecuzione alle forme di innesto eseguite manualmente. Il materiale utilizzato dal personale addetto all’innesto viene reidratato nei giorni precedenti lasciandolo per alcune ore in acqua. Per il successo della saldatura nel punto di innesto, nella fase di innesto è importante scegliere calibri simili tra i due bionti e rispettare la polarità della talea e della marza mantenendo la direzione pre-
Talee di portinnesto in fase di trattamento per prevenire lo sviluppo di funghi
Innestatori al lavoro
Innesto-talea con bionti legnosi Particolare di innesto a macchina tra bionti legnosi
249
coltivazione sente nelle piante madri dei flussi linfatici nei vasi. Per evitare il disseccamento dei tessuti esposti all’aria, la tecnica prevede la paraffinatura del punto di innesto con miscele di paraffine contenenti sostanze anticrittogamiche e ormonali di stimolo alla formazione del callo. Gli innesti-talea vengono stratificati in casse di forzatura, alternandoli con uno strato di segatura umida. Le casse vengono poi posizionate in camere di forzatura dove vengono controllate la temperatura dell’aria (25-30 °C), l’umidità della segatura (circa 80%) e, successivamente al germogliamento delle gemme, si deve intervenire con trattamenti fungicidi per bloccare l’insorgere di botrite. Anche lo sviluppo del germoglio deve essere ridotto per evitare l’esaurimento delle sostanze di riserva presenti. La durata della forzatura è di circa tre settimane, ma si riscontrano comportamenti differenziati per i diversi ibridi di portinnesto. Terminata la fase di forzatura, le talee-innesto vengono pulite dalla segatura e trasferite in cassoni con una quantità di acqua sul fondo per indurire il callo e ambientarle alle condizioni di luce, temperatura e umidità dell’ambiente esterno. Successivamente alla fase di forzatura, gli innesti-talea vengono paraffinati di nuovo e trapiantati in vivaio in file singole o binate a una distanza sulla fila di 7-12 cm. I terreni dei vivai sono preparati precedentemente con lavorazioni adatte a rendere il terreno favorevole allo sviluppo delle radici. Viene inoltre disteso lungo le file un film plastico, per bloccare lo sviluppo di erbe infestanti, sotto il quale si predispone generalmente un’ala gocciolante per eventuali interventi di irrigazione delle piante. Durante il periodo nel vivaio, gli innesti talea sviluppano l’apparato radicale oltre al
Allestimento dei cassoni per la forzatura
Fase di forzatura in tunnel
Innesti-talea paraffinati Messa a dimora delle piantine in vivaio
250
vivaismo viticolo
Vivaio
germoglio, che viene controllato nel suo sviluppo con ripetute cimature. L’attenzione alla difesa verso le avversità parassitarie è particolarmente accurata in quanto un attacco di funghi o insetti pregiudica in maniera significativa lo sviluppo della barbatella. Le piante in vivaio rimangono fino alla caduta delle foglie in autunno e successivamente vengono tolte dal terreno, portate in magazzino e preparate per la vendita con potatura del tralcio a circa due gemme e paraffinatura dello stesso, oltre a un taglio delle radici a circa 30 cm. Le barbatelle raccolte in mazzi da 25 unità vengono posizionate in magazzini a temperatura di 2 °C. Importante è la garanzia di una umidità intorno al 100% per evitare il disseccamento dell’apparato radicale. In queste condizioni le piante possono rimanere anche per diversi mesi (massimo 18). Ogni mazzo di 25 piante deve essere accompagnato da un cartellino di diverso colore: bianco per il materiale di base, azzurro di categoria certificato e arancione di categoria standard.
Particolare di barbatelle in vivaio
Produzione di barbatelle in cartonaggio. La pratica del cartonaggio prevede la messa a dimora nello stesso anno di innesto della pianta poco dopo l’uscita dalla forzatura, con la zona dell’innesto da poco saldata, e un apparato radicale appena accennato che si sviluppa in un pane di torba. Questa tecnica se da un lato consente di soddisfare domande particolari, dall’altro richiede una duplice attenzione da parte del viticoltore per la messa a dimora in pieno campo: non disturbare l’apparato radicale della talea e fornire alla barbatella già vegetante acqua sufficiente. La barbatella in cartonaggio è più delicata di quella tradizionale, essendo l’apparato vegetativo in parte sviluppatosi in ambiente poco luminoso e in condizioni di temperatura controllata e il punto
Materiale vivaistico di differenti categorie: il cartellino bianco corrisponde alla “base”, quello azzurro al “certificato”, mentre quello arancione allo “standard”
251
coltivazione di innesto non fortemente saldato. Il successo di questo tipo di pianta, quindi, è legato all’attenzione degli operatori che svolgono l’impianto, alle caratteristiche climatiche e pedologiche della zona in cui si opera. Ancora oggi questa soluzione è consigliata in circostanze particolari come nel caso in cui non si riesca a reperire materiale disponibile all’impianto, nella combinazione marza-portinnesto desiderata o per rimpiazzare le fallanze.
Problematiche dell’innesto
• L’attuale sistema di moltiplicazione
della vite, tramite innesto a tavolo e sua propagazione, evidenzia alcune difficoltà operative legate soprattutto ai tempi di produzione. Infatti, l’imprenditore vivaista deve prevedere l’anno prima l’andamento del mercato e scegliere le varietà, i cloni, i portinnesti più adatti alle zone da dove presumibilmente proverrà la maggiore domanda. Infatti, la barbatella che viene venduta al viticoltore viene preparata l’anno precedente e solo raramente l’azienda viticola prenota con largo anticipo le barbatelle che intende mettere a dimora
Ottenimento di viti innestate in pieno campo. Un modo alternativo di impianto di vigneti è l’innesto direttamente in campo, tecnica ormai quasi soppiantata dall’uso della barbatella che prevede l’impianto del portinnesto radicato e successivamente innestato con la varietà desiderata. Si utilizza prevalentemente in zone dove il clima permette una precoce e buona lignificazione del portinnesto e un buon attecchimento dell’innesto. Gli andamenti climatici che possono compromettere la riuscita dell’innesto sono le repentine escursioni termiche, l’abbassamento eccessivo della temperatura o un periodo di stress idrico che può pregiudicare il normale metabolismo della pianta. Questo sistema, naturalmente, assicura al viticoltore un costo di partenza inferiore per la talea di portinnesto radicata e il facile reperimento anche in loco delle varietà di Vitis vinifera desiderate, ma richiede un massiccio impiego di manodopera specializzata in un breve periodo (normalmente agosto al sud, maggio-giugno al nord) e la non certezza della qualità del materiale di Vitis vinifera utilizzato. Va comunque osservato che nelle zone dove tale sistema di moltiplicazione della vite è diffusamente utilizzato, la variabilità genetica all’interno delle varietà è molto più elevata. Moltiplicazione in vitro La moltiplicazione in vitro è una tecnica che viene utilizzata per numerose piante, soprattutto quelle che hanno difficoltà alla radicazione. Il substrato utilizzato per lo sviluppo della piantina può modificarsi notevolmente da specie a specie e gli elementi nutritivi vengono miscelati in un tessuto gelatinoso a base di agar che permette lo sviluppo delle radici delle piante. Lo sviluppo della pianta avviene in un contenitore trasparente, sterile e isolato dall’esterno con film plastico per evitare inquinamenti che possono portare alla morte la pianta. Questa tecnica permette di ottenere una nuova pianta partendo da tessuti diversi, apici interi o frammentati, gemme, calli, talee erbacee unigemme ecc. Il punto critico di tale sistema lo si riscontra nella fase di adattamento delle nuove piantine ottenute e sviluppatesi in ambiente controllato alle condizioni di pieno campo. Anche in campo viticolo, grazie all’esperienza positiva registrata nel settore orticolo, si sono sviluppati alcuni sistemi di moltiplicazione del materiale basandosi sull’utilizzo di bionti erbacei. La pratica del microinnesto nella vite ha iniziato a diffondersi da qualche decen-
Piantine in vitro
Moltiplicazione “in vitro”
• È una tecnica molto diffusa nel lavoro
di miglioramento genetico, per la rapida moltiplicazione del materiale destinato alla produzione di talee legnose per portinnesto, per la conservazione del germoplasma e nei casi di risanamento di materiale infetto
252
vivaismo viticolo nio, soprattutto per conservare e produrre materiale virus-esente e per effettuare saggi biologici per il controllo delle virosi, sfruttando la moltiplicazione in vitro di materiale allo stato erbaceo. Per quanto riguarda i portinnesti è stata recentemente regolamentata e autorizzata la possibilità di costituire impianti di piante madri per talee utilizzando materiale proveniente da moltiplicazione in vitro; tale possibilità permette di ottenere un elevato numero di piante da una quantità molto ridotta di gemme. Per Vitis vinifera, diversamente, la moltiplicazione in vitro ha evidenziato possibili mutazioni che provocano “sfasature” nel ciclo fenologico tipico della cultivar o il ritorno allo stadio giovanile della varietà, e quindi non è diffusamente utilizzata. La moltiplicazione in vitro dei portinnesti ha permesso di sviluppare la tecnica dell’innesto semilegnoso: su calibri ridotti di talee di portinnesto già radicate viene innestata una porzione verde della varietà che si vuole moltiplicare. Questo sistema garantisce un’elevata resa all’innesto evitando il passaggio delle piante in vivaio prima della messa a dimora, ma richiede la disponibilità di strutture specifiche, quali un laboratorio per la moltiplicazione in vitro, serre e tunnel di adattamento e sviluppo del materiale molto ampi.
Piante ottenute con la moltiplicazione in vitro
Innesto erbaceo Recentemente, il vivaismo viticolo si è dovuto confrontare con l’esigenza di avere grosse disponibilità di materiale sano e di qualità propagato velocemente, per poter rinnovare in modo rapido i vigneti. Questo ha portato il vivaismo viticolo a ideare nuove tecniche e metodologie di propagazione. La più innovativa attualmente è quella dell’innesto verde, già da qualche tempo utilizzata nel settore dell’orticoltura. Anche in campo viticolo si sono sviluppati vari sistemi che si basano sull’utilizzo di bionti erbacei, non lignificati. Recentemente, in Francia, la ditta BAP © (Bureau d’Application pratique des Champagnes Mumm et Perrier-Jouët) in collaborazione con l’INRA (Institut National de la Recherche Agronomique) ha definito un sistema di moltiplicazione del materiale viticolo denominato Greffenvert, sviluppando una macchina apposita in grado di innestare due bionti erbacei Tale sistema prevede l’allevamento di piante madri (sia di portinnesti sia di varietà) in grado di fornire gemme per la moltiplicazione. La fase di allevamento è effettuata su substrati inerti e alimentati con idonea fertirrigazione. La produttività dell’allevamento dei portinnesti prevista dal modello varia in relazione alla densità di allevamento delle piante: mediamente si ottengono 15-17 talee/m2/settimana quando la densità è di 17 piante/m2. Per le piante madri destinate alla produzione di marze di differenti
Particolare di un laboratorio per la moltiplicazione del materiale in vitro
Macchina per l’esecuzione dell’innesto erbaceo
253
coltivazione cultivar, che verranno successivamente innestate, la produttività media risulta pari a 2 marze per pianta a settimana, utilizzando una densità di allevamento di 34 piante/m2. La talea di portinnesto destinata all’innesto deve avere una lunghezza di almeno 22 cm. Essa deve comprendere almeno due nodi; al nodo superiore viene lasciata la foglia riducendo la superficie della lamina al fine di permettere una certa attività fotosintetica e diminuire l’attività di traspirazione, mentre le altre foglie presenti sulla talea vengono completamente recise. La marza da innestare, invece, è costituita da una talea monogemma in cui la foglia presente viene preparata nello stesso modo descritto per la talea di portinnesto. L’innesto viene effettuato completamente a macchina: l’attrezzatura lavora il materiale vegetale di entrambi i bionti che devono presentare diametri compresi tra 1,5 e 6 mm. La macchina effettua un taglio a V e successivamente unisce i due bionti. L’operatore deve invece fissare manualmente l’unione effettuata utilizzando una semplice molletta di dimensione ridotta (3,5 cm). La capacità produttiva potenziale della macchina è di 300-500 innesti/ora. È da sottolineare che la resa dipende fortemente dalla capacità dell’operatore di scegliere i bionti con calibri omogenei, adatti per la riuscita dell’innesto stesso. L’innesto-talea, dopo essere stato a contatto con soluzioni a base di ormoni radicanti, viene prima inserito in un panetto di torba (altezza 10 cm, diametro 4 cm) e successivamente posto in adeguate mini serre opportunamente trattate dal punto di vista sanitario, soprattutto contro Botrytis cinerea. Le mini serre vengono quindi poste in una cella climatica condizionata in termini di regime termico e luminoso, dove viene realizzata la forzatura. Il periodo di forzatura dura circa 3 settimane. La fase successiva comprende il graduale adattamento delle piante innestate alla coltivazione di pieno campo: la barbatella, dopo essere stata trapiantata in vasetti contenenti torba, viene posta in serra, dove viene alimentata con fertirrigazioni e sottoposta a idonee illuminazioni per favorire l’indurimento dei germogli per un periodo di circa un mese. La pianta ottenuta si trova ancora nella fase vegetativa (non completamente lignificata) e può essere messa a dimora secondo due diverse modalità: con pane di terra (tipo cartonaggio) in vivaio o direttamente in pieno campo. Nel primo caso la vite può lignificare e successivamente venire commercializzata come pianta a radice nuda (barbatella). Il sistema “microinnesto a verde” di moltiplicazione e produzione di piante di vite da porre a dimora, elimina nella fase di produzione il passaggio delle piante nel suolo, garantendo elevati standard qualitativi e di sicurezza del materiale contro eventuali infezioni da virus o micoplasmi. La possibilità di operare indipendentemente dalle condizioni climatiche stagionali permette una produzione lungo tutto l’arco
Fasi della preparazione del materiale per l’innesto erbaceo
254
vivaismo viticolo dell’anno; si possono calcolare 4-5 cicli all’anno di produzione di barbatelle innestate da piantare allo stadio erbaceo e di 3-4 cicli di barbatelle lignificate da mettere a dimora nei periodi dell’anno nei quali l’impianto del vigneto viene realizzato con barbatelle a radice nuda. Chiaramente, la destinazione del ciclo produttivo che si intende effettuare dipenderà dal periodo dell’anno in cui si opera. I cicli produttivi che terminano nel periodo autunno-invernale dovranno essere mantenuti in ambiente controllato fino alla completa lignificazione e successiva preparazione per la commercializzazione. Gli altri cicli, invece, che si possono effettuare nel periodo primaverile-estivo, forniscono prodotti direttamente utilizzabili in pieno campo. La brevità di ciascun ciclo di produzione consente di rispondere alle molteplici richieste del mercato di una specifica combinazione di innesto in tempi assai contenuti. Operando lungo tutto l’arco dell’anno, la superficie necessaria da destinare ai diversi cicli produttivi risulta molto ridotta, rispetto a quella necessaria per la produzione di piante con il sistema tradizionale: infatti, considerando una produzione di 100.000 piante all’anno, si richiedono con tale sistema meno di 1000 m2 di struttura, diversamente dall’ettaro richiesto col metodo tradizionale. Come aspetto negativo va evidenziato che, con il sistema “microinnesto a verde”, è necessario disporre di attrezzature vivaistiche molto specifiche (serre e camere di crescita a elevato controllo tecnologico), che richiedono notevoli investimenti iniziali da ammortizzare più o meno brevemente in relazione alla rese potenziali dei cicli. Attualmente, gli operatori che utilizzano questo sistema affermano che per rese prossime al 70%, il costo di produzione di una pianta può essere considerato simile a quello per ottenere una barbatella tramite il metodo tradizionale. La pianta ottenuta con la trafila dell’innesto erbaceo rispetto a quella ottenuta con il sistema tradizionale si presenta più minuta, con un ingombro inferiore e fornisce migliori garanzie sanitarie, in quanto per diventare materiale commerciabile non necessita di trascorrere periodi prolungati in vivaio in terreni che possono essere una ulteriore fonte di infezione. Un ulteriore vantaggio dell’utilizzo del “microinnesto a verde” risiede nel fatto che le barbatelle non completamente lignificate presentano una quantità di radici nettamente superiore di quelle prodotte dalle piante ottenute con il cartonaggio tradizionale, in grado di garantire quindi un maggiore attecchimento in pieno campo. Dal punto di vista commerciale questa innovazione tecnologica applicata al vivaismo viticolo può avvicinare il modello produttivo classico delle barbatelle a quello più efficiente del settore florovivaistico.
La forzatura dell’innesto erbaceo viene realizzata in microserre
Particolare delle piante nella microserra
Confronto tra barbatelle ottenute con il sistema tradizionale e piantine realizzate mediante innesto erbaceo
255
coltivazione Aspetti normativi Fin dal 1920 l’Italia, con la legge n. 1363 del 26 settembre “Disposizioni relative al controllo sulla produzione e sul commercio delle viti americane”, aveva definito i passaggi fondamentali relativi ai controlli sul materiale di moltiplicazione. Bisognerà però aspettare il DPR 1164 del 24 dicembre 1969, che recepisce la direttiva europea 68/193 del 6 aprile 1969, per trovare ben codificati i concetti di selezione genetica e sanitaria e la suddivisione del materiale di moltiplicazione della vite nelle categorie base, certificato e standard. Per la prima volta vengono definiti i materiali destinati esclusivamente ai vivaisti per la propagazione (base) e i materiali da diffondere ai viticoltori derivati da selezione clonale (certificati) o da semplice selezione massale (standard). Il passaggio è di fondamentale importanza: non più solo la mera rispondenza varietale garantita dai materiali standard, ma bensì un ben definito standard genetico e sanitario per ogni clone messo a disposizione dei viticoltori. Un ulteriore, recente, passo avanti è stato fatto con l’emanazione della “direttiva vite” del 14 febbraio 2002 e del suo recepimento a livello nazionale con il D.M. dell’8 febbraio 2005, che di fatto ha regionalizzato l’applicazione della stessa pur mantenendo valida per l’intero territorio nazionale l’impostazione di fondo in materia di livelli sanitari e genetici riferiti ai diversi materiali di moltiplicazione della vite. Il successivo decreto del 7 luglio 2006 ha il merito di definire espressamente le entità virali che non devono essere presenti nei materiali iniziali, base, certificato e standard e relativi controlli per assicurare al viticoltore la rispondenza del materiale utilizzato sotto il profilo sanitario e genetico. Questo aspetto è di fondamentale importanza per tutti i Paesi viticoli dell’Unione Europea dato che il principio della libera circolazione delle merci vale anche per il materiale viticolo.
Caratteristiche dei materiali di moltiplicazione della vite
• Base: materiale prodotto sotto la
responsabilità del costitutore, secondo metodi di norma ammessi per il mantenimento dell’identità della varietà o del clone, proveniente direttamente da materiale di moltiplicazione iniziale per via vegetativa e destinato alla produzione di materiale di moltiplicazione certificato
• Certificato: materiale proveniente
direttamente da materiale di moltiplicazione di base o iniziale, destinato alla produzione di piante o di parti di piante che servono alla produzione di uve
• Standard: materiale che presenta
l’identità e la purezza della varietà e destinato alla produzione di piante o di parti di piante che servono alla produzione di uve
Mercato vivaistico: situazione attuale e tendenze Nel 1949 in Italia figuravano 2100 vivai di vite per un totale di 1873 ha impegnati. Le regioni con le superfici più estese erano: Veneto con 483,6 ha, Puglia con 285,2 ha, Friuli con 266,1 ha, Toscana con 192,9 ha, Piemonte con 140,7 ha ed Emilia Romagna con 105,9 ha. Le superfici a barbatellaio si estendevano su 829 ettari, mentre quelle a piante madri su 763 ettari. Si producevano complessivamente 171.445.000 barbatelle di cui 107.819.000 selvatiche e 63.525.000 innestate. Uno dei poli emergenti era già all’epoca Rauscedo dove nel 1933 erano stati costituiti i Vivai Cooperativi Rauscedo. L’apice della produzione venne raggiunto nei primi anni ’70, grazie soprattutto ai contributi previsti dal FEOGA, che di là a poco portarono però ad una sovrapproduzione di vino con relativo crollo delle quotazioni e quindi della redditività dell’investimento viticolo. A quel tempo la viticoltura era ancora orientata alle grandi
Innesti-talea destinati alla creazione del vivaio
256
vivaismo viticolo produzioni in grado di dare per lo più vini comuni, a parte quelli da taglio di Puglia e Sicilia. La produzione vivaistica riguardava varietà e portinnesti vigorosi e di cloni si iniziava appena a parlarne. La crisi del ’75 e ’76 segna comunque uno spartiacque tra vivaismo viticolo specializzato e vivaismo multiprodotto. Inizia infatti il ridimensionamento di poli vivaistici poco specializzati come Saonara e San Donà di Piave nel Veneto, Cenaia in Toscana mentre puntano invece all’alta specializzazione i poli di Rauscedo (PN) in Friuli e di Alba e Calamandrana in Piemonte. Gli anni ’80 sono contraddistinti dal ridimensionamento produttivo, dall’impegno sia pubblico che privato nei programmi di selezione clonale e da un mercato del vino che stenta a trovare il giusto equilibrio tra domanda e offerta a causa del continuo calo del consumo nei Paesi grandi utilizzatori di questa bevanda. Tra il 1993 e il ’96 una nuova crisi mette a dura prova tutti i vivaisti europei: i 60 milioni di ettolitri di surplus di vino registrato a livello mondiale nel 1993 fanno crollare gli investimenti viticoli e di conseguenza anche le produzioni vivaistiche. Nel ’94 in Italia si producono poco più di 40 milioni di barbatelle innestate e 15 di selvatiche, in Francia 70 milioni di innestate: praticamente rispetto a pochi anni prima le produzioni risultano quasi dimezzate. La ripresa avviene con la OCM-vino che ha l’obiettivo di qualificare la produzione vitivinicola europea, ridurre le distillazioni, incrementare la formazione di aziende di maggiori dimensioni e con capacità di reddito più elevate. Dal 1996 al 2005 grazie alle ristrutturazioni, alla maggiore densità di impianto, alla esigenza di abbandonare i vigneti troppo produttivi in grado di dare solo vini generici è un crescendo continuo della domanda di barbatelle. In questo periodo si affermano nettamente i vivaisti che più hanno creduto nella selezione clonale, nella diversificazione di varietà e portinnesti, nella proposta di prodotto/servizio ad alto contenuto innovativo. I Vivai Cooperativi Rauscedo ne sono un esempio: in poco meno di vent’anni hanno raggiunto una produzione annua di 60 milioni di barbatelle delle quali un terzo circa esportate in oltre 25 Paesi del mondo. Scelta delle varietà. La produzione vivaistica dei diversi vitigni rappresenta una chiave di lettura obiettiva dell’andamento della richiesta varietale. E’ evidente infatti come l’evoluzione ciclica nella domanda varietale abbia riguardato solo pochi vitigni per di più a carattere locale mentre tutti i più importanti, sia a carattere internazionale che nazionale, sono oggetto di evoluzione anticiclica. Significativo è l’interesse attuale per lo Chardonnay, il Pinot Nero (per ottenere uve per base spumante) del Primitivo (=Zinfandel=Kratoscia), del Prosecco e della Garganega: questi ultimi vitigni adatti alla produzione di vini giovani, freschi, floreali, leggermente fruttati. La riduzione dell’utilizzo di Merlot, Cabernet Sauvignon, Syrah e Sangiovese in Italia è dovuta anche al fatto
Barbatellaio e serra dei Vivai Cooperativi Rauscedo (VCR)
257
coltivazione che dal 1996 al 2004 si sono piantati soprattutto vitigni a bacca rossa con quote del 77% nell’annata 2001 e 2002. E’ giustificato quindi che il ridimensionamento della domanda globale di barbatelle, per effetto sia di minori impianti sia per spostamento su varietà bianche, si sia concentrata soprattutto sui vitigni rossi più diffusi e coltivati. Il consumo futuro di vino sarà orientato, a differenza del decennio precedente verso prodotti più accessibili dal punto di vista del prezzo e meno strutturati ed alcolici, quindi più accattivanti e freschi dal punto di vista del gusto. Con ciò non significa che i vini di grande lignaggio saranno dimenticati, ma con tutta probabilità il loro trend di crescita non sarà più quello del recente passato. Tanto si è verificato anche in Spagna, Francia, Portogallo e Grecia: è da considerarsi quindi un fenomeno globale del quale si deve tener conto soprattutto nei Paesi di vecchia tradizione viticola. È probabile, inoltre, che complessivamente il consumo di vino riguarderà nel futuro per il 60% i rossi e per il 40% i bianchi, salvo i diversi comportamenti locali. In Francia, per esempio, a parte la netta flessione nella produzione di barbatelle, da 157 milioni del 2005 a 118 milioni del 2006 (–25%) si è riscontrata una forte riduzione nella produzione delle varietà rosse: Syrah –51%, Merlot –34%, Cabernet Sauvignon –35%, Mouvedre –41%, Petit Verdot –30%, Grenache –51% e seppur in misura minore anche delle bianche: Chardonnay –25%, Chenin –24%. Quindi a differenza dell’Italia dove l’interesse si è spostato sui vitigni bianchi, in Francia la crisi ha depresso le produzioni vivaistiche, seppur in percentuali diverse, di tutte le varietà.
Portinnesti in Italia e Francia (2004) Varietà
Italia (ha)
Francia (ha)
Kober 5BB
374
69
SO4
293
467
420A
127
46
125 AA + 161/49 + 5C
104
128
Tot. Berlandieri X Riparia
898
710
1103P
521
113
140R
204
224
779P + 775P
160
-
110R
65
531
R. Du Lot
5
7
Tot. Berlandieri X Rupestris
955
875
101/14
13
102
3309
15
229
Tot. Riparia X Rupestris
28
331
41B
18
193
Gravesac
-
95
Fercal
-
179
≠
51
182
Totale generale
1950
2565
Scelta del portinnesto. La scelta del portinnesto rappresenta un momento importante in viticoltura per il ruolo che riveste come mediatore tra condizioni pedoclimatiche e caratteristiche
Andamento della produzione vivaistica delle varietà internazionali (n. barbatelle innestate in milioni) Varietà
97/98
98/99
99/00
00/01
01/02
02/03
03/04
04/05
05/06
06/07
Chardonnay
1,6
1,7
1,4
2,1
2,0
3,0
4,5
5,9
5,5
4,6
Pinot grigio
1,4
1,4
1,7
2,2
3,0
5,0
7,0
5,5
3,3
2,6
Sauvignon
0,5
0,5
0,4
0,6
0,8
1,0
1,2
1,6
1,9
2,0
Cab. Sauvignon
2,5
3,4
4,6
6,4
7,0
8,2
7,6
4,9
5,2
4,8
Merlot
3,2
4,4
5,8
6,2
6,3
8,3
9,4
5,8
6,2
5,2
Syrah
0,5
0,8
1,4
2,2
2,6
3,2
3,2
2,3
3,3
2,9
Pinot nero
0,4
0,5
0,4
0,5
0,6
0,7
0,8
1,3
1,3
1,4
Moscato bianco
2,3
2,3
2,2
2,0
1,4
1,0
1,4
1,7
2,0
2,0
258
vivaismo viticolo Andamento della produzione vivaistica delle varietà nazionali (n. barbatelle innestate in milioni) Varietà
97/98
98/99
99/00
00/01
01/02
02/03
03/04
04/05
05/06
06/07
Sangiovese
7,1
8,9
11,4
10,5
10,5
13,3
16,2
13,0
9,7
7,1
Montepulciano
2,2
3,3
4,2
4,2
4,0
4,4
4,2
5,0
4,0
2,2
Barbera
1,8
2,5
4,2
3,7
3,1
4,6
5,1
4,7
4,3
4,2
Nebbiolo
0,7
1,2
1,5
1,1
1,4
1,1
1,1
1,1
0,7
0,8
Prosecco
1,0
1,2
1,5
1,4
1,9
1,3
1,8
2,9
3,5
2,5
Garganega
1,1
1,2
0,9
0,7
0,8
1,0
1,0
1,2
1,5
1,3
Aglianici
0,4
0,5
0,8
1,1
1,1
1,2
1,6
2,1
1,9
1,5
Primitivo
0,3
0,3
0,4
0,5
0,8
1,4
1,8
2,9
3,5
3,5
Catarratto
0,3
0,2
0,1
0,1
0,1
0,1
0,1
0,4
1,6
2
Nero d’Avola
0,4
0,4
0,4
0,5
0,5
0,7
1,1
2,1
2,6
2
varietali e per la capacità di influenzare in via definitiva il comportamento del vitigno. Negli ultimi 30 anni, ad onor del vero, poco si è fatto per studiare più a fondo le caratteristiche dei portinnesti alla luce dei nuovi modelli viticoli adottati; spesso ci si avvale ancora di risultanze sperimentali riferite a modelli viticoli espansi (sylvoz, tendone, pergola) a bassa densità di impianto, a tecniche di coltivazione a volte fortemente diverse rispetto le attuali, a condizioni climatiche che attualmente non trovano più riscontro. Se un cambio di orientamento c’è stato è dovuto più all’influenza dei “consulenti”, che di volta in volta hanno suggerito portinnesti diversi da quelli comunemente usati, in forza di quanto riscontrato nella vicina Francia, che ad un risultato obiettivo della ricerca. Che dire infatti della “moda” per il 3309 e 101.14 di pochi anni orsono ora caduti quasi completamente nell’oblio o dell’attuale utilizzo del 110R anche in aree a clima temperato se non che a volte della scelta del portinnesto se ne fa un uso strumentale? Dobbiamo constatare che comunque in quasi tutti i Paesi viticoli 3 o 4 portinnesti rappresentano il 90% o più di quanto utilizzato e che soprattutto nei periodi di crisi il viticoltore gradisce disporre, per la sua vigna, di portinnesti “rustici” ovverossia in grado di abbassare il livello di una eventuale problematicità. Questa è la principale giustificazione alla ristretta gamma di portinnesti utilizzati oltre al fatto che la ricerca a livello mondiale non ha fatto molto per porre a disposizione genotipi veramente innovativi, a parte l’Università di Milano che con la nuova serie USMI 1-95, 3-35, 5-4, 6-88, 6-66 ha introdotto elementi di sicura novità, soprattutto nei confronti della resistenza alla siccità e alla clorosi ferrica.
Tendenze della produzione vivaistica
• Varietà nazionali: dal ’97 ad oggi si è
verificato un netto calo delle produzioni di vitigni rossi, ad eccezione del Nero d’Avola e del Primitivo. Per contro si è assistito recentemente ad una forte ripresa del Catarratto e ad un calo temporaneo del Prosecco
• Varietà internazionali: forte ripresa,
nell’ultimo quinquennio, di Sauvignon e soprattutto di Chardonnay. Negli ultimi anni si è assistito ad una sensibile ripresa del Pinot nero e ad un ridimensionamento del Pinot grigio. Nell’annata 2007/08, si attende una ripresa di quest’ultima varietà, e un netto calo per Syrah, Merlot e Cabernet Sauvignon
259
la vite e il vino
coltivazione Vitigni coltivati Attilio Scienza
www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche.
coltivazione Vitigni coltivati Foto R. Angelini
Origine, storia e caratteristiche produttive di alcuni vitigni coltivati in Italia L’origine del genere Vitis risale al Cretaceo superiore, all’inizio dell’Era Terziaria, circa 65 milioni di anni fa, da generi più antichi quali il Cissus e l’Ampelopsis. Può apparire strano, ma le zone dove questi generi prosperavano erano le attuali regioni artiche dell’Europa, l’America e l’Asia settentrionali e la Groenlandia. Infatti, mentre gran parte del mondo era ricoperto di acque, le terre emerse godevano di un clima molto favorevole, assimilabile a quello tropicale dei giorni nostri. Nelle fasi terminali dell’Era Terziaria, la Terra si raffreddò ciclicamente e nel corso delle ultime glaciazioni, la terza (di Riss) e la quarta (di Würm), quasi tutte le specie settentrionali scomparvero e rimase in Europa una sola specie, la Vitis vinifera, mentre nell’America settentrionale e nell’Asia orientale i relitti glaciali furono più numerosi. Attualmente si possono distinguere tre gruppi di specie: il boreoamericano il quale ha fornito le resistenze per le malattie crittogamiche e la fillossera ed è stato utilizzato per la creazione dei portinnesti e degli ibridi resistenti (con circa 28 specie), l’orientale-asiatico (con circa 40 specie) e il gruppo eurasiatico con la sola Vitis vinifera. Le prime viti assimilabili alla vite europea che conosciamo oggi compaiono nel Pliocene e nel corso delle pulsazioni glaciali, l’area di origine si frammenta in due rifugi, uno mediterraneo e un altro caucasico. Ai periodi caldi che interrompono le crisi glaciali, alle alte latitudini (Danimarca e Svezia meridionale) vanno fatti risalire
Distribuzione attuale della vite selvatica in Europa (zone tratteggiate) e delimitazione (in rosso) delle due zone rifugio, quella mediterranea e quella subcaspica, dove questa specie è stata spinta dalle pulsazioni delle ultime due glaciazioni del Quaternario
260
vitigni coltivati
Vitigno e cepage
• L’origine etimologica del termine
vitigno è dal latino vitis (tardo latino vitinius e volgare medioevale vitineus) e ha un’indubbia derivazione arioeuropea con una radice wei o wi che sta per volgere, piegare. L’inserimento poi nello stesso ambito etimologico dei vocaboli vitis e vinum indica l’imprescindibile legame della pianta con la bevanda da essa ricavata
• La connessione fondamentale che
caratterizza l’origine del nome era già presente in alcuni pittogrammi sumeri dove alla stilizzazione di una foglia di vite sarebbe stato attribuito il valore fonetico di tin, e din quello semantico di vino e vivere
Vigneti abbandonati della Calabria jonica
i resti più antichi. I calchi fossili delle foglie nelle argille e più tardi nel Neolitico finale-prima Età del bronzo e i vinaccioli attestano l’esistenza prima della vite selvatica e poi, dall’Età del ferro, della vite coltivata. Dalla pressione glaciale del Quaternario operata verso le regioni meridionali del continente si sono formati due centri di variabilità della vite: uno mediterraneo e un altro caspico. I vitigni appartenenti a questi gruppi geografici che si sono formati per domesticazione delle viti selvatiche e per introgressione genica sono riconoscibili per alcune caratteristiche morfologiche a carico della foglia e del grappolo e per la possibilità che hanno di essere riconosciute attraverso alcuni marcatori biochimici (per esempio profilo antocianico) e molecolari (per esempio microsatelliti). Alcune ipotesi sono state formulate per spiegare l’origine delle varietà coltivate: una che attesta l’origine delle varietà attraverso le migrazioni che da Oriente hanno portato in Occidente molte popolazioni assieme all’aratro, ai cereali coltivati, ai bovidi e al cavallo, e un’altra che può essere definita indigenista, che testimonia la domesticazione della vite in molti luoghi d’Europa e la nascita delle varietà come espressione di tante piccole culture locali. Non nega peraltro il ruolo esercitato dall’arrivo di vitigni da Oriente, dimostrabile sia dalla viticoltura della Magna Grecia sia, più recentemente, da quella dell’area renano-danubiana, presenti ancora come tali o come responsabili dei fenomeni di introgressione. L’analisi dei limes colturali (o frontiere nascoste) ancora presenti in alcune località italiane o lo studio dei rapporti genetici tra le viti selvatiche e i vitigni coltivati possono contribuire a chiarire meglio i meccanismi che hanno portato alle varietà attuali.
• Il termine francese cepage che non
evidenzia un legame diretto con il vino, deriva da cep, dal latino cippus (palo) e ha fatto la sua comparsa scritta nel XVI secolo. Esso ci consente di comprendere anche altre connessioni culturali. In primis il suffisso -age che designa la presenza contemporanea nel vigneto di più entità genetiche, quindi fotografa una viticoltura nella quale, contrariamente a ora si coltivavano più vitigni assieme. Nel tempo il termine generico di cepage è stato sostituito dal XIX secolo con vigne, plant de vigne, qualité de vigne, race de vigne e quindi da un nome specifico di vitigno
• Nel nome latino vitis da cui vitigno,
persiste il mito del vino, mentre in quello francese il nome originario assimila la vite a una qualsiasi pianta arborea sostenuta da un palo
261
coltivazione Invece, dal punto di vista semantico la formazione dei nomi dei vitigni è un fenomeno abbastanza recente anche se come si è visto, la base lessicale ha avuto origine dagli scritti dei georgici latini. È nel Medioevo che nascono i principali nomi dei vitigni dagli aspetti della vita quotidiana e dall’ambiente naturale del viticoltore. Numerose sono le cause che creano quella che venne chiamata fin dal 1600 “la confusione dei nomi”. La più frequente tra le sinonimie è quella che attribuisce allo stesso vitigno nomi diversi a seconda delle località di coltivazione (per esempio Sangiovese, chiamato Brunello a Montalcino, Prugnolo gentile a Montepulciano, Morellino in Maremma, Nielluccio in Corsica). Tra le false omonimie si ricorda quella che caratterizza alcuni gruppi varietali quali le Vernacce o le Malvasie, nei quali i vitigni, pur avendo lo stesso nome, non hanno nessun legame di parentela tra loro e il nome comune nasce dal vino a cui danno origine. Ci sono anche vitigni che appartengono a delle famiglie varietali, che pur condividendo tra loro il nome sono geneticamente distinti, anche se talvolta presentano un certo legame di parentela (i Refoschi, le Schiave, i Moscati ecc.). Un’altra categoria di vitigni è quella derivata da mutazione gemmaria di una varietà originaria. La mutazione può intervenire sul colore (Pinot grigio e bianco da nero), o sull’aroma della bacca (Traminer e Savagnin non aromatici derivati dal Traminer aromatico). Un gruppo di varietà che è nel tempo destinato ad aumentare è quello degli incroci e degli ibridi. I più diffusi sono il Müller Thurgau, l’incrocio Manzoni bianco, l’Italia ecc. La classificazione dei vitigni più seguita attualmente è quella che distingue i vitigni in base alla loro origine geografica. Il termine proles consente di dividere le varietà in occidentali, orientali e pontiche, e all’interno di queste in gruppi geografici. Questa distinzione può essere fatta in quelle zone dove i vitigni sono il risultato di domesticazioni molto antiche della vite selvatica (per esempio Francia), mentre per l’Italia, dove la piattaforma varietale si è formata per il trasporto di vitigni da zone anche molto lontane, questa classificazione su base geografica non è possibile. L’ampelografia è lo strumento utilizzato per descrivere e riconoscere i vitigni. E divenuta uno strumento efficace solo recentemente, quando si sono fissati gli organi da descrivere, foglia in primis, il livello di variabilità dei caratteri scelti e la fase fenologica per compiere le osservazioni. È chiaro che una descrizione è tanto più efficace quanto meno influenzabile dall’ambiente è l’organo da descrivere. Dalle schede descrittive si è passati alla fillometria, alla chemotassonomia e finalmente all’uso dei marcatori molecolari che hanno dato un contributo essenziale al riconoscimento delle varietà e la soluzione di molti problemi legati alle false sinonimie e omonimie.
Origine dei nomi
• Le principali denominazioni che sono
riportate nei documenti daziari, nelle opere letterarie o nei libri di cucina del ’400 e ’500 traggono di solito origine dalle caratteristiche sensoriali dell’uva e del vino (Bianchetta, Mora, Nerello, Verduzzo, Morellino, Dolcetto, Tazzelenghe ecc.) e dalle caratteristiche morfologiche e produttive delle varietà (Pagadebit, Olivella, Duracina, Empibotte ecc.). Meno frequenti sono quelle legate alla fenologia del vitigno (Agostenga, Lugliatica ecc.) o a toponimi e nomi di persone o santi (Malvasia, Vernaccia, Greca, Regina, Santa Maria, Carola ecc.). Per la loro origine selvatica alcuni vitigni mantengono il nome di Lambrusco (da labrusca), Sauvignon (da sauvage), Chenin (da caninus), Oseleta, Abrostine ecc.
Vigneti alle Cinque Terre
262
vitigni coltivati Sinonimie di alcuni vitigni Trebbiano Lugana Trebbiano Valtenesi
Sinonimie dei vitigni
Peverella
• La cartina a fianco mostra alcuni
esempi di vitigni che hanno denominazioni diverse (sinonimi) nei vari luoghi di coltivazione. Anche se le analogie morfologiche sono molto elevate, all’interno delle popolazioni che hanno subito pressioni selettive diverse per essere meglio adattate alle condizioni climatiche dei luoghi di coltivazione e ai tipi di vino alle quali erano destinate, è possibile riconoscere una certa variabilità che va conservata perché spesso interessa i costituenti fini della composizione del mosto
Tocai rosso
Grenache
Trebbiano Soave
Formentino Favorita
Bucalò
Pigato
Verdicchio
Vermentino Alicante
Garnaccia
Cannonau Verdicchio Cannonau
Guarnaccia
Numero di vitigni antichi
Vermentino
Salvaguardia e valorizzazione degli antichi vitigni italiani Si può tracciare un singolare parallelismo tra l’impoverimento genetico del patrimonio viticolo dell’Europa e quello che è accaduto nel corso della storia recente per le lingue, quelle parlate da piccoli gruppi di persone. Come ogni cultura locale ha ideato fonemi e idiomi per esprimere i modi di dire quotidiani, analogamente la viticoltura, soprattutto degli ambienti periferici, ha nel corso dei secoli scelto delle varietà che meglio di altre si adattavano a quei climi e all’alimentazione delle popolazioni locali. Nel mondo, 6000 lingue sono parlate solo dal 10% della popolazione e si perdono, nel Caucaso si perdono in modo irreparabile 100 vitigni l’anno. L’interesse per i vitigni antichi o minori nasce dal movimento ecologista degli anni ’70 che manifesta a favore della biodiversità in generale, sia essa animale che vegetale. Più recentemente sono intervenuti aspetti di natura economica quali la globalizzazione dei mercati realizzata da pochi vitigni internazionali e la conseguente necessità di segmentare l’offerta di vino, con la creazione di nicchie di mercato.
Anni
Andamento dell’erosione genetica nella viticoltura trentina dalla comparsa delle gravi calamità agricole fino ai nostri giorni. Un rallentamento è avvenuto attorno agli anni ’30 in coincidenza della crisi economica che aveva fortemente ostacolato il rinnovamento dei vigneti e da fine anni ’80 quando l’interesse per i vitigni antichi ha lentamente invertito una tendenza che sembrava inarrestabile
263
coltivazione Principali vitigni italiani tradizionali e antichi suddivisi per regioni
264
vitigni coltivati La riscoperta dei vitigni autoctoni, che sta assumendo i connotati di una vera e propria moda, rischia però di snaturare alcuni di questi vitigni, i più famosi come il Teroldego, o il Fiano o il Sagrantino dal loro territorio di origine. Il recupero e il reinserimento di un vitigno antico nella coltivazione ordinaria di un vigneto dovrebbe prevedere le seguenti fasi: – raccolta e catalogazione del germoplasma antico in modo capillare e sistematico; – caratterizzazione viticola ed enologica dei genotipi più interessanti; – caratterizzazione genetica per la verifica dei sinonimi e omonimi; – realizzazione di una rete di “viticoltori custodi”, tutori della variabilità del vitigno presso la loro azienda; – conservando nei “vigneti storici”, quelli di età superiore ai 6070 anni, la variabilità originale anche con interventi di dendrochirurgia per evitare le malattie del legno; – attivando un programma di formazione per viticoltori e operatori della filiera sulle problematiche e le opportunità offerte dai vitigni antichi; – realizzando nei territori più significativi eventi di comunicazione rivolti ai consumatori per fare associare nel loro immaginario valenze del territorio, gastronomia e vini da vitigni antichi; – iscrivere i migliori vitigni al Registro delle Varietà, sia nazionale sia provinciale, affinché possano essere propagati e coltivati.
Vitigni autoctoni, tradizionali e internazionali
• Aggettivi usati per definire delle
categorie varietali con origine, diffusione e importanza economica diversa
• Vitigni antichi o autoctoni sono
di norma coltivati su piccole superfici, in territori viticoli di lunga tradizione e talvolta sono soggetti a gravi pericoli di erosione genica
• Vitigni tradizionali sono varietà la cui
origine è documentata da molto tempo e la loro coltivazione è diffusa in molte zone d’Italia anche su superfici estese
• Vitigni internazionali sono varietà di
norma di origine francese, ma talvolta anche tedesca e spagnola, che hanno un’ampia diffusione in molte regioni viticole del mondo e che sono giunte in Italia verso la metà del 1800
Vigneti dell’Oltrepò pavese la cui pendenza rende molto difficile la meccanizzazione
265
coltivazione Evoluzione della piattaforma viticola italiana Negli ultimi trenta anni le dinamiche varietali in Italia hanno subito profonde modificazioni a causa del favorevole ciclo di rinnovo degli impianti viticoli, dell’affermarsi dei vini a Denominazione d’origine e dell’adeguamento varietale alla domanda di vino del mercato internazionale. I vitigni ammessi alla coltivazione sono circa 370, una piccola parte delle varietà presenti in Italia, che si stima siano circa 1500. I vitigni sono classificati in raccomandati, destinati alla produzione dei vini a Denominazione d’origine controllata e autorizzati per la produzione degli altri vini (a Indicazione geografica tipica e vini da tavola) e gli elenchi hanno valore provinciale. Il Censimento generale dell’agricoltura del 2000 individua 28 vitigni che sono coltivati su superfici superiori ai 5.000 ha e rappresentano circa il 66% della superficie vitata totale italiana. Il più diffuso di questo gruppo è il Sangiovese (10% della superficie vitata), seguito dal Catarratto b. (6,3%), Trebbiano t. (6,3%), Montepulciano e Barbera (4,2%). Tra i vitigni internazionali quello più diffuso è il Merlot (3,8%), seguito da Chardonnay e Cabernet Sauvignon. Le tendenze per i prossimi anni evidenziano un incremento dei vitigni internazionali, bianchi in particolare, ma anche una riscoperta dei vitigni tradizionali e antichi, soprattutto in Campania, Sicilia e Sardegna.
Valorizzazione dei vitigni antichi italiani
• È necessario fare ricorso alla
cosiddetta enologia varietale, evitando quelle pratiche enologiche che vengono applicate per produrre attualmente la gran parte dei vini nel mondo, quali l’uso di lieviti e batteri selezionati, della temperatura controllata nella fermentazione, dell’invecchiamento in barrique nuove, o l’uso dei trucioli
• È inoltre necessario il ricorso
filologico ai rapporti che esistevano in passato tra caratteristiche del vino e gastronomia, per ridare al vino quei contenuti culturali che ne fanno un prodotto irripetibile
Schede varietali Nella descrizione di alcuni vitigni che sono rappresentativi della viticoltura mondiale e del nostro Paese, è stato privilegiato l’aspetto storico-culturale a quello ampelografico. Oltre all’origine e alle vicende storiche che ne hanno accompagnato il cammino attraverso la viticoltura italiana, è stata data una sintetica descrizione dei vini in relazione soprattutto ai vari ambienti di coltivazione che ne determinano alcuni aspetti del profilo sensoriale. Naturalmente, questi sono alcuni esempi per far capire come ogni vitigno abbia dentro di sé generazioni di viticoltori che lo hanno selezionato, ma anche l’essenza dei luoghi dove è prodotto. Vicino a vitigni dei quali conosciamo bene la storia e le caratteristiche vegeto-produttive, perché hanno ricoperto da molto tempo un ruolo importante nelle viticolture dei Paesi dove sono stati selezionati o diffusi, vi sono una miriade di varietà minori, presenti talvolta ormai come reliquie in vigneti marginali che aspettano di essere salvati, non per essere conservati nelle collezioni, ma per tornare a essere protagonisti di una viticoltura originale e non globalizzata. Per fare ciò è però necessario approfondire la conoscenza delle loro caratteristiche agronomiche ed enologiche per ottenere dei vini adatti al consumatore moderno, non solo per il piacere che possono dare attraverso le doti sensoriali, ma anche per l’appagamento culturale, dove il “buono da bere è buono anche per pensare.”
Vigneto dell’isola del Giglio inaccessibile a qualsiasi macchina operatrice
266
vitigni coltivati Vitigni stranieri (o internazionali) Merlot. Si ignora l’origine di questo importante vitigno bordolese, considerato fino al 1800 un vitigno di importanza secondaria e chiamato con un nome molto diverso da quello attuale, Crabutet o Vitraille. La sua comparsa coincide con una serie di eventi importanti nella storia della viticoltura francese. Il Claret, vino ottenuto dai Cabernet e dal Cot, fino ad allora incontrastato dominatore dei mercati inglese e americano, entra in crisi, per quella che viene chiamata la “rivoluzione delle bevande” che sposta l’interesse dei consumatori verso altri prodotti alcolici quali vermuth, gin, whisky ecc. e per le distruzioni operate dalla fillossera nei vigneti più vecchi. La ricostruzione dei vigneti privilegia il Merlot per la precocità, produttività e ricchezza di antociani. In Italia giunge verso la fine dell’800, prima nelle collezioni di Incisa della Rocchetta e dell’Acerbi e in seguito mescolato con marze di Malbec e Carmenere nei vigneti di alcuni illuminati viticoltori del Veneto. Negli anni ’50-’60 raggiunge il massimo della sua diffusione, soprattutto nell’Italia nord-orientale alla quale segue un lento declino per il progressivo peggioramento della sua qualità a causa delle forzature produttive alle quali era stato sottoposto nei terreni fertili di pianura. A partire dagli anni ’90, il Merlot ritorna a essere un vitigno di moda, non più per produrre vini comuni da pasto, ma di grande qualità da solo o con altre varietà bordolesi e italiane alle quali conferisce morbidezza, eleganza e stabilità cromatica.
Merlot
• Il suo nome richiama quello del merlo
per il colore nero del suo piumaggio, dal punto di vista evolutivo rappresenta il risultato della selezione dell’Ascheria, vecchia varietà basca, analoga al Cabernet franc. Come molti altri vitigni dalle origini molto antiche, anche il Merlot presenta mutanti a frutto rosa e grigio
• Nel passato era considerato un vino
“femmineo” soprattutto se confrontato con il più austero Cabernet Sauvignon, ma alcuni Merlot australiani e toscani hanno dimostrato che, in opportune condizioni di produzione, l’eleganza e la potenza non erano caratteristiche antitetiche
• Gli americani lo amano per la sua
morbidezza e aroma fruttato, che si contrappone ai più complessi e impegnativi Cabernet, per il suo gusto internazionale dove il vitigno deve essere riconoscibile, non banale, per le note di balsamico conferite dal legno
Vigneti soprastanti l’abitato di San Michele all’Adige (TN)
267
coltivazione Foto Vivai Cooperativi Rauscedo
Val Lagarina (TN)
Sull’esempio dei Merlot prodotti nelle regioni calde del Nuovo Mondo (la California con 15.000 ha presenta la maggiore superficie coltivata a questo vitigno) trova una seconda patria nell’Italia meridionale. Il vitigno presenta delle caratteristiche vegetoproduttive peculiari che ne rendono talvolta difficoltoso l’adattamento ad alcuni ambienti di coltivazione. Il germogliamento e la fioritura precoci lo espongono al rischio di gelate primaverili e di colatura dei fiori in annate con primavere fredde. Se la produzione per ceppo è limitata a 1,5-2,5 kg, soprattutto se associata a una buona superficie fogliare, il suo potenziale qualitativo è molto interessante e si esprime in vini dalle caratteristiche aromatiche intense, modesta acidità, morbidezza, buon equilibrio di antociani e tannini. Con produzioni troppo elevate i vini appaiono diluiti, senza carattere e poco adatti all’invecchiamento. Il miglioramento genetico ha in questi anni messo a disposizione dei viticoltori un numero elevato di cloni che si dividono in due gruppi: cloni a basso rendimento e forte potenziale aromatico e polifenolico (INRA 181, 343, 184) e cloni più produttivi con aromi più fruttati come l’INRA 340 e l’R 18.
Merlot
Tipologie sensoriali di Merlot in Italia
• Nelle zone collinari di Veneto, Friuli
e Alto Adige con terreni argillo-calcarei abbastanza freschi e produzioni medie, i descrittori sono vegetale verde, minerale, fenolico
• In Italia centrale, sulla costa tirrenica
con suoli argillosi, ricchi di scheletro, con basse disponibilità idriche e basse produzioni, i descrittori sono speziato, fenolico, astringente, cioccolato
• In Sicilia, a una certa altitudine sul
mare, con terreni argillosi, irrigui, i vini sono tannici, speziati con sentori di cioccolato, menta e fenolico
268
vitigni coltivati Cabernet Sauvignon. Nel 1875 Secondat Montesquieu, figlio del famoso scrittore politico francese, descrisse il Cabernet come il “vitigno perfetto” riuscendo nella difficile sintesi tra rusticità ed eccellenza delle caratteristiche dell’uva. Tradizionalmente la sua origine viene identificata nel Bordolese ma i suoi natali non sono stati ancora accertati. Dei Cabernet, il Sauvignon è il più famoso e deriva da un incrocio spontaneo tra Cabernet franc e il Sauvignon bianco. In Italia giunge ufficialmente per la prima volta nel 1820, importato dal conte di Sambuy nella sua azienda in provincia di Alessandria. Nel 1903 era ormai diffuso in 45 provincie italiane. Era chiamato genericamente “Bordò” assieme ad altre varietà come il Cot o il Cabernet franc con le quali era coltivato, senza distinzione alcuna. Al Cabernet Sauvignon è legata la notorietà di uno dei più famosi vini italiani: il Sassicaia. La sua storia risale alla fine degli anni ’70, quando Mario Incisa della Rocchetta a Bolgheri decide di produrre un vino che potesse stare alla pari con quelli prodotti dagli allevatori di cavalli, suoi amici, del Bordolese. Dopo vari tentativi con diversi vitigni con esito non soddisfacente, pianta un vigneto con le marze di Cabernet Sauvignon e nasce il Sassicaia. È un vitigno dotato di una grande stabilità produttiva sia in ambienti sia in annate diverse, preferisce terreni argillosi, non molto fertili per evitare i danni della colatura dei fiori. Per la sua fertilità basale delle gemme si adatta bene alla forma di allevamento a cordone speronato, tollera sebbene la maturazione sia tardiva, la botrite, è peraltro molto sensibile in terreni ricchi di potassio al disseccamento del rachide. Mentre in passato i vini di Cabernet Sauvignon venivano usati per migliorare i vini di uve locali, ai quali apportavano finezza e stabilità del colore, come per esempio del Sangiovese, attualmente viene vinificato in purezza o con il Merlot.
Cabernet Sauvignon
• Il suo antico nome, Biturica o Balisca
tradisce a seconda delle fonti, le lontane origini spagnole o nell’Epiro, ma forse la Spagna è stata l’ultima tappa prima dell’arrivo a Bordeaux di un lungo viaggio sulle rotte d’Oriente
• Il marchese Incisa della Rocchetta che
l’aveva introdotto nella sua collezione nel 1860, così lo descriveva: “è un vitigno di robustezza ordinaria, ma vigoroso, che ama un terreno più fertile di quello del Cabernet franc e dà ogni anno una produzione uniforme. L’uva ha un sapore distinto, ma un po’ aspretto. Il vitigno è da ritenersi fra i più pregevoli e degni di essere propagati”
Cabernet Sauvignon Bolgheri (LI)
269
coltivazione Pinot nero. La sua origine può essere fatta risalire ai primi secoli della nostra era, ai processi di domesticazione e alle prime esperienze di coltivazione della vite, cosiddette per protezione, nelle regioni attorno al Reno e al Danubio settentrionale. Spetta agli ordini monastici, benedettini in primis, sotto il governo dei Franchi, il compito di selezionare e moltiplicare le viti più produttive, nate da incroci spontanei, per ricostruire la viticoltura della Borgogna. Per la verità Columella, qualche secolo prima, aveva descritto un vitigno selezionato dai Celti le cui caratteristiche morfologiche corrispondevano perfettamente a quelle del Pinot nero che conosciamo oggi. Nel XIV e XV secolo la sua coltivazione viene protetta dai Duchi di Borgogna, per la concorrenza sleale del Gamay, molto più rustico e produttivo. L’800 con lo sviluppo degli studi ampelografici, mette in evidenza la sua grande variabilità che si concretizza nella descrizione di più di cinquanta tipologie di Pinot differenti per colore delle bacche, del succo, per la produttività, precocità di maturazione o nome del selezionatore. La causa di questa grande variabilità risiede nell’alta frequenza con la quale compaiono in questo vitigno le mutazioni di origine chimerica che modificano, talvolta in modo solo temporaneo l’espressione di alcuni geni che controllano il colore delle bacche (dal Pinot nero si sono originati il grigio e il bianco) o la forma del grappolo. Attualmente, la classificazione delle tipologie di Pinot nero si basa su due tipologie, quella cosiddetta dei tipi fini destinati alla produzione di vini rossi e quella dei tipi produttivi che invece si usano per le basi spumanti. All’interno dei due tipi ci sono diversi cloni quali rispettivamente l’INRA 114, 115, il MIRA 3131, SMA 201 e l’INRA 583, Lb9, R 4.
Pinot nero
• Recenti analisi del DNA hanno
accertato che i suoi genitori sono stati il Traminer e una forma di Pinot ancestrale, a foglie tomentose, i cui caratteri morfologici sono ancora riscontrabili in viti selvatiche presenti in alcune isole sul Reno
• Il nome Pinot o meglio Pynos compare
nel XIV secolo in un’opera letteraria e fino a quell’epoca veniva chiamato Plant, aggettivato con il nome della sua provenienza geografica o con le caratteristiche dei tralci o dei grappoli (Plant gris, Plant dorè ecc.)
Vigneti dell’Oltrepò pavese
270
vitigni coltivati
•Pinot nero e spumanti di qualità • L’Oltrepò rappresenta oggi la zona
italiana con la maggiore superficie di Pinot nero, la seconda al mondo dopo la Borgogna, ma il suo utilizzo è in gran parte destinato alla produzione di basi spumanti
• È un vitigno capriccioso che esige da parte del viticoltore grandi attenzioni nella scelta dei cloni e dei luoghi di coltivazione e nel corso della vinificazione e affinamento, cure maniacali, fatte di accorgimenti e soluzioni e tenute accuratamente segrete dal produttore
Viticoltura trentina
Malgrado sia un vitigno adatto soprattutto per i climi settentrionali, in Italia si diffuse lungo tutta la penisola a partire dalla fine dell’800 per la sua elevata produttività e la capacità di accumulare zucchero. Per la sua sensibilità alla botrite e l’eccessiva precocità di maturazione, in occasione della seconda ricostruzione postfillosserica della viticoltura, la sua coltivazione si è ristretta all’Alto Adige, all’Oltrepò Pavese e marginalmente al Veneto orientale e al Friuli. Per la produzione di vini rossi di stile borgognone sono però necessarie alcune precise condizioni pedoclimatiche: suoli abbastanza argillosi, freschi durante l’estate, clima temperato con elevate escursioni termiche tra giorno e notte che di norma si riscontrano su quote di 400-600 m. s.l.m. Oregon e Nuova Zelanda hanno in questi anni prodotto degli ottimi Pinot nero molto vicini allo stile borgognone, soprattutto per le caratteristiche del clima e per una tecnica di vinificazione tradizionale. L’aspetto compositivo più difficile da controllare è la non contemporanea maturazione fenolica dei vinaccioli e delle bucce, che fa si che l’uva con un adeguato contenuto in zuccheri, in ambienti caldi non presenta un livello accettabile di polimerizzazione delle procianidine dei semi che nel corso della macerazione fermentativa passano nel vino e lo rendono astringente e amaro.
Pinot nero
271
coltivazione Chardonnay. Alcune recenti scoperte della biologia molecolare hanno riscritto l’origine genetica dello Chardonnay, identificandone i genitori, il Pinot nero, vitigno autoctono del bacino del Reno e il Gouais, giunto invece dalla Pannonia o dalla Dalmazia. Assieme allo Chardonnay, l’incrocio aveva generato una quindicina di vitigni tra i quali i più famosi sono il Melon e il Gamay. A Carlo Magno e alla regola benedettina va il merito di avere ricostruito la viticoltura dell’Europa continentale diffondendo queste varietà in un territorio, la Borgogna, che per la sua posizione geografica era attraversato dai pellegrini che andavano a Roma e che aveva quindi delle buone opportunità per vendere il suo vino. In Italia è stato introdotto dapprima nelle collezioni ampelografiche, ai primi dell’800 con il nome di Pinot Chardonnay, ma le prime testimonianze della sua coltivazione sono più tardive e provengono dal Tirolo italiano, dove il vitigno era stato introdotto dall’Istituto Agrario di S. Michele. Ma la sua scarsa produzione e la concorrenza di altre varietà bianche molto più adatte al mercato austriaco, come la Vernaccia o il Lagarino, lo relegarono alla collezione ampelografica dell’Istituto. In Italia non ha avuto inizialmente il successo degli altri vitigni francesi e solo dopo la rottura del mito borgognone operato da Mondavi in California con uno Chardonnay che imitava magistralmente lo stile francese, ha iniziato timidamente a diffondersi presso quei viticoltori che avevano un buon mercato negli Stati Uniti dove questo vino boisè era molto apprezzato, rimuovendo quel luogo comune che vedeva le regioni calde inadatte alla coltivazione di questo vitigno. Lo sviluppo della spumantistica classica ha ulteriormente contribuito alla diffusione dello Chardonnay, quale vitigno insostituibile per la produzione delle basi. Vitigno ubiquitario, sta attualmente
Chardonnay
• Per molto tempo è stato confuso con
il Pinot bianco a tal punto che in Italia la distinzione risale solo al 1974
• La sua consacrazione come vitigno
per produrre vini destinati alla “presa di spuma” avviene per merito di Giulio Ferrari, vivaista e piccolo produttore di spumanti che lo diffonde in Trentino presso i viticoltori della zona di Lavis e dei dintorni di Trento
• Vicino a tanti pregi (varietà di poche
esigenze climatiche e pedologiche e di facile coltivazione), presenta alcuni difetti gravi quali la sensibilità alla flavescenza dorata, ad alcune virosi e alla malattia di Pierce, anche se limitatamente alla California
Val di Cembra (TN)
272
vitigni coltivati subendo le conseguenze negative di questa sua dote, in quanto viene coltivato in tutto il mondo e ormai l’unica discriminante per la scelta del consumatore, a parte qualche marca famosa, è rappresentata dal prezzo. La sua grande diffusione spaziale ha consentito di operare pressioni selettive in molte parti del mondo e quindi di omologare molti cloni che si distinguono per il potenziale aromatico (da neutri a moscati), per la produttività, per il controllo dell’acidità e quindi più adatti alla produzione di basi spumanti e per la tolleranza alla botrite. Ai tanti cloni omologati in Francia si sono aggiunti cloni molto pregevoli ottenuti in Italia quali i VCR 4 e 10, gli SMA 130 e 108, tra i primi omologati in Italia e i STWA dell’Università di Milano, dal profilo sensoriale aromatico. Nel mondo si riconoscono almeno tre tipologie di vini di Chardonnay, che sono il risultato di diverse interazioni con l’ambiente e di precise scelte enologiche. Il vino prodotto nelle regioni temperatofresche, ottenuto sia con vinificazioni in acciaio sia in barrique, ha una buona acidità, aromi fruttati e floreali, abbastanza concentrato con retrogusto di nocciole e buona attitudine all’invecchiamento. In zone più calde compaiono dei descrittori olfattivi agrumati, in bocca si presentano concentrati con retrogusto di nocciola e di tostato. Lo Chardonnay delle regioni meridionali, della Sicilia soprattutto, presentano delle interessanti analogie con i similari prodotti australiani e californiani.
Chardonnay Vigneti dell’Oltrepò pavese
Foto R. Angelini
273
coltivazione Sauvignon. Presenta due sottovarietà, una a bacca gialla da destinare alla produzione dei vini cosiddetti moelleux, cioè dolci da infavatura da botrite nobile del sud-ovest, e una a bacca verde per i vini secchi del centro e della Turenna. È presente nei vigneti più vecchi, anche un mutante a sapore moscato, così come è ancora possibile incontrare alcune piante isolate di Sauvignon rosa, rosso e violetto, dall’aroma più intenso, attualmente coltivati diffusamente in Cile e che probabilmente sono la madre del Cabernet Sauvignon. In Italia è arrivato mescolato con il Semillon assieme al quale è coltivato nella regione del Sauterne e forse al Sauvignonasse (chiamato ora Tocai) verso la fine del 1700 in Friuli. Agli inizi del 1800 era presente in molte collezioni ampelografiche dalle quali si diffuse in molte regioni italiane soprattutto lungo il versante adriatico. I risultati della sua coltivazione furono ovunque lusinghieri: vini eccellenti, dal sapore leggero di “fico secco zuccherino”, adatti all’invecchiamento anche se talvolta un po’ poveri di acidità. Aveva però una maturazione precoce, nelle annate umide soffriva per i danni da botrite ed era più sensibile dei vitigni locali alle crittogame. Inoltre, la produzione non era mai abbondante. Veniva normalmente impiegato per le sue doti aromatiche e per gli elevati tenori in alcole come vino da taglio per migliorare i Trebbiani e altri vini di scarsa serbevolezza. Sono attualmente disponibili alcuni cloni sia francesi sia italiani, tra questi l’R3 si distingue per le sue doti aromatiche. In Francia le tipologie di vino di Sauvignon si rifanno ai due ambienti principali di coltivazione: la valle della Loira e il Bordolese. Nella valle della Loira, nella denominazione Sancerre, i vini presentano tonalità aromatiche verdi con sentori di gemme di ribes nero, mentre nella denominazione Pully-Fumè i vini sono più eleganti da giovani, con note fruttate da cassis e da ginestra che con l’invecchiamento assumono un carattere pierreuse, da pietra focaia, minerale. Nel Bordolese, nella regione di Entre-deux-Mers, il profilo sensoriale dei vini di Sauvignon per effetto della concorrenza della Nuova Zelanda, ha in questi anni subito un notevole cambiamento dovuto all’adozione di tecniche enologiche condotte in assoluta riduzione, con il risultato che i vini non presentano più toni verdi, ma agrumati, di cedro, molto morbidi che con l’invecchiamento evolvono verso eleganti mineralità. In California, i Sauvignon assomigliano di più a quelli del Bordolese con una nota boisè (blanc fumè) che bene si integra con i descrittori agrumati e di frutta bianca. Nuova Zelanda e Cile invece si ispirano ai vini della Loira con una nota legnosa in più che spesso toglie eleganza al vino. I Sauvignon del Friuli e dell’Alto Adige si pongono in una posizione intermedia con un buon equilibrio tra i sentori verdi e pirazinici e quelli agrumati e minerali.
Sauvignon
• La radice del suo nome, da sauvage,
indica l’origine genetica di questo vitigno, frutto di domesticazioni dalle viti selvatiche dell’estuario della Garonna
• Assieme al gruppo dei Cabernet
condivide l’aroma caratteristico di peperone verde, di aristolochia e di foglia di pomodoro, al quale si aggiungono per effetto della fermentazione alcolica e di alcuni precursori tiolici altri prodotti secondari, chiamati mercaptometilpentani (MMP) che apportano sentori di bosso, di frutto della passione, di scorza di agrume
• Per questo vitigno appare
particolarmente importante la scelta di miscele clonali che meglio controllano la maturazione dell’uva evitando che, in climi caldi, avvenga troppo rapidamente
Sauvignon
274
vitigni coltivati Alcuni vitigni tradizionali italiani Sangiovese. Le origini di un vitigno sono tanto più lontane nel tempo e misteriose per i luoghi, quanto più numerosi sono i suoi sinonimi. Pochi vitigni hanno tanti nomi quanti ne ha il Sangiovese e non per le camaleontiche manifestazioni morfologiche del suo grappolo utilizzate per individuare il vitigno (piccolo, grosso, doppio, prugnolo, dal cannello, dolce, forte ecc.), ma anche per le sue origini geografiche (Brunello, Prugnolo gentile, Morellino, Calabrese, Chiantigiano, di Romagna, romano ecc.) e per le vernacolizzazioni legate ai luoghi di coltivazione (Sangineto, Sangiogheto, Sanzoveto, Sanvicetro). Le sue oscure origini, contese dai romagnoli e dai toscani, conferiscono al vitigno un’aura mitica che riporta, attraverso il suo nome, al sangue e ai suoi simboli, quali il sacrificio alla divinità: sangiovese ossia sangue di Giove (sanguis Jovis). Altre fonti toscane e corse sostengono invece l’origine da sangiovannese (San Giovanni) per il suo germogliamento ed epoca di maturazione abbastanza precoci. La semantica del nome potrebbe essere anche legata al termine jugum, giogo, di origine romagnola (sanzves), riferendosi alla sommità di un monte o al termine francese jouellè (filare di vite) o jouelle (stanga che collega due viti) derivato dal latino jugalis o jugum, forma di allevamento dalla quale si è evoluta la pergola che può rappresentare un sostrato pertinente in analogia a quanto avviene per le Schiave, dove il nome del vitigno identifica le sue modalità di allevamento. Originali sono anche le implicazioni tra lingua etrusca e i significati della parola sangiovese. Infatti in un testo etrusco, il Liber Linteus, una sorta di calendario scritto sulle bende che avvolgevano una
Sangiovese
• Le prime citazioni letterarie del vitigno
risalgono solo alla fine del ‘500, dove in un trattato di agricoltura, scritto da un erudito toscano, il Soderini, si elogiano le sue doti produttive. Nell’800 si moltiplicano le citazioni e le descrizioni del vitigno, ma compaiono anche molti sinonimi che saranno causa di non poca confusione nella descrizione successiva del vitigno
• In passato veniva vinificato con
altre varietà (per esempio Chianti) sia a frutto bianco (Trebbiano t., Malvasia lunga) che rosse (Canaiolo, Colorini, Mammolo, Malvasia Nera) per attenuarne il tannino spesso aggressivo, per evitare le note aranciate del vino invecchiato e per apportare una nota aromatica primaria
• È il vitigno più importante nella
miscela varietale del Chianti, è il vitigno esclusivo delle DOCG Brunello di Montalcino, Nobile di Montepulciano e della DOC Morellino ed è presente in quasi tutti i vini rossi toscani
Vigneti in Toscana
Foto P. Bacchiocchi
275
coltivazione mummia egiziana del I secolo d.C., accanto alla parola vinum, si trova la parola s’sntist’celi che potrebbe essere un tipo di vino e che ha un’assonanza con il termine sangiovese. Altri termini che richiamano il sangiovese legati alla sfera rituale, sono thana-chvil (offerta votiva), thans-zusleva (offerta di chi compie un rito), thezin-eis (offerta a dio) e ancora sanisva, molto vicino all’espressione romagnola sanzvè che ha il valore di padre o di antenato (vino per un’offerta ai padri). Questa attribuzione del vitigno alla cultura etrusca, fatta in passato da più Autori è stata recentemente messa in discussione dalle implicazioni di un suo sinonimo, il Calabrese, che ha aperto nuove prospettive nella ricerca delle sue origini più lontane. Dall’analisi del DNA infatti si è scoperto che il Sangiovese ha un genitore che si chiama Ciliegiolo, forse di origine spagnola, e un altro che si chiama Calabrese di Montenuovo, per la sua provenienza da una località della Campania dove una famiglia di calabresi di origine albanese aveva piantato un vigneto con viti provenienti appunto dal loro Paese di origine. L’identità del Sangiovese toscano con quello romagnolo e con il Brunello, il Prugnolo gentile e il Morellino è stata dimostrata fin dal 1700 e confermata da autorevoli studiosi sia nell’800 sia nel ’900 che hanno attribuito questa variabilità morfologica del vitigno alla presenza di sub-popolazioni dalla spiccata connotazione territoriale, quali espressioni di selezioni operate in ambiti ristretti. Numerosi riscontri sperimentali hanno però confermato l’esistenza di due fondamentali tipologie di Sangiovese, riconducibili a un tipo grosso o dolce al quale corrispondono gran parte dei biotipi coltivati in Toscana e in Romagna e un Sangiovese piccolo o forte o ingannacane che corrisponde al Sanvicetro del Casentino, che presenta caratteristiche genetiche diverse.
