due o tre cose che so di lui SCRITTI SU
SCRITTI SU
di
Stefano Benni Marcello Jori Oreste del Buono Marco Belpoliti Emilio VarrĂ Luca Raffaelli Marcelo Ravoni Georges Wolinsky Eddy Devolder a cura di Daniele Brolli
CHE COS’È UN ALTAN
Stefano Benni
due o tre cose che so di lui SCRITTI SU © per la presente edizione Comma 22 Srl per le immagini © 2009 Francesco Tullio-Altan /QUIPOS s.r.l. © tutti i diritti riservati Per gli scritti di Oreste del Buono copyright © Eredi di Oreste del Buono. Tutti i diritti riservati, trattati da Agenzia Letteraria Internazionale, Milano Quando non diversamente indicato © dei rispettivi autori L’editore si dichiara pienamente disponibile ad adempiere ai propri doveri nei riguardi degli aventi diritto che nonostante le ricerche condotte non è stato possibile rintracciare. Con il sostegno di
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Altan ha la barba e non parla quasi mai Altan può pedalare con la bicicletta fino a tredici giorni di fila. Altan sembra un simpatico orsetto Altan sembra un feroce grizzly. Altan disegna intingendo la punta di un ombrello nel sangue Altan disegna sotto l’effetto del laudano. Altan si ispira allo pseudologeion all’Icaromenippo e agli studi sull’ironia di Jankélévitch Altan si ispira ai fratelli de Rege Per cui, come capirete, non è facile capire che cos’è un Altan Altan ha inventato un cane a pallini che fa impazzire i bambini Altan riempie le vignette di scarafaggi che poi escono dal foglio e ti girano per casa Altan è un fumettista casto Altan ogni tanto disegna delle gran gnocche Altan è buonissimo Altan è cattivissimo Altan sbaglia una vignetta su cento, come quelli che sparano alle Olimpiadi Altan disegna i nasi fallici e le nuvolette della Pimpa Per cui come capirete non è facile capire come disegna un Altan Altan vive in un castello da cui esce solo con la luna piena Altan è un vampiro. Altan è comunista o forse anarchico o forse altaniano di centro Altan è conosciutissimo all’estero ma neanche lì riescono a capire bene cos’è un Altan Altan scrive i dialoghi in due battute come Campanile ma non è Campanile Altan conosce i tempi comici come nessuno ma non disegna con il cronometro Altan è figlio di un antropologo ed è spietato come un entomologo Altan ha inventato Trino, uno dei pochi tipi di Dio simpatici Altan è molto riservato Altan è molto socievole Per cui come capirete non si può chiedere a Altan cos’è un Altan 5
Altan non va in televisione Altan non appare quasi mai. Questo ha creato intorno a Altan un alone di leggenda. Altan detesta gli aloni. Altan ha la ferocia di Beckett, la grazia di Keaton, l’imprevedibilità di Totò Altan è unico non sta in nessuna scatola, prendete una scatola di ottanta pastelli e il colore Altan non c’è. Altan ha vinto molti premi ma vorrebbe vincere la Liegi-Bastogne-Liegi Altan regala grappe che voi umani neppure immaginate Altan ha studiato disegno guardando i graffiti di Altamura Altan si ispira a Grosz, a Daumier e a Barks Altan si ispira a Krazy Kat. Altan non si ispira al Bagaglino a Forattini e a Benigni Altan non si ispira Altan ispira Che Manitù, Trino e Presbitero, protettori dei disegnatori e dei poeti, ci conservino Altan Anche se come capirete, è difficile spiegare anche a loro che cos’è un Altan.
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IL PRODIGIO
«Vorresti scrivere di Altan?» mi è stato chiesto. «Non ci si può tirare indietro davanti a un genio» avevo risposto. Mi ero tuffato senza pensare che poi avrei dovuto spiegare perché Altan è un genio. Un vero guaio perché i geni sono una fusione benedetta di segreti inspiegabili. Quando li smonti per guardarci dentro quasi sempre li rovini. Meglio fare un piccolo elenco di prodigi che lo riguardano così poi, ciascuno a modo suo, potrà fare due più due, uguale Altan! Primo prodigio: Francesco Tullio Altan appartiene a una razza di artisti quasi estinti sulla terra. Quelli stimati da tutti. Non ho mai incontrato qualcuno che dicesse: «No, Altan no»! Che dicesse disegna male, è volgare, mi ha stancato. Nessuno mai! Nessun autore, artista, uomo di partito di destra o sinistra. Solo sorrisi di apprezzamento, inchini di rispetto. Reinhold Messner direbbe: «Un ottomila dell’intelligenza a fumetti»! Perché? Perché la sua purezza di pensiero è quasi irraggiungibile. L’artista che riesce a dire di più su qualsiasi argomento usando il minor numero di parole. Anche con i segni, stessa avarizia: il meno possibile per far vedere tutto, anche i moscerini, anche gli atomi dell’alito dei suoi loschi ciccioni! Prodigio numero due: è un uomo bello. Un ragazzo che sembrava un personaggio di Altan vedendolo a Lucca per la prima volta ci era rimasto malissimo. Ma come? Con i disegni che fa è così bello? Quasi fosse un tradimento. E per fortuna non si è accorto di quanto assomigliava a Giuseppe Garibaldi, la faccia d’uomo più lontana dal senso dell’umorismo mai esistita su questa terra. Se poi sapesse quanto è gentile nella vita tridimensionale e quanto è esente da ego, quasi imbarazzato di essere Altan... Lui che occupa la carta in modo tanto strafottente con contorni grossi e colori da segnaletica stradale, lui che disegna personaggi che si allargano nelle vignette come rotoli di grasso, obesi di cinismo. 7