Sangiovese Vigneti in Romagna
Foto P. Bacchiocchi
276
vitigni coltivati Nebbiolo. La sua coltivazione è nota fin dal 1200 in molte località del Piemonte medievale anche se in zone molto diverse da quelle dove è coltivato attualmente. Originario probabilmente da un territorio a cavallo tra la Valtellina e il Piemonte orientale, come dimostrano le analisi del suo DNA nel quale sono presenti tracce di Freisa e di altri vitigni minori della Valtellina, è sempre rimasto saldamente ancorato ai luoghi dove è stato selezionato per le sue elevate esigenze pedo-climatiche. La prima citazione è del De Crescenzi all’inizio del 1300 e già nel 1600 era noto nelle Langhe per le sue caratteristiche qualitative e dove era coltivato maritato all’olmo nella forma di allevamento detta “ad alteno”. La storia del suo vino più famoso, il Barolo, inizia in tempi abbastanza recenti, dopo Bonaparte con la Restaurazione e il ritorno dei Savoia in Piemonte. Il merito dell’origine del Barolo che conosciamo oggi è di Cavour. Allora il Nebbiolo era usato per la produzione di chiaretti assieme ad altre varietà come il Mostoso e il Neretto, ed era un vino frizzante. Cavour, direttore dell’azienda di famiglia a Grinzane, chiama da Reims l’enologo Oudart per fare il vino secondo i principi del Gen. Staglieno e nasce il Barolo che viene chiamato agli esordi, vino di Grinzane. Il vitigno è caratterizzato da una notevole variabilità fenotipica che si manifesta in un’elevata eterogeneità morfologica riconducibile ad alcuni biotipi che però in alcuni casi sono solo l’espressione di infezioni virali. Nelle Langhe sono presenti i biotipi Lampia, Michet e Bolla, caratterizzati da un diverso potenziale qualitativo e il Rosè che però all’analisi del DNA ha offerto un profilo molecolare diverso. In Valtellina si distinguono il biotipo Briotti, Chiavennascone e Intagliata.
Nebbiolo
• Il suo nome storpiato in Nibiol, Nebiolo, Nabiolo deriva forse da nebbia, per la sua maturazione tardiva, nel periodo delle nebbie o per la ricchezza di pruina, simile alla nebbia, che ricopre le bacche mature
• Nel Novarese si chiama Spanna,
che può derivare da Spionia, vitigno coltivato nel Ferrarese in epoca romana il cui nome deriva da spinus, prugnolo, frutto del Prunus spinosa che presenta un colore bluastro ma ricoperto da una fitta pruina, lo fa apparire quasi bianco
• In Val d’Ossola si chiama Prunent
e il richiamo alla radice semantica del prugnolo viene ancora confermata
• In Valtellina si chiama Chiavennasca, da ciu vinasca, ossia adatta alla vinificazione
Grumello, Valtellina (SO)
277
coltivazione
Nebbiolo
Sassella, Valtellina
Questa elevata variabilità è alla base dell’intenso lavoro di selezione clonale che ha portato all’omologazione di numerosi cloni che hanno consentito ai viticoltori di disporre di materiale esente da virosi, che era causa di notevoli riduzioni qualitative e dalle elevate capacità di sintesi polifenolica e aromatica. Il Nebbiolo è un vitigno molto esigente dal punto di vista pedoclimatico a causa del ciclo vegeto-produttivo lungo e per la sua maturazione tardiva ha bisogno di esposizioni molto favorevoli e pareti fogliari molto estese. Oltre ai famosi vini di Langa (Barolo, Barbaresco, Roero) e di Valtellina con lo Sfursat, si ricordano i vini del Piemonte orientale dove il Nebbiolo è vinificato con alcuni vitigni complementari quali la Vespolina, il Carema e il Donnaz, prodotti in due territori contigui di dimensioni molto limitate all’imboccatura della Valle d’Aosta.
Nebbiolo
• È il più importante vitigno rosso del
Piemonte, componente esclusiva del Barolo e del Barbaresco, del Gatimaro (90%) e del Ghemme (75%), le 4 DOC della regione
278
vitigni coltivati Aglianico. La fama del suo vino, a partire dal ’500, ha stimolato la ricerca di un’ascendenza nobile del vitigno che per l’assonanza del nome con “ellenico”, venne individuata in Grecia. Numerosi sono stati gli studi e le ipotesi che hanno cercato di dare contenuti probanti a questa ipotesi, ma probabilmente quella più verosimile fa risalire il nome alla parola spagnola llano (in italiano si legge gliano) che vuol dire piano da cui “uva del piano” per indicare con questo la qualità dell’uva. Infatti si contrapponeva in Campania la presenza longobarda a quella bizantina: i vini latini scadenti perché prodotti in pianura contro i vini greci più pregiati, perché prodotti sulla costa. È quindi possibile che l’Aglianico per la qualità del suo vino si sia distaccato dall’aggettivazione dispregiativa di vino latino della pianura e abbia cominciato a essere apprezzato in maniera autonoma, come si evince da un documento del 1520 che riferendosi a un vigneto sulla collina di Poggioreale precisava: “arbustata e vitata con viti latine e aglianiche”. La sua diffusione in molte località della Campania ha inoltre fatto attribuire a molti vitigni a bacca nera il termine di Aglianico (Aglianica, Aglianichello, Aglianicone, Glianica ecc.) portando non poca confusione nella corretta individuazione del vero Aglianico. È un vitigno che predilige i terreni collinari e a causa della maturazione tardiva dell’uva, buone esposizioni. In terreni sciolti di origine vulcanica, come a Taurasi, l’anticipazione delle fasi fenologiche consente la sua coltivazione fino a 500-600 m s.l.m. I vini che si producono sono di colore rosso rubino intenso che assume riflessi arancione con l’invecchiamento. Tannici da giovani migliorano con un invecchiamento anche prolungato, in virtù di una acidità elevata, assumendo un caratteristico sapore di liquirizia e di amarena sotto spirito.
Aglianico
• L’analisi con marcatori molecolari del
DNA ha messo in evidenza che i quattro tipi morfologici Aglianico, Aglianichello, Amaro, di Taurasi o del Vulture sono tutti geneticamente identici. Le altre due varietà, Aglianicone e il Tronto o Aglianico di Napoli, pur manifestando una stretta affinità con gli altri Aglianici, sono geneticamente diverse
• La maggior area di diffusione è la
Campania, Basilicata, Puglia e Molise
• In Campania il vino più noto a base di Aglianico è il Taurasi DOC (85%)
• In Puglia è il Castel del Monte Aglianico DOC (90%), in Basilicata l’Aglianico del Vulture DOC (100%)
Aglianico Forma di allevamento adottata a Taurasi (AV) per l’Aglianico
279
coltivazione Verdicchio. La sua estesa e antica area di coltivazione, tipicamente adriatica, ha generato molti sinonimi soprattutto dovuti all’aggettivazione morfologica anche se in parte errati (quali giallo, moro, peloso, verde, stretto, selvatico, doratello, piccolo ecc.), che fanno riferimento alla sua ampia variabilità fenotipica e alla vicinanza morfologica che ha con alcuni Trebbiani, dei quali è considerato sinonimo, come il Trebbiano verde (sinonimo errato) e il Trebbiano di Soave e di Lugana (sinonimo corretto). Questa sinonimia errata è stata alla base della sostituzione involontaria del Verdicchio con il Trebbiano verde, vitigno dalle doti qualitative molto inferiori, nella ricostruzione postfillosserica dei Castelli romani e che è stato alla base del decadimento di quei vini ottenuti da uve infavate (per esempio il Cannellino). Tra le prime citazioni, quella riferita al Bacci alla fine del 1500 quando parla dei vini piceni anche se, da buon neogeorgico, chiama il Verdicchio, Marana, alla località di coltivazione. In Romagna un vitigno simile era chiamato Verdetto e Trebbiano. Anche se le fonti più antiche sono marchigiane l’identità tra il Verdicchio e il Trebbiano di Lugana/Soave, ci consente di ipotizzare che il vitigno in questione sia di origine veneta in quanto alla fine del 1400 un numeroso gruppo di coloni provenienti dal veronese si era trasferito nelle Marche per ripopolare quelle campagne dopo un’epidemia di peste e, come era consuetudine, hanno portato con sé animali e piante dei luoghi di provenienza. In Trentino era diffuso nel periodo tra le due guerre con il nome di Peverella (in tedesco Pfeffertraube) per l’aroma speziato del vino e veniva usato, unitamente alla Nosiola e al Trebbiano t. per preparare il Vino santo della valle dei laghi. È un vitigno vigoroso, a maturazione medio tardiva, con alta sensibilità alla botrite per la sua buccia sottile, anche se in annate favorevoli e con grappoli spargoli può essere lasciato sulla pianta in sovramaturazione per ottenere dei vini da uve infavate. Il vino presenta quasi sempre un colore giallo paglierino abbastanza carico, con riflessi verdognoli, dal profilo sensoriale, da giovane, in cui prevalgono le componenti floreali (fiori di acacia), agrumate, da mandorla amara; mentre nel vino maturo appaiono dei sentori di cherosene, di pietra focaia, di elegante mineralità. Questi descrittori aromatici che sono presenti in altri vitigni quali il Timorasso o il Riesling, provengono dai cosiddetti precursori di aroma, i nor-isoprenoidi, frutto del metabolismo dei caroteni nelle prime fasi di sviluppo della bacca Alla fine degli anni ’30 il dottor Bruni, marchigiano, ottenne un incrocio tra Verdicchio e Sauvignon, chiamato Dorico, che coltivato in regioni calde, mantiene l’aroma tipico dei due genitori.
•Verdicchio • Il test del DNA ha provato che
Verdicchio, Trebbiano di Soave e Trebbiano di Lugano sono la stessa cosa
• Il suo nome fa riferimento ad un
gruppo numeroso di vitigni, la cui denominazione è espressione delle caratteristiche cromatiche del grappolo che si manifesta in riflessi verdastri alla maturazione, quali il Verdiso, la Verdea, la Verdeca, il Verdello, il Verduzzo ecc.
• Con il Verdicchio si producono i vini DOC marchigiani Castelli di Jesi e di Matelica e lombardi Trebbiano di Lugana. Entra anche nell’uvaggio del Soave
Verdicchio
280
vitigni coltivati Teroldego. La citazione più antica del Teroldego è del 1480 ed è contenuta in un contratto di acquisto di un terreno vitato in Trentino dove era coltivato. Descrizioni più precise dei luoghi di coltivazione (attorno a Trento e nella piana Rotaliana) e delle caratteristiche del vino (“… gustosi e gentili, sono vini muti che fanno parlare…”) sono riportate da Michelangelo Mariani, cronista del Concilio di Trento, nel 1673. Nell’800 le citazioni si fanno più numerose e dettagliate e in particolare riferiscono della qualità del vino prodotto a Mezzolombardo, piccolo comune a nord di Trento, e danno le prime descrizioni ampelografiche che consentono di distinguerlo da una Terodola e Tirodola coltivata nel veronese. Le descrizioni più precise provengono dall’area culturale tedesca che riferiscono della grande considerazione alla quale questo vino era tenuto sui mercati tedeschi e delle sue singolari doti enologiche (ricchezza di acidità e di colore) che consentivano di produrre fino a quattro vini dalle stesse vinacce utilizzando lo zucchero di bietola che proveniva a basso costo dalla Moravia. La prima descrizione originale in italiano è di Dalmasso del 1921, che riporta l’indicazione dell’Acerbi dell’esistenza di una Teroldega maggiore e una minore. In Valtellina è noto fino dal 1700 con il nome di Merlina. Da una recente ricerca condotta presso l’Istituto Agrario di S. Michele attraverso l’impiego di marcatori del DNA, si è evidenziata una singolare parentela del Teroldego con il Pinot nero e con lo Syrah, in cui il vitigno borgognone è il nonno dei due vitigni e quindi questi sono cugini tra loro. Il Teroldego è noto per il suo potenziale polifenolico, antocianico in particolare, che lo pongono al vertice dei vitigni rossi europei e non solo per le implicazioni enologiche ma anche salutistiche.
Teroldego
Vecchia pergola trentina
281
coltivazione Nero d’Avola. Il nome con il quale spesso è chiamato, Calabrese, nulla ha che fare con l’origine di questo vitigno, la Calabria. Infatti calarvisi o colanlisi da cui “calabrese” è il nome in vernacolo siciliano formato dall’unione di due parole: colla significa uva e anlisi sta per Avola. Infatti la prima citazione come Colavris è del 1616, mentre l’Acerbi nel 1825 usa già un termine più vicino a quello attuale, il Calabrisi niuro. Molti altri Autori siciliani nell’800 usano il sinonimo di Nerello calabrese o Nerello di Palermo intuendo la complessità della famiglia genetica alla quale appartiene e alla cui comprensione contribuisce con gli strumenti dell’ampelografia ottocentesca il Mendola che cita come diversi un Calabrisi d’Avola coltivato nell’Agrigentino, un Nirello calabresi diffuso a Riporto e un Nero d’Avola del siracusano. Alla fine dell’800, sotto l’incalzare della fillossera nel censimento delle varietà siciliane compaiono delle descrizioni ampelografiche che si rifescono a vitigni che condividono il nome, hanno qualche analogia ma sono diversi. Un elemento di costante differenziazione è la forma dell’acino, subrotonda nel Calabrese tondo ed ellissoide nel Calabrese pizzutello.
Nero d’Avola Alcamo (TP)
282
vitigni coltivati Tra i numerosi vitigni citati con questo nome si ricordano il Calabrese dolce, il Calabrese d’Avolo, il Calabrese di Leofonte, il più diverso dagli altri, e un Calabrese bianco. Questi vitigni, a Pachino e Vittoria, costituivano la base ampelografica dei vini che all’inizio dell’800, in grande quantità venivano esportati in Francia per rinforzare dei vini di Borgogna e Bordeaux, colore e alcole. Attualmente è il vitigno a bacca rossa più coltivato in Sicilia, soprattutto sulla costa nord-orientale e sud-occidentale dell’Isola. Presenta una buona produttività accompagnata da un discreto grado zuccherino, anche se abbastanza instabile di anno in anno, con un discreto contenuto in acidità tartarica e un potenziale antocianico elevato al quale però corrisponde un livello di tannini non molto elevato anche se ben polimerizzati. È molto sensibile alla peronospora, soprattutto nella forma larvata del grappolo, e alla botrite. È impiegato in tutti i vini rossi DOC e IGT della Sicilia.
Nero d’Avola
• Il vino Nero d’Avola si caratterizza al
naso per un aroma speziato (liquirizia, chiodi di garofano) e di frutti rossi (prugna, ciliegia, mora, ribes), mentre in bocca è pieno, con tannini morbidi e un retrogusto ammandorlato
• Da qualche anno è oggetto di uno
specifico progetto di valorizzazione da parte della Regione Sicilia che comprende la selezione clonale e la zonazione viticola
Vigneti in prossimità dell’Etna
283
la vite e il vino
coltivazione Impianto Leonardo Valenti
www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche.
coltivazione Impianto Le sistemazioni La sistemazione è il modo con cui vengono disposti i filari in relazione alla pendenza del terreno da impiantare a vigneto. Nelle sistemazioni idrauliche vengono distinte le situazioni di collina da quelle di pianura. In collina, l’eliminazione delle acque in eccesso è un problema che riguarda il convogliamento delle stesse in modo da evitare i rischi di erosione, ovviamente maggiori all’aumentare della pendenza. In pianura i filari si orienteranno parallelamente al lato più lungo dell’appezzamento da impiantare e dovranno possibilmente avere l’orientamento nord-sud. In collina, le pendenze più o meno accentuate, determinano scelte di orientamento differenziate che tengano conto sia dello scolo delle acque meteoriche, sia delle agevolazioni alle operazioni colturali. Quando la pendenza del terreno è limitata e uniforme diventa facile sistemare i filari in modo da favorire la meccanizzazione e avere la migliore esposizione alla luce.
Sistemazioni
• Nella realtà della viticoltura italiana,
localizzata per lo più in collina o montagna, riveste grande importanza il modo con cui vengono strutturati i versanti e sistemati i filari di vite, facilitando così le operazioni colturali e agevolando lo smaltimento delle acque, preservando il territorio da fenomeni erosivi e franosi
Sistemazioni di collina Sistemazione a rittochino. La sistemazione dei filari nel senso della massima pendenza, facilita la meccanizzazione, contribuisce al corretto deflusso delle acque, accentuando però i problemi del dilavamento e dell’erosione del terreno, per limitare i quali si può oggi positivamente contribuire con la tecnica dell’inerbimento. Il rittochino non pone particolari vincoli alla meccanizzazione, se non quello della pendenza nel momento in cui questa diventa superiore al 35-40%. Assai più difficoltosi riusciranno i lavori colturali manuali e ciò soprattutto nel caso di terreni a forte pendio per il disagio a doverli percorrere in salita e in discesa. Nel caso di vigneti con diverse inclinazioni nello stesso appezzamento, viene adottata la sistemazione a spina che permette di mantenere l’orientamento dei filari in massima pendenza.
Sistemazione a rittochino
Sistemazioni in collina
Foto R. Angelini
284
impianto
Sistemazione a spina
Sistemazione in traverso. Molto utilizzata in passato, quando le lavorazioni del terreno nel vigneto venivano fatte manualmente o con l’ausilio della forza animale (cavalli, buoi ecc.) ed era necessario avere condizioni di terreno in piano per poter lavorare in modo ottimale e senza perdite di tempo. Ha lo scopo prevalente di trasformare i pendii in una serie di appezzamenti di sufficiente ampiezza e di difenderli dal dilavamento, frenando il deflusso delle acque, facilitandone anche la conservazione. I filari possono essere orientati secondo le curve di livello senza modificare la pendenza naturale. Quando però la pendenza naturale supera il 6% circa, le distanze tra i filari devono essere maggiori (almeno 2,50 m), per permettere il passaggio di trattori sufficientemente grossi da essere stabili. Quando la pendenza si avvicina al 20% il profilo naturale viene di solito modificato mediante piccole rive che raccordano un filare con l’altro, per permettere di creare piani che evitino il ruscellamento delle piogge e rendano più agevoli i lavori e facilitino il passaggio delle macchine.
Sistemazione in traverso
Vigneto con sistemazione in traverso
Foto A. Scienza
285
coltivazione Terrazzamenti e ciglionamenti. Quando le pendenze del terreno superano il 40-45% è necessario ricorrere a forme che prevedano la modificazione del versante attraverso l’uso di macchine per il movimento della terra. Queste creano superfici più o meno ampie che permettono la localizzazione di uno o più filari. In molti casi è essenziale utilizzare strutture prefabbricate per la formazione di sostegni (muri, gabbie ecc.) che consentano la stabilità del ciglione o del terrazzo. Elevati sono i costi di realizzazione e di manutenzione ma è notevole l’effetto estetico. Esempi importanti in molte zone d’Italia (Valtellina, Cinque terre, Etna, isole del Tirreno, Valle d’Aosta, Alta Langa ) e all’estero in Germania (Mosella), in Svizzera (lago di Ginevra) e in Austria. Foto A. Scienza
Monorotaia impiegata per agevolare le operazioni colturali lungo i terrazzamenti
Tra le forme di sistemazioni più arcaiche ricordiamo infine: – a girapoggio. Ritenuta non più utilizzabile in quanto i filari risultano curvilinei e quindi meno adatti all’uso delle macchine; – a cavalcapoggio. Forma che rispetta il parallelismo dei filari, ma questi risultano su pendenze diverse e variabili.
Vigneto sistemato a cavalcapoggio Giovane impianto a girapoggio
286
impianto Caratteristiche delle principali sistemazioni del suolo Tipo di sistemazione
Traverso Disposizione dei filari ortogonalmente rispetto alle linee di massima pendenza
Areali di diffusione
Piemonte, Lombardia (Oltrepò Pavese), Veneto (Veronese)
Ragioni storiche Condizioni che ne hanno ambientali determinato l’uso per attuazione
Necessità di uso di forza animale e umana e facilità di lavoro
Aspetti positivi
Aspetti negativi
Pendenze al massimo fino al 20%
Lavorazioni tendenzialmente in piano. Contrasto della forza erosiva dell’acqua
Meccanizzazione più difficoltosa. Possibile pendenza laterale per i mezzi meccanici. Eventuali problemi di scivolamento e ribaltamento. Con pendenza elevata necessità di uso di mezzi autolivellanti per lavorazioni a cavallo della fila. I gradoni per livellare il terreno complicano le lavorazioni meccaniche al suolo e sulla fila (fenomeni di scalzatura e rottura degli apparati radicali)
Pendenze fino al 35-45%
Meccanizzazione di tutte le operazioni colturali facilitata per mancanza di contropendenze fino al 25-30%. Con pendenze superiori diminuisce la possibilità di meccanizzazione di alcune operazioni (vendemmia) Possibilità di adottare sesti di impianto stretti
Fenomeni erosivi (inerbimento del suolo necessario). Difficoltà nelle operazioni manuali per la pendenza che obbliga a lavorare in salita o in discesa
Pendenze superiori al 45-55%
Rittochino Disposizione dei filari lungo le linee di massima pendenza
In quasi tutte le regioni italiane ed europee
Introduzione della meccanizzazione nei terreni in pendenza
Terrazze Disposizione dei filari non obbligata (in relazione alla massima larghezza della terrazza)
Lombardia (Valtellina), Liguria (Cinque Terre), Piemonte (Langa), Valle D’Aosta, Alto Adige, Trentino (Valsugana), Sicilia (Etna), Francia (alto Rodano, Banjoul ecc.), Germania (Mosella)
Possibilità di utilizzazione di mezzi meccanici in suoli con pendenze elevate che erano destinati all’abbandono
Possibilità di coltivazione in terreni con elevata pendenza. Diminuzione dei fenomeni erosivi per rallentamento del flusso dell’acqua meteorica
Elevati costi di realizzazione delle terrazze con notevoli movimenti di terra per costituzione della terrazza. Difficoltà di meccanizzazione di tutte le operazioni di coltivazione del vigneto. Aumento delle superfici improduttive (tare)
Girapoggio Disposizione dei filari paralleli alle linee di livello mantenendo le curvature naturali del terreno
Sfruttamento di versanti anche con liPiemonte nee arrotondate che Forme arro(Ghemme, Il mantenimento della stescreano comunque tondate delle Gattinara), Veneto sa quota di lavoro aiuta un piano continuo di colline (conoidi, (Valdobbiadene, le lavorazioni manuali lavoro che garantiva mamelloni, colli di Conegliano, e l’uso della forza animale uno sfruttamento ecc.) ecc.) della superficie disponibile
La scarsa linearità del filare provoca difficoltà nelle lavorazioni del suolo in particolare, e onerosità nella gestione del versante (possibili fenomeni erosivi). Notevole difficoltà nella costituzione del vigneto (squadro e tracciatura)
Cavalcapoggio Disposizione dei filari che seguono la conformazione del suolo e mantengono direzione rettilinea con variazione di quota
Toscana, Marche
Adattamento a condizioni di cambiamento continuo di pendenza
Terreni con condizioni di avvallamenti e dossi con pendenze leggere
La linearità del filare facilita le lavorazioni. Permette di limitare le superfici improduttive (tare)
287
Continui cambi di pendenza non agevolano l’attuazione di alcune operazioni colturali (per esempio trattamenti fitosanitari)
coltivazione Sistemazioni di pianura Vengono attuate nei terreni pesanti (argillosi) per eliminare eventuali ristagni superficiali durante le piogge e permettere il drenaggio dell’acqua che imbeve la macroporosità del terreno. Queste sistemazioni prevedono la formazione di baulature e di un sistema fitto ed efficiente di scoline che permettono inoltre di allontanare l’acqua in terreni dove si nota la formazione di falde temporanee, la presenza di inondazioni transitorie e ristagni di acqua, zone di umidità e pantano. Nei terreni sciolti o facilmente percolanti non si utilizzano queste sistemazioni per la naturale capacità del terreno di eliminare le acque in eccesso. Forme di allevamento della vite Il viticoltore impiega i primi anni dell’allevamento della vite a costituire un fusto in grado di portare i tralci fruttiferi; il fusto viene appoggiato a una palificazione più o meno complessa e robusta. Il complesso della palificazione e del modo di disporvi fusto e tralci va sotto il nome di sistema di allevamento o forma di allevamento. La scelta della forma di allevamento è sicuramente una delle più importanti decisioni che il viticoltore si trova a compiere al momento dell’impianto. Optare per un sistema, piuttosto che per un altro implica la scelta di una serie di fattori che andranno a determinare l’intera struttura del vigneto, condizionandone in maniera più o meno permanente sia i risultati quantitativi che quelli qualitativi; dal tipo di impostazione dipende inoltre la facilità o meno di gestione durante le fasi di allevamento e di produzione, quindi in definitiva, la redditività della coltura. Le forme di allevamento, sulla base delle loro caratteristiche strutturali (altezza, disposizione nello spazio dei germogli e densità della chiome), influenzano in modo decisivo gli equilibri tra la fase vegetativa e quella produttiva della vite, determinando fortemente in questo modo anche la qualità del prodotto finale. Non esiste un’unica tipologia di impianto che possa essere proposta per massimizzare il reddito, in quanto ogni situazione viticola rappresenta un caso a sé stante; in primo luogo gli elementi che si vanno a considerare nell’impianto di un vigneto sono quelli che riguardano la morfologia della forma di allevamento, quelli che, in sostanza, più incidono sull’efficienza delle piante, sul tipo di prodotto finale e sulle tecniche di gestione che si andranno ad adottare. Emerge chiaramente come le diverse forme di allevamento, in base alla loro struttura, siano caratterizzate da chiome più o meno espanse e che la gestione della chioma della vite ha un’azione determinante sulla qualità dell’uva in funzione al vino che si vuole ottenere. Già al momento dell’impianto, la scelta dei sesti (le distanze delle piante sulle file e tra le file), del portinnesto e della
Sistemazione di pianura: fosso per lo scarico dell’acqua
Forme di allevamento della vite
• Il panorama viticolo italiano
è caratterizzato da una grande molteplicità di ambienti e di tradizioni di coltivazione. Per questo l’Italia risulta essere il Paese viticolo che vanta il maggior numero di forme di allevamento. Ciascuna zona viticola presente sul territorio ha un suo caratteristico modo di interpretare la potatura, anche se oggi il numero di sistemi di allevamento della vite utilizzati nel nostro Paese si è ridotto a poche tipologie, più adatte a una moderna viticoltura, che necessita di una sempre più spinta meccanizzazione delle diverse operazioni colturali
288
impianto forma di allevamento andrà a influire sul rapporto chioma/radici; successivamente, il piano di nutrizione, la potatura estiva e invernale e infine la gestione del terreno, condizioneranno l’efficienza della chioma, ossia la sua capacità di intercettare la luce, di convertirla in sostanza secca e di convogliarla, infine, ai grappoli. L’obiettivo è di raggiungere un giusto rapporto tra superficie fogliare attiva esposta e peso dell’uva prodotta, per conseguire la qualità del vino desiderata. È stato dimostrato infatti che un elevato contenuto zuccherino nelle bacche si ottiene con un elevato rapporto tra superficie fogliare e peso dei frutti. È indispensabile garantire un’utilizzazione ottimale dell’energia solare e quindi un’adeguata captazione dell’energia solare da parte dell’apparato fogliare. Le foglie devono essere ben esposte, al fine di assicurare un buon livello di attività fotosintetica, fondamentale per la produzione di elaborati indispensabili per lo sviluppo della pianta, per la buona lignificazione dei tralci, per un accumulo intenso di polifenoli nella buccia e dunque un elevato tenore zuccherino nelle bacche; in sostanza per garantire una corretta maturazione dei grappoli (non dimentichiamo che lo scopo è quello di ottenere la migliore qualità di vino per una determinata produzione a ettaro). Le foglie ombreggiate da più di uno strato di altre foglie ricevono una quantità di energia insufficiente a realizzare un’attività fotosintetica ottimale, e dal momento che la vegetazione costituisce l’organo preposto alla captazione dell’energia solare destinata alle funzioni produttive delle piante, maggiore è la radiazione incidente a disposizione delle foglie, migliore risulterà l’attività fotosintetica, quindi maggiore sarà la produzione di elaborati destinati ai grappoli in accrescimento.
Foto R. Angelini
Le forme di allevamento con portamento eretto della vegetazione consentono una ottimale intercettazione della luce nel corso dell’intera giornata L’impianto è il momento strategico per l’impostazione della struttura della pianta
Foto R. Angelini
289
coltivazione Il presupposto da cui si parte è che una certa quota di energia captata dalla parete vegetale sia tanto più efficacemente sfruttata, quanto maggiore è il numero di foglie su cui si ripartisce l’energia incidente. Quindi una parete vegetale ben distribuita si traduce in una maggiore efficacia della superficie fogliare, che sarà quindi tanto più efficiente, quanto meno sarà affastellata e più uniformemente ripartita. Il volume della parete vegetale dovrà essere sufficientemente aperto per offrire la più grande superficie possibile alla luce e per ridurre le perdite di energia luminosa che ricade sul suolo. Inoltre è stato dimostrato che chiome particolarmente dense di vegetazione creano un ombreggiamento troppo accentuato sulla fascia produttiva, che frequentemente si traduce in scarsa colorazione (per le uve rosse), pH e acidità totale troppo elevati e prevalenza di sostanze aromatiche che esaltano, spesso in modo squilibrato, il gusto “erbaceo” dei vini. Il modo migliore di coltivare la vite è quello di fare in modo che l’esposizione delle foglie perduri il più a lungo possibile nel corso della giornata; questo risultato non può essere ottenuto che con corrette densità di impianto (numero di viti per ettaro), pareti vegetali ben distribuite e con tralci a portamento eretto, o a ricadere, ma con elevata capacità di intercettamento della luce. Occorre inoltre garantire un buon arieggiamento dei grappoli, i quali, come le foglie, devono trovarsi giustamente esposti alla luce e ben distribuiti sulla pianta. Questo per evitare squilibri microclimatici che, incidendo sul trasporto degli elaborati dalle foglie ai grappoli, potrebbero ripercuotersi negativamente sul contenuto del succo delle bacche, nonché per favorire l’accumulo di polifenoli, la degradazione dell’acido malico nelle bacche e per contenere lo sviluppo dei marciumi dell’uva.
La pietra che costruisce il vino
• Alberese è una pietra, dei borghi toscani, di calcare argilloso compatto di colore bianco-grigio che con il tempo diventa rosata. Il terreno della Tenuta Tignanello è ricco di rocce di alberese che sono state raccolte, frantumate e poi disposte in andane sotto i filari. La pietra riflette la luce del sole sul grappolo, garantendo un maggiore irraggiamento senza eccessivo riscaldamento, che favorisce una maturazione più equilibrata in riferimento al rapporto polifenolizuccheri
Foto R. Angelini
Foto R. Angelini
Foto R. Angelini
290
impianto Forme di allevamento del passato I presupposti per la moderna viticoltura hanno avuto origine da due concezioni viticole completamente diverse: alla “scuola” etrusca, che considerava la vite come una liana e allevava le viti su sostegni vivi spesso molto alti, sono da ricondurre le forme di allevamento molto alte quali le alberate campane, toscane e della Pianura Padana. Viceversa, la testimonianza dell’influenza greca nella cultura viticola della penisola italiana è rappresentata dalla forma ad alberello, più o meno palificato o “incannato”, ancora oggi molto diffusa nelle zone meridionali del nostro Paese. L’influenza di queste correnti di pensiero ha avuto ripercussioni difformi nelle regioni della penisola: i greci razionalizzarono la produzione viticola nell’Italia meridionale, gli etruschi in parte in Campania, in Toscana e, successivamente, i romani nel resto della penisola. La progressiva evoluzione che si è consolidata con il trascorrere degli anni, indirizzata ad assecondare le esigenze tecniche ed economiche del viticoltore, ha dovuto confrontarsi con l’enorme variabilità delle condizioni pedoclimatiche della penisola; è così che la forma d’allevamento può dirsi “…l’ espressione della storia enologica di un territorio, di come i viticoltori abbiano modellato le viti per farle produrre al meglio in quell’ambiente secondo le loro esigenze”. Così, attraversando da nord a sud l’Italia, si passano in rassegna le pergole del territorio alpino, i tendoni veneti, le spalliere piemontesi, toscane e umbre, le alberate aversane, i tendoni pugliesi e gli alberelli calabresi e siciliani.
Forme di allevamento nel passato
• Il numero dei sistemi di allevamento
e le loro numerose diversificazioni, che contraddistinguono la viticoltura italiana, sono la sintesi di un corso evolutivo che, nell’arco di alcuni millenni di storia, sotto l’influenza di differenti aspetti culturali, geografici ed economici, ha portato il nostro Paese ad avere la più alta variabilità Foto A. Scienza
Antica forma di allevamento “a cesta” (Kouloura) dell’isola si Santorini
Vecchia forma di allevamento dell’Irpinia Vecchia forma di allevamento della vite del Piemonte orientale
291
coltivazione Componenti della forma di allevamento Altezza dell’impalcatura La temperatura dei bassi strati dell’atmosfera varia in funzione dell’allontanamento dalla superficie del suolo e varia tra il giorno e la notte. Durante il giorno il bilancio tra energia radiante ricevuta e quella emessa è positivo e la superficie del suolo aumenta la propria temperatura. Di notte avviene il contrario: la temperatura della superficie del suolo diminuisce per l’emissione di raggi infrarossi che si disperdono nell’aria e la temperatura è tanto più bassa quanto più ci si avvicina al suolo. L’aumento dell’altezza del tronco è compatibile solo con un vigore elevato delle piante, coltivate in terreni ben forniti di acqua durante il periodo vegetativo. Una forma di allevamento alta consente di diminuire i rischi delle gelate invernali e tardive primaverili e l’incidenza delle malattie, per contro induce maggiore sensibilità alla siccità e riduce l’effetto del calore del suolo. In linea generale occorre ricordare il fenomeno secondo il quale la vigoria dei singoli germogli è più elevata nelle forme basse, in quanto è ridotta la distanza fra apparato radicale e apparato epigeo. Viceversa le forme alte riducono la vigoria (lunghezza, peso) dei singoli germogli. La vigoria del ceppo dipende maggiormente dalla forma di allevamento, le forme alte ed espanse hanno di norma una vigoria del ceppo (peso dei tralci) più elevata.
Altezza dell’impalcatura
• L’altezza della vegetazione modifica
il regime termico della pianta e pone i tralci e i grappoli in condizioni microclimatiche differenti. L’altezza della forma di allevamento, scelta in funzione del clima e della meccanizzazione, è in grado di esercitare una notevole influenza sulla qualità dell’uva Foto A. Scienza
Disposizione nello spazio dei germogli È stato rilevato che le viti allevate con orientamento verticale dei germogli presentano maggiore vigore e un maggiore numero di fiori, rispetto alle viti i cui germogli sono allevati orizzontalmente. Questo è confermato da numerose ricerche che hanno rilevato una migliore nutrizione dei germogli cresciuti verticalmente. In altre ricerche è risultato che l’orientamento verso il basso riduce il vigore dei germogli, le dimensioni delle foglie, la lunghezza degli internodi, lo sviluppo delle femminelle e la produzione di legno di potatura, rispetto a piante con orientamento dei germogli verticale oppure orizzontale. Da numerose indagini svolte su vari vitigni e in diverse zone d’Italia è emersa una correlazione positiva tra il peso dei germogli e il contenuto in zucchero dei mosti.
Testucchio
Disposizione nello spazio dei germogli
• Le diverse forme di allevamento sono
Influenza della chioma su traslocazione e accumulo degli elaborati verso i grappoli La qualità e la composizione dell’uva sono il risultato dell’accumulo nei grappoli di sostanze elaborate dalle foglie. Da qui emerge il concetto base dell’equilibrio vegeto-produttivo, ossia l’individuazione del giusto rapporto tra la superficie foglia-
riconoscibili e caratterizzate da come i germogli, che compongono la struttura della pianta, sono orientati nello spazio
292
impianto re ben esposta e il quantitativo di uva prodotta, fra cui vanno ripartiti gli elaborati; è quindi indispensabile che si instauri un equilibrio ottimale tra quella che è la disponibilità e la richiesta di carboidrati. È stato verificato che la produzione trova un suo optimum di equilibrio con 1 kg di uva prodotta per metro quadrato di superficie fogliare esterna illuminata. È pertanto evidente che, in qualsiasi tipo di chioma, il raggiungimento della piena maturazione dipende dal raggiungimento di una soglia minima.
Influenza della chioma su traslocazione e accumulo degli elaborati verso i grappoli
• La chioma della vite dovrebbe
convogliare verso i grappoli una quantità di sostanze sufficienti per portarli a maturazione; in questo caso si può parlare di “chioma efficiente”. Ogni forma di allevamento ha una propria struttura della chioma che la rende più o meno efficiente
Forme d’allevamento: aspetti fisiologici, tecnici ed economici La forma di allevamento, struttura architettonica che viene imposta alla pianta per ottimizzare i rapporti esistenti tra la fase vegetativa e quella produttiva, è la risultante delle caratteristiche varietali (portamento, vigoria ecc.) che il viticoltore modula con l’utilizzo di opportune tecniche agronomiche; la vite, grazie a un’elevata plasticità vegetativa offre, da questo punto di vista, numerose opportunità. La scelta di una forma di allevamento assume sicuramente un valore di primaria importanza per l’ottenimento degli obiettivi enologici ed economici preposti, ma non può essere svincolata dai parametri peculiari e caratterizzanti del territorio in cui viene a trovarsi; le caratteristiche varietali, il vigore della combinazione d’innesto, la fertilità del suolo e le condizioni climatiche impongono al viticoltore la scelta di una forma di allevamento che meglio si adatti e che meglio esprima le potenzialità del territorio. Per avere la migliore qualità possibile con il massimo contenimento dei costi economici, la scelta del sistema di allevamento della vite (inteso come forma di allevamento e densità di impianto) deve seguire dei principi fisiologici e agronomici. Partendo dal concetto che la vite, come ogni organismo vegetale superiore, ricava la propria energia dalla luce solare attraverso la fotosintesi, che è il motore biochimico che consente alla pianta di svilupparsi, fruttificare e riprodursi e che la qualità e la composizione dell’uva sono il risultato dell’accumulo nei grappoli di sostanze elaborate nella foglia, si capisce come l’individuazione del giusto rapporto tra la superficie fogliare e il quantitativo di uva prodotta diventa basilare per individuare l’equilibrio vegeto-produttivo della pianta. Proprio per questo motivo, da alcuni anni si è introdotto il concetto di superficie fogliare esterna illuminata (Sfei) che è un effetto diretto della forma di allevamento. In questo senso, se l’ottimizzazione della disposizione della chioma fosse il solo obiettivo da perseguire, la scelta della forma di allevamento cadrebbe verso quei sistemi in cui la radiazione solare, parametro non modificabile dall’uomo, andrebbe a colpire la chioma in maniera perpendicolare, ossia i tendoni e le pergole.
Foto R. Angelini
Tendone potato in riposo vegetativo
Classificazione dei sistemi di allevamento I vari sistemi di allevamento possono essere classificati in base a:
• altezza del fusto: bassi, medi e alti • direzione nello spazio: orizzontali, obliqui e verticali
• densità di impianto: alta, media e bassa • tipo di potatura: corta, mista e lunga • portamento della vegetazione: assurgente o a ricadere
293
coltivazione Spesso, però, questi sistemi espansi presentano strati fogliari che non svolgono attività fotosintetica, poiché ricevono una quantità più limitata di energia radiante e mostrano una proporzionale riduzione di efficienza. La capacità di intercettare l’energia radiante è una funzione sia dei parametri strutturali riferibili alla singola pianta (altezza, superficie esposta, spessore della chioma e portamento della vegetazione), sia, più in generale, delle caratteristiche del vigneto (distanza e orientamento dei filari). Da questo punto di vista, i sistemi a sviluppo verticale o controspalliere si distinguono per una ricezione di energia solare molto variabile rispetto alle altre forme di allevamento e assicurano, in filari con orientamento nord-sud, una efficienza fotosintetica migliore nelle prime ore del mattino e nel pomeriggio, mentre nelle ore centrali, quando la parte più illuminata della pianta è quella superiore, si verificano le perdite di energia al suolo maggiori. A tale proposito, vale la pena sottolineare come la scelta della forma di allevamento debba essere strettamente correlata alla densità di impianto, definita come distanza tra le piante sulla fila e tra le file. Le due variabili, che caratterizzano la fittezza di impianto, incidono in maniera diversa sulle caratteristiche quanti-qualitative del vigneto; la distanza tra i filari infatti, sembra avere un’incidenza superiore sugli aspetti quantitativi della produzione, mentre l’intervallo sulla fila caratterizza di più gli aspetti qualitativi. In riferimento a quanto detto, la distanza tra le file, che deve essere mantenuta a valori maggiori rispetto all’altezza delle pareti vegetative, per evitare l’ombreggiamento di un filare sull’altro, determina il carico di gemme a ettaro e la lunghezza totale delle pareti disponibili sull’unità di superficie. La possibilità di modificare questo parametro è vincolata sia alla forma di allevamento adottata, sia alla necessità di meccanizzazione, nonché alla latitudine e alla vigoria del vitigno; una riduzione della distanza tra i filari, che comporterebbe l’insorgere dei fenomeni di competizione radicale, presupposto per un miglioramento qualitativo della produzione, è possibile solo con una forma di allevamento a spalliera, con altezze dal suolo limitate e con sviluppi vegetativi contenuti. La diminuzione della distanza sulla fila incide, invece, sull’aumento della qualità, fatto spiegabile con una limitazione della produzione di uva per ceppo e con un aumento della densità radicale, i cui effetti positivi si riscontrano in una migliore esplorazione del suolo, in un calo di produttività e in un rendimento metabolico più equilibrato. Questo comportamento fisiologico della vite induce conseguenze qualitative che si possono sintetizzare in una maturazione più completa delle uve, grado zuccherino e antociani delle bucce più elevati, vini sempre riconoscibili, più complessi ed equilibrati, rispetto a quelli ottenuti con basse densità di piantagione.
Pergola semplice. Come il tendone permette una radiazione perpendicolare della chioma Foto R. Angelini
Foto R. Angelini
Le forme a controspalliera, specie con distanze di impianto elevate, hanno una minore ricezione di energia solare
294
impianto Nel valutare le differenti disponibilità energetiche rilevabili nelle diverse parti della chioma, studi comparativi eseguiti su alcuni sistemi di allevamento (capovolto, GDC, cortina semplice, sistema a T) hanno messo in luce come esista una correlazione positiva tra lo spessore della chioma e il coefficiente di estinzione energetica, definito come differenza tra PPFD (flusso fotonico fotosinteticamente attivo) esterno e interno. A questo proposito, lo stesso studio offre l’occasione di determinare quale sia l’influenza del portamento sulla distribuzione della disponibilità energetica complessiva tra la fascia produttiva e quella vegetativa dei singoli germogli: le forme che derivano dal GDC assicurano una disponibilità energetica di gran lunga superiore in prossimità della fascia produttiva, a differenza di quanto si verifica nel capovolto; a tali differenze è ascrivibile una frazione della variabilità in termini di efficienza nell’accumulo di zucchero nelle bacche. Altri studi hanno rilevato come le foglie ombreggiate da più di uno strato di foglie ricevano una minore quantità di energia che risulta insufficiente per un’attività fotosintetica positiva: in relazione a questo problema, si è visto che una potatura corta, rispetto a una mista, causa un maggiore numero di strati fogliari e che l’accumulo di zuccheri appare significativamente minore nel primo caso. Questo porta ad ipotizzare come un’eccessiva formazione di germogli causi ripercussioni negative sulla maturazione delle uve. Il rapporto tra la superficie fogliare totale e quella esposta ci segnala quale sia l’indice della potenzialità qualitativa del vigneto: il valore ottimale di tale rapporto (1,5-2,5) esprime in pratica la metà del numero degli strati fogliari che compongono la parete. In merito al portamento dei germogli, è stata da più parti confermata la correlazione tra portamento assurgente dei germogli (guyot, cordone speronato) e la loro vigoria: sul piano applicativo, questa relazione suggerisce una diversificazione delle scelte in funzione della fertilità dell’area di coltura e dell’altezza delle strutture per la palificazione del vigneto. Oltre al tipo di potatura, esistono altri parametri strutturali che influiscono sull’espressione vegeto-produttiva della pianta in relazione al sistema di allevamento adottato: l’altezza da terra e la disposizione nello spazio dei germogli, parametri tra di loro correlati, hanno effetti diretti sull’espressione vegeto-produttiva e sul vigore della pianta. In particolare si è rilevato che viti allevate con portamento verticale, rispetto a forme di allevamento orizzontali dei germogli presentano più intenso vigore e un numero maggiore di primordi fiorali. La variazione della percentuale di germogliamento, indotta dalla forma di allevamento, influenza il gradiente basipeto responsabile della dominanza apicale: tale prerogativa, tipica delle piante acrotone, è particolarmente accentuata nelle forme che, richiedendo la curvatura della vegetazione, possono indurre il fenomeno delle gemme cieche.
Foto R. Angelini
Foto R. Angelini
Numerosi studi hanno dimostrato che le forme di allevamento con portamento dei germogli verticale (sopra) sono più vigorose di quelle a portamento a ricadere (sotto)
295
coltivazione Tuttavia, nei sistemi a tralcio rinnovabile (per esempio guyot), in cui tutte le gemme sono collocate sullo stesso capo a frutto, tale comportamento risulta più accentuato rispetto alle forme a cordone permanente, in cui la carica di gemme è distribuita su corti speroni, dove il germogliamento è più uniforme e la distribuzione della vegetazione più omogenea. Nonostante questo, alcuni lavori confermano l’ipotesi di una mancanza di una correlazione tra la carica di gemme e la produzione correlata; la pianta, infatti, è in grado di attuare sistemi di autoregolazione che comportano un’accentuata schiusura di gemme secondarie fertili e un aumento del peso medio del grappolo e, viceversa, l’accecamento di alcune gemme, qualora il loro numero risulti eccessivo e non compatibile con le attitudini varietali. A supporto di questa tesi, in Emilia Romagna, il confronto tra alcune forme di allevamento adeguatamente potate ha dimostrato che esiste una certa omogeneità di condotta relativa alla produttività, calcolata sull’unità di cordone o tralcio, e caratteristiche compositive del mosto. Le operazioni colturali in verde rimangono lo strumento principale per riequilibrare il rapporto tra la fase vegetativa e quella produttiva della pianta; in particolare, la cimatura dopo la fioritura permette lo sviluppo di femminelle e i risultati evidenziano come al crescere del numero di interventi di taglio in verde corrisponde un crescente numero di femminelle, le quali, messe in correlazione con il contenuto zuccherino dei mosti, mostrano una correlazione positiva tra questi due parametri. La cimatura e il diradamento dei grappoli si sono dimostrati strumenti in grado di riequilibrare il rapporto vegetoproduttivo della pianta: in conseguenza alla riduzione di produzione per germoglio, appaiono significativi sia l’aumento del contenuto zuccherino sia l’incremento del peso medio del germoglio. Fattori di ordine genetico e climatico possono concorrere alla scelta di determinate forme di allevamento in combinazione con alcuni vitigni e ambienti: la fertilità di alcune gemme lungo il tralcio, infatti, si diversifica in funzione della varietà e in ragione delle condizioni climatiche (temperatura, durata e intensità di illuminazione) che si verificano nel periodo della differenziazione delle gemme. Il sistema di allevamento assume la massima importanza quando si prende in considerazione l’interazione tra il microclima della chioma e l’incidenza delle malattie fungine o dei fitofagi; l’influenza che la forma di allevamento esercita sull’evoluzione della superficie fogliare e sull’ombreggiamento incide sulle condizioni sanitarie della pianta. Squilibri a carico dei principali parametri microclimatici (temperatura, umidità relativa, luminosità) favoriscono notevolmente l’andamento epidemico delle principali fitopatologie fungine della vite: peronospora, oidio, botrite, marciume acido. In generale, in condizioni di minor disponibilità di luce, con temperature basse e con maggiore umidità relativa, le possibilità di uno sviluppo di patologie è decisamente maggiore.
Foto R. Angelini
Foto R. Angelini
Forme di allevamento squilibrate a favore di un eccesso vegetativo favoriscono un maggiore sviluppo di malattie fungine
296
impianto Studi comparativi condotti in Piemonte hanno messo in evidenza come, tra svariate forme di allevamento, le meno esposte ad attacchi crittogamici fossero il guyot e il cordone speronato. Anche nei riguardi di sviluppi epidemici di flavescenza dorata è stata messa in luce una possibile incidenza della forma di allevamento: su varietà Sangiovese è stato osservato che maggiormente colpite sono state le viti allevate a GDC rispetto ad altre allevate a sylvoz, casarsa, cordone speronato, capovolto e guyot; in particolare tra queste ultime, il guyot è risultato il sistema meno colpito. Appare chiaro che la scelta adeguata di un sistema di allevamento alle condizioni climatiche della zona possa rivelarsi uno strumento efficace per una protezione integrata della vite, contribuendo in maniera sensibile all’abbattimento del numero di trattamenti antiparassitari con logici alleggerimenti dei costi di gestione e migliorie dal punto di vista qualitativo. Naturalmente, verificare l’idoneità di una forma di allevamento nei riguardi dei fattori ecofisiologici non esaurisce il discorso attinente alla scelta di un sistema anziché un altro: occorre infatti prendere in considerazione altri fattori connessi alla razionalità ed economicità di gestione dei metodi di allevamento e di conduzione. Le caratteristiche che la forma di allevamento deve possedere perché possa essere meccanizzabile sono la presenza di un cordone permanente, una potatura medio-corta (5-6 gemme) e un’altezza non superiore ai 2 m: le forme che meglio rispettano questi criteri sono il GDC, il cordone speronato e la cortina semplice. Oltre ad avere dei sistemi che garantiscono razionalità e facilità delle lavorazioni, occorre non trascurare i costi dei materiali per l’impianto a partire dalle sezioni dei pali e dalla scelta dei fili più idonei, fino a giungere agli accessori necessari per il completamento dell’impianto. La scelta del sesto di impianto è un fattore colturale importante dal momento che influisce sulla produzione e sulla qualità delle uve e incide in maniera sensibile sui costi di impianto e di gestione del vigneto.
Le forme di allevamento possono influenzare la suscettibilità della vite alle malattie. Il guyot (sopra) sembra essere meno colpito da flavescenza dorata rispetto ad altre forme di allevamneto, come il GDC (sotto) I vigneti allevati a GDC consentono un elevato grado di meccanizzazione
Foto R. Angelini
297
coltivazione Moderne tendenze La vite in produzione esprime la sua potenzialità in base al suo portamento e quindi al sistema di allevamento adottato. Le tendenze attuali mirano a: – sostituire il tradizionale rinnovo annuale del tralcio di potatura con un cordone permanente, per aumentare gli organi di riserva della vite e distribuire la produzione su corti speroni; – contenere lo sviluppo vegetativo dei germogli creando due fasce ben distinte, una fascia ben delimitata per la produzione, anche in vista della raccolta meccanica, e una fascia per la vegetazione; – infittire gli impianti; – disporre di sistemi di allevamento facilmente meccanizzabili, sia per le potature sia per la vendemmia, per abbattere nettamente i tempi e i costi di produzione. Molte regioni tuttavia sono dominate da forme di allevamento alte ed espanse, che in Italia costituiscono il 30% circa, ed è stato ormai ampiamente dimostrato che da queste forme non si ottengono vini di qualità. Inoltre, queste forme, assai produttive, non sono meccanizzabili per quanto riguarda la potatura e la vendemmia, che sono le operazioni più impegnative in termini di impiego di manodopera. Ne deriva che il vigneto deve orientarsi possibilmente verso le spalliere e in particolare verso quelle di facile realizzazione, quando si voglia pensare a meccanizzare la viticoltura e ottenere la qualità. Ciò significa che la viticoltura italiana ha davanti ancora molti anni di intenso rinnovamento; il suo principale problema è ormai quello di porsi nelle condizioni di competere con i costi di altri Paesi. Tuttavia, i costi di produzione non devono essere la sola preoccupazione del viticoltore: il futuro risiede nella qualità, che non si ottiene a costi bassi. La determinazione degli obiettivi enologici ed economici che l’imprenditore agricolo vuole conseguire sono il presupposto per le scelte da attuare al momento dell’allestimento di un nuovo vigneto. Dal tipo di impostazione dipende, infatti, la gestione del vigneto durante le fasi di allevamento e di produzione e le conseguenze delle scelte avranno effetti durevoli nel tempo tanto più se si fa riferimento a quei fattori che sono immodificabili per tutta la durata del vigneto, la cui influenza sulla qualità è decisiva e a volte superiore alle tecniche colturali. La scelta del sistema di allevamento deve essere messa in relazione, e quindi strettamente vincolata, a quei fattori che vengono definiti fissi quali il vitigno, la densità di impianto e il portinnesto, uniti al tipo di terreno e al clima. È dall’interazione di questi fattori che nasce l’impostazione e la gestione del sistema vigneto.
Moderne tendenze
• La moderna viticoltura, orientata
verso la ricerca della qualità, laddove razionalità ed economicità delle operazioni colturali sono diventati un principio fondamentale, tende a ridurre la variabilità delle sue espressioni. Questo significa lo sviluppo di forme di allevamento a filari completamente meccanizzabili, ascendenti o discendenti, con potature a tralcio rinnovabile o a cordone permanente, dove il legame “vite-territorio-storia” va via via perdendo i connotati della tradizione
Foto R. Angelini
Paesaggio con vigneti integralmente meccanizzati
298
impianto Criteri economici ed esigenze di meccanizzazione Nei Paesi cosiddetti emergenti in campo viticolo (California, Australia, America del sud, Paesi dell’Est europeo) vengono impiegati ormai metodi e tecniche che sono dettati dal progresso scientifico e che utilizzano sistemi innovativi e all’avanguardia. Anche in Europa, da circa venti anni, è presente una tendenza innovativa nel campo della tecnica viticola in generale e in particolare nelle forme di allevamento. Diventa infatti pressante l’esigenza connessa alla riduzione dei costi, soprattutto mediante una meccanizzazione sempre più spinta. L’adozione delle macchine, al posto del lavoro manuale, risulta vantaggiosa e utile anche per altri motivi, tra cui il fatto che è stato ormai ampiamente dimostrato scientificamente che le forme di allevamento della vite adatte alla meccanizzazione sono più efficienti di quelle tradizionali e che le varietà oggi coltivate ben si adattano anche alla potatura e alla vendemmia totalmente meccanizzate. Attualmente in Italia questo tipo di gestione è praticata su una limitata superficie mentre, in Paesi come la Francia, questa pratica è ormai di gran lunga la più diffusa. Le cause di questa ridotta diffusione sono legate a problemi di tipo strutturale come la limitata superficie media aziendale (solo il 20% circa della superficie vitata si trova in aziende con almeno 10 ha), che comporta una maggiore difficoltà di ammortamento delle attrezzature e le problematiche connesse all’elevata percentuale di vigneti ubicati in zone collinari o di montagna (oltre il 60% del territorio vitato nazionale).
Criteri economici ed esigenze di meccanizzazione
• A seguito della forte diminuzione della
manodopera disponibile e del buon livello tecnico e operativo raggiunto dalle macchine operatrici, che oggi sono anche proporzionalmente meno costose rispetto al passato, la viticoltura italiana si sta rapidamente evolvendo alla ricerca di un miglioramento qualitativo e al contenimento dei costi di produzione
Vendemmia meccanica e trasporto dell’uva
Vendemmia meccanica a Robertson Valley, Sud Africa
299
coltivazione Esistono poi problemi di tipo agronomico e fisiologico, quali la grande varietà di forme di allevamento e sistemi di gestione, il più delle volte non adatti alla meccanizzazione, le ridotte conoscenze delle risposte fisiologiche e qualitative dei nostri vitigni a queste innovative modalità di gestione. In questo quadro, il problema più importante da risolvere è quello della meccanizzazione della vendemmia e della potatura invernale; queste due operazioni sono le più onerose in quanto, da sole, incidono per circa il 70% sui costi di produzione dell’uva e hanno le maggiori ripercussioni sulla qualità dell’uva. La possibilità di meccanizzare queste due operazioni è legata in particolare modo alla forma di allevamento adottata, mentre le densità di impianto, anche le più fitte, non sono più un ostacolo all’impiego delle più comuni e importanti macchine per le diverse operazioni colturali.
Forme di allevamento idonee a una razionale meccanizzazione
• Potenzialmente, le forme a spalliera,
sia semplice che doppia (cordone speronato, guyot, casarsa, GDC ecc.) sono quasi tutte meccanizzabili per quanto riguarda la vendemmia e la potatura estiva e invernale
Forme di allevamento idonee a una razionale meccanizzazione Ciò premesso, si rileva che le forme più meccanizzabili per la potatura secca sono i cordoni speronati e il cordone libero. Nella potatura invernale, il cordone speronato facilità le operazioni rispetto alla potatura mista che esige l’isolamento e la legatura del capo a frutto. Per quanto concerne la vendemmia mecca-
Caratteri distintivi delle forme di allevamento Classificazione Disposizione spaziale
Direzione spazio
Altezza fusto
Caratteri distintivi
Forma di allevamento
Elementi distintivi
Guyot, cordone speronato ecc.
Parete verticale
Tendone, pergola, raggi ecc.
A tetto
Tridimensionale
Alberello
In volume
Bidimensionale
Verticale
Guyot, cordone speronato
Vegetazione perpendicolare al terreno
Orizzontale
Tendone
Vegetazione parallela al terreno
Piano inclinato
Pergola
Vegetazione inclinata verso l’alto di circa 30° dall’orizzontale
Basso
Alberello, guyot, cordone speronato
Da 40 a 120 cm
Medio
Casarsa, cordone libero, sylvoz, pergole
Da 120 a 180 cm
Alto
Tendone, raggi, pergole
Oltre 180 cm
Corta
Alberello, cordone speronato, cordone libero, GDC
Speroni di 1/4 gemme
Guyot, casarsa
Speroni 1/3 gemme con tralcio rinnovabile di massimo 10/15 gemme
Tipo di potatura
Mista Lunga
Tendone, sylvoz, pergole
Tralci di almeno 15/20 gemme
Contenimento vegetazione
Con presenza di fili
Guyot, cordone speronato
Con coppie di fili da 2 a 3 coppie per parete
Senza presenza di fili
Casarsa, cordone libero, GDC
Solo filo portante il cordone
300
impianto nica le prospettive migliori sono attualmente offerte dalle spalliere semplici, che consentono l’impiego di macchine sempre più sofisticate, mentre le spalliere doppie sono vendemmiabili solo con macchine a scuotimento verticale. Nella vendemmia si registra maggiore tempo di lavoro nel cordone speronato, per il più intenso addensamento di vegetazione, che ostacola leggermente il distacco dei grappoli. Il guyot, come del resto tutte le forme a tralcio rinnovabile e a potatura medio-lunga (più di 8-9 gemme), non si prestano a una completa meccanizzazione delle operazioni colturali. In particolare, non sono ancora disponibili macchine che possano operare la potatura invernale su guyot, mentre per gli altri interventi, dalle operazioni in verde alla vendemmia, la possibilità di meccanizzare anche questa forma di allevamento è concreta. Per quanto riguarda invece le forme basse a ridotta espansione, quali l’alberello, si può affermare che è possibile meccanizzare la pre-potatura, con rifinitura a mano, mentre non si può meccanizzare la vendemmia. Tuttavia, l’alberello, si può “appiattire” con modifiche della forma di allevamento rendendolo in tal modo meccanizzabile, con macchine scavalcanti a scuotimento orizzontale.
Vigneto allevato a GDC, adatto alla meccanizzazione
Caratteristiche e diffusione delle principali forme di allevamento Forma di allevamento
Regione di principale diffusione
Importanza colturale*
Elementi caratterizzanti
Piante per ettaro
Possibilità di meccanizzazione
Alberello
Sicilia, Calabria, Puglia, Sardegna, Valle d’Aosta
Circa 20% del territorio nazionale
Forma piccola e compatta, a potatura corta
da 6000 a 12.000
Medio-bassa
Piemonte, Sicilia, Lazio, Circa 34% del Lombardia, Toscana, Marche, territorio nazionale Emilia Romagna ecc.
Forma abbastanza compatta a potatura mista (tralcio + sperone)
da 3000 a 10.000
Medio-alta
Cordone speronato
Toscana, Lazio, Lombardia, Umbria, Puglia
Circa 4% del territorio nazionale
Forma abbastanza compatta a potatura corta
da 3000 a 10.000
Elevata
Cordone libero
Veneto, Emilia Romagna, Marche, Friuli
Non rilevato
Forma mediamente espansa a potatura corta
da 2500 a 4000
Elevata
GDC
Emilia Romagna, Lombardia, Lazio
Circa 1% del territorio nazionale
Forma espansa a potatura corta
da 3500 a 5000
Elevata
Casarsa
Friuli, Veneto, Lombardia
Circa 2% del territorio nazionale
Forma mediamente espansa a potatura mista
da 2000 a 3500
Medio-alta
Pergola
Trentino, Alto Adige, Veneto, Lombardia
Circa 6% del territorio nazionale
Forma espansa con vegetazione disposta a piano inclinato
da 2000 a 5000
Bassa
Tendone
Abruzzo, Puglia, Sicilia, Lazio, Campania
Circa 21% del territorio nazionale
Forma molto espansa con vegetazione disposta a piano orizzontale
da 1500 a 2500
Bassa
Guyot e modificazioni
Modificata da Fregoni, 1998
301
coltivazione Forme di allevamento della vite Foto A. Scienza
Sistemi a vegetazione assurgente Alberello. È una forma di allevamento di tradizione greca, che si caratterizza per la ridotta espansione e per la prossimità tra apparato produttivo e terreno (mediamente 40-80 cm) che consente l’allevamento (assenza di sostegni). L’alberello, per la limitata distanza dal terreno e per la bassa esigenza idrica, ha trovato il suo sviluppo in quelle zone viticole dove i fattori climatici rappresentano degli elementi limitanti, aree in cui è ridotta la quantità di acqua utilizzabile dalla pianta o in altre con scarse disponibilità termiche durante l’anno. Infatti lo si trova, in Italia, sia in Valle d’Aosta, sia in Sicilia; lo si ritrova nelle zone più settentrionali d’Europa quali Francia, Germania e Svizzera, oppure lungo del coste del Mediterraneo. Questo sistema trova la migliore espressione su terreni poco fertili e particolarmente siccitosi e consente un’alta densità di impianto; le produzioni di uva, influenzate dal limitato sviluppo della forma di allevamento, risultano ridotte. Le tipologie di questa forma di allevamento si diversificano a seconda del modello di potatura adottato: si passa da una potatura cortissima dell’alberello greco a una corta dell’alberello a vaso, a una potatura media di quello di Alcamo (TP); tutti si distinguono per il numero di branche e speroni: il più diffuso è l’alberello a vaso con 3-4 branche portanti ognuna 1-2 speroni di 2-3 gemme. In base alle caratteristiche di questo sistema di allevamento, risulta difficile una sua meccanizzazione in particolare per la gestione della vegetazione e per la vendemmia.
Tipologie di alberello
a
b
c
a) alberello senza sostegni, secondo le descrizioni dei georgici latini; b) alberello all’interno di una depressione del suolo per proteggerlo dal vento marino, diffuso nelle isole del Mediterraneo e in nord Africa; c) tipologie di alberello senza sostegno differenti per numero di speroni, altezze del fusto e delle branche
Tipologie diverse di alberello
302
impianto Cordone speronato. Nella sua concezione classica, con questa forma di allevamento la densità varia da 2500 a 6000 piante/ha, ma si può arrivare anche a 10.000 piante/ha con l’adozione di meccanizzazioni particolari (con trattori scavallanti). Ci possono poi essere delle varianti: il cordone infatti, può diventare bilaterale, quando si hanno due cordoni opposti o sovrapposto, se i cordoni si trovano su due piani diversi e decorrono nella stessa direzione. È un sistema che ben si adatta ai terreni asciutti di media fertilità e a vitigni con una buona produttività delle prime gemme del tralcio a frutto; si contraddistingue per avere un fusto di altezza variabile tra 60-100 cm e un cordone permanente di 0,7-1,5 m di lunghezza, sul quale sono inseriti speroni di 1-3 gemme a una distanza di 15-30 cm. I germogli uviferi si sviluppano verticalmente, sorretti da due fili sovrapposti, tesi lungo l’asse del filare e sostenuti da pali di circa 2-3 m, distanti circa 6-10 m l’uno dall’altro. La potatura di produzione risulta relativamente rapida poiché si elimina lo sperone con i tralci e si pota un tralcio sviluppatosi alla base dello sperone a 2-4 gemme. Per questa semplicità di gestione, il cordone speronato, si è rivelata una forma d’allevamento facilmente meccanizzabile.
Foto A. Scienza
Tipologie di cordone speronato
Tradizionale Piante allevate a cordone speronato
Cazenave
Particolare dello sperone
Thomery
303
coltivazione Guyot. Ideato verso la metà XIX secolo da un famoso studioso di viticoltura francese, il guyot è una forma di allevamento a potatura mista, a ridotta espansione, adatta per terreni con scarsa fertilità, tendenzialmente siccitosi, dove la vite si trova in condizioni di sviluppo moderato. Si caratterizza per avere un’altezza del tronco che varia dai 30 ai 100 cm, sul quale è inserito un capo a frutto (mediamente di 6-12 gemme), che viene piegato parallelamente al terreno in direzione del filare e uno sperone (di 1-2 gemme) utilizzato per dare i rinnovi per l’anno successivo. I germogli uviferi, che si sviluppano dal capo a frutto (tralcio), così come i rinnovi, vengono legati a fili di sostegno situati a circa 3070-110 cm sopra il tralcio che, a loro volta, sono sostenuti da pali di altezza variabile fino a 2 m e distanziati mediamente di circa 5-6 m. La potatura di produzione si concretizza attraverso tre passaggi: il cosiddetto “taglio del passato” permette di asportare il capo a frutto che ha prodotto l’anno precedente, il “taglio del presente” nel quale si sceglie uno dei due tralci che si sono sviluppati dallo sperone, e infine il “taglio del futuro” che consiste nel tagliare a due gemme lo sperone più basso dal quale si svilupperanno i tralci necessari per rinnovare la produzione futura. Numerose sono le varianti del guyot tradizionale, in particolare, si ricorda la palmetta diffusa nel centro-Italia, sulla quale vengono impostati vari guyot sovrapposti a diversa altezza. Alcune sono considerate ormai forme di allevamento autonome tipo il capovolto. Tali varianti, fra cui le più frequenti sono il guyot bilaterale o doppio e il guyot doppio sovrapposto, non sono però consigliabili per una viticoltura moderna (elevate esigenze di manodopera, minore qualità del prodotto ecc.).
Foto R. Angelini
Viti allevate a guyot Foto R. Angelini
Guyot
Sperone Capo a frutto
Vite allevata a guyot bilaterale alla cappuccina
304
impianto Sistemi a ricadere Cordone libero. Questa forma di allevamento, derivata dal cordone speronato e di recente introduzione da parte dell’Università di Bologna, si caratterizza per un unico cordone permanente orizzontale speronato, posto a 1,4-1,8 m dal suolo, sostenuto da un unico filo portante di tipo spiralato messo in testa ai pali di sostegno. L’assenza di fili di contenimento determina un portamento a ricadere più o meno accentuato dei germogli (a seconda dei vitigni), che quindi tendono a ricadere lateralmente e verso il basso sotto il peso della vegetazione e dei grappoli. Particolare importanza riveste il posizionamento degli speroni produttivi di 1-3 gemme sul cordone permanente; questi, infatti, devono essere laterali o dorsali rispetto all’asse del cordone, possibilmente orientati verso l’alto, allo scopo di originare una fascia produttiva ben localizzata (tendenzialmente verso il cordone, in prossimità del filo portante) e favorire l’esposizione alla luce dei grappoli. Poiché la dislocazione della fascia produttiva nella zona alta del sistema e il suo limitato sviluppo verticale determinano ombreggiamento non eccessivo fra i filari, la forma di allevamento a cordone libero consente di restringere le distanze fra le file, rispetto a forme paragonabili a cordone permanente (casarsa, silvoz) fino a ottenere un rapporto vicino a 1:1, fra altezza della parete e distanza fra le file, e di programmare impianti a buona densità che dovranno essere meccanizzati oppure con macchine molto strette o con scavallatrici. Le distanze variano da 2,50 a 2,80 m tra le file e da 1 a 1,8 m circa sulla fila. Le caratteristiche strutturali del cordone libero consentono una completa meccanizzazione degli interventi di vendemmia e di potatura sia invernale sia estiva. Attualmente si può applicare, per la raccolta, anche la tecnica dello scuotimento verticale, che notoriamente risulta più efficace
Foto R. Angelini
Cordone libero
Esempi di cordone libero
305
coltivazione e meno penalizzante per la qualità finale del vendemmiato. Tale risultato si può ottenere mobilizzando il filo che sostiene il cordone permanente grazie a degli appositi cappellotti (metallici o in polietilene), della lunghezza di 35-40 cm, posti in cima ai pali di sostegno dei filari.
Foto R. Angelini
GDC. Il GDC (Geneva Double Curtain) è una forma di allevamento che nasce negli anni ’60 presso la Stazione sperimentale di Geneva, nello Stato di New York, allo scopo di soddisfare le esigenze di meccanizzazione integrale del vigneto e di garantire alla vite una ampia superficie fogliare in zone a bassa energia luminosa. Si tratta di una forma a doppia cortina, caratterizzata dall’avere due pareti di vegetazione ricadenti negli interfilari adiacenti. La struttura è formata da pali portanti con due braccetti che hanno il compito di formare la doppia cortina. Tali braccetti sono posti a una altezza di circa 1,70-1,90 cm dal suolo e, all’estremità, sono percorsi dai fili che sostengono il singolo cordone produttivo. I fili sono disposti a circa 70-80 cm dal centro del filare. Normalmente le distanze di impianto adottate sono di 3,8-4,0 m tra le file e 0,8-1,50 m sulla fila, talvolta con due viti per “posta”. La potatura invernale può essere corta o media, infatti si lasciano lungo tutto il cordone degli speroni da 2 a 5 gemme, che devono essere localizzati possibilmente dorsalmente o lateralmente verso l’esterno del cordone. Una delle operazioni importanti nella gestione della vegetazione è la pettinatura dei germogli che ha lo scopo di far ricadere verso l’esterno della cortina tutta la parete vegetativa. Questa operazione manuale può venire facilitata dall’utilizzo di accessori che accompagnano verso l’esterno la vegetazione.
Foto R. Angelini
GDC (Geneva Double Curtain) Foto R. Angelini
Viti allevate a GDC
306
impianto Casarsa. Il casarsa è una forma di allevamento sviluppatasi nelle zone della bassa friulana e si è diffusa in Italia per la particolare adattabilità a differenti condizioni ambientali, ai diversi vitigni, al ridotto fabbisogno di manodopera e alla possibilità di meccanizzazione anche della vendemmia. Il casarsa nella sua struttura classica deriva concettualmente dal sylvoz dal quale si differenzia per la mancanza di legatura dei tralcio al filo sottostante al cordone. È previsto l’allevamento in verticale del fusto fino a una altezza di 1,60-1,70 m, a tale altezza corre un filo portante al quale si lega il cordone permanente. Su quest’ultimo sono inseriti i capi a frutto in numero e in lunghezza variabili, in funzione delle distanze di impianto, delle varietà e del loro vigore. In alcune versioni diffuse soprattutto nel nord-ovest (Oltrepò pavese e Piemonte) non sono presenti i fili sopra il cordone permanente. In tal caso, la potatura invernale, può essere meccanizzata e necessariamente sarà a sperone o tralcio corto. Sopra il cordone permanente possono invece correre uno o due palchi di fili singoli o accoppiati e paralleli, legati lateralmente al palo o portati da un bracciolo largo 30-40 cm, che hanno la funzione di sostenere la vegetazione di rinnovo. I sesti di impianto utilizzati prevedono distanze sulla fila pari a 1,10-1,80 m, mentre le file si distanziano fra loro di 2,80-3,30 m; ciò è dovuto alla necessità di evitare ombreggiamenti reciproci fra le pareti vegeto-produttive. La potatura invernale viene eseguita scegliendo capi a frutto di buona ma non eccessiva vigoria, quelli prescelti, verranno potati a 4-6 gemme evitando di lasciare tralci troppo lunghi, poiché man mano che i grappoli si allontanano dal cordone permanente diminuisce la loro capacità di accumulare zuccheri. I capi a frutto, dopo la potatura, non vengono legati e, sotto il peso della vegetazione e della produzione, si piegano a bandiera verso il basso, mentre i germogli portati dagli speroni o dalle gemme basali dei capi a frutto crescono verticalmente attaccandosi alle strutture superiori. Si crea così una divisione fra la zona produttiva posta sotto il cordone e la zona di rinnovo sostenuta dai fili superiori al cordone permanente.
Foto R. Angelini
Foto R. Angelini
Casarsa
307
coltivazione Lyra. Ideata e proposta in un primo tempo da Huglin e poi perfezionata da Carbonneau, a Bordeaux, la lyra assume una tipica struttura a Y, con un fusto di 70 cm di altezza e due cordoni speronati ad andamento opposto, allevati su due fili paralleli. Vi sono nella nostra cultura viticola forme arcaiche che ricordano questa forma di allevamento con lo stesso principio di separazione delle due cortine ascendenti e di palificazione inclinata per una migliore captazione dell’energia luminosa. Si caratterizza per avere i pali di testata incrociati che raggiungono un’altezza di circa 2 m e una larghezza massima di 1,10-1,20 m; quest’ultima caratteristica fa si che le distanze tra le file siano comprese tra i 2,8 e i 3,6 m, con una densità di impianto che può andare dai 3000-4000 ceppi/ha. È un sistema di allevamento che garantisce un’elevata superficie fogliare esposta e, a parità di produzione per ettaro, secondo alcuni studi, è stato ottenuto un incremento di grado alcolico, di antociani, di polifenoli con performance degustative migliori rispetto ad altre forme. L’inconveniente maggiore dato è sicuramente la difficoltà di meccanizzazione. A partire dalla lyra tradizionale si sono ottenute delle varianti; si trovano infatti sistemi in cui le piante sono accoppiate, il cordone è singolo e assume un andamento opposto e parallelo rispetto a quello della pianta corrispondente, con queste soluzioni si riescono ad avere fittezze molto elevate fino a 8/10.000 piante/ha. La potatura è la stessa che viene attuata nel cordone speronato, 3-4 speroni di 1-3 gemme per cordone.
Lyra
Lyra
308
impianto Sistemi a sviluppo orizzontale e/o inclinato Foto R. Angelini
Pergola semplice e doppia. La pergola semplice, detta anche trentina, assume caratteristiche diverse a seconda della giacitura del terreno. Risulta formata da un tetto inclinato leggermente verso l’alto di 20-30° rispetto al palo verticale a una sola falda (pergola semplice), tipica degli ambienti collinari, o a due falde (pergola doppia), tipica delle zone di piano. Esiste poi un’ulteriore classificazione in relazione al tetto che copre o meno l’interfilare (pergole chiuse o aperte). Le distanze delle viti sulla fila oscillano fra 0,60-1,2 m, mentre i filari distano tra loro 2,70-3 m, nelle pergole semplici, in funzione della fertilità dei suoli e della vigoria della combinazione di innesto (vitigno/portinnesto), di 5-7 m nelle pergole doppie. Piuttosto onerosa risulta la palificazione con pali di testata, detti colonne, pali rompi tratta, detti pali di calcagno (alti 2,40-2,80 m), posti a 6-8 m sul filare; su questi, a un’altezza variabile da 1,30 a 1,70 m, si fissa un altro palo obliquo, detto listello, che si innesta alla testa del palo rompi tratta del filare vicino. Sui pali obliqui si tendono vari fili di ferro paralleli alla distanza di 30-40 cm, che formano il tetto della pergola. La potatura prevede di lasciare 2-3 capi a frutto di 8-12 gemme che vengono appoggiati a raggera sul tetto della pergola.
Pergola semplice
Forme arcaiche di pergola
A giogo semplice
A giogo con quattro pertiche
Pergola doppia
Kammerbau o vinea camerata
309
coltivazione Tendone. È una forma di allevamento che ha trovato il proprio sito di elezione nel centro-sud dell’Italia (Lazio, Abruzzo, Puglia, Sicilia), soprattutto a partire dal secondo dopoguerra. Inizialmente indicato per l’uva da tavola, è stato ben presto adottato anche per la produzione di uve da vino. Normalmente, questa forma, necessita di essere condotta in sistema irriguo per soddisfare il notevole sviluppo vegetativo e il forte carico produttivo. Nella fase di produzione, la vite a tendone, è alta circa 1,80-2,00 m e dalla sommità partono in media 4 capi a frutto stesi orizzontalmente su una impalcatura di fili di ferro e di pali, disposti a raggera con angoli di 90° tra loro. I tralci hanno lunghezza di 1,5-2,0 m, in alcuni casi viene adottata una forma a cordone rinnovata ogni 2 o 3 anni. Le distanze di impianto variano mediamente da 4×4 m, in terreni freschi e fertili, fino a 2×2 m in terreni di fertilità più contenuta. Si tratta di una forma di allevamento a bassa densità di ceppi per ettaro (625-2500), costretta a elevate produzioni di uva per ceppo. Normalmente le viti sono poste a dimora singolarmente e non a coppia, anche se in terreni molto fertili è possibile ricorrere all’impianto di viti accoppiate e in alcuni casi di quattro viti per posta. I sostegni che sorreggono tutta l’intelaiatura del tendone sono notoriamente classificati in tre tipi, in relazione alle funzioni svolte: – pali ad angolo ai vertici dell’apprezzamento; – pali di corona perimetrali; – pali rompi-tratta posti accanto a ogni vite. I pali di corona sono molto robusti e rimangono fuori dal terreno per circa 2,20-2,30 m, sono collocati lungo l’esterno dell’appezzamento e vengono normalmente inclinati verso l’esterno. Sono ancorati in alto da fili di grosso calibro a blocchi di ancoraggio. La palatura ha la funzione di sorreggere la grande rete di fili di ferro che dovrà ospitare e sostenere la vegetazione.
Foto R. Angelini
Tendone
Tendone
310
impianto La rete di fili è costituita da fili di diametro inferiore a quello del filo che collega i pali ad angolo. Normalmente la rete ha una maglia di circa 50 cm. La sequenza delle operazioni di montaggio prevede la sistemazione dei tiranti di ancoraggio nel terreno, la posa in opera dei 4 pali ad angolo, lo stendimento del filo di ferro della corona, la sistemazione dei pali di corona, il collocamento dei pali rompitratta, e infine la stesura della rete interna. L’ampiezza più adatta per la formazione di un intero vigneto è all’incirca pari a 6000-7000 m2, con un lato di circa 100 m. Si tratta di una forma d’allevamento molto costosa sia per quanto riguarda i materiali e le spese di impianto, sia per la sua gestione ordinaria, prevalentemente manuale. Inoltre, anche i parametri qualitativi delle uve da vino, come il contenuto in polifenoli e il potenziale aromatico, a causa dell’elevata produzione per ceppo, indicano che tale forma di allevamento non predispone solitamente alla produzione di uva di grande qualità. Spesso, inoltre, è soggetta a forti attacchi di botrite. Il tendone classico risulta difficilmente meccanizzabile a causa della disposizione spaziale dei capi a frutto e dei fili ortogonali. In effetti circa il 50% dei grappoli non è raggiungibile dalle macchine operatrici, poiché nascosti nella parete fogliare orizzontale. Apparentemente è una forma molto rigida, si presta comunque a conversioni verso forme di allevamento più meccanizzabili e moderne. Le distanze di impianto consentono di norma la trasformazione del tendone in doppia cortina (GDC).
Piante allevate a tendone
311
la vite e il vino
coltivazione Gestione della chioma Stefano Poni
www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche.
coltivazione Gestione della chioma Nella coltura della vite, la gestione della chioma è un fattore fondamentale sia per contenere i costi di produzione dell’uva, sia per raggiungere il migliore livello qualitativo. Questo termine, in verità alquanto generico, si riferisce a due operazioni molto importanti: la potatura invernale e la potatura verde.
Barbatella
• La barbatella è una piantina di vite
prodotta dai vivai, innestata, che presenta alcune radici, un fusto di circa 35 cm di lunghezza e, come parte aerea, uno sperone di due gemme
Potatura invernale La potatura invernale comprende tutti gli interventi cesori effettuati sulla vite durante il suo riposo vegetativo (dai primi di novembre alla fine di marzo). Si tratta, quindi, di un’operazione che, pur richiedendo personale specializzato e un monte notevole di manodopera (in media 80-120 ore/ha), può essere diluita in un arco tempo piuttosto ampio. Gli scopi della potatura invernale sono molteplici, ma variano fortemente in funzione del periodo della vita del vigneto. Nel caso, infatti, di vigneti giovani (primi due o tre anni) la potatura invernale si dice di “allevamento”, mentre dal quarto anno di vita del vigneto e fino alla sua estirpazione si parla di potatura di “produzione”.
Foto Vivai Rauscedo
Potatura invernale di allevamento La potatura di allevamento persegue lo scopo principale di accelerare il più possibile l’entrata in piena fruttificazione del vigneto consentendo al tempo stesso una crescita bilanciata tra parte aerea e apparato radicale. Il problema che si pone al viticoltore è pertanto quello di trasformare una barbatella di vite appena messa a dimora in un ceppo pronto a fruttificare al massimo della sua efficienza. Al momento dell’impianto (effettuato a mano o a macchina nel periodo autunno-primaverile), la barbatella appena ritirata dal vivaista presenta un apparato radicale e una chioma molto moMessa a dimora delle barbatelle
Foto A. Scienza
Potatura invernale
• Comprende tutti gli interventi eseguiti durante il riposo vegetativo della vite
• In base agli scopi per cui
si esegue si divide in potatura di “allevamento” e potatura di “produzione”. La prima ha la funzione di formare la struttura portante della futura pianta, mentre la seconda di mantenerne l’equilibrio vegeto-produttivo
• Può richiedere 80-120 ore/ha con personale specializzato
Panoramica invernale di un vigneto appena potato
312
gestione della chioma desti in termini di sviluppo (disegno in basso, A). Durante il primo anno di vegetazione, il compito del viticoltore è assai semplice poichè si tratta solo di assecondare la crescita naturale della vite che deve irrobustire soprattutto le radici. A tale scopo è opportuno che, nel corso della stagione vegetativa, sia posta la massima attenzione nel salvaguardare il buon funzionamento delle foglie garantendo un adeguato rifornimento di acqua, di elementi nutritivi (azoto e fosforo in particolare) e, soprattutto, proteggendo la chioma da attacchi parassitari. Al termine del primo anno di vegetazione (B) lo sviluppo della barbatella, se paragonato a quello dell’immediato post-impianto, è ovviamente superiore: tuttavia, nella maggioranza dei casi la vigoria raggiunta dai tralci non è ancora sufficiente affinché gli stessi possano essere allevati per coprire lo spazio che va da terra fino al filo portante. Qualora la maggioranza dei tralci non raggiunga la lunghezza minima richiesta, una scelta saggia è quella di ripristinare, con la potatura invernale, la stessa situazione del post-impianto, ovvero eliminare tutti i tralci prodotti, a eccezione di uno che sarà nuovamente raccorciato a due gemme (C, D). Apparentemente, le situazioni esemplificate in A e D appaiono molto simili; in realtà differiscono per un particolare non irrilevante; la vite in D ha un anno in più e, soprattutto, un apparato radicale più sviluppato ed efficiente che consentirà, durante il secondo anno di vegetazione, la produzione di tralci più robusti e vigorosi (E). Tra questi si potrà certamente selezionare, con la potatura invernale del secondo anno, uno o più tralci di lunghezza ormai sufficiente a coprire lo spazio richiesto per avviare la potatura di produzione.
2m 1,6 m
Lunghezza dei tralci
• La foto in alto evidenzia come, nel caso specifico, la lunghezza minima che il tralcio deve raggiungere al secondo anno per poter essere allevato sia di 3,6 m, pari cioè alla somma della distanza tra il terreno e il filo portante (1,6 m) e della distanza che separa le viti lungo il filare (2 m)
Potatura di allevamento della vite nel primo biennio dopo l’impianto
90 cm
Filo portante
A
Impianto
Livello del terreno
B
Crescita primo anno
C
Potatura invernale primo anno
D
Situazione inizio secondo anno
313
E
Crescita secondo anno
coltivazione Potatura invernale di produzione A partire dal terzo anno dall’impianto, prende avvio la potatura di produzione della vite che, tra i vari scopi, ha soprattutto quello di mantenere nel tempo (ricordiamo che la vita di un vigneto dovrebbe protrarsi per almeno 20-25 anni) un equilibrio il più costante possibile tra quantità di uva prodotta, qualità del vino e capacità delle vite di rigenerare, ogni anno, nuovo legno. Prima di esaminare quando, come e quanto potare è interessante chiedersi: perchè è necessario potare la vite e, qualora vi si rinunciasse, quali sarebbero le conseguenze? Nel caso in cui il viticoltore decidesse di non potare più le viti, le stesse tenderebbero ad assumere, nel tempo, un aspetto selvatico caratterizzato da una chioma molto espansa e disordinata e da tanti grappoli di piccole dimensioni. In questo senso, la potatura invernale è un mezzo colturale che l’uomo utilizza per addomesticare la vite e per renderne la gestione più sostenibile, specie sotto il profilo economico.
Quando potare
• L’intervallo di tempo utile per la potatura invernale di produzione va dalla caduta delle foglie (di solito inizio di novembre) alla tarda primavera prima che riprenda l’attività vegetativa. Tra i fattori della potatura, l’epoca di esecuzione è forse quello di importanza minore anche se è noto che una potatura ritardata (per esempio fine marzo) determina anche un leggero slittamento in avanti del germogliamento delle viti
Come potare. Il “come potare” identifica due problematiche diverse ma ugualmente importanti: la prima riguarda la tipologia di potatura adottata e, la seconda, i mezzi tecnici che sono utilizzati per eseguirla. Per quanto riguarda la tipologia, in viticoltura esiste da sempre un dualismo, spesso accompagnato da dibattiti tra gli addetti ai lavori piuttosto accesi e mai risolutivi, tra potatura corta e potatura lunga. Nel caso specifico, gli aggettivi “corta” e “lunga” si riferiscono alla lunghezza dei tralci che vengono lasciati sulla vite dopo l’intervento di potatura. La potatura corta lascia degli speroni, ovvero dei “mozziconi” di tralcio non più lunghi di 2-3 gemme, mentre quella lunga lascia dei capi a frutto, ovvero porzioni di tralcio che possono presentare da 5-6 fino anche ad oltre 20-25 gemme ciascuno.
Sperone con tre gemme (potatura corta)
Potatura invernale “corta” su un sistema di allevamento a cordone speronato
Prima della potatura invernale
314
Dopo la potatura invernale
gestione della chioma Nello schema della pagina precedente sono esemplificate le modalità operative della potatura corta. Nel caso specifico, riferito a un sistema di allevamento a cordone speronato, l’azione primaria del potatore è quella di ripristinare gli speroni produttivi ricavandoli da un raccorciamento dei tralci basali prodotti sugli speroni dell’anno precedente. Una buona regola della potatura corta è sempre quella di ricavare i nuovi speroni da zone che siano il più possibile vicine al cordone permanente. Questo criterio consente di mantenere la vite più giovane e di allontanarsi di meno dal cordone stesso. Più semplice è la potatura lunga che lo schema in basso riferisce a un sistema di allevamento definito a guyot. Nella fattispecie, il potatore è chiamato a effettuare tre interventi in sequenza piuttosto lineari e privi di complicazioni: – rimozione del tralcio fruttifero che ha prodotto nella precedente vendemmia; – sostituzione dello stesso con un nuovo tralcio che viene piegato orizzontalmente lungo il filo portante e poi a esso legato; – ripristino di uno sperone di rinnovo da ricavare, preferibilmente, dal tralcio basale inserito sullo sperone lasciato l’anno prima. Per coloro che si avvicinano per la prima volta alla coltura delle vite, il dilemma tra potatura corta e lunga è di non facile risoluzione. Quali sono i fattori che si devono considerare per potere poi fare la scelta giusta? In primo luogo, esiste un condizionamento genetico che non si può modificare e che definisce il rapporto che intercorre tra fertilità dei germogli (definita dal numero di grappoli che ciascuno di esso porta) e posizione del germoglio stesso sul tralcio. In generale, per tutti i vitigni coltivati, la massima fertilità è raggiunta a partire dal 3°- 4° nodo basale del tralcio mantenendosi
Capi a frutto con 18-20 gemme (potatura lunga)
Potatura invernale “lunga” su un sistema di allevamento a guyot 2
3 Nuovo sperone
Tralcio di “rinnovo”
1 Prima della potatura invernale
Dopo la potatura invernale
315
coltivazione
2,5
poi elevata fino a oltre il 20° nodo. Tuttavia, al fine di poter decidere quale tipologia di potatura è applicabile (corta o lunga) è fondamentale conoscere il livello di fertilità delle prime gemme basali del tralcio. Qualora, infatti, questo sia elevato (in media due grappoli per germoglio anche sui primi due nodi dello sperone), si può applicare qualsiasi tipo di potatura; se il livello di fertilità è intermedio (circa un grappolo per germoglio sui primi due nodi) la potatura corta è ancora applicabile pur con alcuni accorgimenti che verranno descritti nei prossimi paragrafi; infine, se il livello di fertilità dei nodi basali è basso non è possibile una scelta di potatura corta, pena la presenza nel vigneto di una larga maggioranza di germogli che non portano grappoli. Resta, infine, da definire il quadro dei vantaggi e degli svantaggi relativo alle due tipologie di potatura. Quella lunga è più semplice da eseguire, psicologicamente più accettata soprattutto da viticoltori di vecchia generazione e meno onerosa per quanto attiene la gestione in verde della chioma. Allo stesso tempo, richiede però un maggior carico di manodopera rispetto a quella lunga e, sotto il profilo fisiologico, contribuisce ad aumentare la disomogeneità di crescita dei germogli inseriti lungo il capo a frutto che, nei casi più gravi, si può trasformare anche in una maturazione non uniforme delle uve. La potatura corta evita o riduce fortemente quest’ultimo inconveniente, è più rapida da eseguire, è parzialmente o integralmente meccanizzabile (cosa che non avviene in quella lunga poiché non esiste tuttora un mezzo meccanico in grado
Fertilità delle gemme (infiorescenze/germoglio) Vitigno A Vitigno C
2 1,5
Vitigno B
1 0,5 0
0 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 1516 Posizione del nodo sul tralcio (n)
Diversi casi di fertilità delle gemme (o nodi) in funzione della posizione delle stesse sul tralcio
Fertilità sui nodi basali dello sperone e potatura di produzione Vitigno molto fertile (per esempio Sangiovese)
Vitigno mediamente fertile (per esempio Trebbiano)
Sperone Potatura corta Potatura lunga
Vitigno poco fertile (per esempio Albana)
Sperone
Sì Sì
Possibile Sì
316
Sperone No Sì
Zuccheri (g/germ)
di selezionare un capo a frutto e di posizionarlo e legarlo a un filo portante). D’altra parte, la potatura corta richiede una maggiore preparazione degli addetti, è mentalmente accettata con maggiori riserve e, specie negli ambienti che conferiscono una notevole vigoria alle vite, può aggravare le esigenze di interventi in verde. La problematica del come potare investe anche le modalità tecniche di esecuzione. Nella viticoltura italiana la potatura invernale è ancora, in larga prevalenza, manuale e talvolta coadiuvata da forbici pneumatiche, macchine legatrici per i tralci e carri piattaforma nel caso si operi su forme alte. Tuttavia, negli ultimi due decenni in particolare, si sono diffuse, specie nelle aziende di dimensioni medio-grandi (oltre 5 ha) soluzioni di potatura meccanica quasi sempre comunque seguita da un intervento di rifinitura manuale. Un cantiere tipico di lavoro è formato dalla macchina potatrice, dotata di barre falcianti e montata lateralmente sulla trattrice, che opera una sorta di “sgrossatura”, con due operatori muniti di forbici pneumatiche che eseguono ulteriori tagli di diradamento o di raccorciamento degli speroni. Un cantiere di questo tipo consente di ridurre i tempi di esecuzione anche di oltre il 60-70% rispetto a un intervento esclusivamente manuale. Tuttavia, pur in presenza di una rifinitura, la potatura risente dell’effetto “macchina” che si manifesta principalmente come una mancanza di selettività che ha poi importanti conseguenze sulla quantità di gemme che è mantenuta sulle viti dopo la potatura.
50 40 30 20 10 0
°Brix (%)
gestione della chioma
25 20 15 10 5 0
Basali
Mediani
Apicali
Fonte: Baldini et al., 1974
Tenore zuccherino delle uve alla vendemmia per la zona basale, mediana e apicale del capo a frutto su vitigno Albana
Nodi e potatura
• I nodi rappresentano settori di
tralcio, intervallati da internodi, in corrispondenza dei quali si colloca la gemma dormiente
• Una potatura si dice “povera” quando
lascia poche gemme, “ricca” quando invece il numero di gemme mantenuto è elevato
Quanto potare. Il quanto potare si riferisce, convenzionalmente, al numero di gemme (o nodi) che rimangono sulla vite dopo l’intervento di potatura. Quali sono i criteri con cui è possibile decidere quante gemme lasciare sulla vite con la potatura invernale? È noto che, in accordo a quanto riportato nel grafico a lato, aumentando il carico di gemme per vite anche la produzione di uva in un primo tempo aumenta linearmente ma poi, continuando a lasciare sempre più gemme sulla vite, la produzione cresce più lentamente fino a un punto in cui diventa in pratica insensibile. È quindi evidente che la vite non si comporta come un mezzo meccanico governato dall’uomo, ma come un essere vivente che ha una propria potenzialità di crescita e che, se troppo sollecitato, reagisce in maniera opposta allo stimolo che noi cerchiamo di indurre. Se, infatti, una vite viene sottoposta, con la potatura invernale, a un carico di gemme troppo elevato, reagisce con una serie di meccanismi di adattamento che cercano di mitigare gli effetti di una potatura troppo ricca: tra questi i più importanti sono una riduzione del germogliamento (ovvero il rapporto tra il numero dei germogli prodotti e quello delle gemme lasciate), della fertilità
• In generale, utilizzando una potatura
Produzione di uva per vite
manuale, si asporta spesso oltre il 90% del legno formato durante la precedente stagione vegetativa
Nessun aumento produttivo Aumenti meno che proporzionali Carico di gemme per vite
Relazione tra carico di gemme e produzione
317
coltivazione (ciascun germoglio porta meno grappoli) e del peso del grappolo (grappoli più piccoli). L’entità del carico di gemme mantenuto sulla vite dovrebbe in primo luogo essere adattata all’ambiente: in un ambiente che si contraddistingue per una buona fertilità dei terreni e per un clima favorevole, il numero di gemme conservato con la potatura invernale dovrebbe essere superiore a quello mantenuto su viti che crescono in un ambiente povero (terreni meno fertili ed eventualmente siccitosi). In linea generale, il carico di gemme è basso quando non supera le 10 unità per metro di filare; medio quando si colloca tra 10 e 30; alto quando eccede la soglia di 30. Ovviamente, il potatore ha sempre la possibilità di regolare il numero di gemme lasciato in potatura invernale, pur in presenza, tuttavia, di vincoli oggettivi legati sia al tipo di potatura sia ai mezzi tecnici utilizzati per effettuarla. Per quanto attiene a questi ultimi, nel caso di potatura meccanica il viticoltore automaticamente accetta un aumento del carico di gemme rispetto a un intervento manuale e, a quel punto, sarà chiamato a valutare con attenzione se il nuovo livello produttivo è ancora compatibile con una buona qualità delle uve.
Numero di gemme e tipo di potatura
• Nella potatura lunga tipo guyot l’entità del carico di gemme è dipendente dalla distanza delle viti lungo il filare: se essa aumenta, anche la lunghezza del cordone produttivo aumenta e con essa il carico di gemme. Data però una certa distanza delle viti sulla fila (per esempio 1 m), il carico di gemme è in pratica automaticamente predeterminato
• Nella potatura corta, esiste una
maggiore flessibilità di variazione del carico di gemme per vite: se ipotizziamo la stessa distanza delle viti sulla fila (1 m), il numero di gemme mantenuto può variare anche di molto a seconda dei casi poiché l’operatore ha la possibilità di modificare sia il numero sia la lunghezza degli speroni. Per esempio, in un vitigno di media fertilità delle gemme basali, una potatura corta può essere adottata a patto che si lascino più speroni e di maggiore lunghezza. In questo modo il più alto carico di gemme servirà a compensare, sotto il profilo produttivo, la fertilità non particolarmente elevata delle gemme basali
Come fare a capire se la potatura adottata è quella giusta? Tale quesito è, da sempre, un cruccio per esperti e amatori della viticoltura da vino. Ovviamente, si può formulare una risposta di ordine generale: se la produttività dell’impianto e la qualità delle uve sono costantemente su livelli buoni o eccellenti, conseguentemente il tipo di potatura adottato è assai probabilmente corretto e ben integrato con l’ambiente. Tuttavia, sono innumerevoli i casi in cui l’efficienza del vigneto non è ottimale e, in tale occasione, occorre stabilire se questo parziale insuccesso è imputabile a scelte di potatura errata o, piuttosto, dipendente da altri fattori. Negli ultimi anni, la ricerca ha messo a disposizione numerosi indici fisiologici che possono essere utilizzati per capire se l’equilibrio vegeto-produttivo indotto sulla vite con la potatura invernale è soddisfacente: molti di questi, purtroppo, sono in pratica inutilizzabili dai viticoltori poiché spesso implicano calcoli e metodiche piuttosto complesse. Cosa fare allora per capire se abbiamo potato la nostra vite in modo corretto? Vi sono due possibilità che qualsiasi viticoltore, anche inesperto, può tranquillamente sfruttare: valutare visivamente come germoglia la vite o calcolare un indice di equilibrio costituito dal rapporto tra il peso dell’uva e il peso del legno asportato con la potatura invernale. Il modo di germogliare della vite può essere un buon indicatore della bontà delle scelte effettuate in potatura invernale (schema alla pagina seguente). 318
gestione della chioma Se, infatti, il numero di germogli prodotti da ciascuna gemma lasciata è spesso superiore a uno (A), è probabile che il carico totale di gemme mantenuto sulle viti sia sottodimensionato rispetto alle potenzialità ambientali. Questa condizione è generalmente negativa per la qualità poiché tende a creare un eccessivo affastellamento della vegetazione che fa aumentare i costi di potatura verde e crea condizioni più favorevoli allo sviluppo delle malattie fungine. Allo stesso modo, se prevale la condizione C, in cui su tre gemme lasciate una sola è schiusa, è evidente che la potatura era troppo ricca; in altri termini la vite non riesce a schiudere tutte le gemme che abbiamo lasciato in potatura invernale. Questa condizione di affaticamento può determinare altresì un peggioramento della qualità delle uve dovuto soprattutto a un deficit di superficie fogliare rispetto alle esigenze di maturazione. È quindi di tutta evidenza che la condizione di maggiore equilibrio è quella descritta in B, per la quale, in media, a ogni gemma corrisponde la formazione di un germoglio. Inoltre, anche il viticoltore più inesperto può calcolare un indice di equilibrio vegeto-produttivo utile a diagnosticare la correttezza delle scelte di potatura invernale. Prendendo come riferimento una decina di ceppi scelti a caso nel vigneto, tale indice è dato dal rapporto tra il peso alla vendemmia dell’uva e il peso del legno asportato con la potatura invernale. Si ha un giusto equilibrio vegeto-produttivo con un valore dell’indice che oscilla intorno a 5.
Indice di equilibrio vegeto-produttivo
• Per calcolare l’indice, marcare una
decina di ceppi scelti a caso e, alla vendemmia, pesare per ciascuno la quantità di uva prodotta. Alla potatura invernale, pesare la quantità totale di legno asportato per ceppo. L’indice è dato dal rapporto tra i due valori
• L’indice risulta equilibrato quando è
pari a 5. Se invece tale rapporto risulta molto più basso o molto più alto di 5, si è di fronte a viti squilibrate per eccesso di vigoria, nel primo caso, o per eccesso di produzione, nel secondo
• Il punto di riferimento è il rapporto e
non i valori assoluti dei due fattori; un rapporto di 5 si può rispettare sia producendo 5 kg di uva per kg di legno sia, in alternativa, producendo 2,5 kg di uva per 0,5 kg di legno
Ipotesi di germogliamento della vite A Tre gemme producono cinque germogli
B Tre gemme producono tre germogli
Potatura troppo povera
Potatura equilibrata
319
C Tre gemme producono un solo germoglio
Potatura troppo ricca
coltivazione Potatura estiva Con il termine di potatura estiva o potatura verde si definisce una serie di operazioni eseguite in un periodo in cui la vite è in piena fase vegetativa. Proprio per questo motivo, la delicatezza di questi interventi è spesso superiore a quella della potatura invernale e un’esecuzione non corretta può compromettere la qualità delle uve. Analogamente a quanto proposto per la potatura invernale, anche per quella verde è utile chiedersi se sia sempre necessario eseguirla. In linea teorica, il vigneto perfetto non avrebbe bisogno di interventi di potatura estiva. Nello specifico, il vigneto è perfetto quando presenta una crescita vegetativa equilibrata che si attenua spontaneamente a partire dall’allegagione e che consente, da un lato, una piena maturazione delle uve e, dall’altro, il mantenimento dell’ingombro della chioma entro dimensioni compatibili con l’esecuzione di tutte le operazioni colturali. In realtà questa situazione ideale è assai rara e quasi sempre gli interventi di potatura verde si rendono necessari proprio per correggere dinamiche di crescita anomale della chioma o per riaggiustare la carica di uva in funzione di specifici obiettivi enologici. Sotto il profilo operativo, gli interventi in verde possono essere di entità tale da richiedere un monte annuo di ore di manodopera che si avvicina e, in taluni casi, può addirittura superare quello richiesto per la potatura invernale. Tuttavia, quasi tutte le operazioni in verde sono oggi meccanizzabili con un notevole risparmio sui tempi di lavoro. Le pratiche più diffuse di gestione in verde del vigneto sono costituite da spollonatura, scacchiatura, legatura e cimatura dei germogli, defogliazione, e diradamento dei grappoli. Per ciascuna di queste operazioni proponiamo delle schede che ne spiegano il significato e le modalità operative.
Potatura verde
• Comprende tutte le operazioni che
vengono eseguite sulla chioma durante la stagione vegetativa in primaveraestate: – Spollonatura, scacchiatura, legatura e cimatura dei germogli – Defogliazione della fascia produttiva – Diradamento dei grappoli
• Richiede un numero di ore di lavoro che spesso può superare quello richiesto dalla potatura invernale
Spollonatura dei germogli Consiste nel rimuovere i germogli (polloni) che, all’inizio della stagione vegetativa, si formano lungo il ceppo della vite. Entro certi limiti la produzione di germogli lungo il ceppo è fisiologica, ma è in ogni modo buona norma rimuoverli per evitare che esercitino una competizione eccessiva nei confronti dei germogli produttivi che devono invece essere privilegiati. L’intervento di spollonatura può essere eseguito manualmente con tempi di esecuzione che possono andare dalle 20 alle 40 ore/ha a seconda dell’epoca e della quantità di polloni da rimuovere. L’epoca migliore di intervento è quella in cui, in media, i polloni sono lunghi 10-12 cm e quindi ancora teneri e asportabili senza l’ausilio di forbici. In alternativa, si possono usare macchine spollonatrici che compiono l’operazione in 2-3 ore/ha ma che, quasi sempre, hanno poi necessità di un intervento di rifinitura manuale.
Polloni sviluppatisi lungo il ceppo verticale della vite
Spollonatura dei germogli
• È la rimozione completa dei germogli
che si sviluppano sul ceppo della vite
• Si esegue a mano o a macchina su
germogli di circa 10 cm di lunghezza
• Richiede 20-30 ore/ha 320
gestione della chioma Scacchiatura dei germogli La scacchiatura dei germogli differisce dalla spollonatura per il fatto che, in questo caso, non sono i germogli prodotti lungo il ceppo a essere rimossi, bensì quelli soprannumerari (di solito secondari o di corona) presenti sugli speroni o sui capi a frutto. In altri termini, si opera sulla parte “orizzontale” della vite e l’intervento, forzatamente selettivo, non può che essere manuale con una richiesta di manodopera che, a seconda della densità di germogli presenti, può variare da 25 a 50 ore/ha. È sempre necessario scacchiare? Ovviamente no. In una chioma equilibrata, che presenta in media un germoglio prodotto per ogni gemma lasciata in potatura, la scacchiatura è superflua. Purtroppo, sono invece assai numerosi i casi in cui prevale la situazione in cui, da ogni gemma lasciata, sono spesso due i germogli prodotti. Questo comportamento determina un eccessivo addensamento vegetativo (ovvero presenza di troppi germogli in un determinato volume di chioma) che deve poi essere corretto con un intervento di scacchiatura eseguita quando gli stessi raggiungono una lunghezza di circa 15-20 cm. In genere, si ritiene che una densità di germogli pari a circa 8-12 unità/m sia ottimale per la massimizzazione degli standard qualitativi. Nel caso in cui i germogli che sono rimossi (quelli secondari o di corona) siano fertili (ovvero presentino anch’essi dei grappoli), la scacchiatura svolge anche una funzione di diradamento preventivo dei grappoli. Come tutti gli altri interventi in verde, anche la scacchiatura stimola fenomeni di natura compensativa, in altre parole meccanismi che la vite mette in atto per reagire all’azione dell’uomo. In particolare, la scacchiatura, specie se eseguita troppo drasticamente, stimola la crescita dei germogli mantenuti determinando
Tralcio di vite prima e dopo l’intervento di scacchiatura
Schema per l’esecuzione della scacchiatura Prima
Dopo
Germoglio principale Germoglio secondario
NO!
Sperone
Dettaglio di uno sperone in cui è stata effettuata una scacchiatura eccessiva che ha rimosso anche i germogli basali
321
coltivazione anche una maggiore onerosità dei successivi interventi di cimatura. Inoltre, se la scacchiatura eccessiva riguarda forme di allevamento basate sulla selezione di speroni corti, la stessa può determinare, al momento della successiva potatura invernale, una carenza di punti di rinnovo degli speroni. In alcuni casi, le esigenze di scacchiatura manuale dei germogli sono causate e/o aggravate da scelte impiantistiche. Per esempio, l’opzione per un sistema di allevamento con potatura corta determina, a parità di gemme lasciate sulla vite, una ricorso più frequente alla scacchiatura dei germogli. Una regola generale del modo di vegetare della vite sancisce, infatti, che la potatura corta stimola la vigoria in misura maggiore di quella lunga. Purtroppo, le esigenze di scacchiatura possono derivare anche da scelte colturali non particolarmente felici. Uno dei casi più frequenti è legato a una non corretta distanza delle viti lungo il filare. Se, infatti, questa è troppo ridotta rispetto alle esigenze ambientali, la vite, come effetto compensativo, tenderà a schiudere molti germogli in soprannumero che dovranno essere poi parzialmente o integralmente scacchiati. Questo ultimo caso deve essere un attento motivo di riflessione poiché rappresenta un esempio di come sia il viticoltore stesso, talvolta, a creare condizioni colturali che poi aggravano le esigenze di lavoro e, fatalmente, riducono i margini di reddito.
Scacchiatura dei germogli
• È la rimozione parziale dei germogli
presenti sulla parte orizzontale della vite
• Si esegue a mano su germogli di circa 10-15 cm di lunghezza
Legatura dei germogli È un’operazione relativamente semplice che consiste nel convogliare verso i fili di sostegno i germogli che si stanno invece indirizzando verso l’interfilare. È infatti naturale che, in una forma a controspalliera, una quota di germogli, pur crescendo in direzione verticale, non riesca ad attaccarsi con i viticci ai fili e tenda quindi a ricadere verso l’esterno. Tali germogli, se non riposizionati, finirebbero fatalmente per rompersi oltre a creare un forte ostacolo per il transito dei mezzi meccanici nell’interfilare. La legatura può essere sia manuale (circa 20-25 ore/ha) sia meccanica, con tempi di esecuzione contenuti, in questo ultimo caso, in 2-3 ore/ha. L’aggravio di lavoro di una legatura manuale può essere considerevolmente ridotto se si adottano, come viene ormai fatto nella maggioranza dei casi, coppie di fili mobili. I fili si dicono mobili perchè possono essere sganciati da un accessorio (in plastica o metallo) che li ancora al filo e quindi essere mantenuti in posizione di riposo a un’altezza pari o inferiore a quella dell’impalcatura della vite. Nel momento in cui alcuni germogli cominciano a flettersi verso l’esterno, questi fili vengono ricollocati nell’alloggio originario e, nel loro percorso di ritorno, trascinano con se i germogli stessi che, quindi, vengono convogliati verso l’asse del filare al quale avranno tutto il tempo di ancorarsi sfruttando la capacità di aggancio dei viticci.
Schema di legatura dei germogli
Legatura dei germogli
• È l’aggancio dei germogli alla parete del filare
• Si esegue a mano o a macchina, solitamente in pre-fioritura
• Richiede 20-25 ore/ha se fatte a mano, 2-3 ore/ha se meccanica
322
gestione della chioma Cimatura dei germogli In viticoltura, si definisce cimatura il taglio della parte terminale del germoglio costituita da apice vegetativo e alcune foglie giovani. Per tale motivo, nel momento stesso in cui viene eseguito, questo intervento determina un repentino aumento dell’età media delle foglie componenti la chioma che, tuttavia, è seguito da un progressivo ringiovanimento la cui natura dipende dall’entità e dalla durata di formazione delle femminelle stimolate dal taglio. Di nuovo è opportuno chiedersi: è sempre necessaria questa operazione? La nostra esperienza di tecnica viticola suggerisce che oltre il 90% dei vigneti ha bisogno di essere cimato almeno una volta nel corso della stagione vegetativa. Questo accade perché l’esuberanza vegetativa delle viti spesso eccede i limiti dimensionali dettati dalla struttura portante (pali e fili) e la cimatura ha proprio il compito primario di riportare la chioma entro un ingombro dimensionale corretto. L’intervento può essere manuale ma, assai più frequentemente, meccanico. Una macchina cimatrice (a barre falcianti o a coltelli rotanti) può eseguire l’operazione in 1-2 ore/ha con una qualità di lavoro del tutto simile a un intervento manuale. Nel momento in cui un intervento di cimatura si rende necessario, vi sono immediatamente due scelte di ordine pratico che il viticoltore deve affrontare: quando e quanto cimare.
Cimatura dei germogli
• È la rimozione della parte alta del
germoglio comprendente apice vegetativo e alcune foglie giovani
• Si esegue a mano o a macchina, dalla fioritura all’invaiatura
• Richiede 1-2 ore/ha con macchina cimatrice
Quando cimare. La scelta relativa all’epoca di cimatura è, in realtà, una variabile solo in parte sotto il controllo del viticoltore. Se, infatti, si ipotizza di intervenire meccanicamente su forme a controspalliera classica (guyot o cordone speronato), il quando è dettato dal momento in cui la maggioranza dei germogli svetta oltre il filo più alto. Il quadro precedente muta se lo si riferisce a un intervento manuale, oppure se eseguito su forme libere, quali GDC o cordone libero che, essendo prive di fili di sostegno per i germogli, con-
Cimatrice a coltelli
A
B
C
Fasi della cimatura dei germogli: precimatura (A), modalità di taglio (B), crescita di femminelle come reazione al taglio (C)
Potatrice a barre. Questa macchina può essere usata anche come cimatrice per interventi a verde modificando l’inclinazione delle lame
323
coltivazione sentono, anche utilizzando una cimatrice, un’ampia variabilità di epoca di intervento. Sotto il profilo fisiologico, un quadro ottimale di epoca di cimatura dovrebbe prefigurare uno o al massimo due interventi da eseguire tra post-fioritura e pre-chiusura grappolo, tali da consentire la formazione di femminelle che raggiungano la maturità fisiologica in prossimità dell’invaiatura.
Foto R. Angelini
Quanto cimare. Le cimature drastiche, ovvero eseguite mantenendo solo poche foglie dopo il grappolo, dovrebbero essere evitate specie se eseguite tardivamente. Tuttavia, anche nel caso di intervento precoce (per esempio allegagione), il viticoltore viene a trovarsi in una situazione di duplice difficoltà; da un lato si eliminano le foglie principali che, dall’invaiatura in poi, sarebbero state quelle più funzionali in quanto più giovani e, dall’altro, ci si affida alla ricrescita delle femminelle che è un fenomeno totalmente al di fuori del controllo umano poichè legato, in primo luogo, all’andamento climatico in post-cimatura. Un consiglio pratico a tutti coloro che si avvicinano per la prima volta alla viticoltura è di eseguire delle cimature di sicurezza. In altri termini, cimare i germogli in maniera tale da mantenere sul germoglio stesso un numero di foglie minimo (se ne consigliano almeno 12-14) e quindi tale da garantire, anche nel caso di eventi avversi nel periodo che segue la cimatura, un buon potenziale di maturazione delle uve. Per la verità, in alcuni casi (per esempio cimatura meccanica su controspalliere classiche con fili di sostegno per i germogli), questo criterio prudenziale è rispettato in modo quasi automatico poiché la barra orizzontale della cimatrice, dovendo forzatamente operare al di sopra dell’ultimo filo di sostegno dei germogli, mantiene un numero di foglie principali
Foto R. Angelini
Il periodo compreso tra fine fioritura e pre-chiusura grappolo rappresenta il momento ottimale per l’esecuzione degli interventi di cimatura Esecuzione dell’operazione di cimatura
324
gestione della chioma almeno pari alla distanza che intercorre tra altezza del cordone da terra e altezza di taglio. In analogia a quanto già evidenziato per la scacchiatura, in alcuni casi sono scelte infelici di tecnica colturale ad alimentare la necessità di cimatura e in particolare tutte quelle che tendono a stimolare la vigoria: tra queste le più frequenti sono costituite da distanze sulla fila e/o carichi di gemme per ceppo troppo ridotti, uso irrazionale di apporti idrici e nutritivi, gestione del suolo inadeguata (per esempio preferenza per lavorazioni rispetto a inerbimenti).
Sfogliatura
• È la rimozione, totale o parziale, delle foglie basali del tralcio
• Si esegue a mano (intervento selettivo) o a macchina (intervento parziale), dall’allegagione all’invaiatura
Sfogliatura Consiste nel rimuovere una quota o tutte le foglie (femminelle incluse) inserite a livello dei grappoli allo scopo di arieggiare la fascia produttiva, migliorarne l’insolazione e consentire una maggiore efficacia dei trattamenti antiparassitari. Normalmente, vengono asportate le foglie comprese tra il primo e il quinto-sesto nodo sul germoglio. A differenza di tutte le precedenti operazioni di potatura verde, spesso difficilmente evitabili, la necessità di esecuzione di una sfogliatura deve essere attentamente valutata. L’intervento è, infatti, consigliabile prevalentemente solo quando la densità fogliare, a livello dei grappoli, è effettivamente troppo elevata. Per poterlo stabilire, si può semplicemente osservare la chioma e stimare, a vista, quale percentuale di grappoli è già visibile. Qualora questa sia superiore al 40-50%, il ricorso alla defogliazione è probabilmente inutile, se non dannoso. La sfogliatura può essere manuale, con tempi di intervento variabili da circa 25 e 50 ore/ha a seconda della densità della chioma e della quantità di foglie che si desidera asportare, oppure meccanica. Esistono varie tipologie di macchine sfogliatrici che operano secondo principi diversi (aspirazione, getto di pressione, termiche) e che possono eseguire l’intervento in 1-2 ore/ha. Tuttavia, una caratteristica che accomuna tutte le macchine defogliatrici è quella di un intervento forzatamente parziale: alcune foglie, infatti, vengono solo lacerate e altre possono restare intatte.
• Richiede 25-30 ore/ha se eseguita manualmente o 1-2 ore/ha con macchine defogliatrici
Prima
Quando defogliare. In linea di principio, il periodo utile per eseguire una defogliazione è quello compreso tra le fasi fenologiche dell’allegagione e dell’invaiatura. Defogliazioni più precoci (eseguite, per esempio, intorno alla fioritura) possono essere attuate perseguendo però obiettivi diversi da quelli della defogliazione tradizionale: per esempio, un intervento così precoce sicuramente determina una diminuzione di allegagione che può rivelarsi un effetto negativo o positivo. Negativo se operiamo in condizioni in cui il vigneto presenta già una bassa produttività, positivo se invece si persegue l’obiettivo di contenere la produzione e di ottenere grappoli più spargoli.
Dopo
Sfogliatura della zona basale del germoglio di vite
325
coltivazione In caso di sfogliatura meccanica, l’epoca di intervento diventa un elemento critico. È infatti evidente che la bontà del lavoro della defogliatrice dipende in larga misura da quanto la macchina è efficace nella rimozione delle foglie rispettando allo stesso tempo al massimo l’integrità dei grappoli. Sotto questo profilo, la nostra esperienza ci induce a ritenere che l’epoca migliore per una defogliazione meccanica sia quella che precede di poco l’invaiatura (indicativamente seconda decade di luglio in molti areali viticoli italiani). In questa fase, infatti, il grappolo è già piuttosto pesante rispetto alle foglie e quindi più resistente all’azione di aspirazione e di taglio della macchina. Allo stesso tempo gli acini sono ancora duri e quindi più resistenti a eventuali abrasioni e ammaccature che la macchina può causare e che possono poi facilitare gli attacchi di agenti patogeni. Quanto defogliare. Per questo intervento in verde, il quanto defogliare è funzione primaria della modalità di intervento. Come già detto, infatti, un intervento manuale può asportare completamente le foglie, mentre quello meccanico è forzatamente parziale. In maggiore dettaglio, a eccezione di casi particolari (per esempio climi freschi e/o zone marginali in cui la radiazione solare può essere insufficiente), la defogliazione manuale non dovrebbe rimuovere tutte le foglie basali lasciando i grappoli completamente esposti alla luce. Questo tipo di microclima infatti, specie in ambienti caratterizzati da estati calde, oltre ad aumentare il rischio di scottature degli acini determina, per i vitigni bianchi, brusche cadute di acido malico e, per i vitigni rossi, un accumulo di antociani non ottimale con prevalenza di forme biochimiche più difficilmente estraibili durante la vinificazione. Sempre nel caso di intervento manuale, un altro elemento sul quale il viticoltore è chiamato a operare una scelta è quello di eliminare, oppure mantenere, le femminelle che spesso sono presenti a livello dei nodi basali del germoglio. Noi consigliamo di mantenere, almeno in parte, queste femminelle (per esempio si può decidere di rimuoverle a nodi alterni) e di cimarle. In questo modo vengono preservate le foglie basali delle femminelle stesse che, dall’invaiatura in poi, costituiranno un produttore assai efficiente di carboidrati utili alla maturazione dell’uva. Una defogliazione meccanica ovvia alla problematica espressa precedentemente poiché il lavoro della defogliatrice, sempre parziale, automaticamente mantiene a livello dei grappoli una certa copertura realizzando quindi quelle condizioni di microclima intermedio che si ritengono oggi essere propedeutiche all’ottenimento di uve di qualità. Nel caso di intervento meccanico, tuttavia, occorre una buona o perfetta integrazione tra collocazione spaziale dei grappoli e altezza di lavoro della defogliatrice e, soprattutto, una scelta felice nell’epoca di intervento che, ribadiamo, dovrebbe collocarsi 7-10 giorni prima dell’invaiatura.
Particolare della chioma dopo un intervento di sfogliatura manuale Foto A. Scienza
Sfogliatrice in azione su vigneto a spalliera
Sfogliatrice in cui il flusso d’aria diretto sulle foglie provoca il loro distacco
326
gestione della chioma Anche l’esigenza di defogliare dipende o può essere aggravata, talvolta, da altre scelte colturali. Un caso emblematico è quello in cui, eccedendo con la concimazione, specialmente se azotata, si creano condizioni di vigoria molto elevata che poi determinano spesso una fogliosità eccessiva a livello dei grappoli. Un altro esempio, piuttosto frequente, è quello in cui più di un germoglio sviluppa da ogni gemma lasciata; in questo caso tenderà a crearsi, a livello dei grappoli, una condizione di marcato ombreggiamento. Ancora una volta, quindi, occorre distinguere tra le condizioni naturali (spesso difficilmente superabili) che innescano una necessità di defogliazione e quelle, invece, indotte per mano dell’uomo.
Diradamento dei grappoli
• È la rimozione di una quota (in genere dal 30 al 60%) dei grappoli presenti sulla vite
• Si realizza a mano dall’allegagione all’invaiatura
• Richiede 20-50 ore/ha
Diradamento dei grappoli Consiste nella rimozione di una quota dei grappoli presenti sulla vite. L’intervento è forzatamente manuale e, a seconda dell’ intensità di diradamento che si intende applicare, i tempi di manodopera possono variare tra le 20 e le 50 ore/ha. Purtroppo, a oggi, non esiste nessun mezzo meccanico che possa sostituire la mano dell’uomo per un’operazione che, come vedremo, è fortemente selettiva.
Prima
Dopo
Quando diradare. Questo interrogativo è motivo di perenne dibattito tra gli addetti ai lavori del settore viticolo. L’epoca di diradamento si dovrebbe collocare in un periodo compreso tra le fasi di allegagione e di invaiatura. Più precisamente si può individuare un’epoca precoce (in prossimità dell’allegagione), media (vicina alla fase di chiusura del grappolo) e tardiva (prossima all’invaiatura).
II Pre-chiusura grappolo
III Invaiatura °Brix
Volume dell’acino (mm3)
Epoche di diradamento dei grappoli posizionate sulla curva (in blu) di crescita dell’acino. In rosso, la curva di accumulo zuccherino nell’acino di vite
I Allegagione
Diradamento dei grappoli nella vite
Giorni dalla fioritura
327
coltivazione In generale, i vantaggi di un diradamento precoce sono quelli di togliere presto la competizione esercitata dall’eccessivo numero di grappoli e, quindi, di potere raggiungere un miglioramento qualitativo di una certa consistenza. Allo stesso tempo, i diradamenti precoci sono più esposti al rischio di una maggiore compensazione di crescita da parte dei grappoli mantenuti che si manifesta con un incremento della compattezza e della dimensione degli acini, due fattori notoriamente nemici della qualità. Inoltre, diradando presto, vi è maggiore probabilità di una ripresa della crescita vegetativa che poi può finire per esercitare competizione nei confronti della maturazione. Diradamenti più tardivi (per esempio prossimi all’invaiatura) attenuano di molto questi potenziali svantaggi e sono tecnicamente più semplici da eseguire. È infatti evidente che, diradando in una fase in cui sui grappoli sono presenti già alcuni acini colorati, è più facile individuare lo stadio di maturazione dei grappoli stessi e agire di conseguenza. D’altro lato, un diradamento effettuato all’invaiatura è un’azione che rimuove tardi l’effetto negativo dell’eccesso di produzione e non sempre garantisce l’auspicato incremento qualitativo.
Perché diradare e quali grappoli togliere
• Si rende necessario quando esiste
una situazione oggettiva di eccesso di produzione rispetto allo sviluppo vegetativo oppure quando, pur in presenza di ceppi già equilibrati, il viticoltore, per raggiungere determinati obiettivi enologici, ha lo scopo di anticipare la maturazione o di indurre una surmaturazione
• Non va però inteso come un’operazione ordinaria di contenimento della produzione che dovrebbe essere naturalmente conseguita attraverso la potatura invernale. Se, in un vigneto, il viticoltore è costretto a ricorrere tutti gli anni al diradamento, con ogni probabilità significa che sussiste, in quel vigneto, un elemento di squilibrio
Quanto diradare. La quantità di uva da rimuovere può variare di molto in funzione dell’annata, del carico di uva stimato presente al momento del diradamento e degli obbiettivi enologici dell’azienda che ricorre al diradamento. In generale, la quantità di grappoli asportata varia tra il 30 e il 60% di quella pendente. Occorre tuttavia ribadire un concetto pratico molto importante: a fronte di un diradamento del 50% dei grappoli presenti, in rarissimi casi corrisponde anche una riduzione finale della produzione di uva della medesima entità. Infatti, come già accennato, dopo il diradamento, intervengono fenomeni di compensazione produttiva (in altri termini i grappoli rimasti tendono a crescere di più per recuperare il livello produttivo).
• I grappoli asportati sono in genere
quelli terminali (ovvero più vicini all’apice del germoglio) oppure quelli meno formati, male posizionati o in evidente ritardo di maturazione Foto A. Scienza
È sempre conveniente diradare i grappoli? Prima di tentare di formulare una risposta a questo allettante interrogativo dobbiamo definire la convenienza del diradamento. In generale, il diradamento dei grappoli diventa conveniente quando il valore aggiunto che il viticoltore consegue dall’operazione (miglioramento della qualità delle uve che effettivamente corrisponde alla messa in commercio di vini di più alta gamma) compensa in modo più che proporzionale i costi derivanti dall’esecuzione dell’operazione e il diminuito reddito dovuto al calo di uva prodotta. In tale ottica, i riscontri sperimentali inducono a ritenere che il diradamento dei grappoli non sia sempre un’operazione conveniente. Può non esserlo per l’azione di svariati fattori: per esempio, gli effetti del diradamento variano molto, a parità di epoca e di entità
Nell’esecuzione del diradamento dei grappoli è generalmente quello distale del germoglio a essere rimosso
328
gestione della chioma dell’intervento, in funzione dell’annata; il diradamento tende a dare risultati deludenti se applicato su viti che, al momento dell’operazione, in realtà non avevano una carica di uva segnatamente elevata e che, come conseguenza del diradamento stesso, tendono poi a sbilanciarsi verso un eccesso di vigoria; infine, in casi in cui il diradamento è stato applicato per alcuni anni con gli stessi criteri, si sono osservati fenomeni di compensazione produttiva che devono essere letti come tentativi della pianta di ripristinare un livello naturale di resa. Per esempio, può accadere che viti annualmente diradate mostrino col tempo un aumento della fertilità dei germogli come a voler dire al viticoltore: “non mi costringere a produrre troppo al di sotto delle mie potenzialità…”. Infine, un’ultima riflessione riguarda le condizioni che rendono il diradamento spesso inevitabile. Alcune sono, oggettivamente, difficilmente controllabili (per esempio fertilità naturale molto elevata del vitigno, condizioni climatiche favorevoli all’induzione a fiore delle gemme), mentre altre possono essere corrette. Un esempio per tutti: il diradamento riguarda i grappoli distali presenti in maggior numero quando sono le gemme più fertili a essere mantenute in potatura invernale. È pertanto evidente che una potatura lunga aumenta la quota di germogli con fertilità > 1, rendendo quindi più pressante l’esigenza di diradamento. Un raccorciamento della potatura (se compatibile con le caratteristiche di fertilità del vitigno), a parità di carico di gemme, può rappresentare una buona soluzione per aumentare la frazione di germogli con fertilità ≤ 1, diminuendo quindi la probabilità di dovere intervenire con il diradamento manuale dei grappoli. Ancora una volta, quindi, è demandata al buon senso e alla perizia del viticoltore la possibilità di poter sfuggire a un’operazione che è intrinsecamente costosa e non dà certezza di recupero del mancato reddito.
Foto A. Scienza
Grappoli a terra dopo il diradamento
329
coltivazione Meccanizzazione della potatura invernale In viticoltura, la potatura invernale è forse l’operazione più radicalmente legata alla tradizione, alla mentalità e a un modus operandi consolidatosi nei decenni. Di fatto, mentre in molti areali viticoli italiani si assiste a un aggiornamento dei sesti di impianto (normalmente più ravvicinati), dei materiali di palificazione e della gestione del suolo, il tipo di potatura sembra in molti casi non essere scalfito dal tempo. Pertanto, forse ancora più che nel caso della vendemmia, pensare di poter demandare a una macchina il compito della potatura invernale, considerata ancora spesso una vera e propria arte, sembra particolarmente arduo. In realtà, il fattore che verrebbe a mancare nel caso di una potatura meccanica e, che più di altri, infastidisce e rende scettico il viticoltore, è la mancanza di selettività della macchina potatrice che, definito un determinato profilo di taglio, conserva in pratica tutto il legno presente all’interno del profilo stesso. In effetti, allo stato attuale, le aziende che adottano soluzioni di potatura meccanica invernale integrale sono rarissime, mentre si sta discretamente diffondendo una soluzione mista che prevede un intervento meccanico di prepotatura seguito da un’operazione manuale di rifinitura.
Confronto tra potatura meccanica e potatura manuale
• Riduzione drastica dei tempi di
intervento e dei costi anche per aziende di piccole dimensioni
• Macchine polivalenti utili anche per altre operazioni in verde
• Quasi sempre indispensabile una rifinitura manuale
• Aumento di carico di gemme rispetto a un intervento manuale
• Possibile decremento qualitativo • Mentalmente poco gradita dai viticoltori più tradizionali
Introduzione della potatura meccanica invernale della vite e tipologia di macchine potatrici I primi tentativi di eseguire con una macchina la potatura invernale della vite risalgono agli inizi degli anni ’70 e, ancora una volta, riguardano il GDC. È paradossale come questa forma di allevamento, che in seguito ha avuto una diffusione nel complesso modesta sul territorio nazionale, sia stata cruciale per avviare le prime esperienze pilota sulla potatura e sulla vendemmia meccanica. La prima potatrice operante sul GDC era montata lateralmente sulla trattrice e presentava tre barre falcianti (del tutto simili a quelle che si utilizzano per lo sfalcio dell’erba) che, lavorando secondo un profilo a C intorno al cordone permanente, consentivano di operare tagli su tre lati (superiore, inferiore e laterale esterno) variando anche la lunghezza di potatura a seconda di quanto l’operatore si avvicinava al cordone permanente. Perché il GDC consentiva questa possibilità di intervento che invece non era fattibile sulla normali forme a controspalliera? Il motivo risiede nel fatto che, in quel momento, il GDC era l’unico sistema che offrisse spazi liberi intorno al cordone permanente utili alle barre per operare senza incontrare ostacoli. Successivamente, questa tipologia di potatrice a barre falcianti fu arricchita di un componente da applicare alle barre orizzontali, detto tastatore, capace di fare si che la barra, di fronte a un ostacolo rigido (per esempio il ceppo della vite) fosse capace di scansarsi evitando di tagliarlo. Tale accorgimento consentì di utilizzare queste potatrici a barre falcianti anche per le controspalliere, a patto che le stesse fossero basate su di una potatura a cordone permanente. Oggi, sul mercato, accanto a potatrici a barre falcianti, esistono anche quelle
Potatura meccanica invernale su GDC
Aspetto di una vite dopo svariati anni di potatura meccanica
330
gestione della chioma a dischi che, rispetto alle prime, pur avendo un grado di polivalenza inferiore (per esempio non è possibile utilizzarle sulla forma a GDC), consentono però di ottenere anche un migliore effetto di stralciatura. Sotto il profilo operativo, la capacità di lavoro delle due tipologie di potatrici è simile oscillando, in media, tra 2-5 ore/ha a seconda della forma di allevamento, della massa di vegetazione presente e delle condizioni di giacitura e di pendenza. Per esempio, è evidente che una chioma come quella raffigurata nella foto a lato rappresenta una condizione ottimale per l’utilizzo di una potatrice: la vegetazione, assurgente e concentrata per la quasi totalità al di sopra del cordone permanente, si presta infatti a essere facilmente investita da un sistema di taglio con tre barre disposte a U rovesciato; inoltre l’assenza di fili di sostegno per i tralci fa sì che i sarmenti tagliati dalla macchina cadano naturalmente a terra eliminando completamente le esigenze di stralciatura. Anche per le potatrici l’innovazione tecnologica sta facendo passi significativi: esistono modelli muniti di telecamere atte a segnalare a un computer di bordo in tempo reale la posizione delle barre rispetto al cordone consentendo quindi di ottenere, nonostante i dislivelli del terreno e la non rettilineità dei cordoni, una più uniforme lunghezza di taglio.
Condizioni vegetative ottimali per l’utilizzo della potatrice
Potatura meccanica invernale: integrale o con rifinitura manuale? Accanto agli aspetti tecnici e di integrazione con il sistema di allevamento, la potatura meccanica invernale si trascina un effetto per certi aspetti costituzionale. Se si osserva l’aspetto di una vite dopo il passaggio della potatrice si nota, oltre a un estetica non esaltante, un numero di nodi che eccede largamente il carico di gemme che si sarebbe mantenuto qualora si fosse adottata una potatura manuale. Questo risultato è la naturale conseguenza di un intervento tipicamente non selettivo. Mentre gli aspetti fisiologici legati al sensibile incremento del numero di nodi mantenu-
Potatrice a barre falcianti al lavoro (alto). La barra inferiore opera il taglio vero e proprio sopra al cordone, mentre le due superiori hanno una funzione di stralciatura. Tutte le barre sono munite di tastatori (basso) Potatura meccanica con rifinitura manuale
331
coltivazione to sulla vite a seguito di un intervento meccanico sono già stati trattati nel capitolo dedicato alla gestione della chioma, occorre comunque rimarcare che, nella maggioranza delle condizioni colturali italiane, una potatura solo meccanica presenta un rischio elevato di condurre a situazioni di squilibrio per eccesso di produzione con conseguente peggioramento della qualità. Pertanto, nel nostro Paese, la potatura meccanica invernale del vigneto è spesso seguita da una operazione di rifinitura manuale che è quasi sempre effettuata da operatori muniti di forbici pneumatiche che, da terra o da piattaforme sopra-elevate, seguono la macchina operando dei tagli di sfoltimento o di raccorciamento dei tralci o degli speroni. Ovviamente, il ricorso alla rifinitura manuale, utile a riportare il carico di gemme lasciato dal passaggio iniziale della macchina verso valori più probabilmente compatibili con buoni livelli qualitativi, fa aumentare i tempi di intervento portandoli, a seconda delle condizioni, intorno alle 20-40 ore/ha. In generale, operando per esempio su di un cordone speronato, il compito dei rifinitori è quello di asportare in pratica tutto il legno che si forma in posizione ventrale rispetto al cordone (che ovviamente tende a sfuggire all’azione delle lame) e di diradare o raccorciare alcuni degli speroni presenti sopra e ai lati del cordone stesso.
Fattori da valutare per l’acquisto di una potatrice
• Ampiezza della superficie
potenzialmente “gestibile” dalla potatrice, anche in relazione all’arco temporale in cui è possibile eseguire la potatura invernale che, potenzialmente, va dalla caduta delle foglie al pregermogliamento
• Costo, orientativamente tra 10.000 e
20.000 euro e, specie se si utilizzano macchine a barre falcianti, il fatto che la stessa potatrice può essere impiegata anche per le operazioni di cimatura facendo quindi ulteriormente lievitare il periodo utile di impiego
• Questo quadro fa si che pochi ettari
di vigneto possano già rappresentare una soglia sufficiente all’acquisto, soprattutto tenendo presente che la trattrice sulla quale viene montato il corpo della potatrice è solitamente già presente in azienda
Meccanizzazione degli interventi di potatura verde La meccanica viticola mette a disposizione una gamma ormai molto vasta di macchine idonee a compiere interventi di potatura verde così denominati poichè tipicamente eseguiti durante la fase di vegetazione. Tra questi, la cimatura, la spollonatura e la legatura dei germogli, insieme con la defogliazione, sono quelli di maggiore interesse poiché più frequentemente applicati. La cimatura meccanica dei germogli è, tra le operazioni di potatura verde, quella che sicuramente presenta meno problemi dal punto di vista di un’esecuzione meccanica. Infatti, specie se al momento dell’intervento, la crescita dei germogli si presenta particolarmente ordinata e uniforme, il lavoro della cimatrice (fatta operare, in una controspalliera, di solito a poche decine di centimetri al di sopra del filo portante più alto) è rapido, efficiente e preciso. Anche se qualche germoglio, particolarmente corto, può sfuggire alla cimatura, l’operazione meccanica di cimatura non deve essere seguita, di solito, da un intervento di ripasso manuale. Nel caso in cui al momento della cimatura meccanica vi sia un certo numero di germogli che, invece di essere correttamente agganciati alla parete e crescere verso l’alto, sono già direzionati verso l’interfilare, la potatrice rischia di cimarli in modo troppo drastico riducendone eccessivamente la superficie fogliare. La legatura è altresì facilmente meccanizzabile utilizzando macchine che intercettano i germogli ricadenti, li riportano verso l’alto e poi li imprigionano per esempio distendendo lungo il filare una coppia di fili di nylon che, a distanza prefissata dall’operatore, ven-
Potatura verde: cimatura meccanica dei germogli
332
gestione della chioma gono chiusi da graffette metalliche. La legatura meccanica si rende necessaria in condizioni di vegetazione particolarmente vigorosa e disordinata in cui il numero di germogli che non si agganciano in modo spontaneo alla parete è elevato. Peraltro, nei vigneti moderni, l’utilizzo ormai largamente diffuso di dispositivi tipo fili mobili consente in molti casi di ottenere un adeguato palizzamento dei germogli e di evitare il ricorso alla meccanizzazione. Anche l’operazione di spollonatura, ovvero di eliminazione dei germogli indesiderati che si sviluppano lungo il ceppo verticale della vite, è meccanizzabile utilizzando spollonatrici che frustano il ceppo della vite con organi di diversa forma e lunghezza (per esempio dita o flange gommate). Nel caso specifico, tuttavia, l’intervento meccanico, che va eseguito quando i polloni hanno raggiunto una lunghezza di 10-15 cm, quasi mai garantisce una pulizia completa e, soprattutto, non impedisce che vi sia una nuovo ricaccio di germogli. Quest’ultimo spesso richiede o un nuovo intervento meccanico oppure un passaggio manuale. Infine, anche la defogliazione del tratto basale del tralcio è facilmente meccanizzabile con mezzi defogliatori che possono operare per aspirazione, per getto di pressione o, in alcuni modelli più recenti e ancora da valutare su larga scala, per un principio di shock termico. Tra i vari interventi, la defogliazione meccanica è quello certamente più delicato, poiché il rischio di danneggiamento dei grappoli durante il passaggio della macchina è sempre in agguato. Tuttavia, le indagini sperimentali finora condotte indicano che, per minimizzarlo, occorre intervenire nella fase di pre-invaiatura quando l’acino è ancora duro (e quindi più resistente alle abrasioni ) e, al tempo stesso, già molto più pesante delle foglie. Questa differenza di peso specifico tra i due organi facilita la rimozione delle foglie e il rispetto dei grappoli. In generale, dopo un intervento di defogliazione meccanica è comunque buona norma effettuare un trattamento fungicida.
Potatura verde: legatura meccanica
Potatura verde: sfogliatura meccanica per aspirazione
333
la vite e il vino
coltivazione Gestione della nutrizione Maurizio Boselli, Osvaldo Failla
www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche.
coltivazione Gestione della nutrizione Introduzione Alla vite sono indispensabili 15 elementi minerali. Tra questi dodici sono oggetto di nutrizione minerale propriamente detta: azoto (N), fosforo (P), potassio (K), calcio (Ca), magnesio (Mg), zolfo (S), ferro (Fe), zinco (Zn), boro (B), manganese (Mn), rame (Cu), molibdeno (Mo). Carbonio (C) , idrogeno (H) e ossigeno (O2) non sono presi in considerazione in quanto provengono direttamente dall’atmosfera. Occorre ancora menzionare qualche elemento non indispensabile quale silicio (Si), alluminio (Al), cloro (Cl), sodio (Na), di cui alcuni, come l’alluminio, possono a volte provocare reazioni di tossicità, senza essere assorbiti. È accertato che l’assorbimento degli elementi minerali da parte delle piante è un fenomeno piuttosto complesso. Inoltre, esiste un’ampia variabilità genetica nelle varietà di molte specie nell’assorbimento, accumulo, traslocazione e utilizzazione dei nutrienti minerali.