Marcello Jori
Prodigio numero tre: lo spirito comico di Altan è immune da decadenza temporale. Si sa, nessun umorista può far ridere per tutta la vita senza cedimenti!! La vena secca per tutti prima o poi. Lui invece non conosce siccità. Anni Settanta Ottanta Novanta Duemila... la stessa altitudine sempre. Ma possibile? Sono trent’anni che aspetto la gag che mi lascerà indifferente, che mi farà stupire di meno, e invece reagisco con la solita sequenza di smorfie tra riso e ammirazione. L’altro giorno mi imbatto in un miracolo di sua vignetta che faceva così: un vecchio paralizzato su una sedia a rotelle superaccessoriata che brontolava: «Per colpa di questa nuova tecnologia adesso mi tocca di andare da qualche parte!» Ma ci rendiamo conto di cosa ci sta svettando davanti? Un trattato di filosofia in quattro parole, l’istantanea di una civiltà allo sbando, lo sberleffo degli sfigati alla prepotenza della salute, il coraggio di sganciare la zavorra di qualsiasi speranza per guardare l’umanità nel muso. Un muso di maiale! Nei suoi disperati romanzi, o nell’arena crudele delle sue vignette, non si salva niente e nessuno! Né mitici condottieri, né santi, né eroi dell’amore. Solo un disegno si salva dal degrado del disincanto: la Pimpa. Lei con tutto quello che la circonda. Perché Altan almeno in una cosa la pensa come Gesù: crede che i bambini, per qualche anno, qualche ora o qualche minuto, siano puri e innocenti. È in quel mondo che Altan nasconde il Santo Graal. Chi si immerge lì dentro torna alla realtà pulito per un po’ e può fare come Altan: guardarsi intorno onestamente e dire: «Però... che schifo»!
ZAGO OLIVA 8
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I BUONI
Altan, alla sua prima apparizione nella redazione di «Linus», lo considerammo subito con sagacia appartenente a un altro mondo. Con sagacia, d’accordo, però sbagliammo a crederlo brasiliano. Certo, lui facilitò l’errore perché non spiccicò parola durante la sua prima permanenza in quelle stanzette di signorinelle e sciurette pallide, garrule e intransigenti, soprattutto con me, uno dei due smorti uomini superstiti all’irresistibile ascesa del sesso debole, in quanto, il direttore, conviene sempre contestarlo almeno un poco, altrimenti sta lì a non far nulla. L’altro superstite del sesso cosiddetto forte, il ragioniere, se la cavava relativamente meglio, perché lui si occupava del fatto economico, non di quello artistico né di quello politico. È vero che anche in seguito Altan non ha mai parlato troppo e, quindi, il suo silenzio di quel giorno non fu un deliberato inganno, anche se contribuì a confonderci le idee. E fu un bene perché, se avesse detto di essere italiano, lo avremmo congedato frettolosamente. Era un momentaccio, in questo senso: i dilettanti in disegno di tutt’Italia si erano evidentemente passati la voce che la satira politica italiana andava forte e che a «Linus» c’era da rimediar qualcosa. Ed eran sempre lì a sciorinar la mercanzia. Il guaio era che non solo ci mostravano disegni inaccettabili, ma pretendevano di spiegarceli, non aspettandosi troppo, era chiaro, dalla nostra capacità di comprensione. Nicoletta Pardi, che faceva da receptionist per le genialità oscure in arrivo, era sempre come ebbra per le chiacchiere vorticose di tutti quei capelluti pustolosi. Fulvia Serra, art director e qualcosa di più, respingendo e stroncando tentativi su tentativi di conquista dello spazio linusiano, cominciava a farsi quella nomea di donna cattiva, senza cuore e senza rispetti umani che l’avrebbe fatalmente portata alla direzione del periodico. Altan, non metteva bocca, era bello e silenzioso, se ne stava in un angolo, lasciando parlare Marcelo Ravoni, piemontese d’origine, ma argentino di provenienza, piuttosto veneto di ciacola, agente dei disegnatori 10
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Oreste del Buono
latinoamericani, Altan era un sogno d’autore di fumetti, un amore che non ci si aspettava. Alcuni dei suoi fumetti erano scritti in portoghese e figuravano già pubblicati in Brasile, lui veniva dal Brasile, come diceva Ravoni. Un tratto forte, nessuna ricerca di belluria nelle sue tavole. Mosche molto puntinate, merde sparse e olezzanti maschi nasoni e deformi e donne bellissime e discinte, l’irresistibile decomposizione della materia, la disumanità come spettacolo. Dal febbraio 1974 «Linus» cominciò a pubblicare con regolarità Trino, e da allora «Linus» e Altan non si sono più lasciati, anche se nel frattempo c’è stata la scoperta che non solo Altan era italiano, ma non era neppure al suo esordio italiano. Nato a Treviso nel 1942, aveva studiato architettura a Venezia e aveva cominciato a illustrar libri per Sugar e Canesi. Poi se ne era andato in Brasile a lavorare come scenografo e a sposarsi e gli era capitato di disegnare vignette e fumetti per i giornali brasiliani. Andava e veniva attraverso l’Atlantico. Dalle nostre parti aveva fatto qualcosa sia per «Playmen» sia per «L’espresso». Se gli altri non si erano accorti della grandezza potenziale di Altan, non era demerito di «Linus». Ma neppure suo merito. Al massimo, il merito che poteva vantare «Linus» era quello di avergli dato lo spazio per crescere attraverso l’untuoso e arrembante romanzo a fumetti Sandokan e più ancora lo squassante e morboso Colombo, la messe sempre più ricca di vignette politiche, la creazione del metalmeccanico Cipputi, grumo di saggezza negli anni di piombo, e la prima affermazione del disegno satirico come editoriale. Rileggendo i detti di Italo, il pupazzo apparso nella prima pagina di «Linus» a partire dal gennaio 1977, troviamo in dodici battute da gennaio a dicembre gran parte della storia di quel tempo così lontano: «Mi sorprende questo riflusso moderato, mi devo essere perso il flusso progressista.» «Qui la metà sono convinti che basta partecipare. E l’altra metà che basta vincere». «Comunque per coerenza io sono ottimista, è questo che importa.» «Facciamo un bel governo di tecnici e andiamo tutti ai mondiali in Argentina.» «Adesso che abbiamo la credibilità internazionale, vedrai che quando vado in Belgio mi dice: Oh, Italo, adesso sì che ti presto il piccone!» «Tra un po’ è l’anniversario del 20 giugno. Sembra ieri.» «Sono otto mesi che fa: la crisi è gravissima e non c’è più tempo. Come quello che diceva che beveva l’ultimo e poi a casa.» «La situazione è seria. Per fortuna quando finisce l’ora legale si recupera un’ora.» «Ho passato le vacanze intelligenti a leggere i nouveaux philosophes. Quelli sì che parlano come mangiano, mi son detto.» «Quest’anno me ne vado in prima tutto pimpante. In seguito farò l’uni12
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versità e la tesi di laurea poi si vedrà.» «Mi sono messo la cravatta. Chissà che a qualche tedesco non venga voglia di comprarmi.» «Facciamo ancora uno sforzo. Mi sono detto: avanti tutta, Italo, che tanto ce n’è poca.» Italo era sempre in piedi con la scoppoletta ben calcata in testa, la barba, lunghetta, la sigaretta in bocca, le mani in tasca. Due volte sole abbandonava la posizione di prammatica. Per dir la sua a proposito dei nouveaux philosophes, pur tenendo sempre sigaretta e scoppoletta al posto giusto, si metteva a sedere con l’involto del pranzo sulle ginocchia, e per dir la sua a proposito di riapertura delle scuole con scoppoletta e sigaretta idem si era caricato la cartella come uno zainetto e aveva indossato il grembiule con il fiocco. La più atroce era la battuta relativa al 20 giugno. Si trattava infatti del 20 giugno 1976, il giorno in cui pareva essersi conclusa positivamente la rincorsa delle sinistre al potere, e da cui, invece, aveva avuto inizio un altro ciclo di sventure italiane. Presso a poco nello stesso periodo in cui Altan affidava la commemorazione del disastro al suo Italo, personaggio ancor più in media res del mitico Cipputi, il politologo Giorgio Galli scriveva, nel volume dal titolo L’anno del 20 giugno che: “La constatazione più importante da fare era che la sinistra non riusciva a togliere alla Dc la direzione del sostanziale monopolio del governo, quale che fosse il suo peso elettorale. Trent’anni prima, non ci era riuscita la socialdemocrazia di Saragat col sette per cento dei voti. Vent’anni prima, dopo l’Ungheria, non ci era riuscito il socialismo di Nenni col 14 per cento, che non ci era riuscito nemmeno dieci anni prima con l’unificazione socialista (16 per cento). Non ci riusciva allora il Pci di Berlinguer con oltre il 34 per cento dei suffragi”. Si confermava così la modalità di funzionamento del nostro sistema politico che non aveva mai consentito sino ad allora a un partito di orientamento socialista di assumere la direzione del governo. “È un caso unico nella storia dell’Europa occidentale, nella quale tutti i paesi, dal Portogallo alla Finlandia, hanno avuto per qualche periodo nel corso di questo secolo un presidente del consiglio proveniente dal movimento operaio”, scriveva Galli. “Ciò si è verificato nell’Inghilterra dagli anni Venti a oggi; nella Germania prima e dopo Hitler; in Francia negli anni Trenta, Quaranta, Cinquanta; in Scandinavia dagli anni Trenta in poi; in Austria nel secondo dopoguerra; persino la Spagna prima della dittatura di Franco e il Portogallo dopo quella di Salazar hanno conosciuto governi a direzione socialista. In Italia mai…” Ebbene, dopo questa riflessione di Giorgio Galli, lo abbiamo avuto il governo a direzione socialista! E con ciò? 14
IL DIO ALTAN
Trino, la prima storia per «Linus»: una insuperata e inquietante cosmogonia
Ormai sono anni (troppi) che Francesco Tullio Altan non disegna più storie a fumetti. È un gran peccato perché con lui la letteratura illustrata aveva imboccato una vita ardua e straordinaria. Era diventata un nucleo rivoluzionario d’arti diverse e pungenti. Aboliva la possibilità di considerare i fumetti cose da poco, offendeva il comune senso della banalità. Altan era nato in Italia nel 1942, in Italia aveva già lavorato e tra l’altro aveva pubblicato varie vignette su «L’espresso», ma se n’era andato in Brasile a fare lo scenografo e si divertiva a presentarsi come appena arrivato dal Brasile: magari non era la prima volta che faceva il viaggio tra Brasile e Italia, ma si mostrava fieramente taciturno come se fosse in difficoltà con la nostra lingua. I disegni che portava in visione non erano