Ruolo della concimazione
• L’uva e il vino sono il risultato
di un sistema nel quale interagiscono strettamente tra loro i fattori biologici, naturali e umani (terroir). La concimazione, in questo contesto, può giocare un ruolo di rilievo, con l’obiettivo comunque di interferire il meno possibile sull’espressione del territorio nell’uva e nel vino
Bilancio nutrizionale Come tutte le piante, anche la vite per compiere regolarmente il ciclo annuale e mantenere un adeguato livello di crescita e di fruttificazione, deve soddisfare le proprie esigenze nutrizionali. Nel
Relazioni tra disponibilità di un nutriente e crescita della vite Livello critico di carenza
Livello critico di tossicità IV
Sintomi visibili di carenza
VI
III Crescita, produzione
Sintomi visibili di tossicità
V
Intervallo di sufficienza II
Intervallo di carenza
Intervallo di consumo di lusso Intervallo di tossicità
I
Contenuto fogliare elemento minerale %
334
gestione della nutrizione corso del ciclo annuale variano notevolmente i flussi di nutrienti minerali tanto all’interno della pianta (ciclo interno) quanto nel sistema pianta-suolo (ciclo esterno). Al germogliamento l’attività di crescita dell’apparato radicale è modesta e altrettanto modesto è l’assorbimento dei nutrienti. Il flusso di nutrienti necessario per la crescita iniziale dei nuovi germogli è assicurato dalle riserve accumulate nel corso della stagione precedente. Con il progredire della crescita dei germogli e il parallelo consumo delle riserve diviene attivo lo sviluppo delle radici assorbenti e il relativo assorbimento di nutrienti minerali, destinati soprattutto alla crescita vegetativa (germogli e radici). Con la transizione dalla fase di crescita a quella di fruttificazione e soprattutto di maturazione, il sink principale di nutrienti minerali diviene il grappolo. Tipicamente in questa fase si riduce l’attività di crescita e di capacità di assorbimento dell’apparato radicale, cosicché una parte delle esigenze in nutrienti minerali del grappolo, particolarmente elevate per quel che riguarda l’azoto e il potassio, viene soddisfatta dalla ricircolazione interna dei nutrienti, che vengono in parte riallocati dagli assi dei germogli in corso di lignificazione e dalle foglie verso i grappoli stessi. In modo particolare sono le foglie basali del germoglio quelle maggiormente coinvolte nel processo di ritraslocazione. Quando il processo è accentuato possono comparire sintomi di carenze nutrizionali sulle foglie basali, che possono anche precocemente invecchiare e cadere. Le relazioni che si instaurano tra la disponibilità dei nutrienti minerali e la crescita vegetativa sono descritte dalla curva riportata nella figura della pagina precedente. Nella curva si può individuare un tratto iniziale molto ripido, ove la crescita varia da livelli estremamente bassi, perché gravemente limitati dalla carenza nutrizionale, a livelli pressoché normali, quando la disponibilità del nutriente supera la cosiddetta soglia di sufficienza. Segue quindi un ampio intervallo centrale ove la crescita non subisce più limitazioni nutrizionali e può esprimersi al massimo della potenzialità. La parte destra di questo tratto della curva corrisponde al cosiddetto consumo di lusso, caratterizzato da un livello del nutriente anche molto superiore alla soglia di sufficienza senza però alcun beneficio in termini di crescita per la pianta. Innalzando ancora la disponibilità del nutriente la crescita ne risulta danneggiata, per tossicità diretta o per fenomeni di antagonismo, e quindi di carenze secondarie, che possono instaurarsi tra i nutrienti stessi. La produttività delle piante e soprattutto la qualità dell’uva rispondono alla disponibilità di nutrienti in modo analogo, ma con soglie di carenza ed eccesso non sempre coincidenti con quelle relative alla crescita vegetativa. Questo è soprattutto vero per ciò che riguarda l’azoto e il potassio. In generale il livello di azoto ottimale per la qualità dell’uva non è quello limitante la crescita. La vite ha infatti un potenziale di crescita elevatissimo. Qualora la disponibi-
Bilancio nutrizionale
• L’assorbimento e la ripartizione dei
nutrienti minerali determina il bilancio nutrizionale della vite. La disponibilità dei nutrienti influenza la crescita e la produttività della pianta
Fattori che determinano la quantità di ioni assorbiti
• Caratteristiche morfologiche delle radici
• Movimento dei nutrienti attraverso le radici
• Capacità di portare gli elementi
minerali nella parte aerea della vite
• Utilizzazione degli elementi minerali da parte dei vari organi della pianta
335
coltivazione lità di azoto dovesse soddisfarlo, sia la produttività, che soprattutto la qualità dell’uva prodotta ne risulterebbero assai danneggiati. Un discorso analogo vale anche per il potassio il cui consumo di lusso può determinare un peggioramento della qualità del mosto per eccessiva salificazione degli acidi organici.
Fattori che condizionano la nutrizione minerale della vite
• Natura del terreno (tessitura, contenuto
Rizosfera: produzioni radicali e micorrize Un aspetto della fisiologia della vite, importante per comprendere il bilancio nutrizionale, è relativo alla capacità da parte delle radici assorbenti di modificare in modo profondo le caratteristiche chimiche, fisiche e biologiche del suolo con il quale entra in contatto (rizosfera). L’apparato radicale, e specificatamente le radici assorbenti, producono e rilasciano nel suolo una grande quantità di molecole organiche che complessivamente vengono definite rizodeposizioni. Esse vengono classificate in due grandi gruppi in relazione alla dimensione delle molecole: ad alto e a basso peso molecolare. Quelle ad alto peso sono costituite da mucillagini e da enzimi. Le mucillaggini (polisaccaridi e acidi poliuronici) sono prodotti dagli apici radicali per facilitarsi la crescita grazie alla loro azione lubrificante. Le mucillagini interagiscono con le particelle terrose con le quali entrano in contatto formando il cosiddetto mucigel nel quale si sviluppano abbondanti colonie batteriche. Tra gli enzimi le fosfatasi, che solubilizzano il fosfato inorganico, sono le più importanti. Numerose sono le rizodeposizioni a basso peso molecolare: acidi organici (acido malico e citrico), zuccheri, amminoacidi e fenoli. La loro funzione è connessa a svariati processi chimico-fisici importanti per l’assorbimento dei nutrienti minerali (chelazione, acidificazione, ossidoriduzione e solubilizzazione). La capacità dell’apparato radicale di assorbire nutrienti dal suolo è migliorata grazie anche alle micorizze. Si tratta di simbiosi mu-
di humus e pH) • Umidità del suolo • Andamento climatico • Crescita, rinnovo e distribuzione radicale • Varietà e portinnesto • Tecniche colturali • Gestione del suolo
Vigneto in ottime condizioni nutrizionali
336
gestione della nutrizione tualistiche tra piante superiori e funghi molto diffuse nelle piante arboree. Nel caso specifico della vite si tratta di endo-micorrizazioni di tipo vescicolo arbuscolare. Il micelio del fungo, prevalentemente dei generi Glomus e Gigaspora, si insinuano nei tessuti corticali delle radici assorbenti sviluppando internamente alle cellule della vite delle appendici di forma vescicolare e ramificata. Il micelio, grazie ai fotosintati acquisiti dalla vite, si sviluppa abbondantemente anche al di fuori delle radici incrementandone la superficie assorbente. Le micorrizazioni sono molto importanti per l’assorbimento del fosforo.
Ruolo dei principali elementi minerali
• Azoto: entra nella composizione
degli amminoacidi, nei nucleotidi, nelle citochinine, auxine, clorofilla
• Fosforo: è alla base del metabolismo
energetico ed entra nella composizione delle membrane cellulari
Fattori che condizionano la nutrizione minerale della vite Sono numerosi i fattori che modificano la nutrizione minerale e quindi l’efficacia della concimazione. In particolare occorre tenere conto di: natura del terreno e andamento climatico; crescita, rinnovo e distribuzione radicale; vitigno e portinnesto; tecniche colturali e gestione del suolo. Tra gli aspetti agronomici al primo posto può essere collocata la natura del terreno, connessa all’origine geopedologica e ad altri fattori. Le caratteristiche pedologiche che influenzano maggiormente la fertilizzazione sono: la tessitura, il livello di umidità, il pH e il contenuto di humus. I terreni pesanti, insufficientemente aerati e poco permeabili limitano la respirazione delle radici e di conseguenza aumenta l’energia necessaria per l’assorbimento. In condizioni di asfissia, la fertilizzazione ha scarsi effetti. Anche nella situazione opposta di terreni siccitosi, l’utilizzazione degli elementi fertilizzanti è incompleta, perché la soluzione circolante raggiunge concentrazioni troppo elevate per consentire un agevole assorbimento radicale. La frazione organica del terreno riveste una notevole importanza. Sotto l’aspetto fisico l’humus (sostanze umiche che rappresentano la maggiore frazione della sostanza organica) ha un effetto rilevante sulla struttura del terreno, influendo in modo positivo sulla sua aerazione, sulla capacità di ritenzione idrica e sulla permeabilità. Attraverso meccanismi di conservazione della struttura, l’humus rafforza la resistenza del terreno all’erosione. Per quanto riguarda la fertilità chimica, la sostanza organica rappresenta una fonte di azoto, fosforo e zolfo, attraverso il processo di mineralizzazione e influenza l’assimilabilità degli elementi minerali in senso generale, grazie all’aumento della Capacità di Scambio Cationico (CSC) determinato dai colloidi umici. L’effetto più rilevante della presenza dell’humus sui costituenti minerali del terreno è tuttavia il miglioramento dell’assimilabilità dei fosfati mediante la chelazione dei cationi polivalenti responsabili della fissazione (Al e Fe) e della retrogradazione (Ca). Anche le condizioni climatiche sono in grado di modificare la nutrizione minerale della vite e sono in particolare le piogge che si verificano nei mesi primaverili ad avere una sensibile influenza positiva sullo stato nutrizionale delle piante nel corso dell’estate, specialmente nei riguardi del fosforo e del potassio.
• Potassio: riveste un ruolo fisico-
chimico (neutralizzazione delle cariche elettronegative e partecipazione al potenziale osmotico cellulare), un ruolo enzimatico come cofattore di numerose reazioni (per esempio nella sintesi di macromolecole come proteine e amido) e un ruolo nel trasporto attraverso le membrane
• Calcio e magnesio: sono cofattori in
reazioni enzimatiche, possiedono un ruolo ionico di neutralizzazione citoplasmatica, entrano nella costituzione delle pareti cellulari e il magnesio è un costituente della clorofilla
• Zolfo: forma le funzioni tioli degli
amminoacidi (cisteina, metionina) e del coenzima A
• Ferro: entra nella costituzione dei
citocromi della catena respiratoria ed è un cofattore di reazioni enzimatiche, come quelle responsabili della sintesi di clorofilla
• Molibdeno: è l’elemento costitutivo della nitrato riduttasi
• Manganese: è cofattore di reazioni enzimatiche
• Boro: entra nel meccanismo di trasporto degli zuccheri
337
coltivazione L’assorbimento minerale dipende inoltre in larga misura dalla struttura e dall’efficienza dell’apparato radicale della vite, in particolare dal volume totale e dalla densità del sistema radicale, dalla periodicità di crescita e di attività delle radici, dalla distribuzione delle radici lungo il profilo del suolo. Queste caratteristiche mutano sensibilmente secondo il portinnesto e sono profondamente modificate dall’ambiente pedoclimatico e dal tipo di gestione del suolo del vigneto. Fondamentale, ancora, per il tipo e la quantità di elementi minerali assorbiti è la distribuzione dell’apparato radicale. Tutte le tecniche o condizioni idriche del terreno che determinano un maggiore approfondimento delle radici (lavorazioni superficiali, disseccamento del terreno in superficie) favoriscono parallelamente l’assorbimento del calcio a scapito del potassio. Anche l’elevata densità di impianto ha effetti importanti determinando un maggiore sviluppo delle radici in profondità: l’elevata competizione con le radici della pianta vicina modifica l’assorbimento di alcuni ioni e in particolare: dell’azoto (dipende dalla massa radicale); del fosforo (dipende dalla lunghezza delle radici); del potassio (dipende dalla densità di radici). Nella pratica comune della fertilizzazione non si da molto peso alla diversa capacità di assorbimento delle radici dei portinnesti; per contro numerose ricerche eseguite sull’argomento concordano nel riconoscere sensibili differenze nella loro capacità di assorbimento. In generale si può ritenere che i portinnesti che hanno maggiore capacità di assorbire il potassio sono poco selettivi nei confronti del magnesio e sono anche quelli che aumentano l’incidenza del disseccamento del rachide nei vitigni sensibili. Per tale ragione è sconsigliabile impiegare l’SO4 (portinnesto che assorbe male il magnesio) per le varietà più suscettibili al disseccamento del rachide (Chardonnay, Moscato, Malvasia, Müller Thurgau, Riesling italico, Cabernet Sauvignon, Croatina). Generalmente gli ibridi Berlandieri x Rupestris (1103 Paulsen, 219 A) hanno una migliore selettività per il magnesio e il calcio rispetto ai portinnesti Berlandieri x Riparia (Kober 5BB, 420A, SO4). Le tecniche di gestione del suolo sono infine in grado di condizionare lo sviluppo e l’approfondimento dell’apparato radicale e di conseguenza la nutrizione minerale della vite. Per esempio, l’inerbimento controllato può determinare una carenza in azoto prontamente assimilabile nel mosto, con conseguente rallentamento dell’attività dei lieviti in fermentazione.
Foto I. Ponti
Disseccamento del rachide per eccesso di potassio e carenza di calcio e magnesio
Sintomatologie delle carenze nutrizionali
• Le carenze nutrizionali determinano alterazioni caratteristiche sui lembi fogliari che aiutano a formulare una diagnosi sulle possibili cause
Sintomatologie delle carenze nutrizionali La carenza e l’eccesso nella disponibilità di nutrienti determina specifiche sintomatologie, che spesso si manifestano prima che si possa apprezzare visivamente una riduzione di crescita o di produttività. Tali esiti riguardano alterazioni di colore (ingiallimenti e arrossamenti) localizzati ai margini o tra le nervature, ovvero
Grappolo con sintomi di carenza di boro
338
gestione della nutrizione diffusi a tutto il lembo fogliare, che possono portare alla morte dei tessuti coinvolti (necrosi) nei casi più gravi. Quando sono interessate foglioline in accrescimento, possono verificarsi anche alterazioni della forma del lembo. Tali sintomatologie, in relazione alla fisiologia del nutriente coinvolto, possono manifestarsi sulle foglie basali del germoglio o su quelle apicali. Si manifestano prima nelle foglie basali le carenze di quei nutrienti facilmente ritraslocabili (azoto, potassio, magnesio) all’interno della pianta. In caso di carenza essi vengono trasferiti dalle foglie basali, sulle quali compaiono i sintomi, verso le foglie apicali più giovani. Le sintomatologie compaiono invece prima nelle foglie apicali per quei nutrienti che hanno difficoltà di ritraslocazione all’interno della pianta (calcio, ferro, manganese e boro), per i quali pertanto le foglie mature non possono fungere da fonte nutritiva per gli apici in accrescimento. Controllo della nutrizione minerale Per valutare la disponibilità di elementi minerali per la pianta, l’analisi del terreno ha validità limitata. Le tecniche adottate simulano sia un fenomeno fisico (solubilizzazione degli elementi), sia un fenomeno fisiologico (assorbimento vegetale), creando delle simulazioni imperfette perchè tralasciano gli elementi che influenzano l’assorbimento minerale: clima, densità radicale e distribuzione lungo il profilo esplorato. Esiste inoltre la difficoltà di raccogliere campioni rappresentativi. Non esistono relazioni certe tra livello di elementi minerali e potenzialità vegeto-produttive. Attraverso gli studi condotti tra il 1924 e il 1932, Lagatu e Maume hanno caratterizzato la nutrizione attraverso l’analisi della foglia che rifletteva il “chimismo” della pianta (oggi chiamato attività fisiologica e metabolica). Il legame fra contenuto minerale, attività fisiologica e metabolica del vegetale e rendimento non è sempre così chiaro, ma la superiorità di questo metodo rispetto all’analisi del suolo è incontestabile. Il metodo di Lagatu e Maume consiste nell’analisi periodica delle foglie di rango determinato, i cui valori si confrontano con i valori di una pianta ben alimentata (livello nutritivo ottimale). La valutazione dei fabbisogni in elementi minerali fa riferimento a dei valori ottimali che non hanno valore universale (varietà, suolo, clima). L’organo analizzato è stato all’inizio la foglia alla base del germoglio, poi la foglia opposta al primo grappolo. Meglio sembra essere la foglia superiore al grappolo che riflette l’attività metabolica della pianta nel periodo della maturazione. Il picciolo riflette meglio lo stato nutrizionale di N-NO3 e di potassio.
Carenza di potassio su foglie
Diagnostica fogliare e peziolare
• La diagnostica fogliare cerca
di orientare la fertilizzazione per raggiungere il livello ottimale di elementi nutritivi nella pianta
• Rappresenta un buon indice dello
stato di nutrizione della pianta, seppure il legame fra contenuti di elementi minerali e produttività risulti abbastanza aleatorio
Fertilizzazione del vigneto Possono essere prese in esame tre tipologie di concimazione: concimazione di fondo, concimazione di partenza per viti giovani e concimazione di produzione. 339
coltivazione Concimazione di fondo Viene praticata prima dell’aratura e serve per dotare gli strati profondi del terreno soprattutto di sostanza organica e di elementi poco mobili, come potassio e fosforo. Nella determinazione del quantitativo da somministrare con la concimazione di fondo occorre tenere conto dei seguenti elementi: – profondità del suolo esplorata dalle radici: la concimazione sarà quantitativamente inferiore in un suolo poco profondo che in uno molto profondo; – contenuto in elementi grossolani del terreno: se il terreno ha molto scheletro, occorre ridurre proporzionalmente le dosi normalmente indicate; – colture precedenti: se il vigneto segue all’erba medica occorre eseguire un’elevatissima concimazione di impianto con potassio; – portinnesto e marza: i fabbisogni variano a seconda della combinazione di innesto scelta; – pH del suolo: se il terreno presenta valori di pH uguali o inferiori a 5,5 occorre aggiungere alla concimazione di fondo un ammendante calcio-magnesiaco per elevare il pH; – sensibilità del terreno alla siccità: nei suoli dove la siccità rappresenta un problema, la concimazione potassica di fondo è indispensabile per mettere potassio e fosforo in immediata prossimità delle radici della vite ed evitare quindi i fenomeni di carenza (potassica soprattutto) causati dall’eccessivo disseccamento della parte superficiale del terreno, quando le estati decorrono eccessivamente secche; – stima delle quantità di elementi nutritivi da somministrare in funzione dei risultati dell’analisi del terreno: i risultati analitici più importanti al fine di impostare una corretta concimazione potassica di fondo sono: la Capacità di Scambio Cationico, i livelli di P2O5, K2O e MgO, il contenuto di sostanza organica, il contenuto di carbonati. Nei terreni sciolti, cioè poco dotati di colloidi argillosi, è necessario tenere conto che gli elementi minerali si spostano facilmente dagli strati più superficiali del suolo a quelli più profondi, non appena si solubilizzano a seguito delle piogge. Questo avviene non solo per l’azoto, ma anche per il fosforo e il potassio che vengono facilmente trasferiti in profondità e pertanto allontanati dallo strato di terreno che sarà maggiormente esplorato dalle radici della vite. Nei terreni a tessitura sciolta è meglio impiegare concimi organici o misto-organici, meno dilavabili, che migliorano anche il trattenimento dell’acqua. La concimazione minerale può essere attuata nel momento del bisogno, poiché è veloce l’approfondimento dei minerali. Nei suoli più compatti, ricchi di argilla, mentre l’azoto si muove facilmente, come nei terreni sciolti, il fosforo e il potassio vengono fortemente trattenuti e bloccati dalle particelle argillose. È quindi necessario che in questi terreni, durante la concimazione di fondo, i primi 60-70 cm di terreno vengano sufficientemente riforniti di fo-
•
Clorosi per carenza di ferro
Carenza di ferro e magnesio
Sintomi complessi dovuti alla carenza di azoto, boro e magnesio
340
gestione della nutrizione sforo e potassio, perché con la concimazione di produzione si arricchirà progressivamente solo lo strato più superficiale di terreno. Nella fase di reimpianto, in tutte le situazioni non bisogna somministrare concimi contenenti azoto a pronto effetto, che verrebbero dilavati rapidamente, anche in considerazione dell’epoca di distribuzione (autunno). Dato che con la concimazione di fondo si vuole costituire un’adeguata riserva, le dosi sono necessariamente elevate, ma comunque stabilite in relazione ai dati delle analisi del terreno: 300-400 q/ha di letame bovino o succedaneo in adeguate proporzioni; 50-150 kg/ha di P2O5; 150-300 kg/ha di K20; 100-200 kg/ha di MgO. Nei terreni a reazione acida o subacida hanno effetto positivo i concimi contenenti calcio. Concimazione per impianti giovani Per favorire l’attecchimento e la ripresa delle viti giovani si prestano molto bene i concimi organici, da distribuire localizzati all’atto dell’impianto delle barbatelle, mentre in estate va eseguita una concimazione, sempre localizzata superficialmente o leggermente interrata, a base di composti azotati. Nelle prime fasi di allevamento delle viti giovani, diventa molto efficace la concimazione di fondo eseguita prima dell’impianto.
Sintomi dovuti alla carenza di potassio
Concimazione di produzione Come per la concimazione di impianto, anche per la concimazione di mantenimento si possono impiegare sia fertilizzanti minerali, sia organici, sia organo-minerali. Per i terreni sciolti, poveri di humus, la concimazione di produzione dovrebbe essere basata sull’apporto di concimi organici o organo-minerali in autunno, con i quali vengono forniti contemporaneamente sostanza organica ed elementi minerali quali potassio, fosforo, magnesio ecc. Le dosi, in tutti i casi, vanno modulate in funzione della produttività espressa dal vigneto, delle dotazioni del terreno, del pH, del portinnesto ecc. Per questi suoli sciolti la concimazione azotata va programmata all’inizio della primavera, soprattutto per quegli impianti che necessitano di un ripristino dell’apparato vegetativo. È da considerare, tuttavia, che i maggiori fabbisogni azotati per la vite coincidono con la fase di ingrossamento della bacca, quindi in epoca più avanzata rispetto alla primavera. Occorre in questo caso avere ben presente come il vigneto si è comportato nell’annata precedente. Per i suoli argillosi la distribuzione dei concimi azotati può essere eseguita in autunno, allo stacco dell’uva, quando c’è un’intensa attività radicale che garantisce l’assorbimento dell’elemento. Le dosi di azoto in questo caso non devono superare i 30 kg/ha. In generale, nel caso dell’azoto, la somministrazione può variare dai 30 ai 60 kg/ha. Occorre prestare attenzione al dosaggio dei concimi azotati, poiché soprattutto quelli nitrici determinano un aumento delle esigenze idriche delle piante. Nei terreni molto alcalini (pH superiore a 8), può essere opportuno somministrare concimi con azoto ammoniacale, che determinano un abbassamento del pH.
Foglie con alterazioni attribuibili a carenza di zinco
341
coltivazione Per quanto riguarda il fosforo, le dosi devono essere modulate sulle effettive esigenze del vigneto e devono tenere conto delle disponibilità del substrato. Una buona integrazione annuale può essere ottenuta somministrando 50-60 kg/ha di P2O5 in distribuzione autunnale. La normale concimazione potassica di mantenimento deve oscillare fra 50 e 150 kg/ha di K2O e per anno in funzione della produttività del vigneto, del livello di argilla nel terreno e della combinazione vitigno-portinnesto. I risultati di una fertilizzazione potassica anche abbondante, quando il terreno è molto argilloso sono spesso modesti e sovente compaiono ugualmente carenze in coincidenza di un periodo siccitoso. In questo caso è buona norma eseguire la concimazione fogliare a base di potassio. Anche per questo elemento la distribuzione è autunnale se il potassio è in una formulazione poco solubile, o primaverile se viene somministrato sottoforma di nitrato potassico. Il potassio risulta fortemente competitivo con il magnesio. Infatti l’aumento del potassio nel suolo o nella soluzione circolante determina una riduzione dell’assorbimento di magnesio e di calcio. Le fertilizzazioni a base di potassio riducono il livello di magnesio nelle piante, mentre non sembra avvenga il contrario. È per questo che la distribuzione dei concimi dovrebbe essere combinata. L’assorbimento di magnesio da parte delle piante è frenato anche dai fertilizzanti ammoniacali, soprattutto dove la nitrificazione è inibita. In alcuni casi l’aggiunta di ammonio riduce l’assorbimento di magnesio più dello stesso potassio. Per soddisfare i fabbisogni della vite in magnesio si può agire in due direzioni: preventiva e curativa. Le misure preventive comprendono: la concimazione di fondo prima dell’impianto del vigneto con 100-200 kg/ha di MgO a seconda delle esigenze; la scelta di portinnesti poco sensibili alla carenza (è sensibile l’SO4); la limitazione nell’apporto di concimi potassici. Le misure curative prevedono l’uso di fertilizzanti contenenti magnesio (solfato, carbonato, nitrato, cloruro, ossido) da distribuire al terreno (50-150 kg/ha di MgO) se non è calcareo. Nei terreni calcarei i trattamenti fogliari sono i più efficaci per curare la carenza di magnesio. Nei suoli calcarei frequentemente si manifestano sintomi carenziali di ferro con conseguente clorosi da calcare e ingiallimento delle foglie apicali. Spesso la determinazione del contenuto fogliare di ferro non fornisce indicazioni probanti sulla comparsa della clorosi ferrica, perché il livello di ferro non diminuisce significativamente. È evidente che l’aspetto preventivo, cioè la scelta di un portinnesto adatto alle condizioni del terreno e le lavorazioni meccaniche eseguite al momento opportuno, cioè con suolo perfettamente in tempera, è quello che deve assumere la maggiore importanza nella prevenzione della clorosi da calcare. Nel caso in cui però si dovessero manifestare sintomi di carenza è necessario intervenire in primo luogo arieggiando il terreno con scarificatori ed eseguendo alcuni trattamenti fogliari che, tuttavia, danno risultati variabili.
Giovane impianto in buone condizioni nutrizionali
Fertilizzazione del vigneto
• Concimazione di fondo: praticata
prima dell’aratura profonda, serve per dotare gli strati profondi del terreno di sostanza organica e di elementi poco mobili, come potassio e fosforo
• Concimazione di partenza per
viti giovani: tende a favorire l’attecchimento e la ripresa delle viti giovani; a tale scopo si prestano molto bene i concimi organici, da distribuire localizzati all’atto dell’impianto delle barbatelle
• Concimazione di produzione: serve per supportare l’attività vegeto-produttiva annuale. Si possono impiegare sia fertilizzanti minerali, sia organici, sia organo-minerali
342
gestione della nutrizione Fertilizzazione fogliare La concimazione fogliare della vite rappresenta un metodo rapido ed efficiente per fornire gli elementi necessari per correggere alcune carenze minerali e per superare periodi di stress intenso che limitano l’assorbimento radicale, come durante periodi di siccità, eventi che si verificano con notevole frequenza in molte aree viticole italiane. Anche carenze minerali diffusamente segnalate, come quelle di potassio, magnesio, manganese e zinco, che hanno effetto sulle caratteristiche compositive della bacca e influenzano i processi fermentativi, sono correggibili con le concimazioni fogliari effettuate in prossimità dell’invaiatura. L’aumentato interesse verso l’impiego di concimi fogliari attribuisce un ruolo importante alla diagnostica fogliare. Questa diviene lo strumento fondamentale nella programmazione delle fertilizzazioni mirate a ottenere produzioni di qualità. Tuttavia, per una corretta interpretazione delle analisi, è necessario stabilire standard di riferimento che tengano conto del tipo di suolo, dell’ambiente e del genotipo (vitigno e portinnesto) in esame. Molta attenzione, inoltre, occorre nell’individuazione del giusto formulato (in merito a composizione, funzionalità e miscibilità) e del corretto momento di applicazione. Per esempio, trattamenti effettuati con concime potassico possono influire positivamente sui principali caratteri dell’uva prodotta, quali un migliore contenuto in zuccheri, polifenoli e antociani, dando un vino complessivamente migliore in struttura, gradevolezza e colore.
Fertilizzazione fogliare
• Attualmente la concimazione fogliare
della vite rappresenta il metodo più rapido ed efficiente per fornire gli elementi necessari per correggere alcune carenze minerali e per superare periodi di stress intenso che limitano l’assorbimento radicale, provocando danni qualitativi e quantitativi alla produzione
Concimazione di un giovane vigneto
343
la vite e il vino
coltivazione Gestione idrica Rosario di Lorenzo, Maria Gabriella Barbagallo
www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche.
coltivazione Gestione idrica Introduzione La disponibilità di acqua nelle diverse fasi fenologiche della vite è uno dei principali fattori che influenzano il comportamento della pianta, caratterizzano e definiscono un territorio viticolo. L’acqua è fondamentale per l’attività fisiologica e biochimica della vite. Lo stato idrico della pianta nel corso della stagione è determinante per la dinamica dell’attività vegetativa e produttiva e per il conseguimento e la gestione del loro equilibrio. Sulla base di queste considerazioni e dei risultati di una intensa, seppure recente, attività sperimentale si spiega l’importanza che oggi viene attribuita alla nutrizione idrica e quindi all’irrigazione nella gestione del vigneto. Peraltro, le possibili profonde modificazioni sul bilancio idrico del vigneto (minori riserve idriche nei suoli e maggiori valori della domanda evapotraspirativa), dovute ai previsti cambiamenti del clima, rafforzano ulteriormente il concetto che la gestione dell’acqua nel vigneto rivestirà un ruolo sempre più importante e determinante sul risultato produttivo, anche in termini qualitativi. È necessario però, discutendo di irrigazione in viticoltura, evidenziare tre concetti: – l’irrigazione non è una tecnica colturale di forzatura adottata per aumentare la capacità produttiva del vigneto, peggiorando, di conseguenza, la qualità dell’uva; – l’irrigazione non deve essere considerata un intervento di soccorso da effettuare in generiche condizioni di stress della pianta utilizzando l’acqua se e quando disponibile, senza strategie di intervento ragionate e finalizzate a ottimizzare l’uso dell’acqua in relazione agli obiettivi produttivi da raggiungere; – la gestione dell’irrigazione deve essere realizzata in modo da ottimizzare l’efficienza dell’uso dell’acqua, in quanto risorsa limitata e costosa.
Irrigazione ragionata
• La numerosa attività di ricerca
condotta nell’ultimo decennio evidenzia che in un vigneto irrigato, se l’irrigazione è effettuata in maniera ragionata secondo strategie di deficit idrico controllato, migliora il rapporto quantità-qualità della produzione, l’equilibrio vegeto-produttivo della vite e la qualità dell’uva nel senso più ampio e attuale del termine (tecnologica, polifenolica e aromatica) rispetto a un vigneto genericamente stressato
Vigneto con irrigazione localizzata a goccia
344
gestione idrica Deficit idrico controllato Il deficit idrico controllato è una strategia irrigua che, basandosi sulla fisiologia della vite, persegue l’obiettivo, in sinergia con le altre tecniche colturali, di gestire, nelle diverse fasi del ciclo annuale, l’equilibrio vegeto-produttivo, ottimizzando l’efficienza dell’uso dell’acqua e migliorando la qualità in relazione ai differenti obiettivi enologici e ai più attuali indirizzi del mercato mondiale, sempre più orientato alla valorizzazione del rapporto qualità-prezzo. La gestione irrigua deve essere finalizzata a mantenere nella pianta livelli di deficit idrico prefissati nei differenti intervalli fenologici. I livelli di stress idrico non devono causare una generica riduzione della capacità fotosintetica della vite, ma devono mirare a gestire i rapporti source-sink per indirizzare il metabolismo della pianta verso l’ottimizzazione del rapporto tra quantità e qualità dell’uva prodotta. La gestione dell’irrigazione con strategie di deficit idrico controllato consente di modulare gli effetti della componente ambientale sul comportamento vegeto-produttivo della vite e, gestendo i rapporti source-sink, di determinare le caratteristiche dell’uva prodotta in relazione a differenti obiettivi enologici.
Deficit idrico controllato
• Applicando tecniche di deficit idrico controllato, non si evidenziano significativi effetti negativi sulla quantità di uva prodotta
• La riduzione nel diametro degli acini,
che si realizza in tali situazioni, migliora il rapporto buccia-polpa e influenza positivamente la qualità dell’uva
Effetti dei livelli di stress idrico Livelli di stress idrico
Attività vegetativa
Crescita dell’acino
Fotosintesi
Maturazione
Assenza di stress
Stimolata
Stimolata
Stimolata
Sfavorita
Stress moderato
Ridotta
Da normale a ridotta
Da normale a ridotta
Favorita
Stress elevato
Fortemente ridotta
Fortemente ridotta
Da fortemente ridotta a bloccata
Da poco a molto sfavorita
Stress severo
Bloccata
Bloccata
Bloccata
Sfavorita
Modificata da Deloire et al., 2005
La strategia di irrigazione, basata sui concetti di irrigazione fisiologica e di stress idrico controllato, è più facilmente realizzabile negli ambienti a clima mediterraneo caldo-arido e nelle annate in cui le piogge durante la stagione vegeto-produttiva sono sporadiche o assenti. In questi ambienti, esperienze pluriennali dimostrano che, adottando la suddetta strategia irrigua, è sufficiente, in anni caratterizzati da andamenti climatici “normali”, somministrare la metà circa (300-600 m3/ha/anno) dei quantitativi erogati nel vigneto a uva da vino adottando strategie irrigue tradizionali. Vigneto irrigato con metodo “tradizionale” a pioggia, poco idoneo per una gestione razionale dell’irrigazione
Effetti dello stato idrico sull’attività vegetativa e riproduttiva Vengono di seguito riportati i principali effetti dello stato idrico della pianta in relazione ai diversi intervalli fenologici. 345
coltivazione Dal germogliamento all’allegagione Difficilmente una carenza idrica nel suolo si manifesta, negli ambienti viticoli italiani, nel periodo del germogliamento e nell’intervallo tra germogliamento e allegagione. Tuttavia, ciò può accadere negli ambienti meridionali in cui in alcune annate si verificano precipitazioni durante il periodo autunno-invernale inferiori a 200 mm. In queste particolari situazioni, si può rilevare un’elevata percentuale di gemme cieche, una difforme e ridotta crescita del germoglio e delle infiorescenze, una inadeguata formazione di superficie fogliare con conseguenze sulla percentuale di allegagione.
Effetti di stress idrici prima dell’invaiatura
• Stress idrici severi, nella fase
di crescita dei germogli, possono determinare riduzione dell’angolo tra foglia e picciolo, della distensione degli internodi e dei viticci e ingiallimenti delle lamine fogliari
• Durante la fase di allegagione, lo stress
Dall’allegagione all’invaiatura Questo intervallo fenologico è di fondamentale importanza per applicare le strategie di deficit idrico controllato, poiché le competizioni e/o le sinergie tra sink vegetativi e produttivi sono molto attive. Il periodo che va dall’allegagione all’invaiatura rappresenta un momento ottimale, nei climi mediterranei, per il controllo della crescita del germoglio e delle femminelle, attraverso la gestione dell’irrigazione. Tuttavia, diviene indispensabile non alterare la capacità fotosintetica della superficie fogliare, in modo da garantire una produzione di assimilati idonea alle esigenze di crescita degli organi vegetativi e di quelli riproduttivi. Dopo l’allegagione, l’attività di crescita del germoglio è più sensibile rispetto a quella dell’acino alla carenza idrica del suolo. Le condizioni di idratazione degli acini, peraltro, dipendono da quelle dei germogli poiché, in questo intervallo fenologico, il collegamento idraulico è efficiente e il rifornimento idrico avviene per via xilematica. Pertanto, non è raro osservare significative riduzioni del volume delle bacche per passaggi di acqua dagli acini al germoglio, in caso di stress idrici severi. La qualità tecnologica (zuccheri e quadro acidico), quella polifenolica (tannini, proantocianidine, flavonoli e antociani) e quella aromatica sono strettamente dipendenti dalle condizioni idriche della pianta. La riduzione nel diametro degli acini che si realizza in condizioni di stress idrico moderato modifica il rapporto buccia-polpa, e influenza positivamente la composizione dell’uva, con particolare riferimento alla componente polifenolica. La quantità di acido tartarico, prodotto da organi giovani, è influenzata negativamente da stress precoci che limitano la crescita dei germogli e delle femminelle. Stress idrici severi, invece, causano gradazioni zuccherine più elevate, dovute, però, a processi di concentrazione dei soluti. Inoltre, gravi carenze idriche nell’intervallo fenologico considerato provocano diminuzioni degli antociani, delle proantocianidine e delle catechine (responsabili dell’astringenza) e un aumento dei flavonoli, che determinano il gusto amaro del vino.
idrico severo può causare aborto del fiore e cascola degli acini
• Stress idrici da moderati a forti
determinano, proporzionalmente, diminuzioni nel peso degli acini e incrementano in maniera significativa la variabilità del diametro e del peso degli acini e dei grappoli. Tali effetti risultano irreversibili anche se si ristabiliscono condizioni idriche ottimali dopo l’invaiatura
Livelli di stress idrico da realizzare nei diversi intervalli fenologici Intervallo fenologico
Livelli di stress idrico
Germogliamentoallegagione
Assenza di stress
Allegagione-invaiatura
Stress lieve
Invaiatura-raccolta
Da stress moderato a elevato
Post raccolta-riposo vegetativo
Assenza di stress
346
gestione idrica Considerando, inoltre, che durante il periodo fenologico esaminato si verificano i processi di induzione e differenziazione delle gemme ibernanti, lo stress severo, ma anche un eccessivo vigore determinato dall’assenza di stress idrico, causano una riduzione della fertilità dei futuri germogli e quindi del potenziale produttivo del vigneto nell’anno successivo. Dall’invaiatura alla maturazione Dopo l’invaiatura, la connessione idraulica degli acini via xilema a livello del pedicello diventa sempre meno efficiente e pertanto il loro rifornimento idrico avviene prevalentemente per via floematica. Gli acini, quindi, dall’invaiatura risultano via via più indipendenti dal resto della pianta, e di conseguenza più tolleranti agli stress idrici. Infatti, le riduzioni del peso degli acini in condizioni di stress idrico non severo dall’invaiatura in poi sono di minore entità rispetto a quelle causate da stress idrici nelle prime fasi di crescita dell’acino. Anche la crescita vegetativa è poco influenzata da stress idrici moderati tranne che per l’ulteriore sviluppo delle femminelle. L’assenza di stress idrico a partire dall’invaiatura provoca, invece, uno squilibrio tra attività vegetativa e produttiva a favore della prima e determina condizioni microclimatiche nella zona dei grappoli non adeguate, ritardo e rallentamento dei processi di maturazione con peggioramento della qualità dell’uva (minori zuccheri e antociani, maggiore acidità) e dello stato sanitario (maggiore sensibilità ad attacchi di Botritys cinerea). L’assenza di stress idrico determina nella vite condizioni idonee al metabolismo proteico, tipico delle fasi di crescita degli organi, che contrasta con quello glucidico che, invece, sta alla base dei processi di maturazione degli organi produttivi e vegetativi. L’eccessivo vigore dovuto al prolungamento dell’attività vegetativa in condizioni di elevata disponibilità idrica può causare, inoltre, insufficiente lignificazione dei tralci e una riduzione della percentuale di germogliamento delle gemme nell’anno successivo, che, inglobate nei tessuti del tralcio, presentano una imperfetta connessione vascolare. Queste situazioni si riscontrano spesso nei vigneti a uva da tavola, dove gli obiettivi produttivi finalizzati alla massima produzione per ettaro e alla qualità estetica dei grappoli (dimensione e peso degli acini), richiedono una gestione del vigneto in assenza di stress idrico durante il ciclo annuale.
Pianta soggetta a stress idrico
Effetti di stress idrico dopo l’invaiatura
• L’instaurarsi di un severo stress idrico
nella pianta e di una significativa carenza idrica nel suolo in questo intervallo fenologico compromette la capacità fotosintetica delle foglie, già caratterizzate da una ridotta efficienza (per l’età), determina abscissione degli apici vegetativi, filloptosi precoce delle foglie basali e di intere femminelle, sovraesposizione dei grappoli alla luce e aumento significativo della temperatura degli acini, che possono provocare scottature, disidratazione e alterazioni della biosintesi dei metaboliti primari e secondari. Se allo stress idrico severo si accompagna un eccesso di produzione di uva saranno compromessi anche i processi di lignificazione e di allocazione delle riserve
Dal post-raccolta al riposo vegetativo Una carenza idrica molto severa in questo intervallo fenologico accelera la filloptosi, compromettendo la traslocazione dei carboidrati negli organi di riserva (fusto e radici), e riduce la crescita radicale che, trovandosi nella seconda intensa fase di crescita annuale, deve essere molto attiva. 347
coltivazione Aspetti applicativi della gestione dell’irrigazione per la determinazione dei volumi e dei turni irrigui La strategia irrigua di deficit idrico controllato deve essere adottata attraverso il monitoraggio dello stato idrico della pianta, definendo valori soglia per i diversi livelli di stress. La valutazione dello stato idrico della pianta può basarsi su valutazioni visive. Se nel vigneto si verifica, soprattutto nell’intervallo fenologico allegagione-invaiatura, abscissione dell’apice, disarticolazione e/o disseccamento dei viticci, filloptosi precoce non solo delle foglie basali (le più vecchie), abscissione di intere femminelle, allora si è in presenza di stress idrico da moderato a forte. Inoltre, se il viticcio supera in altezza l’ultima foglia vuol dire che l’apice è in accrescimento, se invece i due organi sono sullo stesso livello allora la crescita si sta arrestando. Il monitoraggio dell’accrescimento del germoglio e la conseguente determinazione del tasso di crescita possono evidenziare condizioni di stress. La determinazione dello stato idrico della pianta mediante misura della conduttanza stomatica, della traspirazione dell’intera pianta, del flusso xilematico o della variazione diametrale del ceppo, pur essendo misure precise e oggettive, sono almeno fin’ora di difficile proposizione per gestire l’irrigazione a livello aziendale. La valutazione del potenziale idrico attraverso la camera a pressione di Scholander (misurato in Bar o MPa) è il metodo più utilizzato. Alcuni ricercatori propongono dei valori soglia del potenziale fogliare di base (Ψb ) (misurato su foglie mature, prima dell’alba, quando gli stomi sono ancora chiusi). oltre i quali effettuare l’irrigazione. In ambienti caldo-aridi, (Sicilia), i valori soglia sono più bassi (meno negativi) rispetto a quelli proposti per ambienti meno caldi, in quanto soprattutto dall’allegagione si registrano elevati valori termici che cumulandosi allo stress idrico, ne amplificano gli effetti. Studi recenti, peraltro, portano a ritenere che il potenziale idrico del germoglio (Ψstem ) (misurato a mezzogiorno su foglie mature pienamente espanse e non traspiranti), dia un’indicazione più precisa dello stato idrico delle viti rispetto al potenziale idrico di base (Ψb ), poiché correlato con i valori di traspirazione e quindi con l’efficienza metabolica della pianta. I valori soglia di potenziale del germoglio (Ψstem ) proposti sono: –0,8 MPa (assenza di stress), –1,0 MPa (stress moderato) e –1,5 MPa (stress elevato). La quantità di acqua da erogare e i turni irrigui possono essere determinati per via diretta monitorando il contenuto idrico del suolo e sulla base delle caratteristiche idrologiche (curva di ri-
Foto A. Scienza
Vigneto di Merlot in stress idrico
Livelli di stress idrico e potenziale idrico fogliare di base (Yb) proposti in Sicilia Livelli di stress
Yb
assenza
< 0,2 MPa
moderato
da 0,2 a 0,5 MPa
elevato
da 0,5 a 0,8 MPa
severo
> 0,8 MPa
Camera a pressione di Scholander
348
gestione idrica tenzione, punto di appassimento e capacità idrica di campo), o per via indiretta rilevando il potenziale idrico della pianta o sulla base della conoscenza dei fabbisogni della coltura. Diversi sono i metodi per determinare il contenuto idrico del suolo; quello tensiometrico e potenziometrico (blocchetti Bouyoucos) sono poco utilizzati perché misurano con la necessaria precisione solo alti livelli di umidità del suolo; il metodo gravimetrico che si basa sul calcolo della percentuale di acqua di un campione di terreno essiccato fino a peso costante, pone problemi di campionamento. I metodi TDR (Time Demain Reflectometry) e FDR (Frequency Demain Reflectometry), che stimano l’umidità del suolo basandosi sulla misura della costante dielettrica (K) del terreno, consentono misure puntuali e in continuo, ma il dato ottenuto è fortemente condizionato dalle caratteristiche pedologiche e, inoltre, la quantità di misure da acquisire dipende dalla variabilità del terreno del vigneto monitorato. Dai valori del contenuto idrico del suolo attraverso la curva di ritenzione tipica per ciascun terreno, si determina per ogni valore di umidità il potenziale matriciale (forza con cui l’acqua è trattenuta dal suolo) che, messo in relazione con lo stato idrico della pianta (misure di potenziale), potrebbe consentire la gestione dell’irrigazione. Per conoscere i fabbisogni di acqua della coltura si fa riferimento principalmente ai valori dei consumi idrici. Tralasciando le tecniche micrometeorologiche, come quella dell’Eddy-Covariance (metodo di misura dei flussi di vapore acqueo e di anidride carbonica) e della Surface Renewal (metodologia di calcolo dei flussi di energia fra vegetazione e atmosfera, attraverso la misura a elevata frequenza della temperatura del vapore acqueo e dell’anidride carbonica) che sono, almeno per le attuali conoscenze, di difficile utilizzazione per gli aspetti applicativi dell’irrigazione; il calcolo dell’evapotraspirazione (cioè la quantità di acqua che evapora dal suolo e traspira dalla pianta), effettuato per intervalli temporali prefissati, è il metodo più utilizzato per determinare il consumo di acqua e i fabbisogni idrici della coltura. L’evapotraspirazione è influenzata dalle condizioni ambientali, dalla radiazione solare, dalla temperatura e dall’umidità dell’aria e dalla ventosità. Per la sua determinazione, il metodo più comunemente usato si basa sulla misura dell’evapotraspirazione di una coltura di riferimento (prato di altezza uniforme, in crescita attiva e ottime condizioni idriche) mediante equazioni diverse (Pennan-Monteith, Hargreaves) che utilizzano i dati meteorologici del sito interessato, disponibili in molte regioni italiane per l’attività dei servizi agrometeorologici, oppure attraverso i valori forniti da evaporimetri (vasca di classe A).
Variazione del potenziale idrico di base (Yb) in terreno argilloso due giorni dopo l’intervento irriguo Volume di adacquamento
Yb
70 m3/ha
+0,12 MPa
140 m3/ha
+0,21 MPa
Fonte: Barbagallo et al., 2006
MPa
Variazione del potenziale idrico di base (Yb) in un terreno franco-sabbioso dopo 1, 3, 7 giornii dall’irrigazione –0,65 –0,60 –0,55 –0,50 –0,45 Irrigazione –0,40 –0,35 –0,30
1
3
7
Giorni dall’irrigazione Fonte: Santalucia et al., 2005
Foto S. Musacchi
Evaporimetro di classe A
349
coltivazione Metodi irrigui per una gestione dell’irrigazione secondo strategie di deficit idrico controllato La gestione dell’irrigazione adottando la strategia di deficit idrico controllato richiede l’adozione di metodi di irrigazione localizzati: la goccia (fuori terra) e la sub–irrigazione (sottoterra). Tali metodi consentono, infatti, di ottimizzare la risorsa idrica in termini di efficienza dell’uso dell’acqua. Adottando la stessa strategia irrigua (gestione dell’irrigazione con uguali valori di potenziale di base), la sub-irrigazione rispetto al sistema a goccia induce una maggiore produzione di sostanza secca e quindi una maggiore efficienza dell’uso dell’acqua, ne modifica la ripartizione tra uva e legno a favore dell’uva, senza variazioni della qualità. Inoltre, un confronto effettuato in un terreno con tessitura franco-sabbiosa ha evidenziato con la sub-irrigazione un risparmio di acqua del 25%, probabilmente per la maggiore facilità da parte delle radici di utilizzare l’acqua somministrata evidenziata dall’andamento dopo l’intervento irriguo del potenziale idrico di base Ψb. La sub-irrigazione presenta un’elevata uniformità di distribuzione dell’acqua, assenza di fenomeni di erosione e dilavamento, minore sviluppo di infestanti, migliore efficienza della fertilizzazione, assenza di ostacoli per la meccanizzazione delle operazioni colturali; però non consente di intervenire tempestivamente in caso di perdite dalle ali gocciolanti, richiede maggiore attenzione nelle lavorazioni meccaniche e nella manutenzione degli impianti per evitare l’occlusione dei gocciolatori da parte dell’apparato radicale. Inoltre la sub-irrigazione è il metodo più adatto per gestire la pianta con la tecnica di irrigazione parziale delle radici (PRD). Questa tecnica, proposta dalla Scuola Australiana, consiste nel sottoporre, contemporaneamente e alternativamente, una porzione di appara-
Vantaggi della sub-irrigazione
• Risparmio di acqua rispetto alla irrigazione a goccia
• Miglioramento dell’efficienza dell’uso dell’acqua
• Maggiore produzione e modifica della
ripartizione della sostanza secca verso gli organi produttivi
• Nessuna variazione della qualità dell’uva
• Ridotti fenomeni di erosione e dilavamento
• Minore sviluppo di infestanti • Maggiore efficienza della fertilizzazione • Assenza di ostacoli per la meccanizzazione delle operazioni colturali
Effetti del metodo irriguo sulla produzione di sostanza secca, sulla distribuzione percentuale tra organi produttivi e vegetativi e sull’efficienza d’uso dell’acqua (WUE) Sostanza secca totale per germoglio (g)
Peso della quantità di uva (%)
Peso del tralcio alla potatura (%)
WUE (t/ml)
Goccia
59
54,0
46,0
13,25
Subirrigazione
71
64,7
35,3
21,76
–0,65 –0,60 –0,55 MPa
Metodo irriguo
Evoluzione del potenziale idrico di base (Yb) rilevato nei giorni successivi agli interventi irrigui
–0,50 –0,45 –0,40 –0,35 –0,30
1
3
Giorni dall’irrigazione Goccia
Fonte: Santalucia et al., 2005
Sub-irrigazione
Fonte: Santalucia et al., 2005
350
5
gestione idrica Confronto fra prove di gestione irrigua con metodo PRD e convenzionale, condotte in differenti aree viticole mondiali Produzione uva (t/ha)
–7,2% (da +7 a –28%)
Quantità di acqua (mc/ha)
–46% (da –40 a –50%)
Efficienza d’uso dell’acqua (t/mc)
+74% (da +29 a +113%)
PAR nella zona dei grappoli µmol/m2s-1
+68% (da +45 a +85%)
Peso dell’acino (g) Zuccheri (°Brix) Acidità titolabile (g/L) pH
Inconvenienti della sub-irrigazione
• Impossibilità di intervenire
tempestivamente in caso di perdite di acqua dalle ali gocciolanti
• Possibili occlusioni dei gocciolatori per
–3% (da –8 a +2%)
la presenza delle radici
0
• Maggiori costi dell’impianto irriguo • Maggiori problemi legati alla qualità
+22,4 (da +10 a +32%) –3% (da –8 a +1%)
Antociani totali (mg/acino)
+15% (da +2 a +20%)
Antociani totali (mg/g di uva)
+130% (da 90 a 140%)
dell’acqua
Conclusioni
to radicale a condizioni di stress idrico, e la rimanente parte a condizioni di non stress. In risposta alle condizioni di stress, l’apparato radicale produce acido abscissico che, trasportato attraverso il flusso xilematico, riduce la crescita dei germogli e la traspirazione per l’azione che esercita sull’apertura stomatica. La parte di sistema radicale irrigata, invece, consente il mantenimento di uno stato idrico ottimale per le esigenze degli organi vegetativi e riproduttivi. Questa tecnica consente ulteriori miglioramenti nell’efficienza dell’uso dell’acqua, il controllo del vigore della chioma, senza ridurre la quantità e la qualità dell’uva prodotta anche per il miglioramento delle condizioni microclimatiche all’interno della chioma.
L’irrigazione effettuata in modo razionale su conoscenze fisiologiche e su valutazioni precise è un intervento colturale che, insieme e coerentemente alle altre scelte bio-agronomiche, consente di raggiungere gli obiettivi produttivi prefissati. Negli ambienti a clima cado arido, in cui gran parte del ciclo annuale si svolge in condizioni di severa carenza idrica, l’irrigazione è l’intervento agronomico più importante di cui dispone il viticoltore per controllare il risultato produttivo in termini quantitativi e qualitativi. La gestione dell’irrigazione con strategie di deficit idrico controllato consente di ottimizzare la risorsa acqua e di indirizzare il vigneto verso la qualità raggiungendo il migliore rapporto tra quantità e qualità della produzione, in relazione agli altri fattori della produzione (ambiente, genotipo e scelte colturali). Alla luce delle considerazioni esposte, è auspicabile che il mondo vitivinicolo italiano cambi l’atteggiamento dogmatico e acritico che lo ha visto a volte genericamente contrario nei confronti dell’irrigazione del vigneto a uva da vino
Vigneti condotti in asciutto e in irriguo nell’areale della DOC. Alcamo. È possibile evidenziare il vigneto in “asciutto” per la vegetazione di colore verde chiaro
351
la vite e il vino
coltivazione Parassiti animali Piero Cravedi
www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche.
coltivazione Parassiti animali Foto R. Angelini
Introduzione Gli insetti e gli acari potenzialmente dannosi alla vite sono complessivamente numerosi, ma solamente ad alcuni è riconosciuta importanza economicamente rilevante per frequente presenza e gravità delle infestazioni. Tra le specie chiave, una posizione di rilievo hanno certamente le due “tignole” della vite Lobesia botrana ed Eupoecilia ambiguella. In particolare la tignoletta (L. botrana) è stata tradizionalmente oggetto di molti studi e sperimentazioni. Le condizioni fitosanitarie sono in continuo mutamento e specie ritenute di importanza marginale possono, nel tempo, assumere un ruolo maggiore. Per esempio, la problematica delle cocciniglie si è aggravata negli ultimi anni in varie zone viticole. La dannosità di alcune specie è attualmente in aumento, anche se in modo ancora piuttosto localizzato. Oltre alle citate specie di maggiore importanza, sulla vite se ne possono trovare sporadicamente o con distribuzione localizzata numerose altre. Infestazioni saltuarie possono però raggiungere intensità elevata. Si tratta di eventi da non trascurare, per cui è opportuno ricordare l’importanza di frequenti e regolari ispezioni in cui effettuare attente osservazioni e rilievi sulle viti in modo da evidenziare tempestivamente l’insorgere di eventuali infestazioni. La situazione nell’Italia settentrionale è oggi sostanzialmente cambiata, a seguito della diffusione dei giallumi (malattie causate da fitoplasmi), e in particolare della flavescenza dorata. La necessità di combattere Scaphoideus titanus, cicalina vettrice del fitoplasma che provoca la malattia, ha reso necessario un ripensamento della strategia complessiva di difesa del vigneto. La nuova situazione ha comportato l’aumento dei trattamenti insetticidi e una conseguente preoccupazione per lo sviluppo delle popolazioni di acari dannosi, come effetto collaterale.
Larva di Lobesia botrana Foto A. Pollini
Larva di Eupoecilia ambiguella Foto F. Laffi
Foto A. Pollini
Forme giovanili di Panonychus ulmi su foglia Adulto di Scaphoideus titanus
352
parassiti animali Tripide della vite (Drepanothrips reuteri) L’ordine dei Tisanotteri comprende insetti lunghi solo pochi millimetri, dotati di un apparato boccale con cui pungono le cellule vegetali e ne aspirano il contenuto. Per le loro piccole dimensioni si possono nutrire solo su tessuti giovani in fase di accrescimento. Il tripide della vite è lungo 0,6-0,8 mm e ha colore giallastro. Sverna come femmina adulta fecondata sotto la corteccia del ceppo e dei tralci più vecchi della vite e di altre piante. Al germogliamento gli insetti si localizzano sia sulle foglioline in fase di distensione, sia sui giovani germogli molto teneri, dove depongono le uova in modo isolato entro i tessuti fogliari. Queste vengono infisse grazie ad un robusto ovopositore all’interno dei tessuti in accrescimento. Nascono quindi le neanidi che, dopo due stadi neanidali e due ninfali, danno la forma adulta a fine maggio-giugno. Durante la stagione vegetativa si susseguono varie generazioni, la cui durata è generalmente legata alle condizioni climatiche. Verso la metà di novembre gli adulti raggiungono i rifugi invernali per svernare. Le infestazioni inizialmente riguardano i germogli subito dopo la schiusura delle gemme. La sintomatologia è simile a quella prodotta dal ragnetto giallo. Il blocco dello sviluppo dei germogli è particolarmente grave nei vigneti di nuovo impianto. Successivamente possono essere interessati anche i fiori e le foglie. Nel periodo estivo le punture sulle foglie provocano piccole macchie necrotizzate circondate da aree clorotiche. I germogli colpiti presentano alla base tacche necrotiche e crescono stentatamente. I danni di questo tripide risultano particolarmente rilevanti a inizio primavera sul vitigno Malvasia, che appare uno dei più sensibili, in quanto ne è ritardato l’accrescimento dei germogli. Un altro tisanottero la cui dannosità riguarda prevalentemente l’uva da tavola negli ambienti meridionali è la Frankliniella occidentalis.
Tripide della vite
• Sverna da adulto sotto il ritidoma • Compie nell’anno più di 3-4 generazioni • Gli attacchi sono saltuari • I danni possono essere importanti al momento del germogliamento
• Particolare attenzione deve essere dedicata ai vigneti nei primi anni dell’impianto
Foto A. Pollini
Tacche suberificate a seguito dell’attacco da tripide Foto A. Pollini
Foto R. Angelini
Femmina di Drepanothrips reuteri Danni su germoglio provacati da tripidi
353
coltivazione Cicalina verde della vite (Empoasca vitis) La cicalina verde, lunga circa 3-3,7 mm, allo stato adulto, si nutre pungendo le nervature delle foglie. Gli adulti si muovono camminando con movimento obliquo, caratteristico, o volando. Sverna come adulto su piante a foglia persistente o semi-persistente; in primavera si trasferisce sulla vite, che rappresenta l’ospite principale (ma può attaccare anche varie piante da frutto) e inizia l’ovodeposizione nella pagina inferiore delle foglie. Le neanidi e gli adulti sono presenti di preferenza nelle zone con elevata umidità (vigneti rigogliosi, aree poco ventilate).
Cicalina verde
• Gli adulti svernano su piante arboree a foglia persistente quali le conifere
• Ricolonizza la vite nel mese di maggio e vi compie 2-3 generazioni dalla primavera all’autunno
• Questo insetto risulta dannoso su
vitigni particolarmente suscettibili quali Chasselas, Gamay, Merlot, Prosecco, Pinot, Riesling-Silvaner, Raboso, Refosco e Verduzzo Foto A. Pollini
Danni su germoglio provocati dalle punture di Empoasca vitis
Sintomi di attacco di Empoasca vitis su foglia
Come conseguenza delle punture di nutrizione si hanno, sulla vite, alterazioni dei margini fogliari con arrossamenti o ingiallimenti, a seconda del vitigno, che, nei casi più gravi, possono in seguito necrotizzare. La prima generazione non provoca danni di rilievo. I danni maggiori si verificano nei mesi estivi più caldi e consistono, oltre a vistose alterazioni dei margini fogliari, nella diminuzione del tenore zuccherino delle uve.
Forma giovanile di cicalina verde
Foto A. Pollini
Adulto di Empoasca vitis Esiti di una infestazione di cicalina verde
354
parassiti animali Cicalina gialla della vite (Zygina rhamni) È una cicalina di colore bianco crema. Meno mobile della cicalina verde, provoca danni decisamente meno gravi ed evidenti. Questa cicalina si alimenta del contenuto delle cellule del parenchima fogliare. Le cellule svuotate confluiscono a formare aree decolorate che possono essere anche molto estese. La diminuzione della superficie fotosintetizzante riduce l’accumulo degli zuccheri nelle bacche. Foto A. Pollini
Cicalina gialla
• Sverna come adulto (lungo circa 3 mm) prevalentemente su rovo
• Ricolonizza la vite dalla metà di maggio • Compie 2-3 generazioni all’anno • È specie termofila dannosa
Foto A. Pollini
prevalentemente negli ambienti meridionali
Foto A. Pollini
Uova di Z. rhamni deposte nella nervatura della pagina inferiore
Adulti di cicalina gialla con diverse forme cromatiche
Cicalina americana della vite (Scaphoideus titanus) La specie, originaria del Nord America, è stata segnalata prima in Francia e, successivamente, anche in Italia. La presenza di S. titanus, a lungo ritenuta limitata all’Italia settentrionale, risulta ora interessare anche parte delle regioni centrali (recentemente è stato segnalato anche in Basilicata). S. titanus vive esclusivamente su vite e non provoca danni diretti ma è responsabile della trasmissione del fitoplasma della flavescenza dorata. Le neanidi, che escono dalle uova con molta scalarità a partire dalla metà di maggio, acquisiscono il fitoplasma nutrendosi su viti infette.
Depigmentazioni fogliari causate da punture di cicalina gialla
Cicalina americana
• L’importanza di questa cicalina è
dovuta al suo ruolo di insetto vettore del fitoplasma della flavescenza dorata
• Compie una sola generazione e
sverna come uovo. Le prime neanidi compaiono a metà maggio e i primi adulti all’inizio di luglio
• La flavescenza dorata è una malattia Adulto di Scaphoideus titanus
da quarantena, per cui un decreto di lotta obbligatoria regola gli interventi contro l’insetto vettore
Giovane ninfa di Scaphoideus titanus
355
coltivazione Dopo un periodo di circa 30 giorni di incubazione la cicalina è in grado di trasmettere il fitoplasma. Gli interventi di lotta hanno la finalità di impedire la diffusione della malattia e vengono rivolti contro gli stadi giovanili dell’insetto vettore. Cicalina vettrice del fitoplasma del Legno Nero (Hyalestes obsoletus) H. obsoletus è una cicalina che annualmente compie una sola generazione. Le forme giovani vivono sulle radici di piante spontanee, in particolare l’ortica e il convolvolo, su cui svernano come ospiti preferenziali. Gli adulti compaiono a fine giugno-inizio luglio; si nutrono di varie piante e occasionalmente anche della vite. Le piante spontanee possono essere ospiti naturali del fitoplasma e fungere da sorgenti di infezione. Sintomi di flavescenza dorata
Cicalina del legno nero
• Compie una generazione all’anno • Le forme giovani vivono sulle radici di piante spontanee (ortica, convolvolo)
• Gli adulti si alimentano su vite solo occasionalmente
• La lotta è difficoltosa per la sua
polifagia e per il ciclo biologico che in gran parte si svolge nel terreno
Ninfa di Hyalestes obsoletus raccolta da radici di ortica
Adulto di Hyalestes obsoletus su foglie di ortica
Cicalina bufalo (Stictocephala bisonia) Questa cicalina, di origine nord-americana, presenta due formazioni appuntite ai lati del pronoto che le conferiscono un aspetto caratteristico, da cui deriva il nome con cui è comunemente nota. Gli adulti hanno la lunghezza di 8-10 mm e sono di colore verde. Le neanidi, presenti a partire da aprile-maggio, frequentano varie piante erbacee e la vite. I danni sulla vite derivano dalle punture di nutrizione. Sui tralci erbacei viene praticata una serie di punture ad anello che induce la formazione di una strozzatura ben evidente. Spesso le foglie apicali del tralcio interessato si presentano arrossate o ingiallite. In autunno si ha la deposizione delle uova in incisioni praticate con l’ovopositore. L’Imenottero Polynema striaticorne è un parassita specifico delle uova e svolge una importante azione di limitazione delle popolazioni delle cicaline bufalo.
Adulto di cicalina bufalo
356
parassiti animali
Cicalina bufalo
• Compie una sola generazione annua e
sverna come uova deposte in autunno su rametti di piante arboree o sui tralci
• Raramente gli attacchi assumono gravità rilevante
• I danni più comuni sono dovuti alle
punture di nutrizione operate sui tralci, sul picciolo delle foglie e sul rachide del grappolo
Strozzatura prodotta dalle punture della cicalina bufalo
I sintomi dell’attacco sono simili a quelli prodotti dai “giallumi”
Metcalfa (Metcalfa pruinosa) È stata accidentalmente introdotta dal Nord America, e già da anni si è ampiamente distribuita in Italia. Le neanidi sono presenti da maggio e i primi adulti compaiono all’inizio di luglio. All’epoca dell’invaiatura, la maggior parte degli individui ha completato lo sviluppo. Metcalfa è molto polifaga e può originare sulla vite infestazioni di una certa intensità. Sono temuti anche la produzione di abbondante melata e il successivo sviluppo di fumaggini. Gli attacchi sono maggiormente frequenti quando, in prossimità delle viti, si trovano siepi e macchie arbustive di acero campestre, robinia, sambuco o di altre piante ospiti che costituiscono inesauribili fonti di infestazione. L’Imenottero Driinide Neodryinus typhlocybae, anch’esso di origine nordamericana, svolge una importante azione di controllo biologico.
Bozzolo dell’Imenottero Neodryinus typhlocybae, nemico naturale di Metcalfa pruinosa
Foto A. Pollini
Metcalfa
• Gli attacchi sono più intensi ai margini dei vigneti, in prossimità di siepi
• L’abbondante melata richiama vespe che possono danneggiare gli acini maturi
• Compie una generazione all’anno e sverna come uovo infisso nella vegetazione (rametti o gemme) delle piante attaccate
Adulto di Metcalfa pruinosa con numerose forme giovanili. Le infestazioni si ritrovano sia in ambiente agricolo sia urbano
357
coltivazione Fillossera (Viteus vitifoliae) La fillossera è stata segnalata per la prima volta in Europa nel 1863 in Inghilterra. La sua diffusione in Europa è stata molto rapida. In Italia la presenza è stata rilevata fin dal 1879 nelle province di Como e di Milano. La fillossera è un afide originario del Nord America, dove colonizza alcune specie di vite americane quali Vitis riparia, V. berlandieri e V. rupestris. Su tali viti compie il suo complicato ciclo biologico che si svolge in parte sulle radici e in parte sulle foglie, sulle quali provoca delle caratteristiche galle rotondeggianti. Sulla vite europea Vitis vinifera il comportamento è diverso. Le foglie sono poco favorevoli all’insediamento della fillossera e il ciclo dell’afide si svolge tipicamente solo sulle radici dove determina tuberosità radicali, con successivo disgregamento dei tessuti interessati. Contrariamente alle radici delle viti americane, quelle delle viti europee sono molto sensibili alle punture della fillossera e vanno incontro a gravi degenerazioni, che portano fino alla morte della pianta.
Femmine di fillossera con uova
Fillossera
Foto A. Pollini
• La viticoltura europea attuale è il risultato delle strategie adottate per superare la drammatica crisi provocata dall’arrivo della fillossera • La fillossera attualmente assume
ancora importanza nei vigneti di piante madri presso i vivaisti
• I rischi derivanti dalla fillossera sono tuttavia sempre incombenti. Rimane l’impegno dei selezionatori di portinnesti a mantenere i caratteri di resistenza
Danno da fillossera sulla pagina superiore di vite americana
Foto A. Pollini
Galle di fillossera sulla pagina inferiore di vite americana
All’epoca dell’introduzione della fillossera in Europa, i suoi effetti sui vigneti di V. vinifera furono catastrofici. La strategia che ha consentito di superare la crisi è stata quella di creare viti bimembri innestando la vite europea su piede americano. In tal modo si sfrutta la mancanza di reattività dei tessuti delle foglie della vite europea alle punture della fillossera e la resistenza delle radici delle viti americane che subiscono alterazioni modeste. Lo sforzo organizzativo per superare la crisi provocata dalla fillossera fu enorme, la viticoltura risorse, ma certamente con caratteristiche differenti da quella precedente. Il problema della fillossera si può ora considerare superato nei vigneti in produzione. Rimane, per contro, elevato il pericolo dell’afide nei vivai e nei vigneti di piante madri.
Nodosità a “testa d’uccello” su radici di vite americana
358
parassiti animali Cocciniglie della vite Le cocciniglie sono insetti caratterizzati da un’elevata specializzazione alla fitofagia abbinata a caratteristiche morfologiche singolari. Tra maschi e femmine esiste uno spinto dimorfismo. Le femmine sono sempre sprovviste di ali e manifestano una scarsa mobilità. L’adattamento alla sedentarietà raggiunge i livelli più elevati nella famiglia dei Diaspididi in cui le femmine sono prive di zampe. Tra le caratteristiche più evidenti si segnala l’abbondante produzione di secrezioni esterne protettive (cera e seta) e l’emissione di melata (a esclusione dei Diaspididi) che richiama le formiche. Nonostante la limitata mobilità, alcune specie possono essere vettori di virus. Sono per lo più specie polifaghe, ma è frequente la specializzazione nei confronti di una o poche specie vegetali ospiti. Tra le cocciniglie della vite è noto che Planococcus ficus può trasmettere il virus dell’accartocciamento fogliare. Le cocciniglie della vite hanno tradizionalmente avuto presenza localizzata, solo eccezionalmente la loro densità ha richiesto interventi di difesa specifici. Negli ultimi anni la situazione è cambiata e specie quali quelle del genere Planococcus e Heliococcus bohemicus, morfologicamente molto simili tra loro e normalmente raggruppate sotto il nome di “cocciniglie farinose”, sono state responsabili di gravi attacchi. Spesso si hanno infestazioni miste con la contemporanea presenza di più specie. Altre specie che si possono trovare su vite sono la cocciniglia nera Targionia vitis, la cocciniglia del corniolo Parthenolecanium corni e la Pulvinaria vitis. Tutte compiono una sola generazione annuale e possono essere efficacemente combattute nel periodo in cui si trovano gli stadi giovanili.
Cocciniglie della vite
• Sviluppano preferenzialmente nei
vigneti con fitta vegetazione, dove la scarsa luminosità e la ridotta circolazione d’aria favoriscono ristagni d’umidità, creando un miocroambiente favorevole al loro sviluppo
• Oltre a causare danni diretti,
conseguenti alla sottrazione di linfa, emettono secrezioni zuccherine (melata) che richiamano le formiche e sulle quali sviluppano abbondanti fumaggini
• Le foglie colpite ingialliscono e cadono in anticipo, mentre i grappoli infestati maturano con difficoltà e non sono idonei alla vinificazione
• Tra le cocciniglie maggiormente
dannose alla vite si ricordano le cocciniglie farinose e altre specie come Targionia vitis, Parthenolecanium corni e Pulvinaria vitis
• Le cocciniglie farinose che vivono sulla vite sono rappresentate da quattro specie: Planococcus ficus, Planococcus citri, Pseudococcus longispinus e Pseudococcus obscurus. Le prime due specie sono più frequenti
Foto A. Pollini
Foto A. Pollini
Cocciniglie su tralcio
Uova di Planococcus citrus, isolate le une dalle altre da finissimi filamenti cerosi
359
coltivazione Planococcus ficus, Planococcus citri. Sono le specie più rappresentative del gruppo delle cocciniglie farinose che attaccano la vite. Sono diffuse soprattutto nelle regioni meridionali della penisola, ma si ritrovano sovente anche nelle aree settentrionali. Mentre P. ficus attacca preferibilmente la vite e il fico, P. citri manifesta un comportamento più polifago, sviluppando, oltre che su vite, anche su agrumi, kaki, fico e numerose altre piante ornamentali. Morfologicamente sono due specie molto simili, con femmine dal corpo di forma ovale, ricoperto di cera, con caratteristici raggi cerosi ai margini. P. ficus sverna come femmina riparata nel ritidoma, mentre in P. citri lo svernamento avviene in qualsiasi stadio di sviluppo, prevalentemente come neanide di seconda età riparata nella corteccia del legno. Il numero di generazioni varia da 2-3 nei vigneti dell’Italia settentrionale fino a 6 negli ambienti meridionali. La dannosità è connessa alla migrazione delle cocciniglie sugli acini, nel periodo tra fine luglio e agosto, dove formano vistose aggregazioni. P. ficus è responsabile della trasmissione del virus dell’accartocciamento fogliare.
Foto A. Pollini
Femmine e maschio di Planococcus ficus Foto A. Pollini
Foto A. Pollini
Colonia di Planococcus ficus Foto G. Pellizzari
Le cocciniglie farinose infestano i grappoli, ostacolando il processo di maturazione. Le loro secrezioni, inoltre, richiamano le vespe e le formiche favorendo lo sviluppo di fumaggini
Heliococcus bohemicus. La specie è segnalata in vigneti del nord e centro Italia. Oltre alla vite infesta varie piante quali, per esempio, quercia, robinia, pioppo e pero. Morfologicamente H. bohemicus è molto simile alle specie del genere Planococcus. Il comportamento differisce in quanto tende a disperdersi sulla vegetazione e a non formare le aggregazioni tipiche dei Planococcus.
Esemplari di varia età di Heliococcus bohemicus su un germoglio di vite
360
parassiti animali Pulvinaria della vite (Pulvinaria vitis). Questa cocciniglia origina saltuarie infestazioni, specialmente nei vigneti trascurati o in quelli ad uso famigliare. È una specie polifaga vivendo, oltre che su vite, anche su altre specie arboree o arbustive spontanee (acacia, betulla, nocciolo, biancospino, olmo ecc.). Le femmine, fissate su legno di due o più anni, producono un vistoso ovisacco di cera bianca. Questa specie compie una sola generazione all’anno. In primavera, le femmine che hanno svernato riprendono ad alimentarsi e verso la fine di aprile iniziano l’ovideposizione. Le uova all’interno dell’ovisacco ceroso iniziano a schiudere a fine maggio. Le neanidi si fissano in prossimità delle nervature della pagina inferiore delle foglie. Le femmine abbandonano le foglie nel mese di ottobre e si portano sulle parti legnose della vite su cui svernano.
Foto G. Pellizzari
Femmine di Pulvinaria vitis
Cocciniglia gobbo-striata (Parthenolecanium corni). La cocciniglia è estremamente polifaga e attacca svariate piante arboree, arbustive ed erbacee. Sulla vite infesta i tralci, il rachide dei grappoli, nonché la pagina inferiore delle foglie. In caso di forte attacco si possono verificare gravi deperimenti vegetativi. La femmina è di colore castano con linea longitudinale più chiara e carenata negli esemplari giovani. Compie una generazione all’anno e sverna come neanide sotto il ritidoma. Parte della popolazione può compiere una seconda generazione. In occasione della ovodeposizione il corpo della femmina assume una forma convessa e sotto ad esso depone fino a 3000 uova. Le neanidi, che sgusciano dopo 15-30 giorni in funzione dell’andamento climatico, si localizzano sulla pagina inferiore delle foglie.
Femmina di Parthenolecanium corni su acino d’uva
Cocciniglia nera della vite (Targionia vitis). Questa cocciniglia, appartenente alla famiglia dei Diaspididi, infesta solitamente il ceppo o i cordoni permanenti, passando spesso inosservata per il colore simile a quello del legno e per il fatto che si localizza frequentemente sotto il ritidoma. Il corpo della femmina, caratterizzata da un colore violaceo, è protetto ventralmente da un consistente velo di colore bianco. Questa specie, piuttosto polifaga, in ambienti a clima mite può provocare infestazioni rilevanti su vite, soprattutto se le infestazioni interessano i giovani tralci. Compie generalmente una generazione all’anno e sverna come femmina adulta. In condizioni favorevoli, una parte della popolazione può compiere due generazioni all’anno. Negli ultimi anni la sua presenza nei vigneti è in aumento.
Femmine svernanti di Targionia vitis
361
coltivazione Tignoletta della vite (Lobesia botrana) La lobesia è specie polifaga la cui importanza economica riguarda esclusivamente la vite, sia da vino che da tavola. Nell’adulto le ali anteriori sono cosparse di macchie brune miste ad altre di colore grigiastro o bluastro con una banda trasversale che va restringendo fino al bordo posteriore dell’ala. Le ali posteriori sono di colore grigio. La larva matura ha una colorazione dal giallo verdastro al bruno. Sverna come crisalide protetta nel ritidoma.
Tignoletta
• Sverna come crisalide e compie tre generazioni all’anno
• Gli sfarfallamenti possono essere
rilevati con l’uso di trappole a feromoni
• I danni più rilevanti sono quelli prodotti dalle larve della seconda generazione sugli acini acerbi. Le lacerazioni provocate dalle larve favoriscono lo sviluppo di infezioni di botrite e di altri funghi produttori di micotossine
• La dannosità della tignoletta è molto variabile a seconda della zona, del sistema di allevamento e del vitigno
• Particolarmente sensibili sono i vitigni con grappolo compatto
Uovo di tignoletta su acino
• La vicinanza alla raccolta limita,
Larva di tignoletta Foto A. Pollini
alle cultivar più tardive, le possibilità di lotta alle larve della terza generazione
Nido sericeo prodotto dalle larve della prima generazione di tignoletta
Grappolo con acini perforati da tignoletta
Il primo volo degli adulti inizia a metà di aprile e prosegue per tutto maggio e la prima ovideposizione avviene sui bocci fiorali. Le larve, che sgusciano dopo 7-8 giorni, producono fili sericei formando caratteristici nidi (generazione antofaga) attorno ai fiori erosi. Questi divengono potenziali fonti di inoculo per la botrite che sopravvive saprofiticamente sulle matrici vegetali morte. Seguono poi due genarazioni carpofaghe. Numerose osservazioni hanno dimostrato che lo sviluppo indisturbato della prima generazione può costituire un elevato potenziale d’infestazione nelle generazioni successive. Il secondo sfarfallamento si ha nel mese di luglio. Le uova vengono deposte sugli acini acerbi a carico dei quali svilupperanno le larve di colore verdastro.
Adulto di Lobesia botrana
362
parassiti animali Il terzo volo di adulti si verifica a partire dalla metà di agosto e prosegue nel mese di settembre, le larve sviluppano sugli acini maturi. Gli farfallamenti degli adulti possono essere seguiti con l’uso di trappole a feromone. Essi rappresentano anche efficaci mezzi di lotta quando vengono impiegati, mediante appositi erogatori, secondo i metodi della confusione e del disorientamento sessuale.
Tignola
• Non è presente in tutta Italia e predilige ambienti dell’Italia settentrionale
• Sverna come crisalide e compie due
Tignola della vite (Eupoecilia ambiguella) La specie è comunemente chiamata tignola per le maggiori dimensioni rispetto a Lobesia botrana. È un lepidottero che, pur avendo un’area di distribuzione molto ampia e superiore a quella della tignoletta, è presente prevalentemente nelle regioni settentrionali.
generazioni/anno
• La prima generazione antofaga provoca il diradamneto dei fiori compensato da un maggiore accrescimento degli acini rimasti
Foto Ist. Entomologia (PD)
• Come per tignola i danni maggiori sono provocati dalla generazione carpofaga
Larva di tignola della vite
Adulto di tignola
L’adulto presenta le ali anteriori di colore giallo paglierino con una fascia trasversale bruna e la femmina ha normalmente dimensioni maggiori del maschio. Le larve mature presentano una colorazione variabile dal rossastro al bruno-verdastro. La tignola ha un ciclo biologico simile a quello della tignoletta, ma compie di norma due generazioni, eccezionalmente una terza, svernando anch’essa come crisalide. Il primo volo degli adulti avviene alla fine di aprile, per poi continuare per buona parte o per tutto il mese di maggio. Il secondo volo inizia nella seconda metà di giugno per proseguire fino alla fine di luglio. Le uova sono deposte in prossimità degli acini e, complici le alte temperature estive, schiudono in 3-4 giorni. L’attacco larvale ha inizio in fase di pre-chiusura grappolo con erosioni che interessano dapprima la porzione superficiale dell’acino che può venire completamente svuotato. Come per la tignoletta sono disponibili trappole a feromoni per il monitoraggio degli adulti. I danni, parimenti a quelli provocati dalla tignoletta, sono diretti, per la perdita di produzione, e indiretti, per lo sviluppo di marciumi (botrite e marciume acido).
Danno causato da tignola
363
coltivazione Sigaraio (Byctiscus betulae) Gli adulti sono di colore blu e verde con riflessi metallici. Vive su varie piante arboree e sulla vite. La femmina con l’apparato boccale situato all’estremità di un caratteristico prolungamento del cranio provoca l’appassimento delle foglie praticando erosioni del peduncolo. Le foglie vengono poi arrotolate a formare i caratteristici “sigari” entro cui vengono deposte le uova. I “sigari”, che ben presto si distaccano dalla pianta, non seccano nella loro parte centrale e i tessuti delle foglie consentono l’alimentazione delle larve.
Sigaraio
• È un coleottero presente in tutta
la penisola, ma le sue manifestazioni sono attualmente sporadiche
• Ospite per eccellenza è la vite, ma
l’insetto vive su svariate altre specie agrarie e forestali
Foto A. Pollini
Foto A. Pollini
• Svernano gli adulti nel terreno • Compie una sola generazione all’anno • Raramente risulta dannoso alla vite Foto A. Pollini
“Sigari” prodotti da Byctiscus betulae
Foglia di vite completamente arrotolata a sigaro
Bostrichi (Sinoxylon sexdentatum, Sinoxylon perforans) In primavera gli adulti provocano fori di alimentazione alla base delle gemme. Le femmine scavano gallerie di riproduzione ad
Adulto di Byctiscus betulae
Foto A. Pollini
Foto A. Pollini
Bostrichi
• Le specie più importanti sono due e hanno biologia simile
• Gli adulti svernano entro cunicoli scavati nei tralci
• I danni sono prevalentemente provocati dagli adulti con le gallerie di nutrizione
• L’eliminazione dei tralci infestati
e la distruzione entro l’inverno dei residui di potatura contribuiscono a ridurre il problema Adulto di bostrichide
364
Fori prodotti dagli adulti
parassiti animali anello attorno ai tralci. Le larve che escono da fine maggio a fine giugno provocano gallerie parallele all’asse del tralcio. La maturità viene raggiunta nel mese di luglio. Dopo un breve periodo di impupamento (7-10 giorni) sfarfallano gli adulti. Dalla fine di luglio fino a tutto settembre gli adulti provocano gallerie di nutrizione nei tralci. A ottobre scavano i cunicoli in cui sverneranno. I danni maggiori consistono nella rottura dei tralci indeboliti dalle gallerie. Attacchi gravi possono influenzare la produzione dell’anno successivo.
Foto A. Pollini
Nottuidi (Noctua fimbriata) Alcuni Lepidotteri Nottuidi possono danneggiare le gemme all’inizio della ripresa vegetativa primaverile. La specie più frequentemente presente è Noctua fimbriata. Le larve che hanno svernato hanno abitudini notturne. Durante il giorno si riparano generalmente alla base dei ceppi. Di notte risalgono sulle viti per nutrirsi svuotando le gemme. L’attività delle larve prosegue anche sui giovani germogli e può interessare anche i grappoli neoformati. La dannosità è diversificata a seconda delle caratteristiche dei vitigni: alcuni sono in grado di emettere germogli fruttiferi anche dalle gemme avventizie. Risultati molto interessanti sono stati ottenuti con il monitoraggio degli adulti e con trappole a feromoni per programmare gli interventi di difesa e la sperimentazione di insetticidi selettivi. I feromoni sono stati ampiamente sperimentati e applicati anche come mezzi di lotta secondo i metodi che si basano sulle inibizioni degli accoppiamenti.
Emissioni gommose dal tralcio conseguente all’attività degli adulti di bostrichidi
Nottua
• Compie 2 generazioni annue • Svernano le larve che provocano danni seppur saltuariamente, primaverili erodendo le gemme
• L’incrisalidamento avviene nel terreno
Foto A. Pollini
Giovane germoglio danneggiato da larve di nottuidi Larva di Noctua fimbriata
365
coltivazione Ragnetto rosso dei fruttiferi e della vite (Panonychus ulmi) Le infestazioni precoci provocano sviluppo stentato dei germogli e deformazioni delle foglie giovani su cui compaiono piccole aree necrotiche. Se l’attacco si verifica nel periodo estivo le foglie si presentano tipicamente arrossate nei vitigni a bacca rossa e giallastre, in quelli a bacca bianca. Le femmine (0,36-0,40 mm di lunghezza) hanno forma ovale e sono di colore rosso con tubercoli più chiari, su cui sono inserite le setole dorsali. Il maschio è piriforme e di colore bruno verdastro o arancione chiaro. Le uova hanno caratteristica forma di una piccolissima cipolla con un lungo filamento apicale. Quelle estive sono di colore pallido mentre quelle destinate a svernare, che vengono deposte a partire da settembre, hanno una colorazione rossa intensa. Fra le cause dell’aumentata pericolosità di questo fitofago va sottolineata l’eliminazione dei predatori naturali da parte di insetticidi poco selettivi. Tra i predatori di P. ulmi occorre ricordare alcuni acari fitoseidi, in particolare Amblyseius andersoni, e il coccinellide Stethorus punctillum. Da segnalare infine che sulla vite può essere presente anche il ragnetto rosso comune Tetranychus urticae che, pur privilegiando le piante erbacee, si può ritrovare anche su quelle arboree. Sulla vite questo tetranichide compare saltuariamente e quasi sempre a stagione inoltrata, da agosto in avanti, quando tende a sostituirsi al P. ulmi.
Ragnetto rosso
• Sverna come uova di colore rosso
intenso e compie da 7 a 9 generazioni anno in gran parte sovrapposte
• L’aumento della densità delle
popolazioni degli Acari Tetranichidi è la conseguenza negativa di un numero elevato di trattamenti chimici con prodotti poco selettivi Foto F. Laffi
Uova invernali di ragnetto rosso Foto F. Laffi
Foto F. Laffi
Foglia fortemente decolorata per infestazione di Panonychus ulmi
Femmina matura di Panonychus ulmi con i tipici tubercoli biancastri
366
Foto F. Laffi
Femmina svernante di Tetranychus urticae
parassiti animali Ragnetto giallo della vite (Eotetranychus carpini) Questo acaro tetranichide rappresenta un’avversità piuttosto preoccupante per la viticoltura del nostro paese. Gli attacchi del ragnetto giallo si possono verificare precocemente già alla chiusura delle gemme, con conseguente blocco dello sviluppo dei germogli, che presentano foglie piccole e di forma irregolare.La crescita dei giovani tralci, in genere stentata e irregolare, può anche, in seguito a forti infestazioni, arrestarsi completamente. Queste manifestazioni sono maggiori nelle primavere fredde e piovose. Se l’attacco si verifica in uno stadio più avanzato, le alterazioni avvengono a danno delle foglie, sulle quali compaiono dapprima macchie irregolari di colore giallastro o rossastro, a seconda della cultivar, e successivamente, prima di andare incontro a caduta anticipata, anche aree di secchereccio. Il tutto si ripercuote negativamente sia sul grado zuccherino dell’uva, sia sulla lignificazione dei tralci. Lo svernamento avviene ad opera delle femmine fecondate che, alla ripresa vegetativa, abbandonano i ripari invernali per spostarsi sulle giovani foglie, soprattutto quelle più vicine al legno vecchio, dove iniziano a nutrirsi. Le uova vengono deposte dopo alcuni giorni sulla pagina inferiore delle foglie, in prossimità delle nervature. Dalle uova fuoriescono le larve, munite di sei zampe, che, attraverso due stadi ninfali, si trasformano in adulti. Durante la buona stagione le femmine sono di forma ovale (lunghe 0,36-0,38 mm), di colore giallo pallido con macchie laterali verdi. Le femmine svernanti sono invece di colore giallo più intenso. I maschi, piriformi, sono più piccoli delle femmine. Anche nei riguardi di questo acaro tetranichide, l’attività degli acari fitoseidi, in particolare Amblyseius andersoni, Kampimodromus aberrans e Typhlodromus pyri, sono generalmente in grado di mantenere le infestazioni su livelli tollerabili.
Ragnetto giallo
• Le femmine feconde riunite in piccole colonie svernano sotto il ritidoma del ceppo dei tralci vecchi
• Nell’anno compie 7-8 generazioni in gran parte sovrapposte
• La prima generazione si compie
in circa 1 mese, mentre le successive si completano in 15-18 giorni Foto F. Laffi
Femmina adulta svernante di Eotetranychus carpini Foto F. Laffi
Foto F. Laffi
Danno da ragnetto giallo Vigneto gravemente infestato da Eotetranycus carpini
367
coltivazione Eriofide dell’erinosi (Colomerus vitis) I sintomi provocati da questo eriofide sulle foglie sono molto evidenti e consistono in bollosità sporgenti sulla pagina superiore. Su quella inferiore, in corrispondenza delle bollosità, si forma un feltro di peli inizialmente bianchi che poi virano al rosa e al bruno, entro cui si localizza l’eriofide. I danni possono interessare anche i grappoli. Dopo una fase iniziale in cui i sintomi possono essere molto vistosi, generalmente la presenza si riduce e perde importanza.
Acari eriofidi
• Sono acari molto piccoli, invisibili
ad occhio nudo, di forma allungata e caratterizzati dal possedere solo due paia di zampe
Foto F. Laffi
• Gli eriofidi più importanti sulla
Foto F. Laffi
vite sono il Colomerus vitis e il Calepitrimerus vitis
• Gli eriofidi provocano sulla vite sintomi molto caratteristici
• Particolare attenzione deve essere dedicata ai vigneti nei primi anni dell’impianto
Grappolo invaso da ammassi feltrosi di peli ipertrofici
Particolare dei danni provocati dall’eriofide
Gli adulti, subito dopo lo svernamento, iniziano ad aggredire gli abbozzi fogliari per cui le foglioline, appena formatesi, presentano già i sintomi dell’attacco. Le uova si riscontano per la prima volta nella fase di foglioline distese, mentre le prime forme giovanili appaiono nello stadio di “grappoli visibili”. Successivamente, a partire dall’inizio di maggio, e per circa due mesi, si assiste ad una fase migrante durante la quale gli eriofidi si spostano dalle foglie basali verso l’apice dei tralci, infestando le gemme apicali e le foglie di nuova formazione. In natura questi eriofidi sono contenuti dall’attività predatrice di diversi acari fitoseidi e stigmeidi. Foto F. Laffi Esemplari di Colomerus vitis ripresi tra i peli della pagina inferiore della foglia
Eriofide dell’erinosi
• Sverna come femmina nelle gemme o tra il ritidoma
• Compie da 5 a 7 generazioni Sintomi dell’attacco da Colomerus vitis sulla pagina superiore (a sinistra) e inferiore (a destra)
368
parassiti animali Eriofide dell’acariosi (Calepitrimerus vitis) Attacchi di acariosi nel nostro Paese sono stati segnalati in Sicilia fin dagli inizi del 1900, ma solo a partire dagli anni ’80 sono stati osservati danni consistenti in varie regioni tra cui Toscana, Emilia Romagna, Veneto e Puglia. Gli attacchi che si verificano alla ripresa vegetativa ostacolano lo sviluppo dei germogli che presentano foglie di forma irregolare. Le manifestazioni più tardive si aggravano generalmente a partire dall’inizio di agosto. Gli eriofidi si localizzano sulla pagina inferiore delle foglie in accrescimento che si deformano a coppa e manifestano areole decolorate. I tralci presentano internodi raccorciati. Complessivamente la vegetazione della vite cambia aspetto perdendo il colore verde intenso e assumendo una colorazione brunastra, da cui il nome di acariosi bronzata.
Foto F. Laffi
Tralcio con foglie apicali infestate
Eriofide dell’acariosi
• Svernano le femmine riparate nelle gemme o sotto il ritidoma
Colonia di femmine di Calepitrimerus vitis
• La migrazione nei siti di svernamento
Alterazioni cromatiche prodotte dall’eriofide dell’acariosi
inizia in agosto e si completa in ottobre
• Le generazioni sono 3-4 all’anno
Dopo lo svernamento sostenuto dalle femmine, gli eriofidi si concentrano sulle gemme dove iniziano a nutrirsi e a deporre le uova, da cui si origineranno sia femmine che maschi. Le popolazioni raggiungono la massima concentrazione in agosto.
Foto F. Laffi
Foto F. Laffi
Confronto fra tralcio sano (sinistra) e uno con internodi raccorciati per attacco di Calepitrimerus vitis
Frammento di perula con una colonia mista di Colomerus vitis e di Calepitrimerus vitis e con vari acari predatori (stigmeidi)
369
coltivazione Difesa dai parassiti animali Nella lotta contro gli insetti dannosi della vite primeggia per importanza Lobesia botrana. Numerose ricerche hanno evidenziato che non esiste una correlazione tra numero di catture e densità delle popolazioni. Le trappole a feromoni sono ritenute importanti solo per rilevare l’andamento degli sfarfallamenti e determinare il momento in cui effettuare i trattamenti, in base alle caratteristiche del prodotto insetticida che si intende utilizzare. Per valutare la densità delle popolazioni il campionamento più affidabile si basa sul conteggio delle uova oppure delle larve. Le difficoltà che il rilievo delle uova comporta possono essere facilmente superate con un po’ di esperienza. La dannosità della prima generazione (antofaga) è ritenuta generalmente di scarso rilievo e molti disciplinari di produzione integrata non ammettono trattamenti. La recente disponibilità di insetticidi con nuove modalità d’azione ha riacceso la discussione su questa impostazione. Varie esperienze provano che la riduzione della popolazione della Lobesia fin dalla prima generazione consente una maggiore efficacia nella lotta contro la seconda e contribuisce a ridurre i rischi di sviluppo della muffa grigia. Condiviso è invece il riconoscimento dell’importanza della lotta contro la seconda generazione, che danneggia gli acini acerbi, e favorisce l’insediamento allo sviluppo della muffa grigia (Botrytis cinerea). Oltre che con vari insetticidi di sintesi si sono ottenuti buoni risultati con l’impiego dei preparati a base di Bacillus thuringensis. Per il controllo di L. botrana è poi in aumento l’interesse per l’impiego dei feromoni per inibire gli accoppiamenti. I metodi disponibili si basano su due diversi meccanismi di interferenza del richiamo dei maschi ad opera delle femmine, noti come metodo “della confusione” e metodo “del disorientamento”. Nelle aree viticole in cui è presente la Flavescenza dorata, è di primaria importanza la lotta contro S. titanus, cicalina vettrice del fitoplasma. Lo scafoideo compie una sola generazione. Le neanidi che nascono verso la metà di maggio sono in grado di trasmettere il fitoplasma dopo un periodo di circa trenta giorni dall’acquisizione da viti infette. Per questo motivo, il primo intervento insetticida viene previsto a circa un mese dal rilevamento dell’inizio della schiusa delle uova. Tale trattamento viene generalmente effettuato entro la prima metà di giugno, periodo in cui sono presenti esclusivamente forme giovani dello Scafoideo. Limitatamente a questo periodo si può far ricorso anche a principi attivi che agiscono come regolatori della crescita. A causa della scalarità delle nascite si rende necessario un secondo trattamento, da fine giugno a inizio luglio. In questo momento la popolazione di Scafoideo è composta da forme giovani e dai primi adulti. Per questo secondo trattamento si preferisce utilizzare principi attivi con effetto
Monitoraggi e campionamenti
• Per stabilire il livello di infestazioni
dei principali fitofagi della vite e gli eventuali interventi di difesa è necessario controllare periodicamente foglie e grappoli
• Le epoche di campionamento vengono definite in relazione alle varie fasi fenologiche, onde evitare monitoraggi nei periodi nei quali sicuramente gli insetti o gli acari non sono presenti in campo
• I controlli possono essere effettuati
esaminando direttamente i vari organi della vite o, ancor meglio, utilizzando trappole a feromoni o cromotropiche Foto R. Balestrazzi
Trappola a feromoni
Adulto di Scaphoideus titanus catturato da una trappola cromotropica
370
parassiti animali immediato. In diverse zone, in cui la presenza di Scafoideo si è drasticamente abbassata e il rischio di diffusione della malattia è diminuito viene ritenuto sufficiente un solo trattamento. Le strategie contro i giallumi della vite si basano oltre che sugli interventi contro l’insetto vettore anche sulla estirpazione delle viti con sintomi. Diversa è invece la problematica connessa alle cicaline responsabili di danni diretti. La specie più importante è Empoasca vitis che raggiunge la più elevata densità nel periodo estivo. Gli interventi devono essere rivolti contro le forme giovani. I migliori risultati si hanno operando nelle ore fresche del mattino. L’intervento contro la cicalina riveste carattere di eccezionalità e trova giustificazione in danni realmente accertati negli anni precedenti e densità di popolazione molto alta. Per quanto riguarda la dannosità delle diverse specie di cocciniglie della vite, il problema è in preoccupante aumento. La lotta contro le cocciniglie farinose si basa su interventi contro le forme mobili che a maggio si portano sui germogli. Un altro momento adatto per l’intervento è quello che precede la fase fenologica della chiusura del grappolo che generalmente si verifica in luglio. Anche la cocciniglia nera (Targionia vitis) può rendere necessari interventi specifici contro le neanidi verso la metà di giugno. I trattamenti effettuati con insetticidi di sintesi nel periodo estivo per combattere tignole, cicaline e altri fitofagi possono fornire un importante contributo alla limitazione delle popolazioni delle cocciniglie. Per combattere infine la Pulvinaria è opportuno intervenire con oli a fine inverno contro le femmine che ripredono a nutrirsi. Relativamente ai Tisanotteri, la dannosità di D. reuteri può essere elevata alla ripresa vegetativa, particolarmente nei vigneti giovani. Un trattamento insetticida trova giustificazione limitatamente ai casi di arresto del germogliamento. Da sottolineare infine che nei riguardi delle pullulazioni di Acari Tetranichidi, la corretta gestione della difesa antiparassitaria costituisce la più efficace strategia di prevenzione. A volte però il ragnetto giallo (E. carpini) può essere responsabile del blocco della vegetazione nella fase iniziale. In tale periodo è opportuno effettuare specifici rilievi per accertare la causa dei sintomi considerando che anche Acari Eriofidi e Tisanotteri possono provocare manifestazioni simili. La corretta identificazione dell’avversità consentirà di scegliere opportunamente il principio attivo da utilizzare e di prevedere ulteriori rilievi da effettuare durante l’annata. Tra gli Acari Eriofidi, la specie maggiormente temuta è Calepitrimerus vitis responsabile dell’acariosi. Le segnalazioni di casi di una certa gravità sono in aumento e comportano attenzione, sia alla ripresa vegetativa, sia nel periodo estivo a partire da inizio agosto. Tra gli acaricidi solo alcuni sono efficaci sia contro i Tetranichidi sia contro gli Eriofidi.
Foto A. Pollini
Adulto di Chilocorus bipustulatus. Adulti e larve sono predatori di uova, neanidi e forme adulte di diverse cocciniglie
Foto F. Laffi
Larva di Stethorus punctillum, coccinellide predatore di acari tetranichidi
Foto A. Pollini
Adulto di Allothrombium fuliginosum, acaro predatore di afidi, cocciniglie e larve di lepidotteri
371
la vite e il vino
coltivazione Malattie Agostino Brunelli
www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche.
coltivazione Malattie Foto I. Ponti
Introduzione La vite europea è coltivata per la produzione di vino da alcune migliaia di anni e nel corso della sua evoluzione ha dovuto subire gli attacchi di parassiti di varia natura animale e vegetale. Fra questi ultimi, per esempio, il cosiddetto mal dell’esca, attualmente in espansione e oggetto di grande interesse, è citato sin dall’antichità (testi greci e romani) e descritto in opere risalenti al Medioevo. Peraltro, diversamente da altre colture, come per esempio il frumento (per le quali i danni causati dai parassiti, allora attribuiti a cause soprannaturali, hanno determinato ripercussioni sociali ed economiche di enorme portata), la vite non ha mai incontrato problemi particolari sotto questo aspetto. La situazione cambiò alla metà dell’800 allorché, come probabile conseguenza dello scambio di materiale vegetale utilizzato per la riconversione della vite europea su portinnesto americano per contenere la fillossera, arrivarono in Europa dapprima l’oidio e, tre decenni dopo, la peronospora, che si diffusero rapidamente in tutto il continente, modificando radicalmente lo scenario della viticoltura. La vite europea si rivelò infatti particolarmente suscettibile a queste due malattie fungine e, grazie anche al clima mediamente favorevole al loro sviluppo, esse sono diventate il principale ostacolo per la coltivazione di questa specie. Dopo alcuni anni di disorientamento e timori per la sopravvivenza della viticoltura, fortunatamente la disponibilità di due prodotti minerali come lo zolfo e il rame consentì di mettere a punto accettabili strategie di difesa, che fino alla metà del ’900 sono state un prezioso baluardo per il contenimento dei due pericolosi parassiti. Nonostante ciò, le difficoltà di controllo non sono mancate nel corso dei decenni, soprattutto a causa della peronospora (malattia fortemente favorita dalle piogge), e numerose furono le annate in cui la produzione di vino subì drastiche decurtazioni, con gravi contraccolpi socio-economici (per esempio nel 1915 la produzione di vino crollò da 43 milioni di ettolitri del 1914 a poco più di 20 milioni di ettolitri). La situazione migliorò sostanzialmente a partire dagli anni ‘50 del secolo scorso, allorché la scoperta dei primi fungicidi di sintesi allargò le possibilità di controllo della peronospora e dell’oidio e la successiva continua messa a punto di nuovi prodotti ha ulteriormente agevolato la difesa dalle due malattie fungine e da altre che nel frattempo, anche a seguito dell’intensificazione delle tecniche produttive, hanno incrementato i loro attacchi. Attualmente, peronospora e oidio continuano a rappresentare le principali minacce per la viticoltura italiana, ma l’ampia disponibilità di fungicidi di sintesi con varie caratteristiche tecniche, insieme a quella dei tradizionali rame e zolfo, rende meno problematica la gestione della difesa, pur con i limiti rappresentati, da un lato, dalla elevata suscettibilità della coltura, dall’altro dall’influenza dell’andamento climatico.
Zoosporangiofori di Plasmopara viticola con zoosporangi Foto I. Ponti
Cleistotecio di Erysiphe necator Foto I. Ponti
Conidioforo e conidi di Botrytis cinerea
372
malattie Peronospora (Plasmopara viticola) È una malattia fungina specifica della vite, particolarmente pericolosa in quanto può colpire tutti gli organi erbacei della pianta compresi i grappoli, danneggiandoli in maniera anche totale. I primi attacchi interessano di norma le foglie, sulla cui pagina superiore compaiono decolorazioni (macchie d’olio) in corrispondenza delle quali, sulla pagina inferiore, si sviluppa una muffa bianca costituita dagli elementi di propagazione del patogeno (zoosporangi). Foto R. Angelini
Peronospora
• La peronospora è arrivata in Europa dall’America nella seconda metà dell’800
• La sua diffusione inarrestabile ha
Foto R. Angelini
stimolato la ricerca di idonei mezzi di lotta, fra i quali fu messa a punto in Francia nella zona di Bordeaux intorno al 1885 la famosa poltiglia bordolese (miscela di calce e solfato di rame sciolti in acqua), protagonista della difesa antiperonosporica fino agli anni ’50 del secolo scorso
• L’agente della peronospora necessita
di acqua ed elevata umidità per cui è più aggressivo con andamento climatico piovoso e nelle aree umide; in Italia la sua pericolosità è maggiore nelle regioni settentrionali e nelle zone di pianura e fondovalle
In caso di infezioni precoci, sulle foglie compaiono le caratteristiche macchie d’olio, mentre i grappolini si deformano a uncino
• Se non adeguatamente controllata può
Questi, in presenza di alcune ore di bagnatura fogliare sono in grado di dare origine a nuove infezioni, che possono susseguirsi per tutta la stagione, più o meno numerose a seconda dell’andamento climatico. Possono essere colpite anche le infiorescenze e i grappoli all’inizio dell’accrescimento, che imbruniscono, con la formazione di una muffa bianca analoga a quella delle foglie, e Foto I. Ponti
determinare rapidamente gravi danni su tutte le parti della pianta
Foto I. Ponti
Foto I. Ponti
984
Grappolo con residui florali disseccati per attacco di peronospora prima dell’allegagione
Se l’attacco avviene tardivamente non compare la muffa: le foglie manifestano piccole tacche necrotiche “a mosaico” e gli acini disidratano, imbruniscono con sfumature violacee e poi disseccano
373
coltivazione successivamente disseccano; sui grappoli più sviluppati si manifestano imbrunimenti degli acini e del rachide (senza comparsa della muffa) e quindi disseccamento. Alla fine del ciclo vegetativo della coltura il patogeno differenzia gli organi riproduttivi sessuati (oogoni e anteridi) dalla cui unione si sviluppano nei tessuti fogliari gli organi di conservazione invernale (oospore). Queste maturano nelle foglie cadute a terra e, a partire dalla ripresa vegetativa primaverile, in presenza di sufficiente bagnatura del terreno e temperatura, producono gli elementi di propagazione (zoosporangi), che liberano le zoospore e trasferiscono la malattia alla nuova vegetazione (infezioni primarie). Condizioni indispensabili per l’avvio dell’infezione primaria sono la caduta di una pioggia di almeno 10 mm nell’arco di 24-48 ore, una temperatura di almeno 10 °C e una lunghezza dei tralci prossima a 10 cm con stomi recettivi (regola dei 3 dieci). Affinché le zoospore possano muoversi, grazie a due cilia (flagelli), fino a raggiungere gli stomi e qui fissarsi, per poi emettere un pre-micelio in grado di penetrare nella camera ipostomatica, è necessario che gli organi della pianta rimangano coperti per diverse ore da un velo d’acqua. Una volta all’interno dello stoma, il micelio si espande per poi diffondersi nei tessuti parenchimatici con andamento intercellulare. Avvenuta l’infezione inizia il periodo d’incubazione, che dura da 4 a 15 giorni in funzione della temperatura e dell’umidità relativa e termina con la comparsa dei sintomi della malattia e la successiva evasione, del micelio fungino sottoforma della tipica muffa bianca, costituita dagli zoosporangi. Questi ultimi, in condizioni meteoclimatiche favorevoli, danno avvio a ripetute infezioni secondarie, che si susseguono fino al periodo autunnale.
Foto R. Angelini
La muffa bianca, costituita dagli elementi di propagazione della malattia (zoosporangi portati da rami conidiofori) si sviluppa solo sulla pagina inferiore della foglia in quanto il fungo può fuoriuscire dalla stessa solo attraverso gli stomi
Ciclo biologico di Plasmopara viticola Zoosporangiofori e zoosporangi
Infezione
Anteridio
Zoospore Oogonio
Macrozoosporangio
Oospora
Fase diploide Grave attacco di peronospora
374
malattie Oidio o mal bianco (Erysiphe (= Uncinula) necator) È una malattia fungina specifica dalla vite, con una importanza pari o superiore rispetto alla peronospora e, come questa, può causare gravi danni alla produzione, a causa della elevata suscettibilità dei grappoli. Può colpire tutte le parti non lignificate della pianta (germogli, tralci, foglie, grappoli): i germogli primaverili si ricoprono di una efflorescenza biancastra di aspetto polverulento e presentano uno sviluppo stentato, le foglie manifestano su entrambe le pagine macchie decolorate, spesso accompagnate da imbrunimenti e rugginosità, su cui si può sviluppare la stessa efflorescenza.
Oidio o mal bianco
• È una malattia relativamente recente.
In Europa è stata ritrovata verso la metà dell’800, divenendo in pochi anni un vero flagello per la viticoltura a causa della sua dannosità per i grappoli
• La rapida diffusione del mal bianco
in tutte la aree viticole europee ha fortunatamente incontrato la disponibilità dello zolfo come mezzo di lotta. Lo zolfo, distribuito sia in polvere sia miscelato all’acqua, insieme al rame per la peronospora ha consentito di proteggere la vite fino agli anni ’50 del ’900, allorché cominciarono ad affermarsi gli antioidici di sintesi che sono oggi alla base della difesa
• L’agente dell’oidio è poco esigente
Sintomi primaverili su germoglio
riguardo all’acqua, per cui la sua aggressività è maggiore negli ambienti caldi e asciutti, con limitata piovosità (Italia centro meridionale e, in quella settentrionale, soprattutto nelle zone collinari)
Sintomi su grappolo a inizio sviluppo
Analogamente, i tralci e i grappoli (acini e rachide) si ricoprono di una “patina” biancastra polverulenta, in corrispondenza della quale compare una reticolatura necrotica; nei casi più gravi gli acini colpiti si spaccano. La patina biancastra è costituita dagli elementi di propagazione (micelio, conidiofori e conidi) della forma agamica di questo fungo, nota come Oidium tuckeri.
Foto R. Angelini
Foto R. Angelini
I tralci, generalmente colpiti allo stato erbaceo, si ricoprono della muffa bianca a cui segue una tipica reticolatura brunastra Danni da mal bianco su grappolo
375
coltivazione Il fungo responsabile dell’oidio è in grado di sopravvivere durante l’inverno in due forme, rispettivamente attraverso frammenti di micelio imprigionati fra le perule delle gemme e attraverso i cleistoteci, corpiccioli sferici di colore bruno scuro contenenti le spore sessuate, che si formano sulla muffa a fine estate e vengono trascinati dalle piogge nelle anfrattuosità della corteccia del fusto della vite. Alla ripresa vegetativa le infezioni possono essere originate sia dal micelio ibernante nelle gemme (che attacca i germogli in corso di sviluppo) sia dalle ascospore liberate dai cleistoteci in presenza di piogge anche leggere. Il microrganismo, diversamente dalla maggior parte dei funghi fitopatogeni, non ha un particolare bisogno di acqua per l’inizio dei processi infettivi. Ciò, insieme alla duplice modalità di svernamento, gli conferisce una elevata flessibilità climatica e ambientale che consente alla malattia di svilupparsi nella maggior parte delle regioni italiane (sono tendenzialmente esenti, soprattutto nelle regioni settentrionali, le aree di pianura e fondovalle caratterizzate da bagnature prolungate, che ostacolano lo sviluppo del fungo). Gli attacchi possono avvenire fin dalla ripresa vegetativa e per tutto il ciclo colturale. Quelli più pericolosi corrispondono alla fase di allegagione-primo accrescimento degli acini e, se non adeguatamente controllati con trattamenti preventivi, possono compromettere irrimediabilmente la produzione.
Foto R. Angelini
Sulle foglie compaiono caratteristiche macchie biancastre polverulente Foto I. Ponti
Ciclo biologico di Erysiphe necator
Gli acini colpiti precocemente tendono a spaccarsi
Ascospore Aschi e ascospore
Ascospore in germinazione Diffusione dei conidi
Micelio ectofita, conidiofori e conidi Ascogonio
Cleistotecio aperto e aschi
Cellula madre dell’asco Particolare di acino attaccato da oidio
Cleistotecio
376
Anteridio
malattie Botrite o muffa grigia (Botrytis cinerea) Si tratta di una malattia fungina non specifica della vite (colpisce numerose piante coltivate arboree ed erbacee), che in Italia è pericolosa soprattutto per gli attacchi ai grappoli. Foto I. Ponti
Botrite o muffa grigia
• È una malattia diffusa su numerose
Foto I. Ponti
piante coltivate e trova sulla vite condizioni particolarmente favorevoli al suo sviluppo durante il periodo di maturazione dei grappoli
• Oltre che su una corretta gestione
Attacco di Botrytis cinerea su foglia
agronomica del vigneto (concimazioni non eccessive soprattutto in azoto, potature verdi finalizzate a ridurre le bagnature), la difesa è basata su ripetuti trattamenti delle piante (e in particolare dei grappoli) con idonei fungicidi
Infezione precoce di botrite
• Gli attacchi di botrite possono
Può colpire tutti gli organi della pianta. Sulle foglie compaiono macchie brune, su cui, in presenza di elevata umidità, si sviluppa una efflorescenza grigiastra (da cui il nome di muffa grigia) costituita dagli elementi di propagazione del fungo. I tralci manifestano imbrunimenti e disseccamenti apicali o lungo l’asse e così pure le infiorescenze possono imbrunire e disseccare. Più frequenti e gravi sono gli attacchi ai grappoli, su cui gli acini marciscono e, se la stagione decorre umida, si ricoprono di una abbondante muffa grigia che finisce per avviluppare aree più o meno ampie, trasformando anche l’intero grappolo in un ammasso marcescente. In autunno il patogeno si insedia sui tralci infettando le gemme sottoforma di micelio, da cui in primavera si originano le spore (conidi). Queste, se trovano una sufficiente umidità, attaccano le di-
provocare forti decurtazioni quantitative e danneggiare la qualità dei vini. Per contro in alcune particolari condizioni ambientali (aree dell’Europa settentrionale) la malattia, se rimane in uno stadio precoce e senza sviluppo di muffa, può determinare la concentrazione degli zuccheri negli acini, consentendo di ottenere vini di particolare pregio
Foto R. Angelini
Micelio e sclerozi di B. cinerea su tralci di vite
L’infezione botritica prende solitamente avvio dall’interno del grappolo causando una progressiva marcescenza degli acini
377
coltivazione verse parti della vite, altrimenti sopravvivono sui tessuti morti della pianta (in particolare sui residui fiorali), in attesa di ritrovare idonee condizioni in corrispondenza della maturazione dei grappoli. Botrytis cinerea trova le condizioni ideali di sviluppo in presenza di elevata umidità e prolungata bagnatura della vegetazione. Per tale motivo, a differenza dei Paesi più settentrionali (per esempio Francia), in Italia di norma i rischi maggiori corrispondono alla fase di maturazione dei grappoli (a partire dal cambiamento di colore degli acini) sia per la maggiore probabilità di piogge sia, e soprattutto, per la sensibilità dei tessuti particolarmente elevata in questa fase. Altri fattori di rischio infettivo sono rappresentati dall’elevato rigoglio vegetativo della pianta e dalle ferite degli acini dovute a cause biotiche o abiotiche (tignole, oidio, spaccature da compattezza del grappolo e/o piogge successive a un periodo asciutto). Marciume acido (Lieviti diversi) Come la muffa grigia questa malattia porta al disfacimento degli acini e può provocare gravi danni, con particolare riguardo alla qualità dei vini. Essa è causata da un insieme di microrganismi, soprattutto lieviti e secondariamente batteri acetici che, diffusi principalmente dai moscerini della frutta (Drosophila spp.), possono contaminare gli acini attraverso ferite di qualsiasi natura. Gli acini attaccati assumono, sia sulle varietà nere che su quelle bianche, un colore marrone e si svuotano progressivamente del contenuto, che cola lungo il grappolo imbrattandolo e conferendogli un aspetto lucido, accompagnato da un pungente odore di aceto; nei casi più gravi gli acini cadono a terra. I grappoli possono essere attaccati contemporaneamente da marciume acido e muffa grigia, la quale viene peraltro ostacolata nel suo sviluppo fino ad arrestarsi. Gli attacchi sono favoriti da diversi fattori: danneggiamenti degli acini da parte di botrite, oidio, insetti, compattezza del grappolo da eccessivo rigoglio vegetativo, piogge ripetute.
Gli acini colpiti da B. cinerea assumono inizialmente un colore brunastro e poi si ricoprono della caratteristica muffa grigia
Marciume acido
• Il nome deriva dall’odore di aceto che emanano i grappoli colpiti
• Può essere inizialmente confuso con
la muffa grigia, ma col progredire dell’infezione se ne differenzia nettamente in quanto, a parte l’odore di aceto, gli acini assumono un colore bruno, appaiono lucidi e privi di muffa
• I danni consistono in riduzione
Foto R. Angelini
quantitativa della produzione e in effetti negativi sulla vinificazione (riduzione del grado zuccherino, aumento dell’acidità volatile, difficoltà di illimpidimento)
• È causato principalmente da lieviti,
ma non può essere combattuto con fungicidi attivi su questi microrganismi per non danneggiare anche i lieviti della fermentazione alcolica. La difesa si basa sulla prevenzione attraverso una lotta accurata contro oidio, tignole e muffa grigia allo scopo di evitare lesioni agli acini Grappolo colpito da marciume acido
378
malattie Marciume nero o Black rot (Guignardia bidwellii) È una malattia fungina molto dannosa nel Nord America ma fortunatamente poco diffusa in Italia. Può colpire tutti gli organi della vite e in particolare i grappoli. Sulle foglie compaiono macchie di colore bruno chiaro che progressivamente necrotizzano e sviluppano minuscoli corpiccioli neri (corpi fruttiferi: picnidi) contenenti i conidi che diffondono la malattia. Macchie analoghe, ma con una forma tendenzialmente ovale, si sviluppano sui giovani tralci. Gli acini vengono colpiti durante l’accrescimento e presentano dapprima piccole macchie di colore bruno chiaro che finiscono per interessarli completamente facendoli avvizzire e disseccare. Sui tessuti disseccati degli acini si formano poi sia corpi fruttiferi simili ai precedenti (picnidi) sia corpi fruttiferi sessuati (periteci), da cui si originano le ascospore. Foto I. Ponti
Foto I. Ponti
Foto I. Ponti
Sui tralci lignificati le aree infette appaiono biancastre e cosparse di punti nerastri (picnidi)
Marciume nero
• Ha origini americane, arrivando
in Europa (Francia) alla fine dell’800. In Italia è presente in sporadiche aree
• La malattia può colpire tutti gli organi Esito di infezione su grappolo
della pianta
Picnidi su acino infetto
• La difesa è basata sia su trattamenti
Il patogeno sopravvive durante l’inverno grazie a entrambi i tipi di corpi fruttiferi, presenti sui tralci e sulle mummie degli acini, e in primavera durante i periodi piovosi, torna a infettare i nuovi organi attraverso conidi e ascospore.
dalla ripresa vegetativa, sia sulla eliminazione del materiale infetto (tralci e grappoli mummificati)
Foto I. Ponti
Foto I. Ponti
Particolare delle necrosi fogliari Necrosi su foglia causate da G. bidwellii
379
coltivazione Escoriosi (Phomopsis viticola) L’escoriosi, malattia fungina conosciuta da lungo tempo e nota anche come “necrosi corticale” o con il nome inglese “dead arm”, ha assunto in questi ultimi anni una discreta importanza fra le crittogame che colpiscono la vite. Attacca in maniera specifica la vite ed è pericolosa soprattutto per i danni ai tralci di uno o due anni. Vengono colpiti alla base i giovani tralci, su cui compaiono lesioni necrotiche che rimangono visibili dopo la lignificazione, disposte nel senso della lunghezza dei rami. Le zone colpite assumono in inverno un colore biancastro e presentano numerosi punti neri (corpi fruttiferi del fungo chiamati picnidi); nei casi più gravi le tacche necrotiche, approfondendosi, portano alla rottura dei tralci. I sintomi sugli altri organi non sono specifici (aborto dei fiori, maculature necrotiche e disseccamento delle foglie) e sono collegati al danneggiamento dei tralci. Il patogeno si conserva durante l’inverno sia attraverso i corpi fruttiferi (picnidi), sia come micelio all’interno delle gemme. In primavera, con tempo umido e piovoso, i corpi fruttiferi producono le spore, che, come il micelio, diffondono l’infezione ai giovani germogli, su cui si sviluppano progressivamente i tipici sintomi. La virulenza del patogeno è assai variabile negli anni e dipende soprattutto dalle condizioni ambientali e dal grado di recettività dei vari vitigni. A questo proposito, tra le varietà maggiormente interessate dalla fitopatia si segnalano: Montepulciano d’Abruzzo, Vermentino e Sangiovese. La malattia può essere trasmessa anche attraverso l’utilizzo di materiale infetto per l’innesto.
Escoriosi
• In Italia non ha una diffusione
generalizzata, poiché viene tenuta a freno dai trattamenti normalmente condotti contro oidio e peronospora
• Attacca principalmente i giovani tralci nella parte basale; le aree colpite assumono dopo la lignificazione un colore biancastro
• È favorita da andamenti climatici
piovosi che determinano le bagnature necessarie per le infezioni da parte delle spore svernanti
• Nei vigneti con presenza significativa
dell’escoriosi sono opportuni trattamenti specifici, da eseguire dopo il risveglio vegetativo, prima dell’inizio di quelli indicati per la peronospora
Foto I. Ponti
Foto I. Ponti
Maculature necrotiche e aree di secchereccio sulle foglie provocate da Phomopsis viticola
Foto I. Ponti
Sui tralci erbacei si producono lesioni e fessurazioni a volte molto profonde (a sinistra). Le aree colpite manifestano spesso aree bianche (a destra)
380
malattie Mal dell’esca (Phaeomoniella chlamydospora, Phaeoacremonium oleophilum, Fomitiporia mediterranea) È una malattia nota da moltissimo tempo, che determina fenomeni di carie del legno e di intristimento della vegetazione, con un decorso più o meno rapido. Si può infatti presentare nella forma acuta, con l’avvizzimento improvviso della pianta (apoplessia), oppure nella forma cronica, che conduce alla morte della pianta in un numero variabile di anni. Il mal dell’esca è causato da diversi funghi, con un quadro molto complesso, non ancora del tutto chiarito. In ogni caso, recenti studi hanno dimostrato che esso consta sostanzialmente di due sindromi tra di loro spesso associate, l’una corrispondente a un’alterazione ai vasi conduttori, l’altra collegata alla carie dei tessuti legnosi. La prima è causata dai due funghi Phaeomoniella chlamydospora e Phaeoacremonium oleophilum ed è più frequente nelle viti giovani, in cui il tronco presenta imbrunimenti dei tessuti; la seconda, opera di Fomitiporia mediterranea, è tipica delle viti vecchie, nei cui fusti compaiono aree di legno cariato; in questo caso si possono osservare spaccature longitudinali del fusto. La malattia determina anche caratteristici sintomi fogliari sottoforma di decolorazioni internervali con sfumature gialle (nelle varietà bianche) o rosse (nelle varietà nere), che poi imbruniscono e disseccano. Contro il mal dell’esca non sono disponibili mezzi di lotta chimici come per le altre malattie. L’unica possibilità di recuperare le piante colpite consiste nel taglio della parte malata del tronco e nell’allevamento di un nuovo tralcio dalla parte sana. Foto I. Ponti
Mal dell’esca
• Le viti colpite presentano nel fusto
sezionato zone imbrunite, spesso accompagnate da carie del legno. Il legno cariato veniva utilizzato per l’accensione del fuoco, da cui il nome della malattia
• Nelle piante colpite si ha il
disseccamento di uno o più tralci e nell’arco di alcuni anni la morte. A volte questa può sopraggiungere anche in tempi molto rapidi (apoplessia). In altri casi i sintomi possono regredire e di nuovo aggravarsi da un anno all’altro Foto I. Ponti
Foto I. Ponti
Sezione imbrunita di un tronco infetto Foto I. Ponti
Sintomi di mal dell’esca sulle foglie
Fenditure longitudinali lungo il tronco
Manifestazione apoplettica di mal dell’esca
381
coltivazione Difesa dalle malattie Nel quadro complessivo delle tecniche di coltivazione della vite, la gestione fitosanitaria assume un ruolo primario e interessa gran parte del ciclo vegetativo fino in prossimità della vendemmia. In pratica sin dal germogliamento la coltura può andare facilmente soggetta agli attacchi di mal bianco, in uno stadio più avanzato (lunghezza dei germogli prossima ai 10 cm) sono possibili, con andamento climatico piovoso, le infezioni di peronospora e le due malattie possono colpire i vari organi della pianta fino a stagione inoltrata, richiedendo costante impegno e attenzione soprattutto al fine di scongiurare i pericolosi attacchi ai grappoli. Questi devono poi essere poi adeguatamente protetti dalla muffa grigia, terza importante malattia fungina della vite, che in Italia è maggiormente pericolosa a partire dall’inizio della maturazione, specialmente in caso di piogge ripetute. In pratica in tutte le realtà viticole italiane è necessario mettere annualmente in atto un programma di interventi imperniato su queste tre malattie, che deve essere adattato alle varie esigenze e situazioni anche in relazione all’andamento climatico. Meno impegnative sono le altre malattie fungine, la cui presenza è sporadica e non richiedono quindi una protezione sistematica come le tre precedenti. In particolare, per quanto riguarda la peronospora, il criterio di lotta tradizionale è quello basato sulla individuazione delle condizioni favorevoli all’infezione primaria (attraverso la regola dei 3 dieci) e sulla determinazione del periodo di incubazione, in modo tale da poter intervenire uno o due giorni prima della scadenza di tale periodo. In questo modo il fungicida è in grado di esplicare la sua azione nelle condizioni migliori, sia per devitalizzare il fungo al momento della sua fuoriuscita, sia per proteggere la pianta da nuove contaminazioni. Per una razionalizzazione degli interventi sono stati anche proposti vari modelli previsionali che, sulla base delle correlazioni fra
Difesa antiperonosporica (regola dei 3 dieci)
• La regola dei 3 dieci viene da tempo
utilizzata per la razionalizzazione degli interventi nelle prime fasi vegetative. Essa rappresenta il primo modello previsionale per valutare il rischio della infezione primaria di peronospora
• Le condizioni biologiche
e climatiche definite, affinché possa prendere avvio l’infezione di Plasmopara viticola, sono – l unghezza dei germogli prossima a 10 cm (importante ai fini della recettività degli stomi) – t emperatura di almeno 10 °C – p ioggia di almeno 10 mm nelle ultime 24-48 ore
• In abbinamento a questa regola
si può inoltre valutare, attraverso il “calendario di incubazione”, il momento ottimale per l’esecuzione del primo trattamento antiperosporico
Foto R. Angelini
382
malattie andamento climatico e ciclo biologico della Plasmopara viticola, forniscono indicazioni sulle fasi di maturazione e germinazione delle oospore e sulla evoluzione delle infezioni. Nei periodi a maggiore rischio di attacchi peronosporici (dalla differenziazione dei grappolini all’allegagione) è inoltre opportuno ricorrere a fungicidi endoterapici, in grado anche di arrestare le infezioni durante la prima fase del periodo d’incubazione. La difesa antioidica va condotta fondamentalmente facendo ricorso a ripetuti trattamenti sia con antioidici tradizionali, come lo zolfo, sia con preparati di recente sintesi in grado di svolgere un’azione più efficace e persistente. La lotta contro il mal bianco deve essere attuata con criteri molto diversi se si opera in ambienti a basso o medio rischio rispetto a quelli a rischio elevato. In questi ultimi (regioni centro-meridionali e zone collinari dell’Italia settentrionale) è necessario attuare una difesa preventiva dal germogliamento fino all’invaiatura. Relativamente alla lotta contro la botrite, oltre all’adozione di misure indirette, quali arieggiamento dei grappoli, oculate scelte di potatura ed equilibrate concimazioni e irrigazioni, tendenti a rendere le piante meno recettive alla malattia, sono di norma necessari specifici trattamenti nelle fasi a maggior rischio: pre-chiusura grappolo, invaiatura e due-tre settimane prima della vendemmia.
Foto R. Balestrazzi
Centralina meteorologica
Momenti di intervento nelle diverse fasi fenologiche contro le principali malattie Foto R. Angelini
Germogliamento
Foglie distese
Grappoli separati
Piena allegagione
Fioritura
Pre-chiusura grappolo
Peronospora Oidio
Botrite
Escoriosi
383
Invaiatura
Maturazione
la vite e il vino
coltivazione Virosi e fitoplasmosi Michele Borgo
www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche.
coltivazione Virosi e fitoplasmosi Le virosi e le fitoplasmosi della vite vengono considerate malattie tra le più dannose per la viticoltura mondiale. Le prime hanno assunto rilevante e crescente interesse a partire dalla seconda metà del XIX secolo, a seguito dell’invasione fillosserica che comportò la necessità di innestare la vite europea sui portinnesti americani, mentre le malattie da fitoplasmi sono comparse in Italia in tempi più recenti, cioè intorno agli anni ’70-’80.
Prime testimonianze delle virosi
• I primi riferimenti a sintomi ascrivibili
alle attuali virosi riguardano fiori di tulipano variegati, descritti nel tardo 1500; anche in dipinti di autori fiamminghi vengono raffigurati fiori con colorazioni bizzarre, corrispondenti a sintomi di virosi
Virosi I vegetali sono colpiti da varie malattie virali, che possono provocare sintomi in parte simili a quelli causati da altre fitopatie e fisiopatie o da alterazioni genetiche, da cui si distinguono per la loro infettività. Le prime segnalazioni di malattie di tipo virale sulla vite trovano riscontri in tempi antichi, senza però che ne fosse conosciuta la causa. Uno sguardo alle vicende storiche ci permette di constatare che l’argomento era oggetto di osservazione e di studi già nel XIX secolo. Vengono riportate manifestazioni di tralci a due punte, di cime biforcute, di internodi corti (court-noué per i francesi), di foglie deformate, piccole, accartocciate con vistose colorazioni: vengono segnalate produzioni scarse per grappoli difettosi e per acini piccoli, forme di rachitismo con aspetto cespuglioso (ronchet), deperimenti delle piante ad andamento epidemico, con progressiva diffusione nei vigneti, fino a causare la morte delle viti ammalate. Parte di questi sintomi trova conferma anche in reperti botanici, raccolti dal medico-naturalista siciliano Francesco Minà Palumbo, il quale fra il 1880 e il 1886 collezionò nel suo erbario campioni di foglie di vite con sintomi di tipo virale. Le strane malattie stimolarono le attenzioni dei viticoltori e le ricerche dei fitopatologi dell’epoca, i quali formularono varie teorie sulla loro natura, spesso contrastanti e contraddittorie a causa della sovrapposizione di malattie di diversa natura (batteriosi, attacchi di crittogame e di parassiti, fenomeni di carenze nutrizionali, avversità climatiche, ecc.). Oltre alla raccolta di documenti storici, le prime e interessanti conoscenze sulle virosi della vite sono attribuibili a studiosi europei, che formularono le prime ipotesi sulle cause delle epidemie. Solo a partire dagli anni ’70 sono stati ottenuti notevoli progressi sulle conoscenze delle malattie virali, supportati da una serie di fatti e di successi scientifici conseguiti in altre branche della ricerca. Gli studi hanno raggiunto importanti risultati, tali da poter ora redigere un quadro completo per le malattie più diffuse e dannose. Si ritiene infatti che oltre cinquanta diversi virus siano i grado di infettare la vite, mentre risultano di gran lunga inferiori le virosi osservabili in campo.
Sintomi di virosi
Diffusione delle virosi in Europa
• La latenza di alcune malattie,
in particolare nelle viti americane, largamente usate come portinnesti per contenere i danni causati dalla fillossera, è stata considerata la principale causa di diffusione delle virosi in Europa
384
virosi e fitoplasmosi I virus sono entità patogene che non posseggono una vera struttura cellulare, ma che sono invece capaci di riprodursi solo all’interno della cellula vivente e non su mezzi artificiali. La particella virale è costituita da una massa di acido nucleico (RNA), che forma il genoma a singolo filamento positivo, avvolta da un mantello proteico, che costituisce il capsidio. I virus non sono capaci di penetrare nelle cellule integre in modo autonomo, ma hanno bisogno dell’azione di agenti vettori (nematodi, insetti) o di soluzioni di continuità, come avviene nel caso dell’innesto e della trasmissione per succo cellulare. L’infezione è operata dalla parte nucleica che, solo dopo essersi insediata, si riveste della parte proteica, la quale svolge un’azione protettiva. La diffusione del virus avviene poi gradatamente, invadendo per via vascolare tutta la pianta.
Virus
• In latino significa “veleno”, ed è
un termine usato da tempi molto remoti per indicare misteriosi agenti parassitari non visibili direttamente, se non attraverso il microscopio elettronico, ma che sono in grado di causare particolari stati morbosi sugli individui infetti
Virosi di importanza per la vite Le più importanti malattie virali includono le affezioni che, per la peculiarità dei danni e per la loro pericolosità, vengono prese in considerazione nei lavori di selezione clonale e che, in varia maniera, sono annoverate nelle norme europee e nazionali, previste ai fini della certificazione dei materiali di moltiplicazione viticola: – complesso dell’arricciamento o malformazioni infettive, – complesso dell’accartocciamento fogliare, – complesso del legno riccio, – maculatura infettiva. Esistono poi altre malattie virali o virus-simili, ritenute di secondaria importanza, ma che meritano attenzione per la loro diffusione e, in alcuni casi, per la loro dannosità: – incompatibilità di innesto, – suberosi corticale, – necrosi delle nervature, – mosaico delle nervature, – enazioni.
Legno riccio
Inquadramento sistematico dei principali virus della vite Genere
Specie
Acronimo
Malattia associata
Nepovirus
Grapevine fanleaf virus
GFLV
Arricciamento, Degenerazione infettiva (fanleaf)
Ampelovirus
Grapevine leafroll associated virus 1,3,4...9
GRLaV-1,3,4...9
Accartocciamento fogliare (leafroll)
Closterovirus
Grapevine leafroll associated virus 2
GLRaV-2
Accartocciamento fogliare (leafroll)
Grapevine virus A
GVA
Legno riccio (Kober stem grooving)
Grapevine virus B
GVB
Suberosi corticale
Grapevine rupestris stem pitting associated virus
GRSPaV
Legno riccio (rupestris stem pitting)
Grapevine fleck virus
GFkV
Maculatura infettiva (fleck)
Grapevine red globe virus
GRGV
Disaffinità di innesto
Vitivirus Foveavirus Maculavirus
385
coltivazione Diagnostica delle virosi Le virosi possono dare origine a sintomi palesi su gran parte delle viti infette. I primi studi virologici permisero sia di scoprire la possibilità di trasmissione meccanica di alcuni virus su piante test erbacee mediante succo estratto da foglie di vite, sia di selezionare viti in grado di manifestare i sintomi delle malattie dopo l’evento infettivo. Un sistema di diagnosi, applicato fin dalla metà del XX secolo, è stato quello di utilizzare piante in grado di manifestare sintomi specifici in presenza di definite infezioni virali. Ciò ha portato a fare uso dei saggi biologici (indexaggi), basati sulla reazione di ospiti differenziali legnosi o erbacei, come metodo di diagnosi ufficiale per la ricerca delle virosi della vite. I saggi biologici più comuni sono quelli legnosi, effettuati innestando marze o talee, prelevate dalla pianta da esaminare, su specifiche viti indicatrici, cioè su varietà in grado di manifestare chiari e inconfondibili sintomi virali (per esempio le cultivar Cabernet franc o Pinot nero usate per riconoscere l’accartocciamento fogliare). Per alcune malattie i sintomi possono essere osservati già nel primo anno di saggio, mentre per altre forme virali, quali il legno riccio, bisogna tenere in coltura le piante per due o tre anni per favorire una migliore espressione della malattia. Nuovi sistemi di diagnosi, basati su tecniche di laboratorio, sono stati messi a punto in tempi recenti, permettendo di identificare gli agenti infettanti. Sfruttando le conoscenze acquisite in campo umano e veterinario, anche per la vite ha trovato ampia applicazione la diagnosi sierologica. Questa tecnica si basa sul riconoscimento della proteina capsidica del virus da parte di anticorpi, prodotti dal sistema immunitario di organismi animali, opportunamente stimolati. I test immunoenzimatici di tipo ELISA (Enzyme Linked Immunoassorbent Assay) sono realizzabili grazie alla loro elevata sensibilità e alla possibilità di testare campioni prelevati direttamente dal campo. Preparati sierologici di kit commerciali, semplici strumentazioni di laboratori e una buona professionalità degli operatori consentono di eseguire analisi rapide, precise e poco costose per la diagnosi di molti virus. In tempi ancor più recenti sono stati adottati test di biologia molecolare, basati su tecniche in grado di riconoscere gli acidi nucleici dei virus presenti nei tessuti dell’ospite. L’amplificazione genica (PCR, Polymerase Chain Reaction) dell’entità virale consente di aumentare a dismisura la quantità di molecole virali bersaglio, attraverso la sintesi di frammenti genomici di dimensione predeterminata dalla scelta di corte sequenze (primers), che delimitano il tratto di molecola virale da amplificare. Anche questa tecnica, grazie alla sua elevata specificità, dà risultati affidabili e precisi, seppure con tempi e costi superiori rispetto al test ELISA; offre inoltre il vantaggio di poter conservare per più anni l’RNA estratto dal campione esaminato.
Sintomi provocati dalle virosi
• La presenza di virus comporta
alterazioni fisiologiche e strutturali sulla pianta ospite, inducendo la comparsa di alterazioni morfologiche e cromatiche sugli organi più suscettibili
• Una volta avvenuto l’evento infettivo,
l’individuo resta ammalato per tutta la vita, anche se alcune malattie hanno un comportamento latente
• L’intensità dei sintomi varia in funzione della virulenza dell’agente patogeno e, in modo particolare, della suscettibilità varietale oppure delle condizioni ambientali
Metodi diagnostici
• Saggio biologico: prevede l’innesto
di marze o di talee, prelevate dalla pianta da esaminare su apposite viti indicatrici
• Test sierologico: si basa sulla reazione antigene-anticorpo tra proteine della particella virale e specifici anticorpi
• Test di biologia molecolare: si realizza attraverso il riconoscimento di specifiche sequenze di RNA virali nei tessuti dell’ospite
• Microscopia elettronica: prevede
il riconoscimento diretto del virus osservato a fortissimo ingrandimento
386
virosi e fitoplasmosi Altri metodi di diagnosi, quali per esempio la microscopia elettronica, servono principalmente per studi e ricerche su nuovi virus; essi possono, in ogni caso, essere usati anche per scopi diagnostici, richiedendo però costose strumentazioni, interventi più complessi e onerosi.
Danni delle virosi
• Le virosi sono responsabili di danni
reali e potenziali; l’innesto tra parti di piante con diverso stato sanitario, di cui una affetta da virus palese o latente, cosa possibile in questo caso per i portinnesti, e un’altra virusesente, dà sempre origine a nuovi individui virosati, indipendentemente dalla presenza di sintomi
Dannosità delle malattie da virus La presenza di uno o più virus sulla stessa pianta può indurre la comparsa di una o più malattie, la cui sovrapposizione è spesso causa di effetti gravi e sinergici. L’importanza economica attribuita alle virosi è notevole, in quanto le viti ammalate vanno incontro, per tutta la loro vita, a sensibili danni produttivi, sia per l’aspetto quantitativo sia qualitativo. L’intensità dei danni dipende da: – entità patogena, tipo di virosi, intensità e gravità dei sintomi; – capacità del virus di influenzare in misura più o meno rilevante l’attività fisiologica della pianta; – epoca di comparsa della malattia; – ambiente ecologico; – condizioni colturali; – incidenza delle piante colpite. La lotta è particolarmente difficile e si basa principalmente su interventi di tipo preventivo, realizzabili attraverso attività di selezione clonale e sanitaria, di conservazione e di moltiplicazione del materiale viticolo virus-esente. L’eliminazione dei virus non è possibile in maniera diretta sulle piante ammalate, ma viene fatta solo in laboratorio con interventi di risanamento, che prevedono tecniche di termoterapia e/o di coltura in vitro degli apici vegetativi, prelevati dalle piante ammalate. Queste operazioni sono finalizzate all’ottenimento di nuove viti esenti da virus, che sono poi destinate alla costituzione delle fonti primarie di nuovi cloni per le successive fasi di propagazione.
Foto M. Stefanini
Foto V. Vicchi
Micropropagazione in vitro Esiti di una infezione virale
387
coltivazione Complesso dell’arricciamento o degenerazione infettiva È una malattia causata da differenti virus, che inducono varie modificazioni morfologiche a livello di tralci, viticci, grappoli e foglie, che possono presentare bizzarre alterazioni cromatiche. I virus responsabili sono costituiti da particelle poliedriche di circa 30 nm di diametro, che possono essere trasmesse, oltre che per innesto, mediante nematodi vettori; da ciò prende nome il genere che li raggruppa: Nepovirus (da Ne = nematode; po = poliedrico e virus). Essi possono infettare sia portinnesti sia viti europee (Vitis vinifera) e loro ibridi. La malattia prende vari nomi, che tengono conto dei sintomi più comuni e della diversa eziologia: arricciamento e malformazioni infettive, giallumi infettivi, scolorazioni perinervali, grapevine fanleaf virus (GFLV), mosaico dell’arabis (ArMV). Essa è presente in tutti gli areali viticoli, in particolare negli ambienti ad antica tradizione viticola, dove la coltivazione della vite viene perpetuata sugli stessi terreni, spesso infestati da nematodi, che vivono nello strato esplorato dalle radici, e tra i quali assumono grande importanza Xiphinema index, X. italiae, X. diversicaudatum.
Arricciamento sulle foglie
Malformazioni infettive. Costituiscono la forma più caratteristica della malattia, provocando sintomi a carico delle foglie, dei tralci e dei grappoli. Le foglie presentano asimmetria del lembo, margini con denti molto accentuati e irregolari, seni peziolari aperti (prezzemolatura); in molti casi e su varietà suscettibili assumono una maggiore consistenza, con nervature principali ispessite e ravvicinate tra loro. Le deformazioni fogliari sono accompagnate da macchie verde-giallastro a contorno sfumato. I tralci possono presentare internodi irregolari, nodi doppi o con proliferazioni a “testa di salice”, fasciazioni e forcelle, appiattimento dei meritalli, spostamento dei viticci, accrescimento a zig-zag; le piante presentano inoltre un aspetto ridotto e cespuglioso (ronchet). I grappoli sono spesso deformati con biforcazioni delle punte dei raspi; intervengono anomalie della fioritura, che favoriscono la colatura dei fiori, l’acinellatura e l’irregolare maturazione dell’uva. Ispezioni istologiche dei tessuti del floema e dello xilema portano a evidenziare la presenza di cordoni endocellulari.
Testa di salice su tralcio
Mosaico giallo. Si caratterizza per la presenza di accentuati giallumi fogliari, accompagnati, in parte, da sintomi di tipo deformante. Le alterazioni cromatiche sono bene evidenti alla ripresa vegetativa e aumentano in corrispondenza della fioritura e dell’allegagione. L’espressione dei sintomi può variare da pianta a pianta come pure da un anno all’altro; può interessare le foglie di qualche tralcio o capo a frutto, in particolare quelle poste in posizione basale e mediana, oppure tutta la pianta. Occasionalmente il giallume può estendersi anche ai grappoli,
Fasciazione e nodi doppi
388
virosi e fitoplasmosi che manifestano i sintomi in fase pre-fiorale, favorendo in tale modo la scarsa allegagione. Scolorazioni perinervali. Forma virale poco frequente, anche se segnalata in tutte le aree viticole del mondo; origina zone clorotiche di colore verde chiaro o giallo-cromo in corrispondenza delle nervature fogliari. I sintomi, palesi su varietà sia a uva bianca sia a bacca nera, possono colpire un numero limitato di foglie e si rendono ben evidenti rispetto al resto del fogliame, che rimane di colore verde. Complesso della degenerazione infettiva. Assume rilevante importanza per i danni che esso può provocare: progressiva espansione della malattia con distribuzione a chiazze, cronico deperimento delle viti, sviluppo ridotto delle piante con scarso accumulo di sostanze di riserva e possibile morte degli individui colpiti. Particolarmente evidenti sono gli effetti sulle produzioni, che subiscono danni variabili in funzione del vitigno, dell’età delle viti, degli ambienti e delle pratiche agronomiche e colturali; si possono comunque manifestare casi di colatura fiorale e acinellatura dei grappoli, accentuate perdite del peso dell’uva, riduzione del contenuto zuccherino e peggioramento qualitativo del mosto.
Malformazioni degli acini
Il controllo del complesso virale dell’accartocciamento o degenerazione infettiva si basa sull’osservazione diretta dei sintomi; va tenuto presente che anche altre avversità di tipo biotico e abiotico possono portare alla formazione di sintomi in parte simili a quelli virali. In particolare, alcune carenze nutrizionali (per esempio ferro, zinco, boro, manganese) o alcuni fenomeni genetici, climatici o fitotossici (per esempio effetti di erbicidi o di altri agrofarmaci), come pure altri agenti patogeni (vedi i fitoplasmi) possono indurre la comparsa di giallumi fogliari o causare il deperimento della pianta. Per la diagnosi, oltre all’indexaggio su piante erbacee o, meglio, su viti indicatrici (V. rupestris du Lot o V. rupestris St. George), risultano molto pratici e affidabili i test sierologici ELISA o biomolecolari PCR. Ai fini della prevenzione e della lotta vengono proposti interventi agronomici integrati. Poiché non esistono sistemi di lotta diretta per risanare in campo le piante virosate, particolare importanza assume la prevenzione, realizzabile mediante l’uso di materiale viticolo certificato e la scelta di terreni esenti da nematodi vettori di virus. Nel caso di nuovi impianti su terreni che in precedenza avevano ospitato viti virosate, onde evitare pericolosi interventi di fumigazione del suolo per eliminare i nematodi, deve essere assicurata la completa eradicazione di tutte le vecchie ceppaie, facendo seguire un adeguato periodo di riposo con altre colture erbacee da rinnovo.