ritagli de «L’espresso» ma di vari giornali brasiliani. […] Erano infatti anni in cui dall’America latina affluivano grandi disegnatori. Alcuni avevano noie politiche, perché i fumetti funzionavano come conduttori di verità scomode, altri volevano allargare la loro fama e i loro guadagni in Spagna, Francia e Italia. Era un periodo fortunato per «Linus» ed era incredibilmente facile riempirlo con buoni fumetti. Il primo che vidi di Altan era, però, straordinario. Si chiamava Trino e proponeva un aggiornamento cosmogonico. C’erano, tracciati con un segno grosso, due vecchi in camicione, uno senza barba ma con atteggiamento padronale che stava seduto e diceva all’altro in piedi, con barba fluente, un triangolino sospeso sul cranio ma un atteggiamento un poco dimesso: «Faccia la creazione del mondo». «Oggi?» diceva l’altro. «Le dò sei giorni» diceva il padrone. «Sarà un lavoraccio», obiettava il dipendente. E il seduto, facendo scattare l’accendino per un’ennesima sigaretta, tagliava corto: «Il settimo giorno si riposerà». Il barbuto non pareva troppo convinto, comunque si metteva diligentemente a lavorare. Non abbastanza, però, per accontentare un pachiderma impiccione che si trovava nei paraggi e lo rimproverava: «Lei produce lentezza». Il barbu15
Oreste del Buono
to sviava l’attenzione del curioso con un «Lassù qualcuno ci osserva.» «Dove?» chiedeva l’altro alzando il testone. «Lassù, lassù», incitava il barbuto accelerando la manipolazione della materia a sua disposizione. E così quando il pachiderma riabbassava il testone lamentandosi: «Non ho visto niente. Cos’ha creato?» aveva pronta la sua dichiarazione: «Lo scemo del villaggio». Una dichiarazione che non poteva restare senza conseguenze. Infatti il barbuto, probabilmente su delazione del pachiderma, veniva chiamato a rapporto dal padrone che, sempre con l’ennesima sigaretta tra le dita, lo interpellava: «Mi dicono che ha creato lo scemo del villaggio». Il barbuto cercava di buttarla sul ridere: «Così, per scherzo». Ma il padrone lo sconvolgeva intimandogli: «Ne faccia tre milioni di copie». «E a chi li vendiamo?» s’informava il barbuto, che si rasserenava alla risposta del padrone: «Si vendono tra loro…». Rapidamente, il barbuto afferrava l’idea, e si stropicciava le mani gongolando: «E noi ci si prende la commissione…». Una nuova cosmogonia inquietante. Chi era il tizio che comandava al creatore? Cosa ci faceva il pachiderma impiccione da quelle parti, se il mondo non era ancora stato creato? Quale era stata la sorte degli scemi del villaggio? Gli interrogativi erano tanti e avevano la tendenza ad aumentare. Il padrone, invece, pareva soddisfatto, faceva i conti al pallottoliere: «Uno + due uguale tre» e s’interrompeva solo per chiedere notizie al barbuto che si avvicinava: «Cosa c’è?». «Gli scemi del villaggio si sono tutti venduti», annunciava il barbuto. La domanda del padrone era pro forma: «Chi li ha comprati?». «Si sono comprati tra loro», rispondeva il barbuto, confermando la profezia del suo superiore che, tuttavia, non perdeva tempo a congratularsi con se stesso, e passava a dar ordini: «Ne crei altri tre milioni di copie con una piccola modifica». «Gli occhi a mandorla? I baffi?» proponeva entusiasticamente il barbuto che poteva sfoggiare il suo estro. Però, le cose non andavano sempre lisce e a un certo punto il barbuto era costretto a ripresentarsi al padrone in uno stato deplorevole, tutto inzaccherato di escrementi, lamentandosi: «Mi scusi, ma ci risiamo». Per far tornare irridentemente la rima, il padrone sbagliava il conto sul pallottoliere: «Tre per tre = dieci, il problema delle feci». «Gli scemi del villaggio non fanno altro», insisteva il barbuto, cercando di scrollarsi di dosso almeno qualche porcheria in più. Ma il padrone aveva già ripreso ad armeggiare con il pallottoliere: «Due per due venti, così mostrano che son contenti…». Tanti dotti o ingenui discorsi sul trash che si fanno oggi avrebbero potuto cominciare a far proseliti dagli anni Settanta e dalla cosmogonia escrementizia di Altan. Una aggressiva e 16
inesausta rivisitazione del romanzo popolare fatta da un artista geniale, coraggioso e morale che non si faceva illusioni sul genere umano né cercava di suggerirne. Ma non si scoraggiava minimamente, trasformando quello che disprezzava in un motivo di divertimento. Una risata magari amara, ma che ci permetteva di andare avanti nella nostra conoscenza. Avremmo potuto intuire nel lavoro di Altan un’anticipazione della modernità del trash, della visione e dell’accettazione del mondo come spazzatura, rifiuto, immondizia. Ci vedemmo, invece, il trionfale ritorno del feuilleton ottocentesco più catastrofico ed esagerato, accumulo di sciagure e sgradevolezze. Feuilleton è un termine che dalla specie di collocazione tipografica indica tematica, contenuto e tecnica di un dato prodotto giornalistico. “Eugène Sue inizia la pubblicazione a puntate de I misteri di Parigi il 19 giugno del 1842. È passato appena un anno da quando è uscito dalla casa di un operaio, conosciuto per la prima volta quella sera, gridando ‘Je suis socialiste!’. Sa di scrivere un grande romanzo popolare, ma la sua tesi è ancora generica. Probabilmente è affascinato dall’esplorazione che va compiendo sulle pagine e nella vita (per documentarsi a fondo) dei bassifondi della capitale. Ma non ha ancora una idea precisa di cosa stia scatenando”, scrive Umberto Eco nella prefazione a una traduzione italiana del capolavoro di Sue. “Parla del ‘popolo’, ma il popolo è ancora una realtà estranea per lo scrittore affermato, per il dandy professionista che ha divorato il patrimonio paterno sperperandolo in equipaggi fastosi e gesti regali da esteta maledetto. E quando il romanziere descrive la soffitta dei Morel, la famiglia del tagliatore di pietre preziose, onesto e sfortunato, con la figlia insidiata resa madre e presunta infanticida dal perfido notaio Jacques Ferrand, la figlioletta quattrenne morta di stenti sulla paglia, e altri bambini rosi dal freddo e dalla fame, la moglie morente, la suocera pazza e bavosa che gli perde i diamanti affidatigli, gli uscieri alle porte per trascinarlo in prigione — è a questo punto che Sue misura la forza della sua penna…” Un accumulo di dati talmente esagerati che avrebbero potuto provocare il riso più incredulo, e che invece fecero furoreggiare il «Journal des Débates» che quotidianamente pubblicava il feuilleton, spinsero sulla scrivania dell’autore un’infinità di lettere di nobildonne smaniose di aprirgli le porte dell’alcova o di proletari ansiosi di tributargli il riconoscimento di apostolo dei poveri o di poeti laureati orgogliosi della colleganza o di editori bramosi a colpi di contratti in bianco della sua opera e di malati non disposti ad accettare la morte prima dell’ultima puntata. Follie di una volta, che 17
non si pensava certo di ripetere pari pari. Cos’era cambiato nel romanzo popolare? Tutto, mezzo? O nulla? Nel numero di marzo del 1978 di «Linus» Altan andò alla verifica con Ada nella giungla, romanzo a fumetti definito dall’autore “classico e moralistico”. La prima didascalia si chiedeva: “1939. Chi troviamo in un’aula del sozzo e selettivo convitto di Sbeef?”. «Miss Ada Fronz», diceva la prof. Maria, «lei non sa la lezione, come al solito. Cosa ci ha in testa, la senape?» «Il mio destino m’appartiene, s’immagini, quindi, cosa me ne faccio dei suoi rimproveri», ribatteva Ada, brunaccia arrogante e, come vedremo, eroina dell’impossibile.
LE COLONIE DI ALTAN
Con Ada in un’Africa divorata dai luoghi comuni. Con Colombo, bighellone illuminato, in America
Nella prefazione di Ranieri Carano alla raccolta in volume dei fumetti di Altan della serie Trino, edita dalla Milano e Libri nel 1977, si può leggere un succoso ritratto dell’artista: “Se il lettore dovesse un giorno notare in una affollata hall d’albergo o in un gran caffè di tipo viennese o anche nel bel mezzo di una festa turbinosa un giovane massiccio ancorché non grasso dall’aspetto marcatamente risorgimentale – pelo biondo-fulvo diffuso, sguardo chiaro e pensoso – e questo giovane cospicuo dovesse rimanere seduto per ore e ore, incurante dell’affannarsi circostante eppure non sdegnoso di esso, intento a sorseggiare con lentezza orientale un suo whisky molto molto lungo… be’, ci sarebbero moltissime probabilità per il lettore di trovarsi al cospetto di Francesco Tullio Altan, l’Uomo Nuovo della satira italiana a fumetti e no. Già, perché questo tranquillo e moderato bevitore che ricorderebbe il signore del Cynar se non bevesse scotch, ma che assomiglia piuttosto a un Garibaldi giovane o a un fratello Cairoli, a scelta, ha bruciato le tappe, come si soleva dire prima del ‘cioè’ onnicomprensivo, molto operando e sbagliando pochissimo…” La citazione di Calindri, invulnerabile al logorio della vita moderna, grazie a un estratto di carciofi, è suggestiva anche se non esatta. Quella dell’impeccabile Calindri è una resistenza passiva che si limita a conservar le cose come stanno, mandando giù qualche sorso di quel liquido di cui non ho mai capito il colore, verde blu o marrone; Altan, al contrario, nonostante l’apparente indifferenza, quel tanto di statuario che è proprio della sua muscolatura e consistenza, giudica e manda. “È possibile che egli” insiste Ranieri Carano “immoto al centro del turbinio di gente che va e gente che viene, pensi e tracci mentalmente profili nasuti dei metalmeccanici Cipponi e Cipputi, nuvolette sulla triste testa a volte conica del grande Capitalista, insaccati di un Andreotti farneticante. È possibile. Com’è possibile che qualche mese prima, 18
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Oreste del Buono