Schiarimenti nervali
Vite con sintomi di giallumi
389
coltivazione Complesso dell’accartocciamento fogliare L’accartocciamento fogliare è una malattia grave, che può essere causata da diverse entità patogene (grapevine leafroll associated virus: GLRaV); in tutto il mondo sono stati finora identificati almeno nove virus, tra i quali i più diffusi sono GLRaV-1, 2 e 3. La virosi, oltre che per innesto, si trasmette da vite ammalata a vite sana mediante alcune specie di cocciniglie vettrici di closterovirus e comprese tra i Pseudococcidi (Planococcus ficus, P. Citri, Pseudococcus longispinus, P. affinis, Heliococcus bohemicus) e Coccidi (Parthenolecanium corni, Neopulvinaria innumerabilis, Pulvinaria vitis). L’incidenza e la diffusione della malattia variano quindi in funzione dell’entità virale, della suscettibilità varietale, della presenza di insetti vettori e degli effetti dei piani di lotta antiparassitaria messi in atto. Quasi sempre, i sintomi risultano bene evidenti sulle foglie, che presentano alterazioni cromatiche dei tessuti internervali, a esclusione delle nervature principali e secondarie che restano verdi; sono accompagnati da arrotolamenti dei bordi della lamina fogliare, che piegano verso la pagina inferiore (da cui il nome accartocciamento). Nelle zone viticole settentrionali a clima fresco e temperato, la malattia può manifestarsi a partire dalla fase di inizio invaiatura: per prime si ammalano le foglie basali, che diventano lievemente più ispessite; progressivamente anche quelle mediane e le più giovani portano alterazioni cromatiche. A fine estate le viti virosate diventano facilmente riconoscibili anche negli ambienti a clima più caldo. La presenza dei virus danneggia i tubi cribrosi del floema dei tralci, provocando l’accumulo di antociani sulle foglie; le varietà a bacca nera mostrano vistosi arrossamenti, mentre sui vitigni a bacca bianca le foglie basali e mediane tendono ad arrotolare e prendono un aspetto clorotico, più o meno pronunciato, con nervature e spazi perinervali ancora verdi. Questo tipo di comportamento permette quindi di distin-
Accartocciamento fogliare con tenue cromatismo
Accartocciamento fogliare su Merlot
Varietà a uva bianca con accartocciamento fogliare Confronto tra vite sana e vite con accartocciamento fogliare (a destra)
390
virosi e fitoplasmosi
Pianta di Pignolo sana (a sinistra) e con sintomi di accartocciamento fogliare (a destra)
guere facilmente le piante ammalate rispetto a quelle sane, che presentano invece foglie verdi e distese. All’intensità delle alterazioni cromatiche e morfologiche delle foglie si associa la ritardata, incompleta e irregolare maturazione dell’uva che presenta molti acini ancora verdi; i tralci riescono comunque a raggiungere una discreta maturazione del legno a fine estate. L’accartocciamento fogliare è responsabile di danni spesso gravi, che si riflettono sui parametri produttivi dell’uva e su quelli organolettici dei mosti e dei vini; in genere si ha una riduzione del numero di grappoli, un minore peso, uno scarso accumulo di sostanze elaborate, un minore contenuto zuccherino dei mosti, un maggiore accumulo di antociani sulle foglie a scapito delle bacche. Non devono essere però sottovalutati i succitati rischi connessi alla trasmissione dei virus a opera delle cocciniglie. Questi insetti riescono a diffondere rapidamente la malattia non solo da pianta a pianta dello stesso impianto, ma anche su viti giovani dei nuovi vigneti, in seguito alle loro migrazioni da campi limitrofi affetti dalla virosi. In tempi più recenti, ampio interesse ha assunto il virus GLRaV-2 che, oltre a provocare sintomi di accartocciamento fogliare, palesi a fine stagione vegetativa, è responsabile della malattia nota come “disaffinità d’innesto”. Questa sindrome virale causa gravi problemi fisiologici sulle piante infette, provocando cattiva saldatura tra i due bionti, elevate morie di barbatelle in vivaio, ingrossamento del punto di innesto. Per la diagnosi del complesso virale si fa ricorso ai controlli visivi di campo di fine estate; il riscontro delle piante ammalate è possibile su quasi tutte la varietà di vite, a esclusione dei portinnesti, sui quali la malattia rimane generalmente latente, con qualche eccezione per alcuni ibridi. Gli esami di laboratorio con test ELISA e/o PCR garantiscono buoni risultati; i saggi biologici vengono eseguiti per favorire una diagnosi più approfondita sulla presenza della virosi e prevedono l’uso di varietà di vite indicatrici molto suscettibili, quali Cabernet franc, Cabernet Sauvignon, Carmenère, Pinot nero, Barbera, Merlot o altri vitigni ricchi di antociani.
Accartocciamento fogliare su portinnesto
Barbatelle in vivaio con disaffinità di innesto
Vite giovane con “testa grossa”
391
coltivazione Complesso del legno riccio Il legno riccio, scoperto negli anni ’60 in Puglia, è una delle patologie più diffuse nel genere Vitis. Originariamente veniva considerato come un difetto dell’innesto; infatti le viti franche di piede sono esenti da sintomi, mentre quelle innestate possono manifestare rugosità e scanalature alla base del tronco. Forma un complesso virale trasmissibile per innesto e, limitatamente ad alcuni agenti virali, anche mediante cocciniglie; esso comprende varie malattie, che si caratterizza per la diversa espressione dei sintomi e per la diversa eziologia: – Rupestris stem pitting (RSP): forma virale considerata ad ampia diffusione in tutti gli ambienti viticoli; provoca punteggiature più o meno pronunciate ed estese sul legno dell’indicatore V. rupestris du Lot e su altri portinnesti con sangue di V. rupestris. I sintomi sono palesi in corrispondenza del punto di innesto, del tallone, su ferite e su nodi del portinnesto. La malattia è stata recentemente associata a grapevine rupestris stem pitting associated virus (GRSPaV), entità virale diagnosticabile con test molecolari di tipo PCR; – Kober stem grooving (KSG): virosi che provoca rugosità longitudinali di varia profondità ed estensione sul legno del portinnesto Kober 5BB o di altre varietà americane con stessi parentali; viene comunemente associata a grapevine virus A (GVA), la cui diagnosi è possibile con test ELISA e PCR; – LN33 stem grooving: virosi palese su viti indicatrici dell’ibrido LN33, ove si manifestano accentuate rugosità sul legno di più anni; – suberosi corticale o corky bark (CB): forma virale che provoca rigonfiamenti e spaccature longitudinali sui tralci di un anno dell’indicatore LN33; raramente manifesta sintomi sulla varietà europee. La malattia viene associata a grapevine virus B (GVB). I sintomi del legno riccio si caratterizzano quindi per la presenza di rugosità e alterazioni morfologiche corticali e legnose del tronco in corrispondenza del punto di innesto, formate da ispessimento del ritidoma, butterature e scanalature parallele all’asse del tronco, turbe vascolari per alterazioni dello xilema. Tali anomalie sono facilmente evidenti praticando, in primavera, scortecciamenti o tassellamenti corticali vicino al punto di innesto. La presenza di alterazioni molto accentuate può incidere negativamente sullo sviluppo vegetativo della pianta e sui parametri della produzione. Nelle forme più gravi e acute, specialmente se accompagnate da associazione di più virosi, il complesso virale è responsabile di un grave declino, che può anche favorire la morte delle viti. I danni più gravi si hanno nel corso dei primi anni di vita delle piante; essi possono essere parzialmente mitigati favorendo l’equilibrio vegeto-produttivo delle viti giovani.
Vite vecchia con legno riccio
Legno riccio su Kober 5BB
Suberosi corticale su LN33
392
virosi e fitoplasmosi Maculatura infettiva La virosi, comunemente nota con il nome di fleck, è una malattia latente in V. vinifera, mentre è palese su V. rupestris S. George, che ne è l’indicatore specifico. È causata da grapevine fleck virus (GFkV), di cui non è ancora stato identificato l’agente vettore. I sintomi sono evidenti sulle viti indicatrici, che manifestano un comportamento cespuglioso, dovuto allo scarso sviluppo dei tralci, alla presenza di nodi corti, di foglie più piccole del normale, lievemente richiuse verso la pagina superiore e con portamento cadente. I sintomi sono chiaramente evidenti a inizio primavera, osservando le foglie in trasparenza, le quali presentano schiarimenti di alcuni millimetri ed estesi alle nervature di terzo e quarto ordine. Nei mesi estivi tendono ad attenuarsi sulle foglie di nuova formazione, mentre riappaiono con il ritorno delle temperature miti di fine estate, rendendosi però facilmente confondibili con i danni provocati dalle punture di insetti. Pur essendo una virosi molto diffusa e presente su gran parte dei materiali sottoposti a test sanitari, non sono ben noti gli effetti negativi sulle produzioni viti-vinicole. Le condizioni di latenza del fleck sulle viti europee hanno infatti reso difficile la valutazione dei danni e della loro importanza economica; i principali riscontri negativi riguardano le rese in vivaio, la diminuita vigoria, la ridotta capacità rizogena e la contrazione dell’attecchimento degli innesti.
Maculatura infettiva su St. George
Necrosi delle nervature La malattia è palese solo sul portinnesto 110 Ricther, che ne diventa quindi l’indicatore; rimane invece latente sulle varietà europee e su altri portinnesti. I sintomi sono dati da necrosi scure presenti sulle nervature fogliari, accompagnate da una accentuata contrazione dello sviluppo vegetativo; essi sono evidenti fin dalla comparsa delle prime foglie e rimangono palesi per tutto l’anno. Il danno più grave è dato dalla riduzione delle rese in vivaio, dovute all’elevata moria degli innesti-talea. La malattia presenta una incidenza molto elevata sui materiali viticoli esaminati; secondo studi recenti, non ancora conclusi, è considerata a eziologia virale e viene associata ad alcune varianti del virus GRSPaV, entità patogena coinvolta nella sindrome del legno riccio di tipo rupestris stem pitting.
Necrosi delle nervature su 110R
Mosaico delle nervature La malattia, a eziologia ancora sconosciuta, è palese solo su piante indicatrici di V. riparia Gloire de Montepellier, su cui induce sintomi fogliari caratterizzati da lievi forme di giallume con mosaici estesi alle nervature secondarie e terziarie. È una forma virale poco diffusa e di cui non sono ben noti i danni provocati sulle viti affette dalla malattia.
Mosaico delle nervature
393
coltivazione Enazioni È una forma virale poco conosciuta a causa della sua presenza occasionale e sporadica; viene trasmessa per innesto e può essere diagnosticata tramite saggi biologici su viti dell’indicatore LN33. L’eziologia non è ancora nota, anche se viene annoverata tra le malattie da virus, in quanto non compare su viti virus-esenti. In molti casi i sintomi sono palesi direttamente in vigneto e si presentano con escrescenze e omeoplasie crestiformi sulle nervature principali, bene evidenti sulla pagina inferiore delle foglie basali. Le piante ammalate presentano un portamento cespuglioso con ritardo di germogliamento, foglie più piccole, deformazioni delle infiorescenze, colature fiorali e perdite produttive. La malattia assume un comportamento epidemico del tutto occasionale, non mantenendo la ripetibilità dei sintomi sulle stesse piante e in tutti gli anni. Fitoplasmosi Le malattie causate da fitoplasmi vengono comunemente indicate con il nome di ”giallumi della vite” (Grapevine Yellows: GY); raggruppano gravi forme infettive, scoperte verso la metà degli anni ’50 e presenti in molte aree viticole del mondo, ma in particolare di quelle europee. Due sono le malattie che, nel corso degli anni, hanno assunto grande importanza per la loro pericolosità e dannosità: la flavescenza dorata (FD) e il legno nero (BN). Entrambi inducono sintomi indistinguibili, ma ciascuna di esse si caratterizza per un diverso comportamento epidemico. Flavescenza dorata è la forma di giallume che desta le maggiori preoccupazioni, avendo dimostrato fin dalla sua prima comparsa in Francia un carattere epidemico molto grave; in base alle norme previste dall’Unione Europea, è compresa tra le malattie da quarantena. Il legno nero è stato invece considerato una malattia poco pericolosa con com-
Foglie con enazioni
Gruppi di fitoplasmi isolati in Italia
• 16SrI: Aster yellows (AY) = giallume
dell’astro occasionalmente presente, individuato in alcune regioni
• 16SRIII: Peach disease (CX) = malattia X del pesco, isolato solo su qualche campione in Veneto e Friuli
• 16SrV: Elm yellows (EY) = giallume
dell’olmo, è il gruppo di maggiore interesse e più pericoloso, comprende gli agenti della flavescenza dorata. Racchiude diversi sottogruppi, che si associano a tipi di malattia e che fanno riferimento anche alle aree di identificazione
• 16SrXII: gruppo Stolbur (STOL) e Bois
noir (BN) con il sottogruppo 16SrXII-A, a cui appartengono gli isolati europei responsabili del legno nero e che si trova in tutte le regioni Fitoplasmosi su Cabernet Sauvignon
394
virosi e fitoplasmosi portamento definito di tipo endemico per la sua lenta e graduale diffusione; nonostante ciò risulta una malattia in continua espansione in Italia, in Europa e anche in altri continenti. I fitoplasmi sono organismi unicellulari, visibili solo al microscopio elettronico, in quanto il loro diametro medio non supera il micron. Sono simili ai batteri, ma sono privi di parete cellulare, e non si possono coltivare su substrati artificiali in vitro. Come tali, vengono inclusi nella classe dei Mollicutes; secondo la recente tassonomia, appartengono al nuovo genere Candidatus (Ca), che comprende differenti specie, tra le quali si trovano Ca. Phytoplasma vitis, agente della flavescenza dorata, e Ca. Phytoplasma solani agente del legno nero. Attraverso l’esame delle caratteristiche biologiche e della struttura molecolare, è stata costruita una suddivisione dei fitoplasmi in differenti gruppi ribosomici (gruppi 16Sr), individuando al loro interno un elevato numero di sottogruppi. I fitoplasmi si trovano principalmente a livello dei tubi cribrosi del floema, dove si moltiplicano ininterrottamente; vengono trasmessi naturalmente da insetti vettori, attualmente identificati fra gli emitteri, quali le cicaline e le psille.
Cenni storici sui fitoplasmi
• Le prime segnalazioni sulla loro
comparsa in Europa si riferiscono a forme di giallume osservate in vigneti francesi negli anni ’50
• Una malattia simile, indicata con
il nome di Vergilbungskrankheit (VK), venne segnalata nello stesso periodo anche nella Valle della Mosella (Germania)
• Inizialmente la nuova avversità
parassitaria era ritenuta di natura virale, ma presto venne riconosciuta la sua diversa natura, data la sua trasmissibilità tramite alcune specie di cicaline e la possibilità di ottenere fenomeni di guarigione su viti precedentemente ammalate
Sintomi delle fitoplasmosi Le viti colpite da fitoplasmosi si possono riconoscere facilmente rispetto a quelle sane; esse presentano sintomi di varia intensità, che vanno da lievi alterazioni cromatiche, circoscritte a poche foglie di alcuni tralci, fino a forme molto gravi, caratterizzate da deperimenti estesi e irreversibili, i quali possono indurre la morte della pianta. Fin dal primo apparire della nuova ampelopatia vennero attribuiti nomi diversi, legati principalmente alla peculiarità dei sintomi: flavescence dorée (FD) fu usato per descrivere la malattia, osservata nei vigneti del Sud della Francia, che si caratterizzava per una forma di diffusione a carattere epidemico e per la presenza di spiccati giallumi fogliari sulle varietà a uva bianca, oppure di vistosi e caratteristici rossori sulle foglie delle varietà a bacca nera; il nome di bois noir o legno nero era stato usato per indicare la malattia a comportamento endemico, che provocava l’imbrunimento dei tralci, rilevabile a fine inverno sulle viti che erano state colpite da giallumi durante l’estate. Le infezioni da fitoplasmi, che hanno habitat floematico, provocano alterazioni a carico del sistema vascolare delle nervature, dei piccioli fogliari, dei vasi linfatici e dei tessuti cambiali, in particolare sui tralci e sugli organi legnosi ancora giovani, in maniera tale da impedire la migrazione delle sostanze elaborate dalle foglie verso l’uva e gli altri organi di riserva. L’osservazione dei sintomi costituisce quindi il sistema di diagnosi facile e immediato; permette di riconoscere chiaramente le viti affette da fitoplasmosi piuttosto che da altre avversità parassitarie
• Solo negli anni ’70 fu definita la vera
natura eziologica dell’ampelopatia, attribuita a Mycoplasma-like organisms (MLO), in seguito chiamati fitoplasmi
• In quegli stessi anni, la malattia venne
individuata anche in Italia, in vigneti dell’Oltrepò Pavese e, poco dopo, in altre zone viticole di Piemonte, Lombardia e della provincia di Piacenza
• A partire dagli anni ’90, i giallumi
assunsero una notevole recrudescenza in alcuni vigneti del Veneto, dimostrandosi molto pericolosi per la rapidità con cui si stavano diffondendo
• Solo grazie all’avvento delle tecniche diagnostiche di biologia molecolare, fu possibile stabilire che si trattava propriamente di flavescenza dorata
395
coltivazione o da fisiopatie, che possono provocare sintomi dello stesso tipo. Per una corretta diagnosi, i controlli di campo devono essere fatti in momenti diversi, ispezionando e controllando contemporaneamente le foglie, i tralci e, qualora presenti, i grappoli. Nella maggioranza dei casi, i sintomi si manifestano a partire dalla fase di allegagione degli acini, tendono ad aumentare progressivamente con l’avanzare della stagione vegetativa e culminano in corrispondenza della maturazione dell’uva. Nel caso di infezioni dovute specificatamente ai fitoplasmi della flavescenza dorata, i primi sintomi possono comparire poco dopo la ripresa vegetativa delle piante, causando gravi danni sui giovani germogli. Le foglie ammalate presentano un’intensa e difforme colorazione della lamina, che varia dal giallo-vivo, per le varietà a uva bianca, al rosso-intenso e vivace nelle varietà a bacca nera; in entrambi i casi assumono una particolare lucentezza con riflessi metallici evidenti sulla pagina superiore. Il viraggio del colore può interessare l’intero organo, qualche volta solo le nervature, che si colorano intensamente, assumendo varie tonalità in funzione della peculiarità del vitigno; in molti casi esso si estende a settori che restano bene delimitati dalle nervature. Su molte varietà (per esempio Chardonnay, Pinot, Cabernet franc, Merlot ecc.) la malattia, se associata alla virosi dell’accartocciamento, provoca un accentuato arrotolamento del lembo fogliare, che piega vistosamente verso il basso, provocando caratteristiche forme triangolari o poligonali; la lamina diventa bollosa, spessa, coriacea, fragile e scricchiolante al tatto. In altri vitigni, quali Cabernet Sauvignon, Barbera, Incrocio bianco 6.0.13, Prosecco, Sauvignon bianco, Trebbiano toscano ecc., le foglie prendono colorazioni vivaci, assumono una maggiore consistenza rispetto alla norma, pur mantenendo una forma alquanto distesa. In tutti i casi, quelle colpite da giallume invecchiano precocemente, presentano necrosi nervali con imbrunimenti e si staccano anticipatamente dal picciolo. Sulle viti colpite da sintomi precoci, le foglie neoformate manifestano un accentuato accartocciamento, diventano luccicanti, bollose, papiracee, di consistenza cristallina e si rompono facilmente; i germogli si atrofizzano e cessano di crescere. I tralci rimangono erbacei, oppure raggiungono una irregolare lignificazione con colorazione verde-sbiadito, tendente al grigioverdastro. Essi assumono consistenza spugnosa e gommosa, presentano uno sviluppo ridotto, accompagnato, a volte, da andamento a zig-zag; diventano molli e flessuosi con comportamento ricadente, presentano fenditure longitudinali sui meritalli basali. In alcune varietà, il parenchima corticale dei tralci colpiti risulta ricoperto da piccole e numerose pustole, dall’aspetto oleoso e brunastro, che emergono dall’epidermide rendendolo ruvido.
Fitoplasmosi su Chardonnay
Garganega con fitoplasmosi
Rossori settoriali su Cabernet franc
396
virosi e fitoplasmosi L’intensità dei sintomi varia in relazione al momento della comparsa della malattia; durante l’inverno i tralci non significati diventano di colore grigio-bruno, dando luogo alla forma di “legno nero”, rendendo facilmente riconoscibili le piante o i capi a frutto danneggiati al momento della potatura invernale. I grappoli presentano varie forme di sintomi, che assumono intensità e dannosità variabili in funzione del momento in cui le piante si ammalano: atrofizzazione e appassimento delle infiorescenze, aborto dei fiori, disseccamento dei raspi e/o avvizzimento degli acini. In genere, la produzione di uva viene fortemente compromessa; i danni variano in funzione della suscettibilità del vitigno, del tipo di fitoplasma, dell’epoca di comparsa dei sintomi sulle foglie e sui tralci. Si possono quindi verificare le seguenti situazioni: – nel caso di piante con sintomi molto precoci, le infiorescenze rimangono bloccate, non si distendono e seccano; – nelle forme con sintomi precoci di GY si può avere l’aborto dei fiori: il raspo, denudato degli acini, secca interamente, può rimanere attaccato al tralcio per un breve periodo, oppure si stacca per la mancanza di acini allegati; – quando la malattia compare dopo l’allegagione, i grappoli rimangono attaccati al tralcio, portano pochi acini sparsi e raggrinziti, che si staccano facilmente dal rachide; l’uva rimasta non raggiunge la maturazione e non si presta quindi alla vinificazione. Sui portinnesti affetti da GY si possono osservare sintomi simili a quelli sopra descritti, pur rimanendo localizzati su pochi tralci: le foglie ammalate accartocciano vistosamente, assumono consistenza coriacea, colorazioni anomale e “flavescenti” e presentano necrosi nervali; i tralci restano sottili, elastici con necrosi longitudinali e lignificano in maniera irregolare.
Fitoplasmosi su portinnesto
Tralci erbacei e defogliazioni per GY
Danni su grappoli e tralci per GY Sintomi di accartocciamento fogliare e fitoplasmi su Cabernet franc
397
coltivazione Andamenti epidemici e dannosità delle fitoplasmosi Casi con vigneti affetti da fitoplasmosi sono stati segnalati in tutte le regioni viticole d’Italia, così come si è verificato, in varia misura, anche in altri Paesi viticoli d’Europa, più o meno vicini all’Italia. Per quanto riguarda la situazione nazionale, la frequenza e l’incidenza di flavescenza dorata e di legno nero variano in funzione delle regioni e degli ambienti. Nello stesso territorio viticolo si possono trovare malattie appartenenti a un unico gruppo di fitoplasmi, mentre in altre zone possono coesistere malattie diverse, causate da differenti gruppi e sottogruppi di fitoplasmi. Si possono quindi avere infezioni miste nello stesso vigneto e, seppure raramente, anche nella stessa pianta. Per quanto riguarda la distribuzione delle malattie, si richiama che FD è diffusa nelle regioni settentrionali, dove è comparsa per prima in Veneto, Lombardia, Piemonte e successivamente in Liguria, Friuli-Venezia Giulia, Trentino, Emilia-Romagna; in tempi più recenti nuovi focolai infettivi sono stati identificati in alcune province della Toscana, delle Marche, dell’Umbria e, solo da poco, anche in alcuni comuni della Valle d’Aosta. In assenza di adeguati interventi di prevenzione e di protezione, la malattia si diffonde in maniera rapida e colpisce molte piante, mentre può essere circoscritta e sufficientemente contenuta, adottando le strategie previste dai decreti di lotta obbligatoria. Il legno nero è una malattia ubiquitaria, in quanto la sua presenza è segnalata in tutte le regioni italiane, oltre che nella maggior parte dei Paesi viticoli d’Europa. Anche se ritenuto meno pericoloso e dannoso rispetto a FD, risulta in continua espansione in nuovi ambienti viticoli e, nonostante i tentativi di eradicazione intrapresi da molti anni, è la malattia più ricorrente al nord, nelle zone di primo insediamento. I danni imputabili alle fitoplasmosi dipendono pertanto dal tipo di patogeno, dalla suscettibilità varietale e dall’età delle piante al momento dell’infezione. Di maggiore rilievo sono i danni sulle
Diagnosi delle fitoplasmosi
• La diagnosi dei giallumi da fitoplasmi
per lungo tempo è stata affidata all’osservazione dei sintomi; solo grazie alle tecnologie di laboratorio è invece possibile individuare gli agenti patogeni
• L’impiego della microscopia elettronica
non è stato risolutivo per la diagnosi, a causa dell’esiguo numero di patogeni rinvenuti nei tessuti delle viti infette e per laboriosità del procedimento, così come per i test sierologici, la cui applicazione ha incontrato problemi legati alla difficoltà di purificazione degli antigeni e la scarsa affidabilità dei test applicati ai fitoplasmi
• Solo con l’avvento delle biotecnologie
e l’ausilio della PCR sono stati raggiunti importanti successi, permettendo di evidenziare la presenza dei fitoplasmi anche quando sono presenti a basse concentrazioni. La positività di un campione stabilisce la presenza di fitoplasmi senza indicarne la collocazione tassonomica; per la sua caratterizzazione bisogna fare ricorso al saggio RFLP (Restriction Fragment Length Polymorphism)
Sintomi precoci e danni su Chardonnay
398
virosi e fitoplasmosi produzioni, dovuti alla perdita di grappoli e alla mancata maturazione dell’uva, qualora i grappoli siano parzialmente colpiti dalla malattia. Nel caso di vitigni molto sensibili, tra i quali si possono citare Chardonnay, Riesling, Manzoni bianco, si ha un progressivo deterioramento dell’impianto: il perdurare dei sintomi per più anni provoca il graduale indebolimento delle piante per il mancato accumulo di sostanze di riserva sui tralci, sul fusto e sulle radici. Il declino generale delle viti risulta tanto più rapido e intenso quanto più gravi sono i sintomi e quanto più giovani sono le piante colpite. All’opposto, su vitigni considerati più tolleranti ai GY e in condizioni colturali di buon equilibrio vegetativo delle piante, si può avere la remissione della malattia. Il fenomeno della guarigione, che può essere definitiva o solo temporanea, trova maggiore possibilità di successo intervenendo con tempestività sulle piante affette da GY, mediante accurati interventi di potatura e adeguate forme di lotta contro i vettori di fitoplasmi.
Alterazioni cromatiche su foglia
Trasmissione dei fitoplasmi Le fitoplasmosi della vite possono essere trasmesse tramite le operazioni di innesto e il ruolo di alcune cicaline. Prove sperimentali di sovrainnesto e di innesti fatti a tavolo, utilizzando materiali viticoli prelevati da piante affette sia da FD sia da LN, hanno dato esiti positivi per la trasmissione delle fitoplasmosi. In ogni caso, si è visto che il rischio di ottenere barbatelle ammalate è molto basso, in quanto l’uso di marze e/o di talee poco lignificate, raccolte appositamente da viti con sintomi di GY, non favorisce il normale attecchimento degli innesti-talea; rimane comunque una minima possibilità di ottenere nuove barbatelle infette, che in poco tempo evidenziano i sintomi della malattia in vivaio, permettendone quindi la loro estirpazione. La trasmissione tramite insetti vettori rappresenta la più comune e rischiosa forma di diffusione delle fitoplasmosi. Il vettore naturale di FD è Scaphoideus titanus, cicalina originaria dal Nord America e che vive esclusivamente su vite; venne individuata in Francia nel 1961, da dove poi si è diffusa in gran parte dei Paesi viticoli d’Europa. In Italia, S. titanus si è progressivamente espanso, passando dalle regioni settentrionali verso quelle del centro e del meridione. Il legno nero invece viene trasmesso da altre specie di cicaline, tra le quali assume maggiore importanza pratica il cixiide Hyalestes obsoletus, le cui forme giovanili vivono sulle radici di ortica, convolvolo e altre piante erbacee, mentre gli adulti si possono spostare anche su vite. Il ruolo dei vettori è fondamentale per la trasmissione e la diffusione delle malattie, che possono avvenire in maniera diretta o indiretta: S. titanus trasmette direttamente il fitoplasma della flavescenza spostandosi da viti infette a quelle sane; nel caso invece di vettori non obbligatoriamente ampelofaghi, come di H.
Prosecco con giallumi su nervature fogliari
Neanide di Scaphoideus titanus
399
coltivazione obsoletus, si può avere la trasmissione indiretta, con il passaggio del vettore da piante erbacee e spontanee infette a piante di vite. Questo comportamento ha assunto importanti riflessi sugli andamenti epidemici dei giallumi, dal momento che i fitoplasmi della vite si possono trovare anche su piante spontanee che vivono nei vigneti o nelle siepi. Il fitoplasma associato a FD è stato infatti isolato da molti campioni di Clematis vitalba, lianacea che vive sulle siepi ai bordi dei vigneti; altrettanto note sono le informazioni sulla presenza di fitoplasmi del gruppo 16SrXII su molte piante spontanee, quale convolvolo.
Foto R. Angelini
Difesa da virus e fitoplasmi Fin da tempi remoti la selezione massale, forma semplice ed efficace di miglioramento genetico, è stata considerata un metodo valido per isolare biotipi dotati di pregevoli caratteristiche produttive e per il controllo delle malattie infettive.
Clematis vitalba
Virosi Le norme sulla certificazione hanno rappresentato una importante tappa ai fini del controllo sanitario sui materiali di moltiplicazione; di riflesso, essi hanno dato inizio alle attività di selezione clonale, condotte nel rispetto di protocolli operativi e finalizzate a escludere il più elevato numero possibile di virus e di virosi. Le misure di prevenzione comprendono quindi tre importanti azioni: – selezione clonale e sanitaria; – propagazione e moltiplicazione di materiale esente da virus; – interventi di profilassi contro nuove contaminazioni virali in vigneto.
Regolamentazione dell’attività vivaistica
• Attualmente il sistema di produzione
e di commercializzazione dei materiali viticoli è regolamentato dalla Direttiva 2005/43 CE della Commissione e dal DM 7 luglio 2007, in cui sono indicati gli organismi nocivi, dei quali deve essere certificata l’esenzione e che, per la normativa italiana, comprendono:
Selezione clonale sanitaria. L’attività di selezione clonale trova applicazione nell’ambito di programmi di valorizzazione e di miglioramento genetico e mira al reperimento e all’isolamento di biotipi ritenuti pregevoli per le loro caratteristiche agronomiche, produttive e sanitarie. In particolare, l’obiettivo della selezione della vite prevede l’ottenimento di nuovi cloni esenti dai virus dannosi. Gli accertamenti sanitari diventano quindi parte integrante e principale di un processo operativo, attuato da ampelografi, agronomi ed enologi e destinato a reperire, valutare e valorizzare nuovi biotipi, scelti per le loro peculiarità genetiche, agronomiche e per le potenzialità produttive ed enologiche. Nel caso in cui il biotipo selezionato risulti affetto da virus, si può fare ricorso a interventi di risanamento. Questa tecnica prevede interventi che possono essere applicati separatamente o congiuntamente attraverso le seguenti fasi: – termoterapia di viti virosate, allevate in vaso: trattamento di risanamento fatto in celle climatiche alla temperatura di 37-38 °C, umidità relativa e fotoperiodo adeguati e per un periodo di 2-4 mesi, in funzione del virus da eliminare;
- agenti del complesso della degenerazione infettiva: virus dell’arricciamento (GFLV) e del mosaico dell’Arabis (ArMV); - agenti del complesso dell’accartocciamento fogliare: virus associati GLRaV-1 e GLRaV-3; - agente del complesso del legno riccio: virus A (GVA); - agente della maculatura infettiva (GFKV) per i portinnesti
400
virosi e fitoplasmosi – espianto di apici vegetativi, prelevati da viti termotrattate o anche direttamente da germogli della pianta da risanare; – coltura in vitro degli apici per la rigenerazione di nuove plantule, presumibilmente sane; – test sanitari in itinere per la verifica del livello di risanamento raggiunto; – eventuali nuovi interventi di terapia su materiale in fase di coltura in vitro; – ambientamento, allevamento, conservazione, propagazione e moltiplicazione delle nuove piante. Il lavoro di selezione clonale richiede inoltre la costituzione di appositi vigneti per la valutazione e il confronto dei presunti cloni con l’esame delle loro attitudini agronomiche e produttive nel corso di più annate. Nel caso di uve da vino, l’uva verrà destinata a mini-vinificazioni per la valutazione dei parametri organolettici e delle peculiarità e delle attitudini enologiche. Al termine del periodo di studio, compreso tra 8-12 o più anni, superati positivamente i vari test agronomici, produttivi e sanitari, viene fatta richiesta di omologazione del nuovo clone al Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali e di iscrizione ufficiale al Registro Nazionale delle Varietà di Vite.
Fasi della selezione sanitaria
• Controlli macroscopici sulle piante
selezionate: accertamenti sanitari su virosi palesi (arricciamento e malformazioni infettive, legno riccio, accartocciamento fogliare); prime valutazioni sulla suscettibilità alle malattie crittogamiche
• Mantenimento in purezza genetica
e sanitaria delle piante capostipiti, destinate alla costituzione della fonte primaria del presunto clone
• Progressivi screening sanitari mediante test ELISA e/o test molecolare di tipo PCR per la ricerca dei virus
• Saggi biologici legnosi per l’esame di virosi palesi sulle viti indicatrici
Moltiplicazione e certificazione. Solo al termine del lungo processo di selezione, il nuovo clone può entrare nel circuito della distribuzione, che viene fatta sotto la responsabilità del costitutore o di un suo avente causa, il quale ha l’obbligo di garantire l’autenticità genetica del clone e il livello sanitario, dichiarato all’atto della richiesta di omologazione. Vivaio
Foto M. Stefanini
401
coltivazione Profilassi contro nuove contaminazioni. I materiali viticoli, allevati e custoditi nelle strutture protette e nei piantonai di piante madri (PM) devono essere monitorati per assicurare la rispondenza genetica e il rispetto dei requisiti sanitari previsti dalla legge. In considerazione del fatto che si possono verificare casi di contaminazione virale a opera di insetti e di nematodi, vanno adottate le seguenti strategie di profilassi: – i terreni destinati a ospitare gli impianti di PM devono essere liberi da nematodi vettori di virus; si rendono pertanto necessari esami nematologici dei terreni ed eventuali trattamenti nematocidi prima di effettuare i nuovi impianti; – mantenere una adeguata distanza da vecchi vigneti, al fine di prevenire la diffusione di virus trasmissibili tramite insetti vettori; – interventi di lotta antipassitaria in funzione del rischio epidemico, prevedendo mezzi di difesa efficaci contro le cocciniglie; – nel caso di contaminazioni virali, accertate anche su poche piante, attuare una sospensione preventiva della raccolta di materiale da innestare. La sorveglianza sanitaria sui piantonai di PM deve essere quindi continua, per poter isolare ed eliminare tempestivamente i focolai infettivi, allo scopo di impedire la diffusione delle virosi tramite la commercializzazione di viti già infette.
Classificazione dei materiali di moltiplicazione
• In base alla Direttiva 2005/43 CE
della Commissione, i materiali di propagazione e moltiplicazione vengono classificati: - materiale iniziale: derivato direttamente dalla pianta capostipite o fonte primaria dopo il superamento dei test sanitari, è formato da 3-5 piante ed è conservato dal costitutore in apposite strutture protette - materiale di categoria base: derivato dalla moltiplicazione del materiale iniziale, formato ancora da poche piante, coltivate in appositi vigneti (campi di base) e moltiplicato dai centri di pre-moltiplicazione in quantità congrua alle esigenze per la successiva categoria
Fitoplasmosi La lotta contro i giallumi prevede precise strategie di prevenzione e di protezione fitosanitaria. Forme di lotta diretta sono possibili solo per il contenimento delle cicaline vettrici, in particolare intervenendo correttamente contro S. titanus. In primo luogo è importante monitorare i vigneti per verificarne la presenza, ispezionando le foglie basali durante il periodo primaverile e quelle dell’intera pianta durante l’estate. Gli interventi insetticidi vanno eseguiti curando la copertura di tutto il fogliame e trattando anche le parti basali del tronco. I successi della lotta insetticida dipendono dalle strategie adottate nell’intero territorio, per evitare nuove migrazioni delle cicaline da vigneti non difesi in modo adeguato. Poco o nulla si può fare contro i vettori del legno nero, dal momento che H. obsoletus non vive abitualmente su vite. La cura del cotico erboso nel vigneto e nelle aree adiacenti, come pure il controllo della flora spontanea, in grado di ospitare fitoplasmi pericolosi per la vite, possono costituire un deterrente utile per impedire la trasmissione delle malattie mediante insetti. Per il contenimento dei giallumi, in particolare di FD, la normativa fitosanitaria comunitaria (Direttiva 2000/29/CE del Consiglio dell’8 maggio 2000) impone che gli Stati membri adottino le misure utili a evitare la diffusione della malattia all’interno dell’Unione Europea. In particolare, gli interventi di prevenzione e di lotta, previsti dal DM 31 maggio 2000, trovano ampia applicazione nella filiera di produzione vivaistica, essendo previsto l’obbligo dei controlli sui
- materiale di categoria certificato: coltivato presso i vivaisti o strutture di moltiplicazione, destinato alla produzione di talee di portinnesti e di marze per l’ottenimento di barbatelle, da destinare alla costituzione dei nuovi vigneti - materiale di categoria standard: comprende varietà di vite europea prive di cloni; anche questi materiali devono essere esenti da sintomi macroscopici di virosi
402
virosi e fitoplasmosi piantonai di PM e sui barbatellai, al fine di assicurare la sanità dei materiali destinati alla moltiplicazione viticola; per le aree già colpite da FD e interessate dalla presenza di S. titanus, esiste l’obbligo della lotta insetticida contro il vettore. I materiali di moltiplicazione e le barbatelle prodotte in condizioni di sicurezza sanitaria vengono munite di passaporto fitosanitario, che attesta l’assenza della malattia durante le fasi di propagazione e di moltiplicazione. La tecnica della termoterapia ad acqua calda sui materiali viticoli viene proposta come ulteriore rimedio per eliminare i fitoplasmi e le eventuali uova di S. titanus; sono ancora in corso sperimentazioni per verificarne i vantaggi, ma anche eventuali inconvenienti sulla capacità di ripresa vegetativa delle viti termotrattate. Non esiste quindi un unico metodo per contenere i danni causati dalle fitoplasmosi, in quanto molti fattori concorrono a favorire l’espandersi delle malattie. È di fondamentale importanza rispettare le misure di lotta obbligatoria previste per il contenimento della flavescenza dorata. Solo gli interventi condotti in maniera collettiva contro S. titanus possono portare a indubbi vantaggi; essi devono essere fatti in tutti i vigneti compresi nelle zone a rischio e devono riguardare anche i poderi di piccole dimensioni. L’espianto delle viti ammalate diventa obbligatorio nelle aree focolaio e di insediamento della flavescenza dorata; tuttavia, e indipendentemente dal patogeno, è sempre opportuno togliere le viti ammalate quando sono ancora giovani, intervenendo fin dalla prima manifestazione dei sintomi di giallume.
Prevenzione dalle fitoplasmosi
• Non esiste un unico metodo per
contenere i danni causati dalle fitoplasmosi, in quanto molti fattori concorrono a favorire l’espandersi delle malattie
• È di fondamentale importanza
rispettare le misure di lotta obbligatoria previste per il contenimento della flavescenza dorata. Solo gli interventi condotti in maniera collettiva contro S. titanus possono portare a indubbi vantaggi; essi devono essere fatti in tutti i vigneti compresi nelle zone a rischio e devono riguardare anche le aziende agricole di piccole dimensioni
Foto R. Balestrazzi
403
la vite e il vino
coltivazione Ocratossine in uva e vino Paola Battilani, Michele Borgo
www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche.
coltivazione Ocratossine in uva e vino Introduzione Le principali malattie della vite, quali peronospora, oidio, o muffa grigia, vengono gestite secondo schemi consolidati; sono disponibili agrofarmaci che permettono un buon contenimento dei danni e non creano quindi particolari preoccupazioni ai viticoltori. Nel 2005, il Regolamento Europeo 123/2005 ha portato all’attenzione altri funghi, non per i danni diretti che causano sull’uva, ma perché produttori di ocratossina A (OTA). Si tratta di una potente tossina con effetti dannosi a livello renale per tutte le specie animali testate, a eccezione dei ruminanti adulti; è cancerogena per i roditori e provoca effetti teratogeni, immunotossici e probabilmente anche neurotossici e genotossici. Sembra, inoltre, essere coinvolta nella nefropatia endemica dei Balcani, malattia associata allo sviluppo di tumori del tratto urinario nell’uomo. L’ocratossina è al momento l’unica micotossina segnalata nell’uva e nei suoi derivati. Identificata per la prima volta nel vino in uno studio svolto in Svizzera nel 1996, OTA è stata poi riscontrata anche nei succhi di uva e, a concentrazioni ben più rilevanti, nell’uva passita. Dal 1996 sono state condotte varie indagini in diversi Paesi europei e in Marocco, Tunisia, Sud Africa, Giappone e Australia, che hanno confermato la presenza di OTA nei prodotti derivati dall’uva con frequenza e livello diverso a seconda delle aree di coltivazione della vite. Nel vino è stato osservato un gradiente sia su base geografica sia in relazione al colore; l’incidenza e la concentrazione di OTA sono risultate superiori nelle regioni dell’Europa meridionale, con un gradiente positivo nell’ordine: bianco < rosé < rosso.
Limiti di ocratossina (OTA) ammessi
• L’unione Europea ha fissato per il vino
(riconosciuto secondo solo ai cereali nella classifica degli alimenti che apportano OTA alla nostra dieta) un limite massimo di presenza di 2 μg/kg, limite valido anche per i succhi d’uva, aumentato a 10 μg/kg per l’uva passita
Ocratossina A nei vini italiani In Italia sono state svolte diverse indagini per verificare la reale contaminazione dei vini. La prima ricerca, condotta su vini prodotti nel periodo 1994-1997, ha confermato che l’area geografica di produzione delle uve è uno dei fattori di maggiore rilevanza per il contenuto di tossina. I vini prodotti nel sud Italia sono più contaminati, in particolare i rossi. Nel periodo di studio la contaminazione media è stata intorno a 0,05 μg/l nelle regioni del nord e 1,3 μg/l in quelle del sud. Un successivo studio, relativo al periodo 1998-2003, che ha compreso varie centinaia di campioni di vino italiano di varie provenienze geografiche, ha ancora confermato il sud come decisamente più a rischio; dei campioni raccolti in questa area il 25% rientrava nel range 0,1-1,0 μg/l, il 5% nel range 1,0-2,0 μg/l mentre il 3% superava il limite di legge (2 μg/kg) . Parallelamente, uno studio eseguito dal 1999 al 2004 su oltre 500 campioni di vino italiano, oltre ad avere confermato le maggiori contaminazioni del sud, ha sottolineato l’importanza dell’anno di produzione. Infatti, il 1999 è risultato l’anno di maggiore contaminazione, con il 32% dei cam-
Sviluppo di muffe nere su uva
404
ocratossine in uva e vino pioni analizzati al di sopra dell’attuale limite di legge, mentre nel 2000 e 2001 il contenuto di OTA non ha mai superato i 2 μg/l e nel 2004 è sempre stato inferiore a 1 μg/l. I risultati raccolti a livello italiano mostrano che la contaminazione da OTA è un possibile problema nei vini rossi prodotti nelle aree meridionali, ma, combinando le stime dei consumi e i livelli di contaminazione dei vini, si può affermare che l’esposizione dei consumatori italiani non è preoccupante. Funghi produttori di ocratossina A in vigneto I funghi responsabili della presenza di OTA nelle uve appartengono ad Aspergillus sezione nigri, detti anche aspergilli neri o black aspergilli per il colore della muffa che producono. Diverse sono le specie isolate dall’uva, ma A. carbonarius è riconosciuto come il principale responsabile. I black aspergilli si conservano principalmente nel terreno e sono generalmente presenti in tutte le aree di coltivazione della vite. Si possono trovare sui grappoli già dall’allegagione, ma la loro presenza cresce sensibilmente all’invaiatura e raggiunge il massimo in prossimità della maturazione. La penetrazione dei funghi ocratossigeni all’interno delle bacche, che causa marciume e precede la comparsa di muffe visibili, avviene di preferenza quando
Sviluppo di muffa nera su acini d’uva. Il punto d’inserimento del picciolo sull’acino è una via preferenziale d’ingresso di questi funghi
Ocratossina A rilevabile
OTA è rilevabile solo da inizio invaiatura La maggiore incidenza di Aspergilli neri si riscontra tra l’inizio dell’invaiatura e la maturazione
Le bacche danneggiate presentano un alto rischio di accumulo di OTA
Le spore sono trasportate principalmente dal vento
I rischi di contaminazione aumentano in caso di attacchi di oidio e tignoletta
Il suolo e i residui colturali sono le principali fonti di inoculo
Cultivar e tipologia della forma di allevamento influenzano la produzione di OTA
405
coltivazione le bacche sono danneggiate, ma è possibile anche in bacche apparentemente integre, soprattutto durante la maturazione. Spesso queste muffe non si possono identificare con una semplice visita in campo, ma sono necessarie analisi di laboratorio. Infatti, le muffe nere sono raramente presenti in modo manifesto sui grappoli, soprattutto nel nord Italia, mentre sono più frequenti nelle regioni del sud. L’osservazione di muffe nere è spesso associata alla presenza di OTA; la tossina può essere presente anche in grappoli asintomatici, ma la concentrazione è sempre maggiore nel caso di muffe nere visibili. Gli ammuffimenti neri sugli acini non sono mai stati considerati rilevanti per gli effetti diretti che causano sulla produzione di uva, ma lo sono oggi, in seguito alla normativa europea, ripresa nel Regolamento 1881/2006 che ha comunque confermato i limiti precedentemente citati. Si possono notare notevoli differenze di contaminazione in uve prodotte in diverse aree geografiche e in differenti anni. L’incidenza di bacche con aspergilli neri in corrispondenza della maturazione, ovvero il numero di bacche infette rispetto al totale di quelle osservate, dipende da latitudine e longitudine della zona di coltivazione e mostra un gradiente positivo da ovest a est e da nord a sud nell’emisfero nord.
Incidenza di OTA nei vari Paesi
• Le maggiori incidenze di OTA sono
state osservate in Israele, Grecia e nel sud della Francia, aree in cui è stata riscontrata anche la massima diffusione di A. carbonarius; incidenze rilevanti sono state osservate anche nel sud della Spagna e nel sud Italia
Diffusione di A. carbonarius
Conidiofori di A. carbonarius
0-10 10-20 20-30 30-50 50-100
Ocratossina nell’uva L’ocratossina, misurata nelle varie fasi di sviluppo del grappolo, risulta generalmente assente almeno fino a inizio invaiatura e comunque, anche quando presente, il suo contenuto non è correlato ai livelli riscontrati alla raccolta. Quindi, il periodo compreso tra inizio invaiatura e raccolta è cruciale per l’accumulo di questa tossina. I fattori più importanti nel determinare lo sviluppo di A. carbonarius sono quelli meteorologici. Negli anni più freschi e piovosi si nota una minore presenza dei funghi sui grappoli, mentre questi au-
Particolare di conidiofori di A. carbonarius
406
ocratossine in uva e vino mentano con clima caldo e secco. Le piogge negli ultimi 20 giorni di maturazione dei grappoli, indicativamente tra fine agosto e inizio settembre, sembrano favorire l’accumulo della tossina. Infatti, dal 1999, anno di avvio delle ricerche in Italia, a oggi la maggiore presenza di OTA alla raccolta è stata trovata nelle due annate con piogge abbondanti nel periodo finale di maturazione dei grappoli. L’area geografica, come detto, è un altro elemento importante, con gradiente positivo da nord a sud, con OTA presente solo in tracce al nord, anche negli anni più favorevoli alle muffe nere, e concentrazioni sempre più rilevanti al sud. Tecniche agronomiche I metodi di coltivazione della vite sono importanti in relazione alla possibile contaminazione da OTA dei grappoli. È stato osservato che vigneti localizzati nella medesima azienda e gestiti con pratiche colturali simili, possono mostrare notevoli differenze nel livello di contaminazione dovute ai vitigni e alle forme di allevamento. Riguardo alle varietà, sono disponibili solo pochi dati raccolti in vigneto, dai quali si possono trarre indicazioni, ma non conclusioni. È certo che esiste una differenza tra le varietà, sia in termini di suscettibilità all’infezione, ovvero di facilità di sviluppo del marciume, che di idoneità all’accumulo di OTA. Le ragioni non sono ancora state individuate; potrebbero essere cercate, per esempio, nello spessore della buccia o nella composizione chimica della bacca, ma per ora le ricerche non hanno portato a risultati interessanti. Le varietà a bacca bianca non contengono OTA o hanno contaminazioni molto basse. Dato che questa minore suscettibilità non è stata confermata da prove eseguite in vitro, è probabile che un contributo venga anche dalle modalità di coltivazione e dal fatto che la vendemmia è generalmente effettuata a un livello di maturità meno avanzato e quindi il periodo compreso tra invaiatura e raccolta ha durata minore. Le forme di allevamento della vite basse sembrano favorire la presenza di OTA, forse perché i grappoli sono più vicini al terreno e quindi alle fonti di inoculo, o per la concomitanza di un microclima più favorevole. I grappoli esposti alla diretta insolazione sembrano più contaminati rispetto a quelli protetti dall’irraggiamento solare, anche se questo non sembra in relazione al contenuto di tossina.
Il periodo compreso tra invaiatura e raccolta risulta il più favorevole all’accumulo di OTA, soprattutto per le uve rosse, maggiormente interessate al fenomeno Foto C. Cangero
Ocratossina A CO2H
O
CH2 CH N
C
O
OH
O
H Cl Residuo di fenilanina
H
H
H CH3
Forme di allevamento basse e a diretta esposizione dei grappoli all’irraggiamento solare favoriscono la presenza di Aspergilli neri
Residuo di isocumarina
407
coltivazione Il tipo di suolo è un altro fattore rilevante per discriminare tra alto e basso livello di contaminazione, visto che i vigneti su suolo argilloso sono più contaminati.
Avversità che favoriscono A. carbonarius
Ruolo delle avversità Gli aspergilli neri sono considerati essenzialmente dei saprofiti, responsabili di marciumi secondari. I danni meccanici o le ferite causate ai grappoli da insetti o altri agenti possono favorire l’ingresso dei funghi nelle bacche dove trovano un ambiente ideale per il loro sviluppo, soprattutto durante la maturazione. I dati sulla relazione tra avversità e contaminazione da Aspergillus sono limitati, ma una buona gestione di patogeni e parassiti nel vigneto consente senza alcun dubbio di abbattere in modo significativo la contaminazione da OTA.
• L’assenza di ferite sugli acini rende
minima la possibilità di infezione da parte del fungo e la sintesi della tossina
• La tignoletta (Lobesia botrana) è
la principale larva che danneggia i grappoli nei vigneti del sud Europa; è stata osservata una correlazione tra la presenza di OTA in uva e gli attacchi da tignoletta, legata alla presenza di ferite, ma anche al contributo che le larve possono dare alla disseminazione del fungo
Raccolta, conservazione e vinificazione La vendemmia è un momento importante. Nelle condizioni ad alto rischio, ovvero nelle aree più a sud, vicine al mare, in cui si siano verificate piogge a fine agosto, è consigliata una raccolta precoce, compatibilmente con le caratteristiche di qualità richieste per l’uva. L’accumulo di tossina avviene dall’invaiatura in poi, con il suo picco massimo in prossimità della maturazione; quindi, una raccolta precoce ha lo scopo di diminuire il tempo a disposizione del fungo per produrre la tossina. Questo fatto è tanto più importante quanto più gli acini sono danneggiati. La lunga sosta dell’uva raccolta è inoltre da evitare. Infatti, A. carbonarius è molto efficiente nella produzione di OTA; può produrre fino a 30 μg/kg di OTA per giorno con temperature intorno a 15 °C e tra 5 e 10 μg/kg per giorno con temperature fra 20 e 25 °C. Le uve da tavola sono molto curate in campo, viene prestata molta attenzione al controllo delle avversità, e questo riduce il rischio di attacco da A. carbonarius. Inoltre, le tecniche di conservazione normalmente utilizzate, in particolare la conservazione a 0 °C in presenza di SO2, impediscono l’attività del fungo e quindi l’incremento della tossina dopo la raccolta. Per tali motivi le uve da tavola sono a rischio molto basso per la presenza di OTA. Qualche problema può invece sorgere nella produzione di uve passite. Infatti, finchè l’umidità della bacca non si abbassa molto, lo sviluppo di A. carbonarius è possibile e quindi si può avere nuova produzione di tossina; inoltre, con la perdita di acqua dalla bacca si assiste a una naturale concentrazione della tossina. Infatti, è noto che le uve passite sono ad alto rischio di contaminazione. La quantità di tossina non aumenta durante la vinificazione. L’OTA passa nel mosto durante la pigiatura, ma con la macerazione si ha un ulteriore rilascio; quindi, nella vinificazione in rosso si assiste a un aumento di OTA, rispetto a quello rilevato nel pigiato dopo la macerazione. Le fermentazioni, alcolica e soprattutto malolattica, riducono il contenuto di OTA grazie all’azione dei microrganismi
• Fra le malattie fungine, gli attacchi di
oidio sembrano favorire l’infezione da parte di A. carbonarius
Grappolo con acini perforati da tignoletta Foto R. Angelini
Attacco di oidio
408
ocratossine in uva e vino coinvolti; sono state riscontrate differenze tra i ceppi di lieviti e batteri, quindi la scelta dei ceppi da addizionare al mosto per le fermentazioni può contribuire ad abbattere il contenuto di OTA. Le operazioni di illimpidimento che prevedono una separazione solido-liquido, quali i travasi, la sedimentazione naturale e l’intervento di coadiuvanti contribuiscono alla riduzione dell’OTA che viene, in parte, inglobata nel sedimento. Alcuni coadiuvati chimici autorizzati nella vinificazione in bianco, quali i carboni, possono contribuire a ridurre il contenuto di OTA. L’andamento del contenuto di OTA durante la vinificazione, a parità di livello iniziale, può quindi variare in relazione al tipo di vinificazione e alle scelte operate dall’enologo. Durante l’invecchiamento non si ha produzione di tossina, ma sembra piuttosto che si abbia una lenta riduzione.
Vinificazione in rosso
OTA (µ/kg)
8 6 4 2 0
M
OTA (µ/kg)
AF
MLF
C
Vinificazione in bianco
8
Prevenzione e detossificazione La gestione del problema OTA nella filiera vitivinicola è importante. La sintesi della tossina sembra possibile solo prima della raccolta o comunque prima dello stoccaggio o lavorazione dell’uva, quindi nella fase di produzione in campo si può operare una buona prevenzione. Sulla base delle conoscenze disponibili, la prevenzione si basa essenzialmente su una corretta gestione della difesa fitosanitaria della coltura. Infatti, anche se l’area geografica e l’andamento meteorologico svolgono un ruolo primario, l’assenza di ferite sugli acini rende minima la possibilità di infezione da parte del fungo e la sintesi della tossina. Ulteriori informazioni dovranno essere acquisite per definire il ruolo della forma di allevamento e della varietà. I punti di controllo durante la produzione si limitano alle fasi di invaiatura e maturazione, nelle quali si possono controllare rispettivamente i funghi, la presenza di danni alle bacche e, solo in prossimità della raccolta, la tossina. Nel post-raccolta è necessario gestire i grappoli in modo tempestivo, evitare le permanenze prolungate su piazzali e quindi esposizioni a temperature che mantengono il fungo attivo, e procedere rapidamente allo stoccaggio o alla lavorazione. L’attenzione in questa fase è d’obbligo, dato che durante la raccolta è probabile che si verifichino danni meccanici agli acini. Una macerazione più breve, la scelta dei microrganismi da utilizzare per le fermentazioni, le chiarifiche e l’uso di additivi ammessi possono contribuire a ridurre l’OTA quando la prevenzione non è stata sufficiente. I punti di controllo in post-raccolta possono essere individuati dopo ogni operazione, anche se un basso contenuto di OTA nel mosto è già garanzia di un prodotto idoneo. In conclusione, l’OTA è un potenziale problema per le produzioni vitivinicole, in particolare in alcune annate, ma adottando buone pratiche può essere tenuto sotto controllo. Nella risoluzione VITI-OENO 1/2005 dell’OIV sono definite nel dettaglio le linee guida per le buone pratiche sia durante la produzione sia durante la lavorazione delle uve.
MA
6 4 2 0
M
MA
AF
MLF
C
M = Mosto MA = Macerazione AF = Fermentazione alcolica MLF = Fermentazione malolattica C = Chiarifica
Vinificazione e OTA
• Il contenuto di OTA varia durante
la vinificazione, aumentando solo durante la macerazione eseguita per la produzione di vini rossi o rosati. Diversi studi riportano variazioni simili nelle varie fasi. Questo intervallo di variazione è rappresentato dalle 2 linee, rosa e blu, dei grafici posti sopra
• A parità di livello iniziale di OTA, in
questo caso ipotizzato pari a 5 μg/kg, a seconda delle condizioni di lavorazione, il contenuto può mantenersi al di sopra del limite di legge (2 μg/kg) o scendere a livelli accettabili. Quindi, anche se non viene prodotta OTA durante la vinificazione, i sistemi utilizzati possono contribuire a migliorare la sanità del vino
409
coltivazione Codice di buone pratiche vitivinicole L’OIV, in risposta ai limiti di presenza di OTA nei derivati dell’uva del 26 gennaio 2005, ha predisposto la risoluzione viti-oeno 1/2005 adottata nel corso dell’Assemblea generale tenutasi a Parigi il 24 ottobre 2005 e concernente il Codice di buone pratiche vitivinicole per prevenire e limitare al massimo la presenza di OTA nei prodotti derivati dalla vite. La risoluzione è stata recepita dal Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali il 16 Maggio 2006 e costituisce il riferimento anche per il territorio italiano. L’allegato 1 del DM riporta integralmente il testo della risoluzione che fornisce indicazioni per le pratiche da seguire sia in vigneto, quindi essenzialmente misure preventive, sia in cantina, con finalità correttive. L’applicazione delle indicazioni è particolarmente importante nelle condizioni climatiche favorevoli ai funghi produttori della tossina. Il contenuto dell’allegato 1 viene di seguito riassunto.
Organizzazione Internazionale della Vigna e del Vino (OIV)
• È stata creata mediante l’Accordo del 3 aprile 2001 e sostituisce l’Ufficio Internazionale della Vigna e del Vino istituito nel 1924
• È un organismo intergovernativo di tipo
scientifico e tecnico, con competenza riconosciuta nell’ambito della vite, del vino, delle bevande a base di vino, delle uve da tavola, delle uve secche e degli altri prodotti della vigna
• Sito internet: www.oiv.int
Interventi in vigneto Impianto del vigneto. È da preferire l’impianto in zone ben areate evitando le situazioni ambientali più umide, con parcelle omogenee (varietà, cloni) e sistemi di allevamento che consentano di facilitare le operazioni colturali e ottimizzare la gestione dei grappoli. Scelta del materiale vegetale. Sono da preferire i portinnesti meno vigorosi e le varietà di vite più adatte alle condizioni pedoclimatiche delle specifiche zone di coltura e meno sensibili allo sviluppo di muffe e di marciumi dell’uva. Tecniche di coltura. Si suggerisce l’applicazione di tecniche agronomiche utili a favorire gli equilibri foglie/frutto della vite e ridurre gli eccessi di vigore, in particolare evitando l’apporto non appropriato di concime azotato. Favorire la copertura del suolo con erba o sostanze organiche, evitando le lavorazioni del terreno tra l’inizio della fase di maturazione delle uve e la vendemmia. Se è necessario irrigare, farlo nel modo più regolare possibile, per evitare che gli acini scoppino e che compaiano fenditure sulla buccia. Protezione fitosanitaria. Sfoltire le foglie della vite vicino ai grappoli, tenendo conto del rischio di bruciature dal sole, in particolare nelle condizioni climatiche calde e umide durante la maturazione dell’uva. Evitare le lesioni sugli acini e le alterazioni della buccia causate da malattie, insetti e danni fitotossici, adottando piani di protezione della vite adeguati e riconosciuti; trattamenti specifici sono raccomandati in tutte le situazioni favorevoli allo sviluppo delle specie che producono tossine.
Obiettivi dell’OIV
• Indicare agli Stati membri
provvedimenti che tengano conto delle preoccupazioni dei produttori, dei consumatori e degli attori della filiera vitivinicola
• Assistere le altre organizzazioni
internazionali intergovernative e non governative, in particolare quelle che perseguono attività normative
• Contribuire all’armonizzazione
internazionale delle pratiche e delle norme esistenti e, per quanto necessario, all’elaborazione di nuove norme internazionali, per migliorare le condizioni di produzione e commercializzazione dei prodotti vitivinicoli e contribuire alla considerazione degli interessi dei consumatori
Interventi alla vendemmia È una premessa il fatto che solo una vendemmia di uve sane garantisce una qualità e una sicurezza ottimale dei prodotti vitivinicoli. Tutte le uve devono essere selezionate alla vendemmia allo scopo di scartare i grappoli o le parti di grappolo danneggiate da 410
ocratossine in uva e vino insetti e da muffe, specialmente quelle nere, o contaminate da polveri di terra. L’uva raccolta deve essere trasportata il più velocemente possibile in cantina soprattutto nel caso di uve con una abbondante formazione di succo. Si consiglia di stabilire la data di raccolta considerando il livello di maturazione dell’uva, il suo stato sanitario e le evoluzioni climatiche prevedibili, anticipando la raccolta in zone a rischio di OTA elevato. È importante pulire bene i recipienti dopo ogni trasporto di uva.
Cooperazione OIV con Organizzazioni Intergovernative
• OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità)
• UPOV (Unione per la Protezione delle Nuove Varietà Vegetali)
Interventi in appassimento Nel caso particolare di produzione di uva passita e di uve destinate a produrre vini passiti, si raccomanda di assicurare l’igiene dei recipienti destinati alla raccolta e/o all’appassimento delle uve e di utilizzare soltanto uve non danneggiate da insetti e non contaminate da muffe. Disporre le uve da fare seccare o appassire in un solo strato, evitando la sovrapposizione dei grappoli e favorire l’essiccazione progressiva e uniforme di tutte le parti del grappolo, evitando i ristagni di umidità.
• OMPI (Organizzazione Mondiale della Proprietà Intellettuale)
• OIML (Organizzazione Internazionale di Metrologia Legale)
• FAO (Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura)
• CIHEAM (Centro Internazionale Alti
Interventi in cantina Si raccomanda di determinare il contenuto di OTA nei mosti destinati alla vinificazione, soprattutto in caso di ipotesi di rischio. Pre-fermentazione. Evitare la macerazione delle bucce nelle condizioni di vendemmie a rischio elevato di OTA o, al massimo, praticare una macerazione breve e adattare l’intensità della pressatura allo stato sanitario dell’uva. Evitare i trattamenti di riscaldamento del pigiato e le macerazioni intense e prolungate. Evitare l’utilizzo di enzimi pectolitici per le operazioni di chiarifica o di macerazione. È preferibile la chiarificazione rapida con filtrazione del mosto, centrifugazione e flottazione. In caso di presenza di OTA, è consigliabile trattare i mosti e i vini ancora in fermentazione con carbone enologico, nel rispetto dei limiti imposti dalla normativa vigente. Vinificazione. Realizzare per quanto possibile la fermentazione e l’affinamento in recipienti facilmente igienizzabili. Utilizzare prodotti di chiarificazione tenendo conto che il carbone enologico è il più efficace nella riduzione dei quantitativi di OTA, mentre alcune cellulose e il gel di silice associato alla gelatina permettono solo una riduzione parziale. È comunque utile informarsi preventivamente sull’efficacia del prodotto che si intende usare. In ogni caso, nel corso delle operazioni di vinificazione, si verificano eventi che favoriscono la riduzione di OTA. In particolare, durante le fermentazioni alcoliche o malolattiche, si ricorda che è possibile avere una riduzione per assorbimento da parte di lieviti e batteri. I lieviti secchi attivi o i lieviti inattivi possono aiutare a ridurre il livello di OTA. L’affinamento su feccia può aiutare a diminuire il tasso di OTA, ma devono essere valutati i rischi che questa tecnica può comportare sulle qualità organolettiche del vino.
Studi Agronomici Mediterranei)
• OMC (Organizzazione Mondiale del Commercio)
• UE (Commissione dell’Unione Europea) • Codex Alimentarius
Paesi aderenti all’OIV
• Francia, Irlanda, Italia, Portogallo,
Spagna, Finlandia, Norvegia, Svezia, Austria, Belgio, Cipro, Croazia, Germania, Grecia Lussemburgo, Ex Repubblica Jugoslava, Malta, Montenegro, Paesi Bassi, Serbia, Svizzera, Bulgaria, Georgia, Moldavia, Repubblica Ceca, Romania, Russia, Slovacchia, Slovenia, Ungheria, Australia, Nuova Zelanda, Repubblica del Sud Africa, Messico, Perù, Uruguay, Brasile, Cile
411
la vite e il vino
coltivazione Macchine per i trattamenti Paolo Balsari, Attilio Scienza
www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche.
coltivazione Macchine per i trattamenti Introduzione La prime macchine per la distribuzione dei prodotti chimici sono state sviluppate nel 1800 per la protezione della vite, che richiedeva la distribuzione sui filari di prodotti a base di rame e di zolfo, il primo distribuito in forma liquida, il secondo in polvere. Nacquero le prime irroratrici a zaino e le prime impolveratrici a soffietto. Si trattava di attrezzature semplici e poco costose, ancora oggi in uso nell’hobbistica e nei Paesi in via di sviluppo, caratterizzate da una limitata capacità di lavoro e da un considerevole impiego di energia umana per il loro funzionamento. Queste ragioni furono alla base della ricerca e dello sviluppo di nuove attrezzature portate e trainate da animali e dotate di pompe azionate manualmente o da motori endotermici e di lance o barre di distribuzione. La comparsa dei primi erbicidi ormonici negli anni ’60 del secolo scorso diede un nuovo impulso all’evoluzione delle macchine per l’irrorazione. L’esigenza era sempre quella di irrorare delle foglie, ma si trattava di foglie delle infestanti di colture erbacee, caratterizzate da un’altezza relativamente ridotta e da superfici relativamente ampie. Nacquero le prime irroratrici a barra che mandarono in pensione zappe, sarchiatrici e mondine, rendendo molto più agevole e meno oneroso il controllo delle malerbe. La quasi contemporanea diffusione nelle campagne di trattori dotati di attacco a tre punti e di presa di potenza rese possibile l’ulteriore evoluzione di tali attrezzature che assunsero quell’aspetto che, fondamentalmente, ancora oggi le contraddistingue: macchine portate o trainate dal trattore e che dal trattore vengono azionate. Quello che già allora le caratterizzava e che ancora oggi per lo più le differenzia è il sistema di distribuzione della miscela fitoiatrica: una barra mantenuta il più possibile parallela al terreno nel caso delle irroratrici per le colture cerealicole; barre (una per lato della macchina) dalla forma appositamente studiata e, dalla fine degli anni ’50 del secolo scorso,
Irroratrice ad azionamento manuale
Pompa a leve su carro trainato da un cavallo
Volumi distribuiti e tempi di lavoro delle prime pompe Volume distribuito (l/ha)
Irroratrice costituita da pompa a motore e barra verticale montate su carretto trainato
412
Addetti Tempo (n.) (h uomo/ha)
Pompa a spalla
1400
1
14
Pompa a leva su carretto trainato da cavallo
1400
4
13,5
Pompa a motore su carretto trainato da cavallo
1100
3
11
Pompa a motore e barra su carretto trainato da cavallo
1100
1
4
macchine per i trattamenti per lo più abbinate a ventilatori in grado di trasportare le gocce verso le parti più alte della vegetazione, nel caso delle macchine per i trattamenti fitoiatrici alle colture arboree. Tali macchine già allora, come oggi, erano schematicamente costituite da: un serbatoio contenente la miscela fitoiatrica, una pompa in grado di prelevare quest’ultima e di metterla in pressione inviandola a un regolatore di portata e, successivamente, agli erogatori (ugelli) dove avviene la polverizzazione del liquido.
Ugelli
Pompa
Le macchine per la distribuzione dei fitofarmaci alle colture arboree L’introduzione dei primi composti ad azione fungicida tra la fine dell’800 e l’inizio del ’900 determinò l’esigenza di provvedere a una loro distribuzione in campo. Il primo riferimento ad attrezzature per l’irrorazione risale alla seconda metà del 1800; si trattava di pompe manuali a stantuffo che venivano utilizzate per alimentare erogatori a cono regolabile, non molto diversi da quelli ancora oggi in commercio. All’inizio del secolo scorso, per l’irrorazione delle viti allevate ad alberello di taglia ridotta, in Francia furono sviluppate irroratrici a basto dotate di 2 serbatoi in pressione in acciaio della capienza complessiva di 70 l collegati a una barra di distribuzione che permetteva l’irrorazione dall’alto dei filari fra i quali veniva fatto passare il cavallo al quale veniva applicata tale attrezzatura. Nello stesso periodo, in Germania, per l’irrorazione delle colture arboree venivano utilizzate delle irroratrici carrellate dotate di serbatoio in legno della capienza di 100-150 l e di una pompa azionata da un motore endotermico che permetteva di irrorare la vegetazione per mezzo di lance.
Regolatore
Serbatoio
Schema di funzionamento di una macchina irroratrice
Macchina irroratrice costituita da una pompa a motore e barra montate su carretto trainato
413
coltivazione All’inizio degli anni ’30 viene sperimentata per la prima volta in California sulla vite la polverizzazione pneumatica, grazie alla quale i liquidi subiscono un processo di atomizzazione molto spinto sotto l’azione di un getto d’aria violento che provvede anche a trasportarli poi sulle superfici da trattare. Questo consente l’impiego di miscele concentrate con una riduzione della perdita a terra, un considerevole risparmio di sostanze antiparassitarie e un potenziamento della loro efficacia. Negli anni ’40 nelle piantagioni di agrumi statunitensi vennero impiegate delle macchine che, operando a elevata pressione, polverizzavano finemente il liquido e trasportavano le gocce verso il bersaglio per mezzo del flusso d’aria generato da un ventilatore assiale. Si trattava dei primi irroratori ad aeroconvenzione, attrezzature destinate ad avere una larga diffusione in tutti i frutteti e successivamente, con i necessari adeguamenti, nei vigneti. Erano macchine trainate da trattori di media potenza dotate di un serbatoio di elevata capienza, per lo più in legno, e di un motore endotermico che provvedeva all’azionamento della pompa e del ventilatore. In Italia la prima macchina ad aeroconvenzione viene importata nel 1951 dalla ditta Ansaloni. L’entusiasmo dei costruttori per questa nuova irroratrice portò alla realizzazione di modelli particolarmente interessanti per la qualità e la ricercatezza delle soluzioni tecnologiche, derivanti per lo più da un accurata interpretazione degli studi aerodinamici, che raggiungono proprio in quegli anni il loro maggiore sviluppo. Altro passo decisivo è stato lo sviluppo del getto mirato: con il getto libero a grande erogazione circa il 30% del liquido ricade sul suolo. Le perdite si possono eliminare applicando il sistema delle irrorazioni localizzate, dove il liquido viene convogliato mediante tubi o canne di prolunga, fino a raggiungere le zone trattate. Negli anni ’70 vennero introdotti i sistemi di regolazione con distribuzione proporzionale all’avanzamento (DPA) che, soprattutto nei vigneti in pendenza realizzati a cavalcapoggio, consentono di garantire la distribuzione
Impolveratrice a soffietto
Impolveratrici
• Il termine “polveri” identifica formulati sottoforma di particelle secche di diametro inferiore a 30 μm
• Il loro impiego si è progressivamente
ridotto in quanto le particelle, estremamente fini, sono facilmente dilavabili e soggette a fenomeni di deriva. Per questo motivo le polveri oggi sono usate principalmente per il trattamento di sementi
Irroratrice azionata da motopompa Impolveratrice al lavoro, con un considerevole effetto deriva
414
macchine per i trattamenti Evoluzione dalle irroratrici ad aeroconvezione tradizionale (A) a quelle con getto mirato (B) Tempi di lavoro a confronto A
1950
2000
Unità lavorative nel cantiere
2
1
n° filari trattati simultaneamente
1
3
Velocità di avanzamento (km/h)
3
8
Tempi morti (%)
B
del volume di miscela fitoiatrica desiderata, indipendentemente dalla velocità di avanzamento della macchina irroratrice. Furono anche introdotte le ghiere a baionetta per il fissaggio rapido degli ugelli, soluzione costruttiva che ha agevolato la manutenzione ordinaria delle attrezzature, e i supporti multipli che, permettendo la presenza di più ugelli sulla barra, consentono un veloce adattamento dell’irroratrice alle differenti condizioni operative. Di quegli anni è anche l’introduzione degli antigoccia – a molla, a membrana e pneumatici – che annullarono i problemi legati alle perdite a terra per effetto dello svuotamento delle tubazioni. Sempre negli anni ’70 cominciano a diffondersi anche in Italia le apparecchiature a basso volume che costituiscono un importante soluzione innovativa nelle tecniche di applicazione dei fitofarmaci. Tale scelta operativa viene per lo più abbinata all’uso di macchine ad aeroconvezione con polverizzazione pneumatica, ottenuta direttamente con l’impiego di un ventilatore centrifugo ad alta pressione, il cui getto assolve entrambe le funzioni di polverizzazione e trasporto. Sotto l’aspetto economico, la possibilità di concentrare da 4-10, fino a 20 volte la miscela consente di ridurre notevolmente i tempi di intervento. In sintesi, il concetto evolutivo di questi ultimi venti anni è quello di irrorare più efficacemente il bersaglio attraverso la selezione della dimensione delle gocce e della densità ottimale per ottenere la massima ritenzione e copertura. Ciò viene oggi attuato anche grazie all’introduzione dell’elettronica sulle macchine irroratrici.