pensasse, davanti a un lungo whisky imbottigliato in stagioni più remote, al suo lardoso Sandokan o al suo Colombo di corta vita. È possibile. Com’è possibile che prima ancora davanti a un beveraggio di cui non è rimasto neppure il ricordo della bottiglia, andasse creando le vaghe irriverenze teologiche di Trino. È possibile. Ma potrebbe benissimo darsi il caso che Altan crei solo a tavolino, sotto la spinta di un raptus inarrestabile, ispirato dalla forza micidiale delle cose e degli avvenimenti, e che le pause vaghissimamente alcoliche servano a meditazioni di tutt’altro genere: zen, Repubblica di Platone, Dei delitti e delle pene, Condizione umana, il fanciullino…”. Anche per Ranieri Carano, critico severissimo della satira politica italiana, da lui dichiarata morta prima ancora che eruttasse il vagito inaugurale, Altan resta un mistero, anzi un Mistero da rispettare per tutti. E soprattutto per se stesso, che presto scomparve anche dalle hall d’albergo o dai gran caffè di tipo viennese per ritirarsi ad Aquileia, regno lontano. Riconsultare i suoi romanzi costituisce una lettura impressionante per vari motivi. La trama di Ada, per esempio, è feroce con le convenzioni delle storie africane, ma non perché ponga dubbi sulla loro attendibilità, bensì perché le esaspera. Valga qualche citazione tolta dai riassunti delle puntate precedenti, vergati dallo stesso autore: “1939. Ada, giovane impertinente riceve da un nobile zio una eredità e il compito di ritrovare il cugino Percy gettato via in Africa. L’altro cugino, Nancy, diseredato, non accetta il fatto. Ma Ada ha una morale e insiste…”. “1939. Mentre in Europa infuriano le polemiche e la Wehrmacht fa il bello e il cattivo tempo, la giovane Ada, pepata e introversa, va verso l’Africa a cercare il cugino Percy in nave…” “1939. Ada, spinta da varie cose, è in Africa a cercare il cugino Percy, ivi sperso. L’altro cugino, Nancy, lurida figura senza ideali, la segue nascostamente col servo Pilic. Essi incontrano il maggiore Collins ex compagno di Eton, da ciò tutto può…” A questo punto i riassunti cominciano a zoppicare e a confondersi. Ma le avventure incalzano e sono di tutti i tipi. C’è poi una novità per così dire d’impaginazione. Negli spazi che restano liberi tra vignetta e vignetta, Altan interviene con commenti pertinenti o impertinenti, rivolgendosi ai personaggi o ai lettori: “Bella roba!”, “Igiene borghese d’altri tempi”, “L’autoironia maschera il dolore”, “È un cugino mica uno qualsiasi!”, “Chi fallisce merita due, tre chances”, “Aristocrazia corporativa”, “Tutto il mondo è paese?”, “Le donne meno ne sanno meglio è”… La stessa tecnica applicata al romanzo popolare avventuroso è applicata al romanzo popolare storico che voluttuosa-
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mente Altan rivisita. Grandi e piccini sono trattati con sarcasmo, come può dimostrare il semplice indice dei capitoli di Colombo: 1) La tragedia di un bighellone, 2) Brutti momenti per un bighellone illuminato, 3) Bonaccia per un bighellone, 4) Stolto è il bighellone che si prefigge una meta, 5) Il senso di colpa aumenta la velocità di un bighellone, 6) Ad ogni bivio il bighellone spasima… Inesorabilmente, Altan non rispetta i personaggi storici o presunti storici come Colombo e Franz (ovvero san Francesco) allo stesso modo che non rispetta i personaggi inventati: dalla testarda Ada allo schifoso Friz Melone. Per le donne, almeno per quelle di malaffare, il tratto vigoroso ha qualche indulgenza, le disegna dotandole di qualche lasciva curva di attrazione, ma per gli uomini non c’è scampo. Le facce sono mascheroni difficili da sopportare e i corpi non dispongono di forme o di lineamenti umani. Non c’è tregua, insomma, per gli eroi o gli antieroi avvinghiati in una lotta mortale, affoganti in un’invincibile immondizia, condannati a distruggersi definitivamente. In confronto, la irriverente cosmogonia di Trino con quei due buffi vecchioni in camicia da notte appare tollerabile e candida nella sua irresponsabilità. Il ricordo di un periodo in cui era concesso scherzare. Oggi non più, ogni spiraglio di luce si è chiuso, nel brulicare di disumanità dei romanzi come Macao o Cuori Pazzi. Ma il particolare più singolare è che Altan non si sporca con la sua turpe materia. Contemporaneamente a questi orrori si occupa di tante altre cose. Ad esempio, al ciclo di vignette politiche dedicato alle disavventure del metalmeccanico Cipputi e dei suoi colleghi nel disfacimento odierno del concetto del lavoro speranza. Un personaggio consapevole che diventa una specie di punto di riferimento nei dibattiti sindacali, negli ultimi sussulti della lotta di classe Cipputi è saggio e amaro, ma positivo, perché non rinuncia a dire la sua con franchezza e arguzia. Ma Altan non si limita ai grandi romanzi a fumetti di nequizie senza fine e alla serie di urticanti vignette politiche, ha un’altra grande passione, la Pimpa, una deliziosa cagnolina nata quando nella sua dimora lontana di Aquileia ha cominciato a far disegni per divertire la sua bambina e approdata irresistibilmente al «Corriere dei Piccoli», purtroppo già in agonia, con il suo manto a pallini rossi e la sua lingua perennemente penzoloni. Una cagnolina che ha la fortuna di avere un padrone-papà nel mite signor Armando che le permette di fare tutto quello che vuole, ovvero di sfogare la sua vena generosa che a volte le fa combinare pasticci su pasticci. Ma il signor Armando, quando torna a casa e
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ascolta i racconti della Pimpa, che non solo parla con lui ma anche con gli oggetti, è sempre dalla parte della sua diletta, anche se non crede a neppure una parola dei parti della sua sfrenata fantasia. Altan ha rinunciato a essere il Dostoevskij dei fumetti per solidarietà con un metalmeccanico dalla battuta pronta e l’amore per una cagnolina capace di parlar con le teiere e di inventarsi continuamente una vita diversa.