50,0% 20,0%
Capacità di lavoro reale (ha/h)
0,45
4,0
Tempo macchina richiesto (h/ha)
2,1
0,25
Tempo macchina richiesto (min/ha)
130,0
15,0
Tempo uomo richiesto (min/ha)
260,0
15,0
Esempio di uno dei primi modelli di irroratrice ad aeroconvezione
Volumi di distribuzione e capacità dei serbatoi
• Al fine di incrementare la capacità
di lavoro delle macchine e di migliorare la tempestività dell’esecuzione del trattamento, con il tempo sono stati ridotti i volumi di distribuzione e aumentate le capacità dei serbatoi
Volume di distribuzione In una realtà operativa in cui elevati volumi di distribuzione (superiori ai 600 l/ha) venivano considerati ottimali per l’efficacia del prodotto distribuito, la corretta scelta del volume di distribuzione fu teorizzata agli inizi degli anni ’80 da studiosi francesi. Tali consi415
coltivazione derazioni si basano sulla conoscenza delle dimensioni medie delle gocce prodotte dagli ugelli, del rapporto tra superficie del terreno e superficie fogliare della vegetazione (LAI) e della tensione superficiale tra liquido irrorato e superficie da bagnare. Da tali considerazioni emerse come volumi di distribuzione dell’ordine dei 250-300 l/ha erano più che sufficienti in condizioni normali di sviluppo della coltura. Tali considerazioni, tuttavia, non tenevano conto, se non in modo marginale, della modalità di azione del principio attivo impiegato e dell’effetto sulla tensione superficiale dei coadiuvanti e dei bagnanti in particolare. Utilizzando un prodotto ad azione sistemica – che può essere traslocato all’interno dei tessuti vegetali – e un idoneo bagnante – in grado di ridurre la tensione superficiale tra liquido irrorato e la cuticola della vegetazione da irrorare – è possibile ridurre considerevolmente i volumi di distribuzione senza ridurre l’efficacia del trattamento. L’effetto del bagnante può essere superiore a quello dell’aumento del livello di polverizzazione, che incrementa inevitabilmente i rischi di deriva e di evaporazione del prodotto. I volumi di distribuzione hanno potuto essere considerevolmente abbassati raggiungendo i 150-200 l/ha, tenendo conto delle specifiche esigenze e della modalità di azione del prodotto usato. Va, tuttavia, ricordato che operando con volumi ridotti e con una maggiore concentrazione del prodotto commerciale nella miscela viene a essere ridotta la portata del sistema di distribuzione e questo rende necessaria una accurata scelta dell’ugello e del sistema di filtrazione.
Serbatoio principale (bianco), ausiliario (giallo) e lavaimpianto (blu)
Serbatoio
• Nelle irroratrici più moderne,
Serbatoio L’incremento della capacità del serbatoio principale della macchina irroratrice è stata una delle esigenze più sentite dagli operatori per incrementare la produttività del lavoro e quindi la tempestività di intervento. Si è passati dai 100-150 l di capacità del serbatoio degli anni ’50 agli attuali 600-800 l nel caso delle attrezzature portate e 2000 l nel caso di quelle trainate. Si tratta di evoluzioni costruttive non prive di effetti collaterali: per le attrezzature trainate ciò ha reso necessario l’impiego di correttori di sterzata (con braccio idraulico e snodato, al fine di consentire una sufficiente manovrabilità del mezzo nei vigneti caratterizzati da interfile e dimensioni delle capezzagne ridotte. Per quanto riguarda i materiali, si è assistito a un progressivo abbandono dell’acciaio a vantaggio del polietilene e della fibra di vetro, caratterizzati da una buona resistenza all’usura e all’aggressione dei formulati commerciali, oltre che da una migliore lavorabilità. Con questi materiali è stato possibile dare al contenitore la forma più idonea, sagomandolo in modo da sfruttare al meglio i volumi a disposizione sulla macchina. L’aumento delle dimensioni e della complessità delle forme ha tuttavia determinato la necessità di disporre di sistemi di agitazione adeguati alle esigenze di mantenere costante la concentrazione del prodotto nella miscela da distribuire.
Parte neoformata
il serbatoio principale dell’acqua è frequentemente affiancato da altri più piccoli, destinati alla premiscelazione del prodotto fitosanitario, al lavaggio del circuito idraulico e alla pulizia delle mani dell’operatore
Internodo corto
Pompa centrifuga a palette
416
macchine per i trattamenti Pompe e regolatori La portata della pompa è progressivamente aumentata. Le pompe più utilizzate oggi sono quelle a pistone membrana, meno costose di quelle a pistoni che fino a un decennio fa si riteneva fossero destinate a prendere il sopravvento. Tale ipotesi di mercato era legata alla rapida usura delle membrane dovuta all’effetto di alcuni solventi utilizzati come coformulanti di prodotti fitoiatrici, che sono stati in questi ultimi anni progressivamente abbandonati anche per ragioni di carattere ambientale. Ugelli I primi ugelli erano a turbolenza con piastrina in ottone e rompiflusso in ottone, essi producevano un getto a cono vuoto e sono stati per anni la base del sistema di polverizzazione del liquido da irrorare. Successivamente sono stati sviluppati ugelli a fessura, in grado di produrre un getto a forma di ventaglio e a specchio. Anche il loro materiale di costruzione ha subito una notevole evoluzione. Gli ugelli vengono oggi per lo più realizzati con materiali resistenti all’usura quali l’acciaio e la ceramica, che permettono, rispetto all’ottone, una maggiore durata nel tempo del sistema di polverizzazione. Dalla fine degli anni ’80 del secolo scorso, gli ugelli vengono prodotti con una colorazione che facilita l’individuazione della portata che sono in grado di fornire alla pressione di riferimento di 3 bar secondo una standardizzazione riconosciuta a livello mondiale (ISO 5082).
Variazione della portata in %
Pompa a membrana
Impiego dell’elettronica L’elettronica e i computer hanno indubbiamente svolto un ruolo determinante nello sviluppo delle macchine irroratrici in questo ultimo ventennio. La possibilità di poter disporre di strumentazioni elettroniche tecnologicamente sempre più avanzate e affidabili, oltre che di costo contenuto, ha sollecitato i ricercatori e i tecnici a sviluppare specifici sensori, sistemi di controllo e software per il settore agricolo. A partire dagli inizi degli anni ’90 soprattutto in
90 80 70 60 50 40 30 20 10 0
Ottone
Kematal Acciaio inossidabile Polipropilene 0
10
20
30
Allumina 40
Ore di servizio Influenza del materiale degli ugelli sulla resistenza all’usura
Schema di ugello a cono vuoto
417
coltivazione America e nel Nord Europa l’elettronica ha trovato nuovi sbocchi di interesse in quel settore dell’agricoltura che va sotto il nome di Agricoltura di Precisione (AP). Diverse sono le soluzioni tecniche applicate alle macchine irroratrici, con la finalità di migliorare la distribuzione degli antiparassitari alla vite e che prevedono l’impiego dell’elettronica. Fra queste vanno ricordati i sistemi realizzati, con il finanziamento del ENAMA, dalla sezione di meccanica del DEIAFA dell‘Università di Torino. Essi risultano in grado o di adeguare la distribuzione alle caratteristiche dimensionali e vegetative del vigneto o di regolare l’erogazione in funzione della pendenza del terreno o della presenza o meno e della dimensione della pianta da trattare. Grazie all’impiego di tali sistemi è possibile ridurre dal 10 al 45%, in funzione della dimensione delle piante, del loro sviluppo vegetativo e del sesto d’impianto, la quantità di prodotto chimico distribuita senza modificare l’efficacia dell’intervento fitoiatrico.
Agricoltura di Precisione (AP)
• Con il termine “Agricoltura di
Precisione” si fa riferimento a un nuovo concetto di agricoltura in cui tutte le tecniche colturali vengono modulate in relazione alle condizioni ambientali e al mutare delle esigenze della coltura durante il ciclo biologico. Nel caso della distribuzione degli antiparassitari, l’AP si basa sulla determinazione della presenza dei parassiti nelle diverse parti della pianta seguita da un’applicazione mirata del fitofarmaco. Si tratta, tuttavia, di un approccio efficiente solo in alcuni casi e se applicato su ampie aree del vigneto. Inoltre, nel caso dei vigneti è spesso più conveniente ricorrere a sistemi di riconoscimento più semplici, quali i transponder, rispetto a costose tecniche di georeferenziazione di tipo satellitare
Le problematiche ambientali e le soluzioni operative L’applicazione delle miscele fitoiatriche viene oggi sempre più vista come parte di una filiera di operazioni composte da differenti fasi per ciascuna delle quali occorre seguire scrupolosamente tutti gli accorgimenti necessari per ottimizzare l’efficacia dei trattamenti, minimizzarne l’impatto ambientale e salvaguardare la salute dell’operatore. Per soddisfare queste esigenze, occorre che gli agricoltori siano in grado di adottare le scelte operative più idonee per le specifiche situazioni colturali e che conoscano in modo approfondito i criteri di regolazione delle macchine irroratrici. La riduzione delle perdite di prodotto è un obiettivo da perseguire principalmente attraverso una corretta taratura dell’irroratrice. Ulteriori vantaggi possono essere ottenuti impiegando attrezzature innovative, equipaggiate con dispositivi in grado di limitare le perdite di prodotto, in particolare di quelle legate alla deriva, e concepite nell’ottica di un maggiore rispetto ambientale nel corso dei trattamenti fitoiatrici. Le perdite di prodotto Dal punto di vista ambientale, come già ricordato, è estremamente importante contenere le perdite di prodotto che, inevitabilmente, si registrano distribuendo i prodotti fitosanitari sulle colture. Diversi studi hanno, infatti, evidenziato come, nel corso dei trattamenti fitoiatrici alle colture arboree, una parte considerevole della miscela erogata dalla macchina irroratrice vada dispersa al di fuori del bersaglio (a terra, al di fuori dell’appezzamento trattato per effetto della deriva), specialmente nelle prime fasi dello sviluppo vegetativo.
L’utilizzo di fili di lana o fettucce colorate permette di verificare l’orientamento della corrente d’aria e di regolare la posizione dei deflettori, degli ugelli e di scegliere il numero di ugelli in funzione
418
macchine per i trattamenti Miscela erogata dispersa al di fuori del bersaglio
Perdite nell’atmosfera per evaporazione (4-6%)
Salvaguardia della salute dell’operatore
• Tenendo conto della tossicità dei Perdite oltre il bersaglio (10-15%)
prodotti distribuiti, è indispensabile che le macchine rispondano a quei requisiti costruttivi e funzionali in grado di ridurre ai minimi termini i rischi di contaminazione dell’utente, e nel medesimo tempo consentano la gestione delle fasi di preparazione della miscela fitoiatrica e di smaltimento dei residui del trattamento in assoluta sicurezza per l’operatore, oltre che per l’ambiente
Perdite oltre il bersaglio
Perdite a terra (30-60%) Le perdite di prodotto rappresentano un costo aggiuntivo per l’agricoltore, oltre che una fonte di inquinamento dell’ambiente, pertanto limitarle al minimo significa ottenere dei benefici di carattere sia economico sia ambientale. Tra i fattori che influenzano l’entità delle perdite di miscela fitoiatrica che si riscontrano durante la fase di distribuzione sono da ricordare le condizioni ambientali in cui si opera, in particolare velocità del vento, temperatura e umidità relativa, l’entità dello sviluppo della vegetazione e, soprattutto, le scelte operative adottate dall’agricoltore per effettuare i trattamenti. I criteri con i quali vengono regolate le macchine, infatti, incidono in maniera determinante sulla percentuale di prodotto dispersa al di fuori del bersaglio. La loro regolazione deve essere effettuata tenendo conto delle caratteristiche della vegetazione e del meccanismo d’azione del fitofarmaco: quelli che agiscono per contatto, infatti, richiedono l’impiego di gocce più fini rispetto a quelli sistemici, in grado di traslocare nella pianta. L’esigenza di coprire il bersaglio utilizzando gocce fini, tuttavia, non si deve tradurre nella scelta di parametri operativi inadeguati, quali pressioni di esercizio troppo elevate o dimensioni dell’orifizio degli ugelli troppo piccole. Le gocce troppo fini, infatti, sono più soggette al fenomeno della deriva ed evaporano rapidamente (talvolta ancora prima di raggiungere il bersaglio). Un altro parametro da tenere in considerazione è il volume di distribuzione che si intende applicare; occorre sceglierlo in funzione dell’epoca di intervento e del tipo di coltura, ma in termini generali è consigliabile operare con volumi ridotti, sufficienti a garantire la copertura del bersaglio e l’efficacia del fitofarmaco. Impiegando volumi d’acqua elevati, invece, si aumenta il rischio di ruscellamento della miscela applicata sul bersaglio, e di conseguenza, risulta maggiore l’incidenza delle perdite a terra.
NO
SI
Esempi di scorretta e corretta regolazione dell’irroratrice
419
Tempo di vita o tempo di caduta (s)
coltivazione
100
25 m 20 m 10 m 5m
50 0
La deriva del prodotto fitoiatrico Da alcuni anni, sono entrate in vigore nell’Unione Europea misure legislative che regolano i criteri con i quali devono essere condotti i trattamenti fitoiatrici al fine di ridurre i rischi di inquinamento ambientale dovuti al fenomeno della deriva, ossia della dispersione di parte della miscela applicata al di fuori dell’area trattata. In particolare, tali norme prevedono il mantenimento di fasce di rispetto, in corrispondenza dei margini del campo, che hanno la funzione di salvaguardare le aree adiacenti dagli effetti negativi legati alla deriva del prodotto fitoiatrico. L’ampiezza delle zone di rispetto, generalmente compresa fra 1 e 10 m, è definita in funzione del tipo di attrezzatura impiegato per la distribuzione del fitofarmaco, della dose di prodotto utilizzata, delle caratteristiche delle aree adiacenti (altre coltivazioni sensibili al fitofarmaco distribuito, corsi d’acqua superficiali, aree abitate). Gli agricoltori che utilizzano macchine irroratrici dotate di dispositivi per il contenimento della deriva sono autorizzati a ridurre l’ampiezza delle zone di rispetto, quindi a trattare una superficie maggiore e ciò, in alcune condizioni, rappresenta una differenza, anche in termini economici, non trascurabile. In particolare fra i sistemi in grado di limitare gli effetti della deriva si ricordano gli ugelli antideriva che, producendo gocce mediamente più grandi rispetto agli ugelli tradizionali a parità di pressione di esercizio e di portata, fanno sì che il getto erogato sia meno sensibile alle sollecitazioni delle correnti d’aria. Le irroratrici per il vigneto possono essere anche dotate di sistemi per il recupero del prodotto che oltrepassa la vegetazione, o ancora di sensori in grado di rilevare la presenza e l’intensità del vento atmosferico e in funzione dell’entità di quest’ultimi, regolare opportunamente la macchina irroratrice (attivazione degli ugel-
2m 1m 0,5 m
0
50
100
200
Diametro gocce (μm) Tempo di vita a 20 °C e 80% UR Tempo di vita a 30 °C e 50% UR Tempo di caduta Tempo di vita e di caduta delle gocce in funzione del loro diametro (da Matthews, 1992). Le gocce più fini, essendo anche più leggere, rimangono per più tempo sospese nell’aria e per tanto più facilmente preda delle correnti d’aria che ne provocano l’allonatanamento dalla vegetazione
Zone di rispetto o buffer zones Coltura trattata
Zona di rispetto
420
Coltura sensibile (o corso d’acqua)
macchine per i trattamenti li antideriva, regolazione della velocità e della direzione dell’aria erogata dal ventilatore). Il problema della deriva si sta evidenziando anche a livello normativo. Sono, infatti, in fase di redazione delle norme che consentiranno di classificare le macchine irroratrici in funzione della loro capacità o meno di contenere la deriva. Nella pratica ciò si tradurrà nella necessità di dover rispettare buffer zones di differenti entità in funzione della classificazione delle macchine irroratrici.
Ampiezza buffer zones Dose piena
3/4 di dose
1/2 di dose
1/4 di dose
Standard
18
15
12
7
Low Drift (–25%)
15
12
9
5
Low Drift (–50%)
12
9
6
5
Low Drift (–75%)
9
6
5
5
Esempio di ampiezza delle zone di rispetto (buffer zones) in funzione della deriva delle attrezzature impiegate
Pulizia dell’irroratrice Irroratrice con sistema a collettori in grado di contenere le perdite di prodotto anche per deriva dello stesso
• Recenti normative Europee (EN 12761) prevedono che le macchine irroratrici, con serbatoio principale di capacità superiore ai 400 l, siano dotate di un serbatoio ausiliario per il lavaggio dell’impianto
Pulizia dell’irroratrice e il lavaggio dei contenitori dei fitofarmaci Sempre nell’ottica del rispetto ambientale, è importante, al termine della fase di distribuzione della miscela fitoiatrica, poter effettuare un adeguato lavaggio del serbatoio principale e del circuito idraulico con un volume adeguato di acqua pulita, al fine di diluire la miscela residua in tali parti della macchina irroratrice, evitando di distribuirla senza diluirla e in maniera puntiforme. Sempre per contenere l’inquinamento puntiforme legato alla fase di lavaggio della macchina irroratrice, in questo caso la sua superficie esterna sulla quale si può depositare fino al 2% del prodotto distribuito, sono oggi disponibili delle soluzioni tecniche (spazzole, getti ad alta pressione ecc.) che consentono di effettuare tale operazione direttamente in campo utilizzando l’acqua contenuta nel serbatoio lava impianto. Un altro aspetto strettamente legato all’impatto ambientale dei trattamenti fitoiatrici riguarda la gestione dei contenitori dei fitofarmaci vuoti. l rischi di contaminazione ambientale legati allo
• Grazie a questa riserva di acqua pulita il fitofarmaco residuo nell’irroratrice al termine del trattamento può essere opportunamente diluito e applicato in campo senza creare fenomeni di fitotossicità ed evitando un suo smaltimento puntiforme, pratica quest’ultima oggi molto diffusa e che è ritenuta una delle principali cause di inquinamento puntiforme da agrofarmaci delle falde acquifere
421
coltivazione stoccaggio e allo smaltimento improprio di tali contenitori sono elevati, tuttavia gli agricoltori sono costretti a seguire soluzioni spesso non ottimali, mancando spesso a livello regionale una adeguata rete per la loro raccolta e smaltimento. Un’operazione necessaria e prevista anche da specifiche norme (DGR n. 26-25685 19/10/98), al fine di ridurre la pericolosità di tali rifiuti, è la rimozione del fitofarmaco residuo attraverso il risciacquo del contenitore esausto. Da diversi anni, sono disponibili su alcune macchine irroratrici dei sistemi per il lavaggio dei contenitori. Si tratta di un ugello rotativo, generalmente inserito nel serbatoio premiscelatore o in prossimità dell’apertura del serbatoio principale, sul quale viene inserito il contenitore vuoto capovolto. Tale dispositivo, erogando una portata di almeno 9 l/min, consente di rimuovere in poco tempo il residuo di fitofarmaco ancora presente nel contenitore, inviandolo direttamente nel serbatoio principale dove è presente la miscela da distribuire.
Componenti della macchina con dispositivo a ultrasuoni
• Sensori (a ultrasuoni o a raggi
infrarossi) o videocamera, solidali anteriormente al corpo della irroratrice, che rileva e genera un segnale rappresentativo della presenza, della sagoma e della distanza degli elementi da trattare
• Sensore montato sulle ruote del mezzo
che genera un segnale rappresentativo della distanza percorsa dal veicolo
• Strumento di calcolo collegato ai mezzi
Soluzioni costruttive innovative
di rilevamento e sensori di avanzamento per determinare periodicamente la zona in cui effettuare l’irrorazione, la distanza percorsa dal veicolo e l’attivazione degli organi di irrorazione quando questi si presentino di fronte alla zona da trattare
Irroratrice in grado di adeguare l’erogazione in funzione della presenza e della dimensione della pianta da trattare Si tratta di una macchina irroratrice in grado di individuare la presenza della pianta da trattare, le sue dimensioni e di effettuare la distribuzione del prodotto antiparassitario solo in prossimità di essa e indirizzando il getto nell’ambito del contorno della sua forma geometrica. In pratica, l’apertura e la chiusura di ogni singolo
Irroratrice a ultrasuoni in grado di adeguare l’erogazione alla geometria della pianta Distribuzione convenzionale Distribuzione controllata
Centralina per elaborazione informazioni e controllo attuatori
Sensori a ultrasuoni
Ugelli con controllo elettrico
Risparmio di prodotto 10-45% Sensori velocità di avanzamento
422
macchine per i trattamenti ugello sono gestite da un sistema elettronico sulla base delle informazioni ricevute dai sensori in grado di determinare la presenza e la forma geometrica della pianta. Irroratrice in grado di regolare la posizione e l’inclinazione degli ugelli in funzione della pendenza trasversale del vigneto Una serie di esperienze pregresse, condotte dalla sezione di Meccanica del DEIAFA dell’Università di Torino su vigneti caratterizzati da diverse pendenze trasversali, avevano evidenziato come in condizioni di pendenza trasversale superiore al 30%, se si vuole cercare di indirizzare il getto nell’area interessata dalla vegetazione su entrambi i filari (quello a valle e a monte), oltre il 30% del prodotto distribuito non intercetta il bersaglio. Al fine di cercare di risolvere questo problema è stato progettato un sistema schematicamente costituito da un comando idraulico che consente, attraverso due pistoni idraulici, di agire direttamente sul singolo gruppo portaugello. Un pendolo elettronico rileva la pendenza trasversale del filare nel quale si sta eseguendo il trattamento. L’unità elettronica elabora il valore della pendenza e, conoscendo una serie di altri parametri caratteristici del vigneto (interfila, distanza minima da terra, altezza massima della vegetazione), determina l’ampiezza del getto necessaria a coprire uniformemente la parete vegetativa. Tale elaborazione viene eseguita per entrambi i lati della macchina (monte e valle). Successivamente, mediante un comando elettroidraulico, il sistema elettronico provvede alla regolazione della posizione degli ugelli per ottenere l’ampiezza del getto richiesta. Oltre alla posizione degli ugelli, viene controllata anche quella della macchina all’interno del filare. Grazie a uno snodo sul timone azionato da un cilindro idraulico, l’elettronica di bordo mantiene la macchina al centro dell’interfila. Tutte le regolazioni sono di tipo dinamico. Irroratrice in grado di adeguare la distribuzione alle caratteristiche dimensionali e vegetative del vigneto La macchina realizzata è costituita da una irroratrice dotata di una serie di apparecchiature elettroniche, atte a consentire che il prodotto distribuito venga indirizzato sul bersaglio indipendentemente dalle caratteristiche dimensionali e vegetative del vigneto nel quale si deve operare. In particolare, l’individuazione delle caratteristiche del vigneto è effettuata mediante l’impiego di transponder installati nei diversi vigneti, i quali, opportunamente programmati, saranno in grado di comunicare con l’irroratrice, fornendo al sistema elettronico di bordo le informazioni relative al sesto di impianto, alla forma di allevamento, al tipo di vitigno. Il sistema di controllo installato sull’irroratrice provvederà, sulla base delle informazioni ricevute, a regolare il numero e il tipo di ugelli in funzione, la pressione di esercizio, la portata del ventilatore e la direzione del flusso d’aria.
Impiegando il dispositivo per il controllo automatico dell’irrorazione, in collina è possibile evitare consistenti perdite di prodotto
423
la vite e il vino
coltivazione Flora spontanea Pasquale Viggiani
www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche.
coltivazione Flora spontanea Introduzione La gestione delle erbe spontanee tra i filari nei vigneti italiani, fermo restando la loro eliminazione sotto i filari stessi, avviene in modo diverso nelle diverse realtà agricole, sia con mezzi meccanici sia con mezzi chimici. Molto più di frequente nei vigneti dell’Italia centro-settentrionale, piuttosto che in quelli meridionali, si tollera o si favorisce nell’interfilare la crescita di un manto vegetale erbaceo, temporaneo o permanente, periodicamente sfalciato, spesso seminando varie specie (di solito graminacee perenni). Uno sviluppo incontrollato delle piante spontanee può arrecare gravi danni al vigneto, specialmente in considerazione del fatto che questa flora è formata da decine di specie diverse, alcune delle quali non sono adatte alla costituzione di un utile cotico erboso, oltretutto sottraggono acqua ed elementi nutritivi a quelle utili e alle piante di vite, e molte costituiscono ricettacolo di insetti vettori di gravi malattie che danneggiano fortemente la vite perché ne compromettono la produttività e la qualità dell’uva e del vino che da essa si ottiene. Per evitare o limitare i danni causati da queste specie occorre adottare una gestione agronomica del vigneto che, con strategie mirate di diserbo meccanico (sarchiatura) e chimico, consente di ridurre la loro incidenza e di favorire la diffusione delle specie utili. Le erbe più diffuse Nel corso di una recente indagine, effettuata in una ventina di vigneti sparsi su tutto il territorio italiano, sono state trovate circa 130 specie erbacee spontanee, delle quali solo le principali (quelle che almeno in un rilievo ricoprivano più del 10% della superficie del terreno) sono riportate a pagina seguente.
Vigneto inerbito nel trapanese
Vigneto fortemente infestato
424
flora spontanea Erbe spontanee più importanti dei vigneti italiani Nome comune
Famiglia
Amaranto comune o blito
Diffusione prevalente Nord
Centro
Sud
Amarantacee
x
x
x
Amarella o assenzio selvatico
Composite
x
x
-
Aspraggine volgare
Composite
-
x
x
Cardo campestre o stoppione
Composite
x
-
x
Centocchio o stellaria
Cariofillacee
x
x
x
x
x
-
Chenopodio bianco o farinello comune Chenopodiacee Cinquefoglie comune
Rosacee
x
-
-
Correggiola o poligono degli uccellini
Poligonacee
x
x
x
Erba medica
Leguminose
-
x
x
Euforbia
Euforbiacee
x
x
x
Forasacco
Graminacee
x
x
x
Gramigna comune o dente di cane
Graminacee
x
x
-
Grespino
Composite
x
x
x
Loglio
Graminacee
x
x
x
Malva selvatica
Malavacee
x
-
x
Ortica comune
Urticacee
-
-
x
Orzo selvatico
Graminacee
-
x
x
Pabbio o setaria
Graminacee
x
x
x
Piantaggine
Plantagginacee
x
-
-
Porcellana
Portulacacee
-
-
x
Saeppola canadese
Composite
x
-
x
Senecione comune
Composite
x
x
x
Soffione o dente di leone
Composite
x
-
-
Veronica comune
Scrofulariacee
x
x
x
Vilucchio
Convolvulacee
x
x
x
Vigneto inerbito in provincia di Forlì
Vigneto inerbito in provincia di Verona
425
coltivazione Ciclo vegetativo La sopravvivenza del tappeto erbaceo che si insedia nel vigneto dipende innanzitutto dalla modalità di riproduzione delle specie che lo compongono. Moltissime specie si riproducono solo tramite semi (moltiplicazione), mentre altre possono riprodursi, oltre che tramite semi, anche per mezzo di gemme presenti sulle loro radici o su rizomi, stoloni o tuberi (propagazione). La vita delle piante che si riproducono solo per semi si svolge tra la nascita e la maturazione dei nuovi semi; esse si dicono “annuali” perché il loro ciclo completo si svolge in un anno o, più spesso, in pochi mesi. Le specie annuali, a causa della brevità del ciclo non sono adatte, generalmente, per costituire tappeti erbosi permanenti, tranne nei casi di alcune (centocchio, porcellana e veronica) con taglia bassa e portamento prostrato che assicurano una copertura discretamente efficace, ma di breve durata. Non tutti i semi presenti nel terreno (qualche migliaio per ogni metro quadrato) germinano contemporaneamente, dato che le piante nate si troverebbero in condizione di affollamento e quindi in forte competizione tra loro. Per questo motivo solo una piccola parte dei semi dà origine a piantine (per esempio poco più del 5% di quelli di amaranto e di chenopodio). Questo meccanismo di conservazione della specie, che si riserva di far germinare altri semi solo se le piante già nate vengono eliminate da eventi negativi, è noto come “scalarità di emergenza”. Alcune specie si possono moltiplicare oltre che per semi, anche tramite gemme, cioè strutture complesse in grado di originare nuovi tessuti e quindi nuove piante, normalmente presenti sui rami delle piante arboree e delle piante lianose come la vite. Perciò il loro ciclo vegetativo supera, di norma, un anno perché si propagano teoricamente a ciclo continuo, potendo esse ricacciare dalle gemme. Queste piante si dicono vivaci: pluriennali (se hanno gemme su radici ingrossate) oppure perenni (se le gemme sono su rizomi o su stoloni). Il rizoma è un fusto trasformato che vive solitamente sotto la superficie del terreno; gli stoloni sono, invece, ramificazio-
Vigneto infestato da cardo campestre a San Casciano (FI) Semi delle piante infestanti dei vigneti. 1 = Forasacco 12 = Euforbia 13 = Erba medica 2 = Ortica 3 = Amaranto 14 = Grespino 4 = Chenopodio 15 = Senecione 5 = Centocchio 16 = Loglio 17 = Pabbio 6 = Porcellana 7 = Piantaggine 18 = Gramigna 8 = Veronica 19 = Soffione 9 = Vilucchio 20 = Aspraggine 10 = Malva 21 = Saeppola canadese 11 = Correggiola 22 = Orzo selvatico
2
3
8
9
10 19
4
1
6
5
7
11
12
14
15
426
13
16
17
18
20
21
22
flora spontanea ni che nascono, solitamente, alla base della pianta e si allungano in tutte le direzioni. Anche le piante vivaci sono dotate di scalarità di emergenza, ovviamente per quel che riguarda la loro facoltà di riproduzione tramite semi. Esse, inoltre, adottano un meccanismo analogo anche per l’ordine di germogliazione delle gemme, attivano prima quelle più lontane dalla pianta madre e, quando necessario, successivamente quelle più vicine: in questo caso si parla di “dominanza apicale”.
Foto R. Angelini
Piante dannose Tra le piante elencate sopra, alcune sono inadatte a costituire un efficace cotico erboso e altre sono addirittura pericolose perché possono ospitare insetti dannosi come Hyalesthes obsoletus, vettore del legno nero (LN). Oltre a ortica e vilucchio anche altre dicotiledoni, che fungono da “serbatoio” del fitoplasma responsabile di questa malattia e perciò sono chiamate “piante nutritive”, pare siano coinvolte nella diffusione dell’infezione. Le “piante nutritive” finora accertate sono: amaranto, amarella, aspraggine volgare, cardo campestre, chenopodio, cinquefoglie comune, erba medica, grespino, malva selvatica, piantaggine e soffione. Tra le graminacee la presenza del fitoplasma del legno nero è stata accertata solo per il pabbio (setaria). La presenza di queste specie all’interno del vigneto o nei campi nelle vicinanze può rappresentare un grave inconveniente nel corso dell’intero anno e non solo durante l’estate, quando l’insetto inizia la sua attività. L’eliminazione delle radici, oltre che della parte aerea delle piante di ortica e di vilucchio è perciò raccomandata, e di solito avviene con l’impiego di diserbanti chimici sistemici. Buona pratica però sarebbe anche creare un inerbimento artificiale a base di piante graminacee persistenti (festuca, loglio ecc.) da sfalciare saltuariamente che, per effetto della loro competizione, sono in grado di limitare o impedire l’insorgenza delle specie dannose.
Ortica
Apparato radicale dell’ortica Pianta di vilucchio con rizoma
427
coltivazione Evoluzione stagionale della flora naturale Per formulare una efficace strategia di diserbo atta a eliminare le piante dannose e quelle non adatte a costituire un buon cotico erboso tra i filari di vite, o perché eccessivamente competitive o perché poco resistenti al calpestamento o perché effimere, occorre conoscere l’evoluzione della flora nell’arco dell’anno. Si tratta di individuare l’avvicendamento delle diverse specie durante le stagioni e favorire le specie utili, a scapito delle altre. Le piante che si riproducono solo per seme e che nascono in autunno rimangono sul terreno generalmente per tutta la primavera e, dopo avere disseminato, sono rimpiazzate da altre piante che nascono in primavera e che rimangono sul terreno fino all’autunno. Le piante vivaci sono potenzialmente in grado di nascere durante tutto l’anno, tranne forse nei periodi eccessivamente freddi o in quelli particolarmente siccitosi. Dove non si semina appositamente tra i filari e durante i primi anni del vigneto, la maggior parte della vegetazione spontanea è rappresentata normalmente da piante dicotiledoni annuali. Quelle che nascono dall’autunno all’inizio della primavera (correggiola, euforbia, centocchio, senecio e veronica), fioriscono in aprilemaggio e maturano i semi nel mese di giugno (le ultime tre specie possono fiorire anche in inverno e riprodursi due o più volte all’anno). Durante la primavera nascono amaranto, chenopodio, porcellana e saeppola che fioriscono in piena estate e disseminano fino all’autunno. Tra le graminacee annuali la maggior parte è a ciclo autunnaleprimaverile (forasacco, loglio e orzo selvatico) e il solo pabbio, tra quelle qui considerate, nasce in primavera. Nei vigneti più vecchi solitamente prendono il sopravvento le specie vivaci, in particolare: gramigna, piantaggine e soffione.
Evoluzione stagionale della flora (% massa) 60 50 40 30 20 10 0
Dicotiledoni Dicotiledoni Graminacee Graminacee annuali vivaci annuali vivaci Fine inverno
Primavera
Autunno
Effetti delle sarchiature L’effetto diserbante delle sarchiature varia, oltre che in funzione dell’epoca in cui si effettua, anche dall’umidità del terreno, apportata con le piogge o con l’irrigazione: nei terreni umidi la sarchiatura, specialmente nei periodi più caldi della primavera, sortisce generalmente effetti contrastanti perché elimina la vegetazione presente ma consente la nascita di nuova vegetazione, diversamente assortita rispetto a quella eliminata. Di solito la sarchiatura favorisce le specie vivaci, che hanno la capacità di rigenerarsi velocemente, a scapito di quelle annuali, tranne nei casi di quelle (centocchio, senecione e veronica) che hanno ciclo vegetativo molto corto e che sono perciò in grado di maturare i semi in breve tempo e di rinascere subito dopo. Se le sarchiature sono effettuate nella tarda primavera possono favorire, oltre che le specie vivaci, anche le specie annuali che nascono in piena stagione primaverile, come amaranto, chenopodio e porcellana fra le dicotiledoni, oltre al pabbio.
Lavorazioni nel vigneto
428
flora spontanea Effetti delle sarchiature sulla diffusione delle specie (dati rilevati in campo) N° sarchiature
1
1
2
Epoche sarchiature
A fine inverno
A metà primavera
Nelle 2 epoche (*)
Amaranto comune
S
S
-
Amarella
NS-NS
NS-NS
NS-NS
Aspraggine volgare
NS-NS
NS-NS
NS-NS
Cardo campestre
S
S
S
Centocchio
-
S
NS
Chenopodio bianco
SS
NS
NS
Cinquefoglie comune
NS
NS-NS
NS-NS
Correggiola
S
-
NS-NS
Erba medica
NS-NS
NS-NS
NS-NS
Euforbia
-
-
SS
Forasacco
NS-NS
NS-NS
NS-NS
Gramigna comune
S
S
S
Grespino
S
S
NS
Loglio
NS
SS
NS
Malva selvatica
S
S
NS-NS
Ortica comune
S
-
NS-NS
Orzo selvatico
NS-NS
NS-NS
NS-NS
Pabbio
SS
S
S
Piantaggine
-
S
S
Porcellana
-
S
SS
Saeppola canadese
NS-NS
NS-NS
NS-NS
Senecione comune
S
S
S
Soffione
NS
NS
S
Veronica comune
S
S
NS
Vilucchio
NS
-
S
Vigneto lavorato in Puglia Foto M. Parente
(*) a fine inverno e a metà primavera NS = presenza influenzata negativamente (da –5 a –10% rispetto al non sarchiato) NS-NS = presenza influenzata molto negativamente (> –10% rispetto al non sarchiato) - = presenza non influenzata (da –4 a +9% rispetto al non sarchiato) S = presenza influenzata positivamente (da +10 a +30% rispetto al non sarchiato) SS = presenza influenzata molto positivamente (>30% rispetto al non sarchiato)
Vigneto a Velletri: parcelle sarchiate alternate a parcelle non sarchiate
429
coltivazione Descrizione delle specie
Plantule di amaranto
Amaranto comune o blito (Amaranthus retroflexus). Il nome di queste piante, che ricorda anche il colore di molte di esse, deriva dalla persistenza dei frutti sulla pianta anche dopo che questa è avvizzita (dal greco: a = non, maraino = avvizzisco); retroflexus si riferisce, invece, alla pannocchia pendente all’indietro. Gli amaranti nelle zone di origine (tropici) sono anche utilizzati come alimenti: le piante sono ricche di proteine, acidi grassi, microelementi e di vitamina C e dai semi si ottiene un’ottima farina panificabile. Le foglie sono intere, romboidali, inserite su un fusto eretto e robusto. I piccolissimi fiori sono riuniti in pannocchie; i semi (ogni pianta ne produce più di 100.000) lucidi, lenticolari, scuri, di circa 1 mm di diametro, maturano in piccole capsule. L’amaranto comune è specie annuale, con ciclo primaverile-autunnale. Le piante possono ospitare l’agente responsabile del legno nero della vite (LN).
Amarella o assenzio selvatico
Amarella o assenzio selvatico (Artemisia vulgaris). Pare (così afferma Dioscoride) che la dea greca Artemide utilizzasse di frequente queste piante a scopo curativo e terapeutico; questo fatto viene ricordato dal nome latino mentre la sua grande diffusione è sottolineata dall’aggettivo vulgaris. Pare anche che se si raccolgono le sue radici durante la notte di S. Giovanni Battista (24 giugno) si è preservati dal pericolo dei fulmini e si è immuni dalla peste, almeno questo è quanto si diceva in passato. È una pianta perenne, dal debole odore di vermuth, con fusto eretto e con foglie profondamente incise, biancastre di sotto. I fiori sono raccolti su piccoli capolini arrossati, a loro volta, riuniti in larghe pannocchie. Nasce verso la fine della primavera, fiorisce in piena estate, persiste fino all’autunno inoltrato ed è sensibile al fitoplasma del legno nero. Foto R. Angelini
Aspraggine volgare (Picris echioides). Sia il nome latino sia quello italiano ricordano il sapore amaro di questa specie, dovuto in parte anche al suo contenuto di latice, che emette dai fusti rotti; nonostante questo sapore la specie era ed è ancora impiegata nella cucina mediterranea, cotta o in insalata. È una delle “piante nutritive” dell’insetto responsabile del legno nero. Le foglie sono intere, lanceolate, dentate, cosparse di piccole e bollose macchie bianche con una setola spinosa centrale (è a questa caratteristica che si riferisce l’aggettivo echiodes). I fiori sono gialli, a forma di ligula, riuniti in grossi capolini con brattee spinulose alla base. I frutti sono simili a semi rugosi, a forma di cuneo, con un pappo piumoso, inserito su un filamento apicale. Si riproduce tramite semi, nasce alla fine dell’inverno e fiorisce in piena estate.
Aspraggine volgare
430
flora spontanea
Foto R. Angelini
Cardo campestre o stoppione (Cirsium arvense). La parola greca kirsós (varici) ha ispirato il nome latino della specie usata in passato per curare queste malattie. Le foglie sono spinose sul margine, proprio come quelle di alcuni cardi: da ciò deriva il primo nome italiano mentre il secondo nome mette in evidenza la rigogliosa crescita di queste piante nelle stoppie del frumento. I fiori, rosati, sono riuniti in capolini e danno origine a piccoli acheni con pappi bianchi e piumosi. In Italia questa specie si riproduce quasi esclusivamente per gemme radicali perché di solito non è in grado di produrre semi vitali, ma il suo apparato radicale può emettere nuove piantine durante tutti i periodi dell’anno. È una pianta dannosa, anche perché potrebbe ospitare l’agente responsabile del legno nero.
Cardo campestre o stoppione
Centocchio comune o stellaria (Stellaria media). I nomi di questa specie sottolineano la forma a stella dei suoi fiorellini, ognuno con 5 petali profondamente incisi in due lobi, che sembrano anche dei piccoli occhi. Il fusto è gracile, cilindrico, con una linea di peli che convoglia le goccioline di pioggia alla base delle foglie. Queste ultime sono intere e sessili, senza peli, di forma ovale e acute alla sommità; esse sono opposte lungo il fusto. I semi (circa 3000 per pianta) maturano in piccole capsule coronate. La specie si moltiplica solo tramite semi; nasce di preferenza in autunno e si diffonde maggiormente verso la fine dell’inverno e l’inizio della primavera, ma si trova anche in altre stagioni perché ha ciclo vegetativo molto corto.
Centocchio comune o stellaria
Chenopodio bianco o Farinello comune (Chenopodium album). La somiglianza della forma delle foglie con le zampe delle oche (dal greco: khen = oca e podion = piede) giustifica il nome latino di questa specie che è detta anche farinello, per essere ricoperta di sferette bianche simili a grumi di farina. In passato il farinello era usato anche come verdura. La pianta è sensibile al fitoplasma del legno nero. I piccolissimi fiori sono disposti in ampie pannocchie, ognuno è costituito da 5 brattee erbacee che, a maturità, racchiudono un piccolo seme scuro (ogni pianta ne produce più di 70.000). Queste piante si riproducono solo mediante semi; il loro ciclo vegetativo si svolge dalla primavera all’autunno. Chenopodio bianco o farinello comune
431
coltivazione Cinquefoglie comune (Potentilla reptans). Il nome latino ricorda le proprietà medicinali di questa pianta, particolarmente potenti; quello italiano si riferisce alle foglie che hanno la lamina formata da cinque lobi dentati. I fusti principali, simili a stoloni, partono da una rosetta di foglie, crescono lunghi (anche fino a 1 m) e sottili, strisciano (reptans) sul terreno e radicano ai nodi, dai quali hanno origine nuove piante. I fiori, alla sommità di lunghi peduncoli, sono isolati, grandi (2-3 cm di diametro) con cinque petali gialli incavati alla sommità. La specie, potenzialmente dannosa perché sensibile al fitoplasma del legno nero, è in grado di vegetare durante tutto l’anno, anche se si diffonde particolarmente in concomitanza della fioritura, nel corso della primavera e dell’estate. La specie raramente matura semi germinabili e affida la sua propagazione a gemme radicali.
Foto R. Angelini
Cinquefoglie comune
Correggiola o Poligono degli uccellini (Polygonum aviculare). Questa pianta ha fusti nodosi ripiegati come ginocchia (dal greco: pòlys = molti e gony = ginocchi-nodi). Il riferimento agli uccellini riguarda i semi che da questi sono particolarmente appetiti. Da ogni nodo del fusto hanno origine, all’interno di guaine dette ocree, foglie e fiori. Le foglie sono lanceolate (5-18 mm). I fiori sono piccoli, biancastri o rossastri. Il frutto è sfaccettato ed è simile a un seme spigoloso. Il Poligono degli uccellini si riproduce solo grazie ai semi (una pianta ne produce più di 6000); si trova quasi tutto l’anno, se si escludono i periodi eccessivamente freddi, ma nasce preferibilmente tra la fine dell’inverno e l’inizio della primavera, fiorisce nel corso della stessa stagione e dissemina in estate. Correggiola o Poligono degli uccellini Foto R. Angelini
Euforbia (Euphorbia spp.). Euphorbus era il medico di Giuba, re della Numidia (l’attuale Algeria) nel corso del I secolo a.C.; per i suoi medicamenti utilizzava particolarmente infusi e impacchi di queste piante, oltre al latice, opportunamente dosato e preparato, altrimenti irritante e tossico, del quale sono ricchi i fusti. Le foglie sono intere, per lo più grassette. I fiori sono molto piccoli e riuniti in gruppetti, con alla base brattee fogliacee a volte vivacemente colorate per attirare gli insetti impollinatori. Il frutto è una capsula contenente tre semi che hanno un callo alla base particolarmente apprezzato dalle formiche che per cibarsene trasportano i semi anche a grande distanza dalla pianta madre, diffondendo così la specie nell’ambiente. La specie più diffusa è l’euforbia calenzuola (Euphorbia helioscopia) che vive in primavera e si riproduce solo per seme.
Euforbia
432
flora spontanea Forasacco (Bromus spp.) Il nome latino di queste piante deriva dalla parola greca bròma che vuol dire cibo o nutrimento. Le piante adulte sono cespitose, a portamento eretto. Le foglie sono generalmente pelose, con ligule più o meno evidenti, membranacee, dentate sul bordo; hanno la particolarità di avere la guaina chiusa, cioè con i bordi saldati. I fiori, con lemmi spesso lungamente aristati, sono raccolti in spighette pluriflore e queste su pannocchie. Le spighette sono racchiuse in due glume diverse fra loro. La specie più diffusa nei vigneti è il forasacco sterile (B. sterilis), dalle spighette spesso arrossate, così detto perché quando a maturità le cariossidi cadono, le glume appaiono vuote e sembrano perciò sterili. Questa specie si riproduce per seme, nasce in autunno e raggiunge la massima diffusione in primavera; dopo la fioritura avvizzisce e viene sopraffatta dalle specie estive.
Foto R. Angelini
Forasacco
Gramigna comune o dente di cane (Cynodon dactylon). Le gemme dei rizomi, simili nella forma ai canini di cane, giustificano i nomi della specie (dal greco: kyon = cane e odon = dente); l’aggettivo dactylon si riferisce, invece, alle spighe disposte in modo da sembrare le dita (dàctylos) di una mano aperta. Questa specie è tanto odiata dagli agricoltori, per il suo potere infestante delle colture, quanto amata dagli erboristi, per le sue facoltà curative di molte affezioni (l’infuso è diuretico, rinfrescante ed emolliente). Il frutto si chiama cariosside e contiene un solo seme, che in Italia stenta a maturare, per cui la riproduzione della specie è affidata a coriacei rizomi sotterranei e a stoloni superficiali dai quali si originano nuove piante, praticamente durante tutto l’anno, specialmente nei terreni poco lavorati.
Foto R. Angelini
Gramigna comune o dente di cane Foto R. Angelini
Grespino (Sonchus spp.). Il nome latino ricalca quello greco (sonkos). Il fusto è eretto, ricco di latice bianco, che si diceva in passato (il botanico inglese dell’800 William Coles) facesse aumentare la secrezione del latte delle scrofe che se ne cibavano. Le foglie hanno lamina incisa in lobi. I fiorellini, di colore giallo, sono raccolti su piccoli capolini; i frutticini che da essi si sviluppano sono muniti di pappo piumoso. Le due specie più diffuse sono il grespino comune (Sonchus oleraceus) e quello spinoso (Sonchus asper); entrambe le specie costituiscono un ottimo ingrediente della cucina mediterranea (come l’aggettivo specifico latino della prima specie citata conferma), ma nei vigneti la loro presenza è considerata dannosa anche perché sensibile al fitoplasma del legno nero. La riproduzione dei grespini avviene tramite semi; la loro presenza è massima durante la primavera.
Grespino
433
coltivazione Loglio (Lolium spp.). Queste graminacee si riconoscono facilmente per le loro foglie lanceolate lucide e con ligula poco evidente; quelle emesse dalla fase di accestimento in poi sono munite anche di orecchiette. Le infiorescenze sono spighe strette, mutiche (in L. perenne = loglio comune) o aristate (in L. multiflorum = loglietto), compresse e sottili, costituite da spighette contenente ognuna diversi fiori. Le spighette sono inserite in posizione laterale rispetto al rachide dell’infiorescenza. Queste specie, se nascono spontaneamente e sono sottoposte a diserbo, chimico o meccanico, si comportano da annuali; se invece si seminano appositamente per costituire un tappeto erboso tra i filari del vigneto e sono sfalciate periodicamente, assumono habitus vivace e si rigenerano mediante gemme radicali. Sono presenti in prevalenza durante il periodo autunno-primaverile.
Foto R. Angelini
Loglio
Foto R. Angelini
Malva selvatica (Malva sylvestris). Le foglie giovani di questa pianta erano usate come verdura in passato; in epoca romana erano già conosciute le proprietà emollienti e durante il Medioevo si usava l’infuso per contenere la mascolinità dei più focosi. Le proprietà emollienti sono ricordate dal suo nome (dal greco malakòs = molle). I fusti sono tenaci alla base; le foglie sono palmate, con 5 lobi poco evidenti e una vistosa insenatura all’inserzione con il picciolo. I cinque petali di ogni fiore sono spatolati, rosa striati di violetto. Il frutto è conformato a ciambella ed è costituito da una serie di semi lenticolari di colore grigio-scuro. La malva nasce alla fine dell’inverno e fiorisce in primavera e in estate, riproducendosi per seme o anche per gemme radicali. La sua presenza nel vigneto o nei pressi potrebbe costituire la fonte del fitoplasma che causa il legno nero.
Malva Foto R. Angelini
Ortica comune (Urtica dioica). È la specie più pericolosa nei vigneti perché sulle sue radici sverna l’insetto vettore del fitoplasma responsabile del legno nero. Queste piante sono sempre state amate e odiate allo stesso tempo. Amate per le loro qualità medicinali (emostatiche, astringenti, depurative), industriali (tessili) e alimentari (minestre e preparazione di paste alimentari all’ortica). I denigratori rilevano le sue proprietà urticanti (dovute all’acido formico contenuto nei peli che ricoprono foglie e fusti) e la dipingono come pianta maledetta (durante il Medioevo con fasci di ortica si frustavano i condannati renitenti o si autoflagellavano i monaci per “mortificare la carne”). I fusti sono eretti, le foglie sono cuoriformi. I fiorellini sono disposti in pannocchie. Le piante si riproducono, in primavera, anche per mezzo di gemme radicali.
Ortica
434
flora spontanea Orzo selvatico (Hordeum murinum). Le reste delle spighe, irte e scabre, fanno inorridire (dal greco horreo = inorridisco), ne sanno qualcosa quegli sfortunati cani che scorrazzando lungo le strade di campagna si ritrovano con una di queste spighe nelle narici sanguinanti e non riescono a liberarsene, fino, qualche volta, a soffocare. Questa graminacea ha il fusto eretto, cavo, nodoso. La ligula è molto evidente, e lo sono anche le due orecchiette che abbracciano il fusto, tra la guaina e la lamina fogliare. Le spighette sono riunite in gruppetti e in parte sono sterili. Le glume sono restiformi e contribuiscono con le reste dei lemmi a conferire l’aspetto “orrido” all’intera spiga. Questa specie si riproduce solo per semi, nasce durante l’autunno e rimane nel vigneto fino alla primavera successiva, dopo di che scompare.
Foto R. Angelini
Orzo selvatico
Pabbio o setaria (Setaria spp). Le pannocchie del pabbio sono ovoidali o cilindriche, cosparse di setole ricoperte di microscopici dentini, rivolti verso il basso in pabbio verticillato (Setaria verticillata, che per questo motivo se appoggiata ai vestiti vi rimane attaccata) e verso l’alto in pabbio rossastro (Setaria glauca), con setole rossastre oppure in pabbio comune (Setaria viridis), con setole giallastre: entrambe le due ultime specie scivolano se appoggiate ai vestiti. Il fusto è compresso, le foglie sono lanceolate, la ligula è pelosa alla sommità. Da ogni spighetta matura un solo seme a forma di goccia, da opaco a lucido e da giallo a nero, a seconda della specie. Queste specie si riproducono solo tramite semi (circa 20.000 per pianta); esse vegetano durante le stagioni più calde. Sulla setaria può trovare ospitalità l’agente responsabile del legno nero.
Pabbio o setaria Foto R. Angelini
Piantaggine (Plantago spp.). Le foglie di piantaggine sono appressate al terreno e ricordano le orme lasciate dalla pianta (planta) del piede; hanno nervature parallele e sono disposte in una rosetta. La pianta non ha fusto, se non quello dello scapo che porta una spiga di fiorellini poco appariscenti. Nei vigneti italiani si trovano con una certa frequenza due specie: piantaggine lanceolata o lingua di cane (Plantago lanceolata), con foglie lanceolate, e piantaggine maggiore (Plantago major), con foglie ovoidali. Su queste piante può trovare ospitalità l’agente del legno nero. Le gemme possono ricacciare durante tutto l’anno. Le piantaggini sono considerate piante infestanti, ma sono anche piante medicinali, con potere astringente, calmante e antiemorragiche; le foglie hanno, infatti, potere cicatrizzante. Piantaggine
435
coltivazione Porcellana comune (Portulaca oleracea). La portula con la quale si apre il frutticino dà il nome a questa specie; il nome comune pare derivi dal fatto che di queste piante vanno particolarmente ghiotti i maiali. L’intera pianta, però, si utilizza ancora come insalata (a questo si riferisce il termine oleracea). Fino al XVIII secolo la porcellana era annoverata tra le piante “esorciste”; era ritenuta capace, se mischiata con altre erbe e appesa fuori dalla porta, di impedire al diavolo di entrare. Il fusto è cilindrico, liscio, più o meno strisciante sul terreno. Le foglie sono carnosette, a forma di spatola. Una corolla gialla caratterizza i piccoli fiori. Ogni frutto (capsula) contiene moltissimi semi neri, piccolissimi e reniformi (una pianta ne produce circa 52.000). Nasce in primavera e continua a nascere anche in estate se il terreno è umido. Porcellana comune Foto R. Angelini
Saeppola canadese (Conyza canadensis). Pare che il nome latino derivi da quello greco della pulce (kónopos) e sottolinea il forte odore di cimice di questa pianta. Giunta in Italia dagli Stati Uniti e dal Canada circa due secoli fa, si diffuse dapprima lungo le ferrovie e le strade (i veicoli passando facevano volare via i semi leggeri e piumosi). Col tempo si stabilì nei terreni incolti e attualmente si trova in molte colture, specialmente nei frutteti, e nei vigneti in particolare, dove il terreno non è lavorato frequentemente. Tutta la pianta è pelosa. Il fusto è eretto; le foglie sono lanceolate, intere e con picciolo largo. I fiorellini sono raccolti su piccoli e numerosi capolini e maturano piccolissimi semi piumosi. La specie si riproduce solo per seme, nasce in primavera, fiorisce e dissemina da giugno a ottobre. Saeppola canadese Foto R. Angelini
Senecione comune (Senecio vulgaris). I capolini maturi ricoperti di setoline candide, come i capelli dei vecchi (senex) ha ispirato il nome di questa piccola Composita. Le piante giovani hanno foglioline intere, quelle adulte hanno foglie lobate. Si tratta di specie medicinale, utilizzata in passato per curare molte malattie (ulcere della pelle ecc.) e per regolare il ciclo mestruale. I piccolissimi fiori gialli sono riuniti su piccoli capolini. I semi (circa 1000 per pianta) sono fermamente racchiusi in piccoli frutti costoluti, a forma di cuneo, muniti di pappo piumoso. La specie si riproduce solo per semi e ha un ciclo vegetativo molto corto potendosi riprodurre più volte in un anno ed è possibile trovare contemporaneamente piante in vari stadi di sviluppo, anche durante l’inverno, specialmente nei vigneti del meridione.
Senecione comune
436
flora spontanea Soffione o dente di leone (Taraxacum officinale). I frutticini di questa composita dai fiori gialli e dal fusto lattiginoso hanno un pappo che, in balìa del vento o in seguito a un soffio, vola vorticando; le foglie hanno margine diviso in lobi a forma di denti di leone: a queste caratteristiche si ispirano i due nomi italiani. Il nome latino deriva invece dall’uso medicinale (officinale) come rimedio (akos) all’intorbidimento della vista (táraxis). In passato dalle radici abbrustolite si ricavava un caffè, parecchio scialbo (che il grande Totò chiamava “ciofeca”). È una specie adoperata anche nella cucina mediterranea, ma è dannosa se si trova nei vigneti perché potrebbe essere visitata dall’insetto che inietta nelle piante di vite il fitoplasma responsabile del legno nero. Nasce durante tutto l’anno, grazie alla continua produzione di semi e alle gemme radicali.
Foto R. Angelini
Soffione o dente di leone Foto R. Angelini
Veronica comune (Veronica persica). La specie è dedicata a Santa Veronica che asciugò il volto di Gesù sulla strada del Golgota. I fusti sono adagiati sul terreno. Le foglie sono ovali e dentate sul margine. I bellissimi fiori cerulei sono riuniti in racemi fogliosi. I piccoli semi, incavati a conchiglia (una pianta ne produce circa 200) maturano all’interno di piccole capsule compresse bilobate. Specie simile è la veronica a foglie d’edera (V. hederifolia), con capsule pressoché sferiche. Le veroniche si riproducono solo per seme. Hanno ciclo vegetativo molto corto e riescono ad avere anche due o più generazioni nel corso dell’anno. Si trovano specialmente (anche fiorite) tra la fine dell’inverno e la primavera, e quasi sempre anche durante l’estate e l’autunno.
Veronica comune
Vilucchio comune (Convolvulus arvensis). Questa specie, con l’ortica, rappresenta l’ospite più visitato dall’insetto responsabile del legno nero della vite. Sia il nome italiano sia quello latino si riferiscono al fusto flessuoso e avvolgente (dal latino convolvere = avvolgere) che si arrampica e si attorciglia a elicoide intorno alle altre piante. Ha foglie intere, lisce, cuoriformi o con due denti triangolari pronunciati alla base. La corolla bianca o rosea dei fiori è imbutiforme. I grossi semi (3 mm), scuri e rugosi, sono contenuti in capsule lisce ovoidaliappuntite. La specie si riproduce per seme e per gemme radicali o disposte su rizomi. Fusti e foglie appaiono in tutte le stagioni, se si escludono i periodi invernali particolarmente freddi, ma la massima presenza si nota durante l’estate e l’autunno.
Vilucchio comune
437
la vite e il vino
coltivazione Gestione del suolo Roberto Miravalle
www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche.
coltivazione Gestione del suolo Introduzione La vite colonizza nel terreno uno strato relativamente profondo, rispetto ad altre colture, in funzione della composizione del terreno stesso (le radici scendono in profondità, passando da un terreno argilloso e compatto a terreni più leggeri, fino a raggiungere lo strato più profondo nei terreni ricchi di scheletro), del tipo di portinnesto e delle condizioni ambientali generali. Nelle graves di Bordeaux sono state misurate radici profonde 5,4 m con estensione laterale anche doppia. Tuttavia, gli apparati radicali si concentrano di norma nei primi 50-60 cm. Va da sé che sono fortemente influenzati dalle pratiche colturali che il viticoltore esegue sul suolo stesso. Il terreno non rappresenta solo una fonte di scambio per acqua e nutrienti necessari alla vita della pianta, tra vite e suolo esiste un’area, poco nota a dire il vero, che prende il nome di rizosfera. Questa è la zona di contatto tra radici e terreno; essa presenta diverse caratteristiche in funzione della vicinanza alla radice stessa. Si può immaginare come una sorta di manicotto avvolgente le radici che serve da contatto e da punto di scambio. Le radici cedono al terreno essudati di diverso genere: sostanze zuccherine, acidi organici, sostanze fenoliche, polisaccaridi, enzimi, prodotti derivati dalla lisi delle cellule. Queste sostanze, a loro volta, costituiscono la base vitale per microrganismi, batteri e funghi che grazie a queste vivono e si sviluppano. Le attività di scambio tra vite e terreno sono mediate quindi da una zona ricca di vita, la rizosfera appunto. Cambiamenti bruschi legati a lavorazioni profonde, eccessivo apporto di nutrienti minerali ecc. cambiano la funzionalità della zona radicale e, in definitiva, l’espressione vegetativa e produttiva della vite. Sotto l’aspetto agronomico generale, il vigneto è una coltura che succede a se stessa per un arco di circa 30 anni, con la peculiarità di occupare verticalmente lo spazio, appoggiata a supporti inerti (pali, fili). Spazialmente abbiamo una successione di linee dove le viti si susseguono a distanza ridotta (filari), separati da spazi più o meno larghi che permettono il passaggio dei raggi solari e delle macchine (interfilari). Poiché il ceppo viene alzato da terra per almeno 70-80 cm o più, lo spazio al suolo occupato dai ceppi di vite è ridottissimo. Il terreno vitato è quindi aperto alla colonizzazione da parte di altre specie vegetali. Queste interagiscono con la vite nei modi più svariati, il più visibile dei quali è quello fortemente competitivo. La definizione “malerbe”, riferita alle specie che crescono in vigna, ne è la prova.
Nelle zone a forte siccità estiva bisogna evitare la competizione idrica con la flora infestante
I vigneti inerbiti si gestiscono facilmente con falciatrici rotative
L’inerbimento è il migliore sistema di controllo dell’erosione nei terreni in pendio
438
gestione del suolo In realtà, l’interazione è complessa. Da quella citata a molteplici situazioni in cui la copertura vegetale induce riflessi positivi sulla vite e sul vino. Le scelte operative sulle tecniche di gestione del suolo non possono essere guidate solamente da criteri quali: tradizione, costi, organizzazione aziendale ecc. È necessario, pertanto, un approccio olistico che ne valuti l’impatto a breve e lungo termine. Una viticoltura di qualità non può prescindere dalla sostenibilità e dalla conservazione del suolo. Linea guida rimane l’analisi del sistema viticolo: l’ambiente pedoclimatico, il tipo di suolo, la fertilità naturale, la giacitura, la pluviometria, la sistemazione e sgrondo, l’eventuale irrigazione, il portinnesto e il vitigno, la forma di allevamento, l’età del vigneto. Quanto basta per non scendere nella facile prescrizione di “ricette” di buon comportamento e per capire come scelte diverse (lavorazioni continue, inerbimento ecc.) possono essere comunque corrette, poiché giustificate dall’ambiente. Fondamentale è che esse non siano dettate solamente dalla consuetudine, dalla fretta o dal desiderio di estrema semplificazione. La viticoltura italiana si estende dall’estremo confine nord sulle Alpi a Pantelleria. Esiste, dunque, un’enorme variabilità, spesso addirittura all’interno di un singolo vigneto. Si passa dai terreni in posto nelle Alpi a quelli alluvionali tipici delle pianure venete ed emiliane, a quelli morenici; dai terreni vulcanici a quelli originati dal sollevamento del fondo marino. Ne deriva una grande varietà di struttura, granulometria, composizione, fertilità. L’interazione con clima, temperatura e piovosità in particolare, aumenta la variabilità, la complessità e l’originalità del terreno vitato italiano.
Inerbimento
• L’inerbimento è una tecnica di gestione del suolo che prevede una copertura vegetale sul terreno del vigneto gestita con sfalci, in luogo delle lavorazioni
• Costituisce un modello di gestione
del suolo altamente rispettoso della fertilità naturale
• Rappresenta il mezzo più efficace
per contrastare l’erosione e, quindi, la perdita di terreno a valle
• Ha un’influenza diretta sull’espressione vegetativa e produttiva della vite. Per queste ragioni, sono stati sviluppati diversi modelli di inerbimento
L’inerbimento è particolarmente importante nei sistemi di allevamento ad alta meccanizzazione per ridurre il compattamento del suolo causato dal passaggio di macchine pesanti
Foto R. Angelini
439
coltivazione Lavorazioni del terreno Fin da quando ci sono testimonianze scritte i vigneti sono stati lavorati. Senza ombra di dubbio, oggi si potrebbe ascrivere quel tipo di intervento come minimum tillage, dato che si impiegava unicamente energia umana o animale. E anche in questo caso, come testimoniano numerose iconografie, non si trattava di robuste pariglie di buoi, ma di coppie di vaccherelle o di asini. Lo scopo era sicuramente quello di prevenire l’invasione di “erbacce”, favorire l’infiltrazione dell’acqua piovana, incorporare il letame. Una pratica particolare avveniva in autunno avanzato, almeno nelle viticolture dell’Italia del centro-nord, Francia o comunque degli areali freddi, era quella di una lavorazione rincalzante, per proteggere il tronco dai geli invernali (la si trova ancora oggi a ridosso delle Alpi e in alcune zone della Pianura padana). La meccanizzazione moderna, iniziata timidamente tra il 1950 e il 1960, decollata poco più tardi con la messa a punto di motori diesel di dimensioni contenute, ha semplificato e facilitato le lavorazioni al suolo con enormi vantaggi per il viticoltore, alle prese anche col fenomeno dell’abbandono delle campagne indotto dal potenziamento del sistema industriale. Nel 1949 il numero di addetti all’agricoltura era pari al 49% della popolazione italiana. Una famiglia su due. Oggi poco più del 2% è occupato nel settore primario. È del tutto comprensibile che l’adozione della meccanizzazione dei lavori al terreno sia stata pronta, totale, e in qualche modo acritica. Oggi è possibile misurare anche gli inconvenienti connessi alla lavorazione meccanica. Le trattrici passano necessariamente nello stesso posto, molti passaggi annui creano un binario molto compatto. Alcuni attrezzi, in particolare le zappatrici rotative, di gran moda fino agli anni ’90, sminuzzano finemente il terreno, creando parecchi inconvenienti
Gli impianti nuovi vanno tenuti sgombri da erbe infestanti
Erosione a canyon causata dalle piogge su terreno frammentato da lavorazioni superficiali Vigneto a rittochino
440
gestione del suolo agronomici: le zappette, girando con forza, scolpiscono il suolo creando uno strato fortemente compattato (detto suola di lavorazione). Il terreno riceve una forte esposizione all’aria, favorendo la rapida degradazione della sostanza organica. La perdita della sostanza organica diminuisce la fertilità naturale del terreno e la capacità di scambio terra-pianta. Inoltre reimmette nell’atmosfera grandi quantità di carbonio in forma di anidride carbonica, che il processo di fotosintesi aveva precedentemente sottratto. A questo proposito, recenti studi hanno misurato l’effetto della riduzione o dell’assenza delle lavorazioni del terreno nella coltivazione del mais. La riduzione di emissione di anidride carbonica è stata di 1190 m3 per ettaro e per anno nel caso della lavorazione a strisce e di oltre 1500 m3 con la semina su sodo rispetto alle lavorazioni convenzionali del terreno. Inoltre, la riduzione del consumo di energia riduce ulteriormente le emissioni grazie al minore consumo di gasolio. Nei vigneti in pendio, e in particolare quando i vigneti hanno un orientamento a rittochino (filari che seguono la linea di massima pendenza), l’affinamento del terreno favorisce forme di erosione anche gravi, con perdita dello strato fertile e danni a valle per le colate di fango involontariamente procurate. Da oltre trenta anni questo tipo di disposizione è preferito in quanto favorisce il passaggio dei mezzi meccanici e la sicurezza nell’uso degli stessi. Poiché la vite copre solo parzialmente il suolo, le piogge battenti innescano fenomeni erosivi di diversa portata in funzione del tipo di terreno e della pendenza. L’effetto più evidente dell’erosione lineare è dato dalla formazione di piccoli canyon che trasportano a valle una grande quantità di terreno, anche 50 t all’anno, portando via dal vigneto la parte più ricca del suolo. Fuori dal vigneto, queste acque ricchissime di particelle terrose diventano fonte di disturbo, di danno e di possibile contaminazione delle acque superficiali. Ciò che all’interno dell’area coltivata è una ricchezza (azoto e fosforo in particolare), fuori dalla stessa può diventare sostanza indesiderata. L’eccessiva frammentazione del terreno superficiale induce smottamenti e scivolamenti del terreno superficiale, creando problemi notevoli al viticoltore e alla zona viticola interessata. Frammentazione e compattamento causano anche un anomalo scambio gassoso tra suolo e soprassuolo, favorendo fenomeni di asfissia radicale che si esprimono con anomalie vegetative connesse a turbe nutrizionali, in particolare con manifestazioni di carenza di potassio. Anche gli ingiallimenti dovuti a clorosi ferrica sono favoriti da lavorazioni intense dei terreni calcarei. Tuttavia, le lavorazioni del suolo rappresentano una pratica utile o addirittura indispensabile per la coltura stessa, ma con la coscienza della necessità di contenimento dei fenomeni erosivi e del compattamento, procedendo sulle linee guida della conservazione del suolo.
Forte infestazione di malerbe in un giovane impianto
Lo sminuzzamento del suolo aggrava la comparsa della clorosi ferrica
Spandiconcime interratore con il quale è possibile apportare nutrienti senza sconvolgere gli strati di terreno
441
coltivazione Le lavorazioni, oltre a rappresentare lo strumento fondamentale per la scerbatura, servono per incorporare gli apporti di nutrienti e di ammendanti, favoriscono l’infiltrazione dell’acqua piovana ed eliminano le carreggiate; sono indispensabili nella fase di allevamento, vale a dire nei primi anni di vita del vigneto, nelle aree a forte siccità, nei suoli che hanno tendenza a compattarsi. Sono state messe a punto una serie di attrezzature che riducono gli aspetti collaterali negativi degli interventi sul terreno e percorsi tecnici che ne prevedono un impiego ragionato. È bene preferire attrezzi a denti fissi, che smuovono il terreno e sradicano le erbe infestanti senza sminuzzarlo o rivoltarlo (sono i cosiddetti ripuntatori o coltivatori). In determinati ambienti possono essere impiegate vangatrici meccaniche, che hanno un assorbimento di energia motrice piuttosto alto, ma operano in modo agronomicamente corretto. Per l’interramento dei fertilizzanti si possono impiegare appositi spandiconcime, che interrano alla profondità desiderata gli apporti nutrienti senza stravolgere i profili del suolo. Attingendo dall’esperienza delle grandi aree cerealicole, dove l’impatto delle grandi macchine sul suolo è maggiore e, quindi, la necessità di porvi rimedio è prioritaria, si stanno introducendo nei vigneti attrezzi decompattatori capaci di smuovere il terreno compattato senza rivoltarlo. Un aspetto particolare è rappresentato dalle lavorazioni limitate alla zona del filare, con l’intento specifico di diserbare la fascia di terreno sottostante la chioma. Tra le diverse macchine atte allo scopo, il tipo di terreno e la distanza delle viti sulla fila sono i principali parametri di scelta da considerare.