GENTE IN TINELLO
La parola tinello, stando al Vocabolario Zingarelli, non indica solo un piccolo tino, ma anche la stanza ove mangiano in comune i servitori delle case signorili, la saletta da pranzo adiacente alla cucina e il salottino di soggiorno e di ricevimento. Tinello italiano è anche il titolo della più bella e mordace raccolta di vignette di Altan, uscita nel 1980. Qui sono raccolti alcuni fulminanti disegni dedicati alla classe media del nostro paese, che ha, in obbedienza ai processi sociali e alle traslazioni semantiche, trasformato la stanza da pranzo dei servitori in salottino di soggiorno. Il tinello, forse chi ne ha abitato uno se lo ricorderà, è arredato con un tavolo, preferibilmente di teak, ed è fornito di una poltrona su cui, nelle classi medio-alte, si legge il giornale, o si schiaccia un pisolino, subito dopo mangiato. Su una di queste poltrone sono seduti i personaggi di Altan, adulti cinici e sconsolati, dallo sguardo rivolto verso il vuoto, che rispondono alle domande formulate da giovanissimi figli che non assomigliano per nulla a loro nei tratti fisici, ma non è forse vero che solo invecchiando si tende ad assomigliare ai propri padri? Nella galleria dei personaggi di Altan essi rappresentano emblematicamente il “buon senso” e insieme l’inalienabile pessimismo italico. L’umorismo suscitato dallo scambio di battute tra padri e figli scatta nello spazio tra la domanda, o affermazione, dei figli, pronunciata tutta d’un fiato e con giovanile inquietudine, e la risposta realistica dei padri, che si abbatte come una mannaia sui sentimenti dei figli: «Papà ho dei dubbi». «Beato te. Io non ho più neanche quelli», oppure «Babbo, bisogna amarsi l’un l’altro.» «Così poi chissà cosa dice la gente.» Si ride di entrambi, dell’ingenuità e del sentimentalismo dell’uno, ma anche del cinismo dell’altro. Del resto, i due personaggi in scena sono speculari. Il cinismo non è che l’altra faccia del sentimentalismo.
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Marco Belpoliti
I figli sono sentimentali perché anticipano la disillusione dei padri, di cui prenderanno il posto in poltrona, e non solo per un destino biologico. Figli e padri sono due imago di uno stesso personaggio, l’italiano, che ha eretto il tinello a sua dimora abituale. Il disprezzo dei genitori verso i figli non è che la proiezione del disprezzo verso se stessi, i figli non sono né meglio né peggio e: «Babbo perché leggi la vita di Mozart?» «Perché alla tua età era un enfant prodige, mica un coglione come te». E, in uno dei rari momenti di rovesciamento, l’accusa di coglioneria funziona in senso inverso: «Sempre lì a rincoglionirti con la tv, vero?» «Ci hai l’invidia perché te ti sei dovuto rincoglionire con la radio» risponde il figlio, che anche nella sua cattiveria conserva tutto lo sguardo smarrito di coloro che, invece, fanno solo domande. Tinello italiano vuol dire il trionfo della classe media (siamo tutti classe media!), di quell’indistinta poltiglia sociale cresciuta tra la seconda metà degli anni Sessanta e la prima metà degli anni Settanta. Dieci lunghi anni, in cui la stanza da pranzo dei servitori si è trasformata in un tinello senza che nessuno dei commensali cambiasse di posto.