Attrezzo per il diserbo meccanico sotto il filare tra i ceppi
Lavorazioni del terreno
• Le lavorazioni del terreno si ispirano
ai dettami della conservazione del suolo. In termini di impatto ambientale, la riduzione di queste e la variazione qualitativa contribuiscono anche al miglioramento della qualità delle acque superficiali e conservano nel terreno l’anidride carbonica sotto forma di sostanza organica
L’inerbimento Le relazioni tra flora erbacea e vite sono state studiate a partire dagli anni ’60 in Germania. Foto R. Angelini
Inerbimento precoce con Festuca longifolia in purezza Vigneto con inerbimento permanente
442
gestione del suolo Le valutazioni positive hanno creato una serie di “onde” verso sud. Negli anni ’70 sono stati compiuti ampi studi nell’Italia settentrionale, in Svizzera, in Alsazia e nella Loira, per poi arrivare a una certa adozione dell’inerbimento a partire dagli anni ’80, grazie anche ai lavori condotti dalle Facoltà di Agraria di Milano, Udine e Bologna, dalla Scuola di Laimburg in Alto Adige, all’Istituto di San Michele all’Adige e dall’Istituto per la Viticoltura di Conegliano Veneto. Leggendo le statistiche della nostra viticoltura, oggi circa un terzo della superficie dei vigneti è inerbita. L’inerbimento è diffuso soprattutto nelle province di Bolzano e Trento, nel Triveneto e in Emilia-Romagna. Anche nell’Oltrepò Pavese e in Piemonte, una quota sempre maggiore di viticoltori adotta questa forma di gestione del suolo. Nelle regioni centrali, grazie anche al contributo delle Facoltà di Agraria di Ancona e Firenze, che hanno fornito consistenti contributi di studio in materia, iniziano massive prove di adozione dell’inerbimento, ovviamente con modalità diverse dalla viticoltura del nord Italia. La flora spontanea compete con la vite per acqua e nutrienti, e nel contempo può favorire vari patogeni. Com’è allora possibile la convivenza o, addirittura, la continua adozione dell’inerbimento nei vigneti? La risposta è da cercarsi in diverse direzioni e, in ogni caso, nel bilancio complessivo dove, sempre più frequentemente, i benefici della copertura verde superano gli aspetti negativi. Anzitutto è mutato il ruolo della viticoltura: da fornitrice di vino-alimento in grandi quantità a basso costo, a produttrice di vini di qualità, capace di rispondere anche alle nuove forme di domanda improntate sul piacere, per occasioni definite, curiosità, cultura. L’aspetto della possibile riduzione del vigore del vigneto connesso all’inerbimento diventa, in questo contesto, un fattore positivo di qualità. La presa di coscienza degli effetti collaterali negativi, legati al passaggio delle lavorazioni da uomo-animali alle macchine, impone il controllo, la riduzione e, dove applicabile, l’abbandono delle lavorazioni stesse. Per la salvaguardia del terreno e della qualità delle acque e dell’aria. L’inerbimento è una tecnica di gestione del suolo che prevede una copertura vegetale sul terreno del vigneto realizzata con sfalci in luogo delle lavorazioni. Rappresenta il mezzo più efficace per contrastare le diverse forme di erosione e, quindi, di perdita di terreno a valle. L’ossidazione della sostanza organica e la conseguente perdita della stessa non solo è prevenuta, ma un vigneto inerbito accresce, nel tempo, la quantità di carbonio organico nel suolo. Presenta una grande quantità di interpretazioni in funzione dei diversi ambienti, allo scopo di massimizzarne i benefici, riducendo al minimo gli effetti competitivi indesiderati. Dall’inerbimento permanente nelle aree più fresche a quello temporaneo invernale delle zone a bassa piovosità.
Sovescio
• È una forma conosciuta da molto
tempo. Dopo la vendemmia si semina tra i filari una leguminosa, in genere il favino, che viene poi interrata in primavera. Questa pratica sta tornando attuale, anche perché la fonte primaria di sostanza organica, il letame, non è più disponibile da tempo a causa sia della diminuzione della zootecnia, sia della diversa forma di allevamento del bestiame. Oltre al favino, si possono impiegare le vecce, la facelia o miscele di leguminose e cereali (avena e orzo) che danno un humus più stabile
I convolvoli si arrampicano sulle giovani viti deprimendone lo sviluppo. Un appropriato intervento di diserbo può risolvere il problema
443
coltivazione Nel primo caso, con maggiore frequenza nei vigneti del nord-est che godono di una pluviometria superiore, dopo il secondo anno di età, si instaura un prato permanente gestito con sfalci ripetuti. Queste operazioni sono molto più rapide e meno costose e impattanti, rispetto a una lavorazione del terreno poiché richiedono potenze limitate e hanno velocità operative elevate. L’inerbimento naturale, spontaneo, è stato il più impiegato. Solo recentemente vengono preferite soluzioni più rispondenti alle caratteristiche specifiche del vigneto, seminando miscele o specie in purezza, in modo da ottimizzare ulteriormente i benefici di questa tecnica. Le specie impiegate devono rispondere a specifici adattamenti ecologici. Inoltre, nell’ambito delle diverse specie si devono impiegare varietà a crescita ridotta, affinché venga diminuito il numero degli sfalci e la potenziale competizione idrica. Quanta acqua può consumare una copertura vegetale in vigneto? Un dato medio per le graminacee indica un fabbisogno di 500 l di acqua per formare 1 kg di sostanza secca. Si può stimare che in ambiente di bassa-media collina del nord Italia si effettuino almeno 4 sfalci all’anno, con una produzione complessiva di erba verde stimabile tra le 20 e le 30 t annue di erba fresca, che corrispondono a circa 4-6 t di secco. Moltiplicando per il fabbisogno unitario, sono necessari dai 2000 ai 3000 m³ di acqua, per produrre tale biomassa assorbendo l’equivalente di 200-300 mm di piovosità annua. Molte aree viticole importanti, anche al nord Italia, come Piemonte, colline emiliane, Toscana, hanno precipitazioni annue inferiori ai 700 mm. Il modello di inerbimento deve tenere ben conto di questi parametri. Oltre al consumo idrico, sono fattori di scelta importanti la velocità di germinazione e l’installazione della copertura verde, la tolleranza al calpestamento, la capacità di rigenerarsi, la resistenza alla siccità, la rapidità di accrescimento, la durata. Il loietto è in grado di dare coperture molto rapide ed è interessante allo scopo di offrire una rapida protezione alle pendici di nuovi impianti e laddove si sono effettuati movimenti di terra. Ha lo svantaggio di una bassa tolleranza alla siccità per cui, rapidamente, lascia il posto alla flora spontanea. Meglio quando si impiegano logli perenni, da soli o in miscela. Alcune varietà hanno crescita ridottissima, un’eccellente copertura del suolo e buona tolleranza al calpestamento. Spesso il loglio perenne viene proposto in miscela con la Poa pratense, una graminacea a foglia fine con grande capacità rigenerativa. Questi miscugli derivano dall’esperienza dei tappeti erbosi ornamentali e sportivi; hanno una forte valenza positiva in termini di copertura, gestione, aspetto piacevole, con il solo punto critico della scarsa longevità. In ambienti a bassa fertilità sono da preferire le festuche. Nei terreni idromorfi, nei vigneti posti in terre fresche e fertili, è raccomandato l’impiego di varietà di Festuca arundinacea. È una
Inerbimento temporaneo con segale
Esiti di un diserbo autunnale. Il freddo invernale aiuta a tenere sgombro il sottofilare
Vigneto diserbato nel sottofila a fine giugno con erbicidi di contatto
444
gestione del suolo specie pronta a installarsi, rustica, adattabile, dotata di grande resistenza al calpestamento e alla siccità. Ha buona vigoria e può servire per attenuare quella della vite. Oggi ci sono varietà di derivazione sportiva, non più solamente foraggera. Queste nuove varietà mantengono tutte le prerogative della specie, ma sviluppano poco, riducendo gli oneri di manutenzione e i fabbisogni idrici e nutrizionali, estendono di fatto la possibilità di impiego di questa specie anche in ambienti meno ricchi. Nei terreni poveri e siccitosi, la Festuca arundinacea è spesso abbinata a specie rustiche con minore sviluppo e minori esigenze idriche e nutrizionali. Si tratta di Festuca rubra, Festuca ovina e Festuca longifolia, che insieme possono creare cotici duraturi, efficienti a bassa manutenzione. Negli areali a forte rischio di siccità estiva, si opta per inerbimenti temporanei, mantenendo il suolo coperto solo nel periodo autunno-invernale. A metà-fine primavera, il cotico erboso verrà interrato con una lavorazione leggera, arricchendo il suolo di sostanza organica e lasciando alla vite tutta l’acqua residua nel terreno. Recentemente, si va perfezionando l’impiego di specie autoriseminate. Il trifoglio sotterraneo ha la curiosa prerogativa di interrare le parti apicali degli steli fiorali, proteggendo così i semi dalla predazione degli erbivori; oltre a costituire interesse per i pratipascoli può risultare una scelta interessante per l’inerbimento temporaneo di vigneti e oliveti. Il trifoglio sotterraneo è capace di produrre un’abbondante biomassa in primavera, entrare in quiescenza nei mesi estivi per poi rigerminare spontaneamente con le piogge autunnali, senza necessità di specifici interventi. Rappresenta, quindi, una soluzione ideale per gli areali centromeridionali. Attualmente le varietà disponibili presentano una grande quantità di semi “duri”, cioè che non germogliano al primo segnale positivo, ma mantengono la loro energia germinativa nel tempo, originando nuove piantine secondo uno schema di sopravvivenza della specie. Ne consegue che la rinascita è irregolare e gli spazi non coperti vengono rapidamente occupati da specie più aggressive. È in corso un intenso programma di miglioramento varietale per impiegare al meglio questa specie. Si stanno testando anche altre alternative, quali la medica polimorfa, che ha un comportamento analogo e potrebbe rappresentare una risorsa importante per la viticoltura mediterranea, o meglio, per l’ambiente nel suo insieme. In alcune zone della Sicilia, sulle isole, ma non solo, i vigneti possono soffrire di erosione eolica o di danni provocati dal vento. L’inerbimento, anche a filari alterni, con cereali tipo grano duro, triticale, segale, crea una flessibile barriera antivento, trattenendo le particelle del terreno. A tarda primavera, quando la ventosità tende a scemare, si potrà trinciare e interrare la biomassa che, terminato il ruolo principale di protettore del terreno e della vite, assumerà quello di contribuire alla fertilità.
Foto R. Angelini
Vigneto diserbato lungo le file
Inerbimento totale; è possibile solo se si impiegano specie a ridottissima crescita
445
la vite e il vino
coltivazione Gestione malerbe e polloni
Gabriele Rapparini, Giovanni Campagna
www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche.
coltivazione Gestione malerbe e polloni Dannosità delle malerbe Le infestanti che caratterizzano la coltivazione della vite presentano un’ampia gamma di specie variabili in funzione dei diversi ambienti pedoclimatici che l’esteso areale di coltivazione comprende. Le stesse modalità di controllo delle malerbe, nonché l’età degli impianti e le pratiche di coltivazione, contribuiscono a rendere ulteriormente varia la flora infestante dei vigneti. Al centro e al sud prevalgono le malerbe a foglia larga, sia a sviluppo annuale che pluriennale, mentre al nord sono più frequenti le Graminacee. Entrambi i tipi di infestazione sono più competitive nei primi anni di impianto, mentre risultano maggiormente tollerate su colture in produzione con aspetti vantaggiosi se ben preservate, con una dannosità che rimane condizionata dal decorso climatico estivo e dalle pratiche irrigue. Quando si eseguono frequenti lavorazioni meccaniche, come negli impianti giovani, ma anche sotto le file degli impianti adulti, prevale un’infestazione a ciclo annuale più tipica delle colture sarchiate. Inizialmente si sviluppano le specie a crescita autunnoinvernale, seguite da quelle primaverili-estive, più competitive per il maggiore allungamento in altezza, con notevole ostacolo allo sviluppo dei tralci, e per i maggiori consumi di acqua durante il periodo estivo. In seguito, tendono a prevalere le specie a ciclo biennale e poliennale tipiche degli ambienti di transizione verso gli incolti, i prati e le zone di calpestamento, a causa dell’impossibilità di effettuare lavorazioni profonde nel terreno. Tra queste infestanti le specie Taraxacum officinalis, Daucus carota, Plantago spp., Erigeron canadensis, Artemisia vulgaris, Malva spp., Cirsium arvense ecc., risultano maggiormente competitive sia per il maggiore sviluppo sia per l’elevata richiesta di acqua e di elementi nutritivi.
Vigneto diserbato integralmente (non coltura)
Giovane vigneto lavorato su tutta la superficie L’inerbimento spontaneo controllato è una pratica di gestione dei vigneti sempre più utilizzata per i benefici agronomici e fitosanitari, come pure per i costi più limitati
446
gestione malerbe e polloni Quando si esegue la trinciatura della flora infestante, come frequentemente si verifica nei moderni impianti adulti della Pianura Padana, prevale una flora tipica dei prati sfalciati, rappresentata in particolare dalle specie Graminacee. Nel caso in cui si pratichi il diserbo sotto le file o su tutta la superficie, possono prevalere specie perennanti come Convolvulus arvensis, Calystegia sepium, Cirsium arvense, Malva sylvestris, Mentha arvensis, Brionia dioica, Phytolacca decandra, Potentilla reptans ecc., e tra le Graminacee Cynodon dactylon e Agropyron repens. Nei pressi delle aree collinari boschive, o anche negli impianti meno curati, possono fare comparsa anche specie arbustive come Robinia pseudoacacia, Clematis vitalba, Hedera spp., Rubus spp. ecc. Assai indesiderate rappresentano soprattutto un ostacolo alle operazioni colturali, oltre a determinare un indebolimento degli impianti e una minore produttività della coltura. Il periodo in cui si rende maggiormente necessario il contenimento delle malerbe, in particolare nei terreni meno fertili e con minore disponibilità di risorse idriche, è quello compreso tra la ripresa vegetativa e lo sviluppo degli acini, mentre nel periodo autunnoinvernale lo sviluppo delle malerbe oltre a essere tollerato può offrire notevoli vantaggi per consentire una minore competizione nutrizionale ed evitare ristagni di acqua.
La gestione integrata delle malerbe con diserbo sulla fila e inerbimento controllato negli interfilari sta assumendo una maggiore importanza sia negli ambienti più fertili e umidi di pianura (sotto) sia in quelli collinari (sopra)
447
coltivazione Evoluzione della tecnica colturale e implicazioni nella lotta alle malerbe L’attuale viticoltura persegue obiettivi di qualità elevata, nell’ambito di regole dettate da esigenze economiche, sociali e ambientali. Di conseguenza anche la tecnica di coltivazione si evolve allo scopo di perseguire tali obiettivi, tra cui la riduzione dei costi, la sostenibilità e la compatibilità ambientale. Le lavorazioni tradizionali eseguite su tutta la superficie manifestano limiti economici ed energetici, con un’induzione di clorosi e microcarenze, nonché danneggiamenti alla base dei ceppi ed effetti erosivi nei terreni declivi. Tuttavia, la non coltura assicurata dal solo apporto di erbicidi, oltre alle preoccupazioni di ordine ambientale, comporta difficoltà della gestione delle malerbe, con implicazioni di comparsa di infestanti di sostituzione, di più difficile contenimento. L’inerbimento permanente, spontaneo o artificiale, mediante specifiche essenze, rappresenta una pratica in grado di valorizzare il ruolo della flora spontanea in sintonia con l’ambiente, sebbene in determinate aree possa comportare dei limiti, in particolare durante i periodi più siccitosi. Per questo si tende sempre più a orientarsi verso l’inerbimento spontaneo controllato, più adatto anche per gli areali più aridi, che consiste nel lasciare sviluppare liberamente la flora, presente nel periodo di fine estate, fino al termine dell’inverno, intervenendo nelle fasi di maggiore competizione con la vite prima che produca un’eccessiva quantità di biomassa, mediante tecniche di gestione miste, quali lavorazioni, trinciatura o diserbo esclusivamente con prodotti fogliari. Gli interventi erbicidi, semplificati e adattabili nella maggior parte dei casi anche dove si opera nel rispetto dei Disciplinari di produzione integrata, sono eseguiti quasi esclusivamente in localizzazione sotto la chioma delle piante. Gli spazi interfilari sono sottoposti invece a lavorazione o trinciatura in un’ottica di lotta
Lavorazioni meccaniche eseguite su tutta la superficie
Inerbimento spontaneo permanente Lavorazione sotto filare con fresa rientrante e mantenimento del manto erboso nell’interfila periodicamente sfalciato
448
gestione malerbe e polloni integrata, a differenza del passato in cui si lavorava l’intera superficie coltivata. Attualmente si praticano le lavorazioni interfilari nelle aree più seccagne e collinari, oltre che nei giovani impianti, a differenza della gestione dell’inerbimento con periodiche trinciature, favorite nelle aree più fresche e umide delle pianure dove risulta maggiormente diffusa la viticoltura specializzata. Il successo di questa tecnica si deve principalmente alla rapidità di esecuzione e ai costi di gestione relativamente ridotti, all’eliminazione delle lesioni radicali e corticali che si procuravano con le lavorazioni meccaniche, alla mancata formazione della suola di lavorazione e conseguente riduzione dei ristagni idrici, accanto all’eliminazione dell’erosione superficiale, alla migliore transitabilità dei mezzi meccanici, ma anche all’aumento della proliferazione di insetti utili per la lotta integrata e biologica del vigneto. La sensibilizzazione operata dalle Direttive comunitarie riguardo la riduzione dell’impatto ambientale ha contribuito sicuramente a consolidare tale pratica. La presenza di un manto erboso, oltre a consentire un assorbimento migliore degli elementi nutritivi che potrebbero percolare lungo il profilo del terreno o ruscellare superficialmente nel periodo più piovoso autunno-invernale, porta a un arricchimento di sostanza organica e all’emissione di essudati radicali in grado di migliorare le funzioni biologiche del terreno. Inoltre, lo stesso manto erboso può essere sfruttato negli impianti in produzione per costituire una sorta di pacciamatura naturale a seguito del disseccamento delle malerbe nel periodo primaverile. Per questo, il ruolo della flora spontanea è stato valorizzato in questi ultimi tempi anche per i vigneti, nell’ambito di un’oculata gestione sia in termini spaziali (fila e interfila) sia temporali (utilità o minore danno arrecato in determinate stagioni anziché in altre).
Inerbimento controllato mediante periodica trinciatura dell’interfila
Distribuzione dei diserbanti residuali nei mesi invernali con barra munita di ugello a specchio che garantisce minore effetto di deriva Esecuzione di un intervento erbicida con barra schermata munita di ugelli a ventaglio
449
coltivazione Il manto erboso, tuttavia, per svolgere le sue funzioni deve essere ben curato come nella gestione dei tappeti erbosi mediante fertilizzazione e periodici sfalci, preferibilmente senza asportazione dei residui. In tabella a pagina seguente si riportano i principali vantaggi e svantaggi relativi alle differenti tecniche di gestione della flora infestante. Tecniche di lotta alle malerbe Il diserbo del vigneto è meno generalizzato rispetto alle colture erbacee estensive e la gestione delle malerbe risulta diversificata in funzione del sistema di allevamento, dell’età degli impianti, degli ambienti pedoclimatici e dell’area di coltivazione secca o irrigua ecc. Nei moderni impianti specializzati coltivati su ampie superfici e a una più elevata densità di impianto, si tende a privilegiare la tecnica del diserbo sulla fila sia per le finalità spollonanti sia per evitare di danneggiare l’apparato radicale e la base dei ceppi a seguito dell’utilizzo dei mezzi meccanici, ma soprattutto per il migliore contenimento delle malerbe vicine agli stessi. Questa tecnica tuttavia deve essere praticata con cautela allo scopo di non arrecare danni da fitotossicità alle piante e di non creare fenomeni di selezione di malerbe tolleranti o resistenti agli erbicidi. Conseguentemente si tende a praticare una gestione integrata combinando differenti pratiche di contenimento sulle file e nelle interfile. Per esempio, il diserbo chimico con le lavorazioni meccaniche, oppure la gestione del manto erboso interfilare con ripetuti sfalci negli impianti in produzione, avvalendosi della pacciamatura sotto la chioma per quelli di nuova costituzione. In questi infatti la competizione esercitata dalle malerbe determina rallentamenti di crescita tanto più accentuati quanto più sono giovani le piante e più superficiali sono gli apparati radicali, con minore lignificazione e maggiore suscettibilità ai rigori del gelo invernale. Inoltre, la pre-
Effetti fitotossici di un trattamento estivo su tralci e foglie con glifosate
Prezzemolatura delle foglie apicali, causata dall’azione di composti ormonici fenossiacetici a base di 2,4 D e MCPA Pacciamatura dell’area sottostante i filari
450
gestione malerbe e polloni Vantaggi e svantaggi delle diverse tecniche di gestione della flora spontanea infestante i vigneti Vantaggi
Svantaggi
Inerbimento controllato
Limitazione fenomeni erosivi Miglioramento transitabilità in condizioni difficili Maggiore tempestività di intervento Riduzione compattamento del suolo Maggiore penetrazione dell’acqua Riduzione effetti dei ristagni idrici Miglioramento tenore di sostanza organica Migliore struttura e areazione del suolo Miglioramento attività biologiche del suolo Riduzione fenomeni di clorosi e di altre carenze Riduzione squilibri termici giornalieri e stagionali Miglioramento biodiversità e presenza di insetti utili Riduzione lisciviazione verso acque di falda
Calo del vigore vegetativo (utile nel caso di impianti lussureggianti) Maggiore concorrenza idrica e nutrizionale Maggiore necessità di apporti irrigui Maggiore necessità di fertilizzazione Maggiore rischio di gelate tardive Maggiore difficoltà di gestione delle malerbe sotto le file Possibile comparsa di fenomeni allelopatici Possibile diffusione di patologie soprattutto a opera di insetti vettori
Lavorazioni meccaniche
Riduzione della concorrenza idrica e nutrizionale anche in funzione dell’effetto “sarchiata” (minore evapotraspirazione) Migliore incorporazione dei fertilizzanti Riduzione del tasso di umidità alla base dei tronchi Migliore infiltrazione dell’acqua (eccetto nei casi di suola di lavorazione) Maggiore areazione del suolo Maggiore approfondimento radicale Possibile aumento di immagazzinamento acqua piovana o irrigua Semplificazione contenimento malerbe Riduzione del rischio di danni da gelo alla base dei tronchi nel caso di rincalzatura
Alterazione delle condizioni biologiche del suolo (comparsa di clorosi ecc.) Aumento dei fenomeni erosivi Maggiore rischio di gelate tardive Possibile formazione di suola di lavorazione (impermeabilizzazione e asfissia radicale) Possibile danneggiamento e scortecciamento dei ceppi e tralci Rottura radici e capillizio radicale, con possibile infezione da funghi e altri parassiti Aumento del numero di passaggi e del consumo di carburante Maggiore diffusione di specie vivaci per spezzettamento organi sotterranei Minore transitabilità
Pacciamatura
Apporto di sostanza organica (in caso di matrici organiche) Miglioramento delle attività biologiche del suolo Miglioramento della struttura Riduzione fenomeni erosivi Riduzione dello sviluppo di ricacci di malerbe vivaci Riduzione della lisciviazione verso le acque di falda
Possibile insorgenza di necrosi Possibili danni da topi e arvicole Maggiore onere della stesura Necessità di interventi irrigui in caso di stesura di materiale impermeabile Maggiore rischio di gelate tardive
Diserbo chimico
Riduzione della concorrenza idrica e nutrizionale Eliminazione della suola di lavorazione Migliore assorbimento di acqua ed elementi nutritivi Preservazione dell’integrità dei ceppi Minore diffusione di patogeni e malattie Riduzione del tasso di umidità alla base dei ceppi Miglioramento delle condizioni biologiche del suolo Miglioramento del controllo delle malerbe Riduzione dei tempi di gestione Possibile ottenimento dei benefici da “effetto pacciamante” Riduzione squilibri termici e rischi di gelate tardive Anticipo maturazione e migliore qualità
Possibile insorgenza di malerbe tolleranti (“selezione floristica”) con aggravio della lotta e aumento dei costi di gestione Aumento dello sviluppo di specie vivaci Maggiore impatto ambientale Rischio di insorgenza di fenomeni di fitotossicità (in particolare impianti giovani, ma anche da deriva) Minore accumulo di sostanza organica
451
coltivazione senza delle malerbe può aggravare l’insediamento e lo sviluppo di malattie fungine e di insetti dannosi, nonché squilibri termici nel delicato periodo primaverile di risveglio vegetativo, con un maggiore rischio di gelate. Qualora vengano alternate differenti tecniche di contenimento delle malerbe, si possono riscontrare situazioni di presenza mista ed eterogenea delle infestanti, utile sotto il punto di vista gestionale e dell’aumento della biodiversità. Per tutti questi molteplici aspetti, risulta più corretto parlare di gestione integrata delle malerbe, anziché di controllo vero e proprio, in quanto si ricorre spesso alla combinazione di tecniche miste di gestione della flora infestante presente sulla fila e sull’interfila, in funzione soprattutto della tipologia dei suoli e degli impianti. Gestione agronomica L’alternanza di differenti pratiche di contenimento delle malerbe risulta determinante ai fini di un’ottimale gestione delle malerbe, in funzione delle condizioni pedoclimatiche che caratterizzano l’area di coltivazione, anche se risulta sconsigliato effettuare lavorazioni meccaniche dopo periodi prolungati di non-lavorazione, in particolare se eseguite in profondità, allo scopo di evitare gravi danni agli apparati radicali. Per i nuovi impianti e negli ambienti più siccitosi e caldi, come in genere accade negli ambienti collinari non irrigui, si tendono a preferire le tecniche dell’aridocoltura, tra le quali le lavorazioni rivestono un ruolo di primaria importanza. Qualora gli impianti siano dotati di irrigazione o negli ambienti più umidi e piovosi di pianura e di valle, si tende a preferire la tecnica dell’inerbimento controllato, che offre una serie indiscutibile di vantaggi. Occorre considerare però che il mantenimento del manto erboso determina un aumento dei consumi idrici nel periodo
Vigneto diserbato sulla fila a fine inverno con interfila naturalmente inerbita da graminacee e altre essenze floreali, che favoriscono la pullulazione di insetti utili
Diserbo sulla fila e lavorazione dell’interfilare
Razionalizzazione delle scelte delle tecniche di gestione delle malerbe in funzione della tipologia dei suoli e degli impianti Riserva idrica del suolo
Scarso Vigore vegetativo degli impianti
Limitata
Media
Elevata
Diserbo chimico sotto le file e lavorazioni meccaniche nelle interfile oppure Diserbo chimico o lavorazioni meccaniche su tutta la superficie (nuovi impianti)
Diserbo chimico sotto le file e lavorazioni meccaniche nelle interfile (con eventuale alternanza del diserbo chimico)
Diserbo chimico sotto le file e lavorazioni meccaniche nelle interfile (con eventuale alternanza del diserbo chimico, ma anche dell’inerbimento)
Diserbo chimico sotto le file e lavorazioni meccaniche nelle interfile (con possibile inerbimento)
Diserbo chimico sotto le file e inerbimento nelle interfile
Medio Elevato
Diserbo chimico sotto le file e lavorazioni meccaniche nelle interfile
452
Diserbo chimico sotto le file e inerbimento nelle interfile
gestione malerbe e polloni estivo, e pertanto all’occorrenza può risultare necessario intervenire con apporti idrici, privilegiando quelli a goccia per limitare la nascita e lo sviluppo delle malerbe. Le maggiori difficoltà di gestione, tuttavia, rimangono sotto la proiezione dei tralci, dove è più difficile operare per via meccanica sia con le lavorazioni sia con lo sfalcio o la trinciatura, onde evitare danni corticali e radicali. Anche l’impiego di mezzi manuali è più oneroso per la presenza dei tralci talvolta assai prostrati e le difficoltà che ne derivano per potersi avvicinare e comunque non danneggiare i grappoli. Da qui nasce spesso l’esigenza dell’adozione di tecniche di gestione miste, dove il diserbo chimico assume un ruolo di primaria importanza per il contenimento delle infestanti negli impianti più giovani, in quelli in produzione e nei differenti ambienti pedoclimatici. Altri accorgimenti si possono rivelare particolarmente utili nella gestione delle malerbe, come per esempio l’utilizzo di “shelter” o la collocazione di semplici tubi di plastica attorno alle piante dopo il trapianto delle stesse, allo scopo di limitare sia la competizione delle malerbe nei confronti delle piante coltivate sia eventuali danni da selvaggina. Inoltre è possibile evitare di danneggiare le giovani piante con l’impiego di erbicidi come il glifosate, o con l’utilizzo di mezzi meccanici o durante la fase di trinciatura meccanica o manuale (decespugliatore) dell’erba attorno ai fusti delle piante. Per quanto riguarda gli interventi manuali, da evitare anche se si tratta di limitate superfici, negli impianti di nuova costituzione occorre talvolta intervenire allo scopo di evitare che le giovani viti possano essere danneggiate. Si possono pertanto rendere necessarie scerbature, zappature o anche vangature, in particolare dove non sono stati riposti gli shelter di protezione o non sia stata eseguita la pacciamatura. Se invece sono state prese tutte le misure necessarie in fase di impianto, può essere sufficiente intervenire con falcetti o decespugliatore per fare qualche ritocco e contenere qualche malerba eventualmente sfuggita.
Shelter per la protezione dei fusti dai diserbanti e dalle lavorazioni
L’impiego ripetuto di erbicidi fogliari sistemici a base di glifosate favorisce lo sviluppo delle Equisetacee
Gestione meccanica Le lavorazioni meccaniche effettuate sotto le file per liberare le piante dalla vegetazione infestante, anche se sono effettuate con particolare attenzione e con macchine specifiche dotate di congegni di “rientro”, sono spesso causa di danni sia agli apparati radicali sia ai ceppi. Per questo motivo è consigliabile eseguire le lavorazioni meccaniche solo negli ambienti più siccitosi, evitando di avvicinarsi troppo ai ceppi. Le macchine che si possono utilizzare sono di tipo a elementi fissi, mobili o azionati da presa di potenza. Gli erpici a elementi fissi possono effettuare lavorazioni, tra l’altro poco energiche, solo negli spazi interfilari.
Gestione meccanica delle infestanti sulla fila
453
coltivazione Quelli a elementi mobili in genere sono gli erpici a dischi, eventualmente dotati di organi di rientro per effettuare lavorazioni sotto le file e in prossimità dei ceppi. Sono quelli più diffusi sia per il tipo di lavoro piuttosto energico e superficiale che sono in grado di svolgere, sia per la limitata potenza che richiedono per il traino. Gli erpici con elementi azionati da presa di potenza e che girano su un asse orizzontale (fresatrice) o verticale (erpice rotante), possono essere dotati di organi di rientro ed effettuano un lavoro energico, ma assorbono maggiore potenza. Un inconveniente che possono causare in particolare le cosiddette fresatrici, è la suola di lavorazione che tende a rendere asfittico il terreno e a causare ristagni idrici. Altri tipi di operazioni meccaniche sono la trinciatura del manto erboso sia sull’interfila sia sotto la fila, se le macchine sono munite di apposito congegno di rientro. Possono essere di vari modelli, anche se le tipologie di funzionamento, come per gli erpici a elementi azionati dalla presa di potenza del trattore, sono principalmente due: a elementi che girano su un asse orizzontale o verticale. I primi eseguono una trinciatura più grossolana, ma sono più indicati per trinciare malerbe più sviluppate e residui di potatura, infatti sono denominati trinciastocchi. I secondi sono utilizzati anche per lo sfalcio dei prati per la migliore qualità del lavoro svolto, ma si deve intervenire più di frequente. Un altro tipo di operazione che può essere effettuato con macchine specifiche munite di fruste che girano su un asse orizzontale, è la spollonatura. Contemporaneamente questa consente di limitare lo sviluppo delle malerbe che crescono in corrispondenza dei ceppi, senza tuttavia danneggiarli, a differenza delle trinciatrici, che pur munite di protezioni non possono essere utilizzate in eccessiva vicinanza degli stessi per non arrecare danno.
Lavorazione dell’interfila
Gestione biologica Nei giovani impianti dove la competizione esercitata dalle malerbe risulta assai dannosa e il ricorso alle scerbature e alle zappature si rende alquanto dispendioso, può risultare particolarmente utile l’utilizzo dei film plastici neri, anche se nel tempo si possono riscontrare maggiori attacchi da parte di roditori, oltre che alla costituzione di una minore riserva idrica che necessita di irrigazioni di soccorso o della preventiva stesura di manichette. Allo scopo di unire gli innegabili vantaggi della pacciamatura durante le prime fasi di allevamento delle piante e di limitare gli svantaggi successivi, è possibile ricorrere all’impiego dei teli biodegradabili, che consentono di contenere le malerbe per un periodo seppur più limitato di tempo (1-3 anni), senza dovere ricorrere alla successiva raccolta dei frammenti di telo. Particolarmente utile si rivela l’uso della pacciamatura per gli impianti molto fitti e a sviluppo limitato in altezza.
Fra i numerosi svantaggi connessi alle tradizionali lavorazioni meccaniche vi sono quelli della formazione di profonde carreggiate di ostacolo al transito dei mezzi meccanici
454
gestione malerbe e polloni Gestione chimica Il ricorso alla pratica del diserbo chimico assume un ruolo di primaria importanza per il contenimento delle infestanti sia negli impianti più giovani, sia quelli in produzione sotto i tralci, dove si presentano le maggiori difficoltà di gestione delle malerbe. La riduzione della superficie trattata permette di assicurare nel contempo una gestione più eco-compatibile dell’ambiente, riducendo gli eventuali rischi di danni da fitotossicità alle piante. I criteri di scelta dei diserbanti, delle relative dosi di impiego e dell’epoca di applicazione (strategie), non possono prescindere dall’età dell’impianto e dal tipo di portinnesto. Inoltre occorre considerare le eventuali restrizioni di impiego sotto il punto di vista legislativo, oltre che del tipo di terreno e della possibilità di irrigazione. Ai fini dell’impiego di erbicidi ad azione residuale non è consigliabile intervenire su terreni molto sciolti e irrigui, allo scopo di evitare la comparsa di fenomeni di fitotossicità. Inoltre anche la valutazione del decorso climatico e della flora infestante presente è importante ai fini della scelta dell’erbicida fogliare. Allo scopo di limitare l’emergenza di malerbe attorno alle piante, nei giovani impianti è possibile utilizzare erbicidi ad azione residuale che agiscono attraverso l’assorbimento radicale o tramite le parti vegetative dei semi in germinazione. Per la salvaguardia del vigneto devono essere selettivi almeno per via stratigrafica: rimanendo in superficie non vengono assorbiti, o solo in dosi trascurabili, da parte delle radici delle viti che si trovano a una maggiore profondità.
Ugello a specchio
Evoluzione della gestione chimica In questi ultimi anni si è assistito a un pressoché totale abbandono dei disseccanti dipiridilici diquat e paraquat, a favore di glufosinate ammonio e di glifosate.
Barra schermata munita di ugelli a ventaglio Diserbo con erbicidi sulla fila e inerbimento controllato negli spazi interfilari
455
coltivazione Il già limitato impiego di prodotti residuali è fortemente diminuito con la revisione europea dei fitofarmaci e la contingentazione dell’uso di certi principi attivi, prevedendo l’applicazione dei soli fogliari durante i periodi di maggiore dannosità delle malerbe. Sulla base di questi nuovi orientamenti ci si è indirizzati talvolta all’apporto di dosi ridotte di oxifluorfen attivanti il glifosate, da distribuire con attrezzature schermate durante il periodo di maggiore accrescimento delle malerbe. L’elevato grado di perfezionamento raggiunto nella pratica del diserbo chimico ha permesso di estendere tale tecnica anche laddove venivano praticate esclusivamente lavorazioni meccaniche e manuali, permettendo di ottenere un soddisfacente controllo delle più dannose infestanti annuali e perenni. Diffusione della tecnica di diserbo chimico In Italia, la superficie coltivata a vite, che trae le sue millenarie origini a partire dalla civiltà etrusca, risulta complessivamente 700.000 ettari, di cui oltre il 90% da vino e la parte restante da tavola, distribuita su tutto l’arco geografico con estrema variabilità pedoclimatica. Innumerevoli sono inoltre i vitigni coltivati, su un’infinità di forme di allevamento che si differenziano anche per la densità di impianto. Di queste superfici vitate, oltre il 20% mediamente vengono diserbate, anche se tale pratica risulta progressivamente in aumento soprattutto per la facilità e la riduzione dei costi che consente di ottenere nella normale gestione degli impianti, ma soprattutto per la specializzazione degli stessi. Le regioni in cui tale tecnica risulta maggiormente diffusa sono Piemonte, Emilia-Romagna, Veneto, Puglia e Sicilia. In ogni caso, la gestione delle malerbe è indirizzata verso una tecnica integrata dove si effettuano gli interventi erbicidi localizzati sotto le file (oltre il 70% degli impianti diserbati) e le lavorazioni o l’inerbimento controllato delle interfile, mediante periodiche trinciature che nelle zone più fresche di pianura stanno sostituendo le lavorazioni meccaniche. La tecnica di diserbo generalizzata su tutta la superficie, sebbene sia ancora praticata, risulta in costante riduzione, mentre talvolta si ricorre a interventi limitatamente alle chiazze di malerbe maggiormente competitive e di più problematico contenimento.
Diserbo autunnale sulla fila
Vigneto collinare diserbato integralmente con erbicidi
Strategie di diserbo chimico Indipendentemente dalla tecnica di gestione dei vigneti, periodicamente si rende necessario contenere l’eccessivo sviluppo delle malerbe, in particolare attorno ai ceppi e sotto i tralci delle viti, dove maggiormente si rendono indesiderate e di più difficile contenimento.
Erosione del terreno in un vigneto collinare non inerbito
456
gestione malerbe e polloni Le strategie di lotta in genere sono messe a punto in funzione della composizione malerbologica e delle condizioni pedoclimatiche, nonché dall’età e dal tipo di impianto. Vivai. Per il diserbo dei vivai normalmente si interviene con barre schermate tra le file, con ripetuti trattamenti fogliari a base dei più selettivi disseccanti dipiridilici paraquat e diquat, oltre a glufosinate ammonio, ai quali a volte possono essere addizionati i più selettivi erbicidi residuali come trifluralin, propizamide o isoxaben, ma anche oxadiazon e oxifluorfen, riponendo maggiore precauzione verso questi ultimi per non danneggiare le gemme. L’impiego a tutto campo dei suddetti prodotti residuali si può rivelare utile anche alla fine dell’inverno del secondo anno di vegetazione, dopo l’esecuzione degli innesti. Nuovi impianti. A partire dal primo anno della messa a dimora delle viti, si è dimostrato conveniente distribuire sulle file, subito dopo l’impianto con terreno lavorato e privo di infestanti nate, diserbanti ad azione residuale nelle diverse combinazioni di trattamento più indicate per i diversi tipi di impianto e alle più comuni specie di piante infestanti da combattere. In alternativa all’esecuzione dei preventivi trattamenti con prodotti residuali, il diserbo dei giovani impianti può essere effettuato con l’impiego dei soli erbicidi fogliari ad azione di contatto, preferendo nel primo anno di vegetazione i più selettivi dipiridilici paraquat e diquat, per poi utilizzare su piante ben lignificate anche glufosinate ammonio, che si può impiegare con piena sicurezza a partire dal secondo anno di impianto.
Per evitare la bagnatura delle foglie basali delle piante, si può ricorrere alla distribuzione dei prodotti sistemici ad azione fogliare con barre gocciolanti (in alto) o, su cotici di graminacee, con quelle umettanti (in basso)
Il diserbo residuale consente di eliminare la nascita delle infestanti annuali e contenere lo sviluppo di Convolvulus arvensis per un lungo periodo
457
coltivazione Per il controllo delle infestanti perenni Graminacee e dicotiledoni invece, si deve intervenire sulle chiazze infestate con il sistemico glifosate distribuito con barre assolutamente schermate o con attrezzature umettanti. Tali prodotti unitamente al più sicuro glufosinate ammonio, possono poi trovare un valido impiego nei trattamenti su tutto il filare quando, già dopo la messa a dimora, i fusti delle piante vengono protetti con apposite schermature, evitando di operare con i prodotti a base di glifosate nei terreni molto sciolti, per il potenziale rischio che possa andare a contatto con gli apparati radicali delle giovani piante erbacee e causare danni da fitotossicità. Come per il diserbo dei vivai e degli impianti in produzione, per una più razionale lotta contro le infestanti dei giovani impianti, si rivela più conveniente ricorrere all’impiego simultaneo di prodotti fogliari di contatto, con quelli residuali nelle due epoche fondamentali di fine inverno e inizio estate, con l’utilità di ricorrere anche a interventi autunnali dopo il primo anno di impianto.
Per il diserbo dei nuovi impianti, si ricorre talvolta alla pacciamatura con teli di plastica filtranti, bonificati ai lati con trattamenti estivi di erbicidi fogliari
Impianti in produzione. Gli impianti in produzione giunti al 3°-4° anno di vegetazione dopo la messa a dimora delle viti, presentano ceppi dotati di corteccia che limita gli scambi con l’esterno. Il diserbo chimico degli impianti in produzione può essere un proseguimento di quanto già si effettuava negli anni precedenti sui giovani impianti o un inizio di tale moderna pratica colturale dopo una coltivazione con sole lavorazioni meccaniche o pacciamatura. Nel primo caso in genere si opera quando si verifica una maggiore presenza di specie perenni, rappresentate da Convolvulacee, Equisetacee, Crucifere, Malvacee e altre erbe di sostituzione. Nel secondo caso, il potenziale di inerbimento sarà rappresentato prevalentemente da specie annuali, comprese quelle più tradizionali di tutti i coltivi come Veronica spp., Senecio vulgaris, Sonchus spp., Solanum nigrum, Poligonacee, Amarantacee, Chenopodiacee ecc., e con abbondanti presenze di chiazze di specie perenni meglio contenute dai film plastici, rispetto alle periodiche lavorazioni del terreno. I nuovi orientamenti basati sul più mirato impiego di erbicidi fogliari, tra cui in particolare glufosinate ammonio per le finalità antispollonanti, hanno permesso di variare le tradizionali epoche di impiego e i relativi programmi di intervento, valorizzando le acquisite conoscenze sui tempi di emergenza delle malerbe e sulle caratteristiche dei singoli principi attivi, ottimizzando i calendari di intervento in funzione del tipo di impianto. I trattamenti autunnali si rivelano particolarmente convenienti nei giovani impianti, nei casi in cui il potenziale di germinazione delle infestanti annuali sia molto alto e qualora si attuino programmi di diserbo unicamente con prodotti fogliari. Altri vantaggi derivanti dalle applicazioni autunnali con miscele di erbicidi fogliari e residuali si evidenziano dall’assenza di malerbe
Trattamento estivo eseguito con devitalizzante fogliare sistemico contro infestanti annuali e perenni, come Cynodon dactylon (sopra) e Convolvulus arvensis (sotto)
458
gestione malerbe e polloni sotto le file dei vigneti durante il periodo invernale e primaverile, consentendo di migliorare lo svolgimento delle operazioni colturali come la potatura e l’asportazione dei tralci, in particolare negli impianti densi e bassi. In corrispondenza delle epoche autunnali inoltre, per le favorevoli condizioni di assorbimento degli erbicidi, è possibile ottenere un migliore contenimento delle malerbe con dosi relativamente ridotte, aumentando il grado di devitalizzazione delle specie perenni sensibili agli erbicidi fogliari sistemici come glifosate, che offrono migliori opportunità di contenimento nelle zone particolarmente inerbite da Cynodon dactylon e Convolvulus arvensis, che seppure non vengano completamente devitalizzate, si ritardano i ricacci primaverili, consentendo di semplificare i successivi programmi di diserbo. In alternativa alle strategie di intervento che prevedono l’avvio delle applicazioni in autunno, mantengono un’ottima validità i trattamenti di fine inverno prima della ripresa vegetativa. In questo caso si opera con malerbe non ancora molto sviluppate, evitando i danni da competizione. L’inizio degli interventi può essere inoltre ritardato dopo la ripresa vegetativa qualora si operi con attrezzature perfettamente schermate e quando sussista la necessità di eliminare contemporaneamente specie annuali e perenni, tra cui Cirsium arvense, Equisetum spp., Rumex spp. ecc. Spesso tale periodo coincide con la comparsa dei polloni che allo stadio erbaceo più sensibile di 15-20 cm di altezza vengono devitalizzati con facilità con i prodotti più selettivi a base di glufosinate ammonio. L’impiego dei prodotti residuali richiede un terreno ben sminuzzato e libero da malerbe e da foglie, consentendo di sortire un migliore effetto per le condizioni ambientali più favorevoli all’esaltazione del grado di efficacia erbicida. La valutazione del decorso climatico e della flora infestante presente è importante ai fini della scelta dell’erbicida fogliare. Per
Programma dei trattamenti
• Autunnali, prima della caduta delle foglie, con infestanti alte 10-15 cm
• Fine inverno, prima della ripresa vegetativa della vite
• Primaverili, dopo la ripresa vegetativa, prima o dopo la fioritura
• Fine primavera-estate, qualora siano sfuggite malerbe
Diserbo autunnale Diserbo sulla fila e inerbimento controllato nell’interfila
459
coltivazione esempio, glufosinate ammonio è più adatto per malerbe annuali a foglia larga e con temperature non troppo basse, mentre glifosate si presta anche in condizioni di temperature più basse e in presenza di malerbe perenni. Negli impianti in produzione, nonostante l’applicazione degli erbicidi fogliari possa essere attuata in ogni momento del ciclo vegetativo con l’avvertenza di non interessare al trattamento le foglie delle piante, si tende a intervenire a primavera inoltrata, allo scopo di ridurre il numero degli interventi (2-3 applicazioni). Si ricorre a ciò, anche se esteticamente l’esito non è ottimale, poiché il manto erboso sviluppato e disseccato dal trattamento consente di sortire un effetto pacciamante, in grado di ridurre l’emergenza di nuove malerbe. Se il primo intervento in genere si fa cadere verso la metà della primavera, si ricorre a un secondo intervento indirizzato al contenimento delle malerbe a sviluppo pluriennale ed eretto, che disturba la produzione delle giovani piante o di quelle allevate a forme piuttosto basse. Un terzo intervento, eventualmente, si potrebbe rendere necessario negli impianti con forme di allevamento piuttosto basse e nel caso di decorsi climatici favorevoli allo sviluppo delle malerbe estive e nei terreni più fertili o irrigui. Inerbimenti successivi che sviluppano nel corso dell’autunno non disturbano più lo sviluppo delle piante, e consentono di ricostituire un manto erboso nel periodo invernale e primaverile che, una volta dissecato nel corso della primavera successiva, consente di sortire un buon effetto pacciamante allo scopo di ridurre l’emergenza di nuove malerbe. Il periodo di applicazione primaverile-estivo viene talvolta richiesto in particolare con i prodotti fogliari qualora siano sfuggite malerbe a sviluppo perenne, o nei terreni più fertili e irrigui, ripetendo il trattamento nel periodo autunnale prima della caduta delle foglie o durante l’inverno, in funzione della presenza delle differenti specie di malerbe annuali o perenni. Questa tendenza è stata mantenuta anche con i più moderni erbicidi fogliari e dei più selettivi prodotti residuali, per assicurare una più protratta azione e la limitazione del numero degli interventi.
Interventi autunnali, prima della caduta delle foglie
Diserbo di fine inverno
Spollonatura La capacità pollonante della vite, ovvero l’emissione di germogli dalla base dei ceppi, risulta frequente e indesiderata, in quanto oltre a costituire un inutile spreco di risorse energetiche ai danni della produzione, crea non pochi disagi nella gestione dei vigneti tra cui in primo luogo l’intralcio durante le pratiche colturali, nonché un rifugio per gli insetti dannosi, come nel caso di Scaphoideus titanus, vettore della flavescenza dorata trasmessa mediante le punture di questa cicalina. La mancata eliminazione dei polloni nel periodo vegetativo, inoltre, rende più onerose e costose le operazioni di potatura invernale, pertanto si rendono ne-
Esiti di un trattamento estivo eseguito con disseccante fogliare su malerbe sviluppate, in grado di svolgere azione pacciamante
460
gestione malerbe e polloni cessarie le operazioni di spollonatura al verde durante il periodo primaverile-estivo. Nella maggior parte dei vigneti viene ancora oggi effettuata manualmente, richiedendo però un consistente impiego di manodopera nonostante l’intervento risulti più razionale. Per ridurre i costi si ricorre talvolta alle operazioni meccanizzate mediante particolari decespugliatori o macchine operatrici ormai collaudate, munite di flagelli rotanti. Il loro impiego e diffusione tuttavia risulta rallentato dalle possibili ferite o traumi che si possono arrecare sui ceppi di vite, inconveniente alquanto grave nel caso di giovani impianti o di eventuali piante di sostituzione delle fallanze, che si può rivelare talvolta letale, nonché la formazione di polvere che si può rendere elevata nel caso di suoli asciutti, limosi e scarsamente inerbiti. Interessante si è rivelato in questi ultimi anni l’impiego di glufosinate ammonio per la sua azione congiunta, a pari tecnica distributiva e di concentrazione di principio attivo, nel contenimento dei polloni e delle malerbe sotto le file dei vigneti. In tal caso occorre intervenire su polloni lunghi 15-20 cm e, comunque, prima della loro lignificazione, con un’unica applicazione o mediante due interventi ben cadenzati, che consentono di ottimizzare anche il contenimento delle malerbe. Innegabili risultano i vantaggi di ordine tecnico ed economico, con risparmio di tempo, assenza di ferite e lieve ritardo nel ricaccio di nuovi polloni rispetto agli interventi manuali o meccanici.
Lo sviluppo dei polloni deve essere contenuto per evitare spreco di risorse energetiche, intralcio alle lavorazioni e problemi fitosanitari
Foto G. Spezia
La spollonatura manuale è valida solo per superfici limitate e con disponibilità di manodopera
Eliminazione chimica dei polloni con glufosinate ammonio Spollonatrice chimica
461
la vite e il vino
coltivazione Vendemmia Stefano Poni
www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche.
coltivazione Vendemmia La raccolta manuale dell’uva o vendemmia rappresenta ancora oggi la fase più significativa della coltura della vite presentando, oltre ad aspetti squisitamente colturali, tecnici ed economici, anche sfumature di tipo sociale. Tipicamente, la vendemmia viene percepita come momento di aggregazione sempre accompagnato da un clima di allegria festosa. Pertanto, fino a qualche decade fa, nessuno si sarebbe immaginato che questa operazione, così tradizionale e, per certi aspetti, sacrale avrebbe potuto essere sostituita in toto dall’azione di un mezzo meccanico. Oggi, la quasi totalità dell’uva australiana è vendemmiata a macchina, nei vigneti francesi oltre il 75% della produzione di uva deriva da vendemmia meccanica e anche in Italia, sia pure a passi molto più lenti e incerti (la superficie vendemmiata a macchina si attesta attualmente intorno all’11-12% di quella totale), la tecnica è in fase di continua crescita con ormai 100 vendemmiatrici vendute ogni anno. Nei prossimi paragrafi cercheremo di delineare i passi attraverso i quali la vendemmia meccanica si è andata progressivamente diffondendo, soffermandoci anche sui problemi che ancora oggi restano irrisolti.
Nascita della vendemmia meccanica
• Fu il Dr. Nelson Shaulis della Cornell
University (Stati Uniti) a osservare, alla fine degli anni ’50, che scuotendo in senso verticale un supporto metallico con alcuni grappoli di uva a esso agganciati molti acini si distaccavano dal raspo cadendo al suolo. Si pensò allora che una macchina perfezionata potesse riuscire, scuotendo la vite, a fare distaccare gli acini mantenendo invece i raspi attaccati. Da qui, nacque, all’inizio degli anni ’60, il primo prototipo di vendemmiatrice del tipo scavallatore a scuotimento verticale
• La vendemmia meccanica si diffuse
rapidamente soprattutto in Francia dove, prima a partire da esperienze condotte sulla forma di allevamento ad alberello, e poi estendendo la sperimentazione a forme in controspalliera, furono perfezionate macchine scavallatrici basate sul principio dello scuotimento orizzontale
Vendemmiatrici attuali e i loro principi di funzionamento In Italia operano oggi circa 1800 macchine vendemmiatrici funzionanti per scuotimento verticale od orizzontale. Il primo principio prevede una sollecitazione verticale del filo portante a cui è legato il cordone produttivo attuata da un battitore avente una tipica forma a stella. Nel secondo caso, invece, la scuotimento è causato da una serie di battitori orizzontali, rettilinei o leggermente curvati, che percuotono la parete produttiva. Quale dei due sistemi è da preferirsi? Le prime prove di confronto tra i due principi di scuotimento dimostrarono inequivocabilFoto P. Bacchiocchi
462
vendemmia
Vendemmiatrice a scuotimento verticale Battitore a forma di stella di una vendemmiatrice a sollecitazione verticale
mente che la sollecitazione verticale poteva consentire, specie quando si operava su vitigni considerati difficili (per esempio i Trebbiani, per i quali la forza che si deve esercitare sull’acino al fine di provocarne il distacco dal pedicello è elevata), una riduzione considerevole delle perdite di uva. Pertanto, questo riscontro avrebbe dovuto costituire un elemento decisamente a favore del principio per scuotimento verticale. Tuttavia, lo stesso principio presentava la grossa limitazione di potere essere applicato in pratica solo su di una tipologia di forma di allevamento (la doppia cortina o GDC) che, grazie alla presenza di braccetti laterali, era la sola in grado di consentire la mobilità “verticale” del filo portante che sorreggeva l’uva. Il fatto che, in seguito, siano stati messi a punto anche forme di allevamento a controspalliera dotate di mobilità verticale del filo portante non ha determinato un impulso consistente della vendita di queste macchine, ancora oggi essenzialmente confinato alle aree in cui il GDC è discre-
La vendemmiatrice distacca gli acini mantenendo i raspi attaccati
Foto C. Cangero
Battitori curvati di una macchina a scuotimento orizzontale
Vendemmiatrice a scuotimento orizzontale
463
coltivazione tamente diffuso, ovvero la pianura emiliana (province di Modena e Reggio Emilia) e quella veneta (province di Verona e Treviso). Le vendemmiatrici a scuotimento orizzontale, pur sicuramente meno soffici di quelle a scuotimento verticale, almeno nei primi modelli commerciali degli anni ’70, si avvantaggiarono immediatamente poiché, date le relative caratteristiche di funzionamento (telaio scavallante che percuote la parete), potevano essere utilizzate su vigneti a controspalliera già impiantati. Questa possibilità diede un forte impulso anche alla ricerca di tipo industriale che, evidentemente stimolata da un mercato che si presentava assai più allettante, ha poi via via migliorato i vari modelli mettendo a disposizione oggi soluzioni che rappresentano veri e propri gioielli di tecnologia. In particolare, il grosso salto di qualità fatto dalle vendemmiatrici che operano per scuotimento orizzontale è stato quello di apportare miglioramenti tecnologici alla forma dei battitori e alla loro modalità di azione tali da trasformare la percussione delle vecchie vendemmiatrici in una sollecitazione controllata del filare che, se ben strutturato in termini di palificazione e tensione dei fili, ha poi il compito di trasmettere l’oscillazione al grappolo causando il distacco degli acini. Altre importanti modifiche tecniche apportate alle vendemmiatrici operanti per scuotimento orizzontale hanno poi riguardato i sistemi di intercettazione, trasporto e scarico degli acini (impiego di contenitori flessibili a paniere o di scaglie di plastica atte a intercettare l’uva e a convogliarla sui nastri trasportatori) e quelli di separazione degli acini da materiali estranei quali foglie e porzioni di tralci. Inoltre, alcuni modelli commerciali di vendemmiatrici adottano sistemi di controllo informatico che consentono di modificare e programmare apertura, am-
Diffusione della vendemmia meccanica
• In Italia, la vendemmia meccanica
è meno diffusa rispetto a Paesi sia del Vecchio Mondo (Francia) sia del Nuovo Mondo (Australia), universalmente riconosciuti come produttori di vini eccellenti e in cui la vendemmia meccanica non è considerata un fattore negativo per la qualità del prodotto finito
• La sua diffusione è ostacolata dalla
frammentazione delle aziende, dall’eterogeneità dei sistemi di allevamento e delle condizioni colturali (giacitura e pendenze ecc.) e dal ricorso ancora limitato al contoterzismo (fondamentale considerando i costi elevati di acquisto delle macchine). Persiste altresì una tendenza marcata ad assimilare il vendemmiato a macchina a un prodotto che difficilmente raggiunge i livelli qualitativi di un vino derivato da uve vendemmiate manualmente
Foto AgriLinea
464
vendemmia piezza, accelerazione e frequenza degli elementi di scuotimento. Grazie a questa serie di formidabili innovazioni, le vendemmiatrici a scuotimento orizzontale hanno oggi ormai colmato il divario che le separava da quelle agenti per scuotimento verticale in termini di sofficità e, prendendo anche in considerazione la loro flessibilità di applicazione, non sorprende che il mercato sia ormai interamente dominato da questa tipologia con una più o meno equa ripartizione tra modelli semoventi e trainati. Qualità dell’uva vendemmiata a macchina In questo paragrafo verranno analizzati i fattori che possono concorrere, se non ottimizzati, a un effettivo decremento qualitativo del prodotto. Integrazione macchina-sistema di allevamento Anche la vendemmiatrice più completa dal punto di vista tecnologico, fatta lavorare su un sistema di allevamento mal predisposto, rischia di dare origine a un prodotto di mediocre qualità e/o di causare ingenti perdite. L’inadeguatezza di un sistema di allevamento nei confronti della vendemmia meccanica si può relazionare sia a caratteristiche strutturali sia ai criteri di potatura estiva e invernale adottati. Tra le prime, la scelta del tipo di palo, dei sostegni per le viti e la tipologia e tensione dei fili rivestono primaria importanza. Sono da evitare i pali di cemento vibrato o di materiali che tendono a scheggiarsi durante il passaggio della macchina (i materiali migliori sono, nell’ordine, il metallo, il legno e il cemento pre-compresso) e i sostegni che tendono a spezzarsi o a rilasciare frammenti con le vibrazioni impresse dai battitori. Allo stesso modo, occorre porre attenzione ai vari accessori che, ormai secondo canoni che spesso ricordano la cura con cui si arreda un bagno
Palo in cemento pre-compresso
Foto C. Cangero
Grappolo vendemmiato a macchina Vigneto per la raccolta meccanizzata
Foto C. Cangero
465
coltivazione Foto C. Cangero
o una cucina, vengono scelti per facilitare il crescere ordinato dei germogli. Un esempio per tutti: non è raro trovare nei vigneti ganci metallici che vengono fissati a pali in legno per catturare i germogli durante la crescita. Spesso, con l’invecchiamento del palo e con la sua eventuale fessurazione, questi ganci si allentano e, con lo scuotimento indotto dalla macchina vendemmiatrice, possono finire nella tramoggia di raccolta. Per quanto attiene invece al ruolo della potatura, fondamentale è riuscire a creare una buona corrispondenza tra espansione verticale della fascia produttiva e zona esplorata dai battitori. Un caso emblematico è quello proposto nella foto a lato, in cui si nota una parte di produzione troppo vicina al terreno rimasta in pratica non raccolta dalla macchina. Allo stesso modo, in una forma di allevamento a GDC, la presenza di uva nel corridoio interno della doppia cortina rappresenterebbe una malaugurata fonte di perdita sulla pianta poiché in quella zona del sistema di allevamento le vibrazioni trasmesse dal battitore arrivano forzatamente smorzate. Anche la gestione in verde del vigneto può influenzare la qualità del vendemmiato a macchina: per esempio, il ricorso a una potatura verde di pre-vendemmia preposta a rimuovere, prima del passaggio della macchina, una porzione notevole di foglie, facilita certamente l’ottenimento di un mosto più pulito.
Errate potature influenzano negativamente la raccolta meccanica
Perdite qualitative legate alla raccolta meccanica
• La fuoriuscita di succo dall’acino,
che può verificarsi in seguito alla vendemmia meccanica, determina una perdita di mosto con conseguenti fenomeni ossidativi e riduzione degli antociani
Ammostamento e ossidazioni Uno dei problemi costituitivi della vendemmia meccanica applicata sui vitigni appartenenti alla vite europea (Vitis vinifera) risiede proprio nella struttura anatomica dell’acino. Nel momento in cui, infatti, un acino viene strappato dalla sua base (o pedicello), simulando l’azione di scuotimento esercitata dalla vendemmiatrice, si nota che si produce una ferita con fuoriuscita di succo. Questo fenomeno, di fatto fisiologicamente ineliminabile e associato alle rotture per schiacciamento che gli acini possono subire durante il
• L’eventuale sviluppo della flora fungina spontanea può trasmettere al vino alterazioni organolettiche
466
vendemmia Influenza (%) della raccolta meccanica su alcuni parametri 100
Perdite quantitative legate alla raccolta meccanica
80
• Una moderna macchina vendemmiatrice
60
che lavora su di un vigneto correttamente impostato e con un giusto grado di maturazione non dovrebbe dare origine a perdite totali di uva superiori all’8-10%
40 20 0
• L’entità delle perdite dipende in primo Vitigni rossi
luogo dal vitigno (inferiore in quelli a facile distacco e con buccia più spessa), dal grado di maturazione dell’uva e da un assetto operativo della macchina mal calibrato in funzione delle condizioni del vigneto (per esempio velocità di avanzamento e frequenza di oscillazione dei battitori)
Vitigni bianchi
Perdite al suolo e sulle piante (%)
Perdite occulte (%)
Resa di raccolta (%)
Ammostamento (%)
Fonte: Frabboni, 2002
trasporto, lo stoccaggio e lo scarico sui rimorchi, determina una perdita in mosto (spesso detta anche occulta poiché non chiaramente percepibile a occhio nudo come può essere invece quella relativa all’uva che cade al suolo o rimane sulla pianta) che quasi sempre costituisce la quota preponderante delle perdite totali di una vendemmia meccanica. Il mosto formatosi durante l’operazione di vendemmia meccanica si trova a essere esposto a fenomeni ossidativi che favoriscono gli imbrunimenti (in particolare nelle uve bianche) e la perdita irreversibile di antociani liberi. Inoltre, l’ammostamento precoce, specie se accompagnato da alte temperature durante le operazioni di raccolta, può favorire la crescita di flora fungina spontanea potenzialmente in grado di trasmettere al vino alterazioni organolettiche di varia intensità e gravità. Foto C. Cangero
Perdite associate alla vendemmia meccanica. Dopo questa operazione alcuni grappoli possono rimanere sulla pianta e altri cadono a terra
467
coltivazione Foto C. Cangero
Lumache e ragni 5% Parti di lembo 5%
Cercini 10%
Piccioli fogliari 25%
Racimoli 35%
Parti di tralcio 20%
MOG organico (90% del MOG totale) Tendifilo metallici 10% Fili plastificati 30%
Macchina impostata sul primo filare
Grappette in plastica 60%
Presenza di materiali estranei L’azione di scuotimento esercitata dalla vendemmiatrice sul filare determina ovviamente anche il distacco di materiali estranei all’uva (detti anche MOG, dall’inglese Material Other of Grapes) che possono essere di natura organica e inorganica. Nonostante le moderne vendemmiatrici siano spesso dotate di diraspatricipulitrici, una parte di questo MOG può sfuggire a questo sistema di filtraggio raggiungendo quindi la linea di vinificazione dove, a seconda della composizione, può teoricamente determinare alterazioni olfattive e gustative del prodotto vino. In generale, mentre una vendemmia manuale può presentare anche solo 3 mg/kg di MOG, in un prodotto vendemmiato a macchina in condizioni difficili, questo valore può arrivare anche a 22-23 mg/kg determinando, secondo alcuni preliminari riscontri sperimentali, un aumento del carattere di astringenza dei vini.
MOG inorganico (10% del MOG totale) Fonte: Vieri e Parenti, 2006
Composizione dei materiali estranei all’uva (MOG) organici e inorganici
Costo della vendemmia manuale
• Il costo di una raccolta manuale
Alcune caratteristiche tecnico-operative di vendemmiatrici trainate e semoventi a scuotimento orizzontale
dell’uva per due vigneti che presentano diversi carichi produttivi (12 e 18 t/ha), una resa oraria di lavoro di 100 kg/uomo e una retribuzione oraria media di 8 e, oscilla, nell’ordine, tra 960 e 1440 e/ha. A questa cifra andrebbe poi aggiunto il costo relativo ai tempi di manipolazione delle ceste e di trasferimento dell’uva in cantina
Trainate
Semoventi
Prezzo di acquisto (e)
55.000-85.000
130.000-170.000
Velocità media di avanzamento (km/h)
1,5-2,5
4,0-6,0
Capacità operativa media (ha/h)
0,30-0,40
0,70-1,10
Numero e capacità serbatoi di stoccaggio prodotto (dm3)
2 x 700-1300
2 x 900-1700
Fonte: Demaldè e Spezia, 2006
468
vendemmia Aspetti operativi ed economici Per quanto attiene agli aspetti operativi, le moderne macchine vendemmiatrici, siano esse trainate o semoventi, hanno raggiunto ottimi livelli tecnologici pur mantenendo differenze sostanziali nel prezzo di acquisto e, conseguentemente, nelle prestazioni. In Italia, la persistente difficoltà di reperire manodopera per la vendemmia manuale e l’esigenza, sempre pressante e attuale, di contenere i costi di produzione, spinge le aziende verso soluzioni di meccanizzazione della vendemmia e pone un quesito di ordine economico molto preciso: quando è conveniente acquistare una vendemmiatrice? È ovvio che la risposta deve tenere conto in primo luogo dell’ampiezza della superficie investita a vigneto, poiché una grande azienda può più facilmente acquistare una vendemmiatrice rispetto a una piccola o media azienda che è spesso vincolata al ricorso al noleggio o a forme di utilizzo di tipo cooperativo o associativo.
Costi di raccolta della vendemmia meccanica in rapporto alla superficie coperta 2000
Produzione vigneto = 12 t/ha Perdite macchine stimate = 5% Prezzo uva = 600 €/t
Costi (€/ha)
1500
Convenienza della vendemmia meccanica
• Ipotizzando per la vendemmia
manuale i costi del box precedente e un costo di 500 e/ha per il noleggio della vendemmiatrice, il grafico a fianco evidenzia che, in un vigneto con una produzione a ettaro di 12 t, remunerazione dell’uva pari a 600 e/t e perdite di raccolta non inferiori al 5%, l’acquisto della vendemmiatrice inizia a essere conveniente quando gli ettari raccolti dalla macchina sono circa 20 per un modello trainato e 40 per uno semovente
1000
500 Manuale 0
Contoterzi 0
20
2000
40
60
Meccanica semovente 80 100 120 140 160 180 200 Ettari raccolti
Produzione vigneto = 18 t/ha Perdite macchine stimate = 5% Prezzo uva = 300 €/t
1500 Costi (€/ha)
Meccanica trainata
• Nel caso di un vigneto più produttivo
(grafico a fianco in basso) e con uve meno remunerate (300 e/ha), la convenienza della vendemmia meccanica si abbassa su valori di ettari raccolti inferiori e pari, nell’ordine, a soli 10 ha circa per le trainate e 25 ha per quelle semoventi
1000
500
0
0
20
Fonte: Demaldè e Spezia, 2006
Manuale
Meccanica trainata
Contoterzi
Meccanica semovente
40
60 80 100 Ettari raccolti
120
140
160
469
coltivazione Il calcolo del costo a ettaro di un intervento meccanico o del costo per unità di prodotto raccolto (e/t) è decisamente più complesso, poiché le variabili da considerare sono assai numerose. Molte di queste, peraltro, dipendono non tanto dalle caratteristiche tecniche della macchina, quanto piuttosto dalla progettazione del vigneto e dall’integrazione che esiste tra macchina vendemmiatrice e sistema di allevamento. Due esempi per chiarire meglio questi concetti: un’azienda viticola di una certa dimensione che, nel rispetto ovviamente della vocazionalità ambientale del territorio, programma la messa a dimora di una gamma di vitigni molto diversificati in termini di epoca di maturazione, amplia notevolmente il calendario di utilizzo delle vendemmiatrici (fino anche a 60 giorni), diminuisce i costi di ammortamento e, potenzialmente, consente anche l’utilizzo di macchine dotate di minore capacità operativa (e quindi meno costose). Inoltre, un vigneto ben preparato per accogliere la macchina (fascia produttiva non troppo dispersa, uva non concentrata in prossimità dei pali, fili tesi per un’ottimale trasmissione delle vibrazioni) e, soprattutto, gestito correttamente sotto il profilo fisiologico (basso grado di disformità di maturazione degli acini, esecuzione di una potatura verde in pre-vendemmia) è fondamentale per migliorare la capacità operativa della macchina o in termini di maggiore velocità di avanzamento o, a parità di quest’ultima, di minori perdite totali. Futuro per la vendemmia meccanica del vigneto L’evoluzione che si può prevedere per la vendemmia meccanica, in un ottica di globalizzazione del mercato vitivinicolo, sembra obbligata e orientata a portare il nostro Paese a livelli di utilizzo delle vendemmiatrici sempre più vicini a quelli già ragFoto R. Angelini
Aspetti qualitativi a confronto del vendemmiato a macchina: prevalenza di porzioni di grappolo (in alto), acini singoli (al centro), mosto (in basso)
470
vendemmia giunti da altri importanti Paesi produttori (per esempio Francia, Australia, Cile, Stati Uniti). Alla base di questo processo vi sono, oltre a un auspicabile aumento della dimensione media delle aziende viticole italiane, due fattori chiave: il primo chiama in causa il concetto della polivalenza, ovvero il telaio scavallatore su cui sono montati i battitori può diventare un vero e proprio portale multifunzione e ospitare, a turno, altri organi di lavoro (pre-potatrici, defogliatrici, irroratrici, legatrici ecc.) consentendo quindi di aumentare in modo consistente le ore di impiego e, di riflesso, di ridurre i costi fissi. Accanto a questo fattore, di natura prevalentemente tecnico-economico, ve ne è però un altro di importanza cruciale: l’ulteriore espansione della vendemmia meccanica è anche vincolato al progressivo infrangersi dell’ancora assai diffuso luogo comune secondo il quale meccanizzazione e qualità non possono andare d’accordo. In altri termini, in futuro, dovrà essere posta sempre maggiore attenzione alla qualità del vendemmiato. Peraltro, alcuni prodotti vendemmiati a macchina hanno un aspetto che li rende non troppo dissimili da uve vendemmiate a mano. Questo risultato deriva da una combinazione particolarmente felice di vitigno, tipologia di macchina, grado di maturazione e sistema di allevamento e rappresenta, sotto molti aspetti, una delle nuove frontiere della vendemmia meccanica.
Foto C. Cangero
Particolare di una pianta di vite dopo il passaggio della macchina vendemmiatrice Foto AgriLinea
471