Chi è l’italiano? La difficile domanda che Giulio Bollati si pone nel suo bel libro (L’italiano, Einaudi, Torino 1983), dedicato alla caccia al fantasma dell’“italianità”, è proprio questa: “Chi, cos’è italiano?”. La sua dotta indagine mette al centro l’immagine che il nostro paese ha cercato di dare di sé negli ultimi centocinquant’anni. L’autore, che è uno storico della cultura, dedica lo spazio maggiore all’Ottocento, al periodo a cavallo dei moti risorgimentali. La domanda sull’italiano diviene così una domanda sulla natura del processo d’unificazione nazionale, il cavouriano e moderato motto: “Fatta l’Italia, facciamo gli italiani”. Altan, seppur da un versante opposto e con metodi diversi (inseguendo cioè le fenomenologie quotidiane, cosa che ovviamente lo porta a non avere un unico e coerente punto di vista), cerca di rispondere alla medesima impossibile domanda. Così fa dire a una delle sue donne nude: “L’italiano è un popolo straordinario. Mi piacerebbe che fosse un popolo normale”. Le risposte possibili, stando alla ricerca di Bollati, che per altro si propone di non avallarne nessuna, sono solo due, 26
opposte tra loro: “il popolo italiano… non sussiste” (Vincenzo Gioberti, Del primato morale e civile degli italiani, 1843), oppure: “gli italiani esistono” (Greppi, Cattaneo, Manzoni, per quest’ultimo, poi, molto cristianamente “italiani” e “uomini” sono termini intercambiabili). È, in definitiva, l’eterno ondeggiare degli italiani, e dei loro critici, tra condanna ed esaltazione. Gli italiani sono egoisti, cinici, menefreghisti, pigri, voltagabbana, conformisti oppure, all’opposto, sono pieni di risorse, inventivi, creativi, geniali. Nel 1965, ci informa Bollati, gli studenti di Princeton, interrogati in merito al carattere dell’italiano, hanno risposto prontamente: “Artistic, Impulsive, Passionate”. Difficile scrollarsi di dosso questo stereotipo, anche a causa del nostro atavico masochismo… lo dice anche una fulminea battuta di Altan messa in bocca a due personaggi meridionali: «Dovemo sdrammatizza’ Maria». «Ma sì! Basta con sto masochismo italiano» D’altro lato, quando “risorgiamo”, come nazione, ci sentiamo alle stelle… Ma questo non è che un trucco per non fare mai a fondo i conti con noi stessi, come popolo e come nazione. Bollati ha ben individuato il nodo irrisolto dello sviluppo italiano; è quello del rapporto fra tradizione e modernizzazione… chi si ricorda delle commoventi lucciole di Pasolini, dei suoi Scritti corsari e delle Lettere luterane? Ed è solo un caso che Leonardo Sciascia, nel narrare il caso Moro, riparta proprio dalla scomparsa delle lucciole? Altan pare, invece, essere oltre questi problemi. L’operaio Cipputi, personaggio che ha reso celebre il suo autore, figura del continuum storico italiano, fondato sulla contrapposizione umili-potenti (le “due classi” del populismo, di Gramsci, di Omodeo, ma anche e soprattutto di Manzoni), sembra, negli ultimi tempi, lasciare il posto a uomini seduti dietro a scrivanie più o meno ministeriali, a casalinghe e, soprattutto, a giovani donne nude. Con questo non scompaiono del tutto la figura dell’“umile” e quella dello “spirito sociale”. È l’operaio ad appannarsi. Compare invece con insistenza il disoccupato meridionale con moglie e bambino in fasce, figure lacere e scalze, sempre più sgomente e rassegnate. Oppure si chiama emblematicamente Italo ed è intento a solitarie considerazioni, in cui riferisce le affermazioni dei potenti e le proprie risposte a mezzavoce. A Cipputi e colleghi resta il compito di commentare le vicende politiche nazionali, ma con meno mordente, e, come in Tinello italiano, ora anche l’operaio risponde alle domande di un giovane, la nipotina, seduto domesticamente in casa propria, lontano dalle macchine e dalla fabbrica. 27
L’appellativo nonno, con cui la nipotina chiama l’operaio in tuta, lascia intendere che egli sia già in pensione. Del resto oggi andiamo tutti in pensione (Chi sono gli italiani? Dei pensionati, si dovrebbe rispondere), chi dopo anni e anni di lavoro, chi ancor prima di iniziare a lavorare, come ci avvisano le ultime inchieste degli ebdomadari nazionali. E il Censis conferma. Una delle donne nude di Altan, in una battuta a metà strada tra la considerazione esistenziale e l’analisi sociologica, paragona la vita a un film e afferma di essere entrata a metà del secondo tempo. Dunque, se all’inizio Cipputi cercava di rispondere alla domanda posta da Bollati al centro del suo libro, e nel suo umorismo la critica politica era prevalente, col passare del tempo Altan ha lasciato emergere un’altra vena, certamente meno politica di quella precedente. Probabilmente più profonda. Altan possiede un forte senso della fine, di una-fine-chenon-cessa-di-finire, che si ripete sempre uguale a se stessa, che si replica ogni giorno sui nostri teleschermi: «Quello che mi tiene in vita» fa dire a uno dei suoi personaggi «è il desiderio di non perdermi la fine del mondo». In tutto questo non vi è nulla di apocalittico, la fine non è mai minacciata, ma attesa, con rassegnazione e stanchezza. La donne nude di Altan sono perplesse, sentimentali, disilluse, insicure, incerte, per questo sono nude. Non hanno nulla da mettersi, e non ridono mai. Le loro braccia sono rilassate e lo sguardo è stanco. Non hanno neppure più la statuaria posa della donna di Tinello italiano, che giace sdraiata su di un divano, e a cui la figlia chiede ragione della sua nudità: «Hai caldo mamma?» «È quello che mi chiede il tuo babbo quando mi vede così». Ora, queste donne, la cui chioma lievita col tempo, non sostengono più alcun dialogo, parlano solo per monologhi. Pier Giorgio Paterlini, intervistando Altan per «Ottantagiorni», inserto di «Linus», circa il sudore di Cipputi, faceva notare il senso di spossatezza che distingue i personaggi di Altan, una spossatezza che si è fatta sempre più evidente nelle ultime vignette, sino a diventarne la cifra unificatrice. Resta da stabilire se la spossatezza rispecchi esattamente quanto sta accadendo nella società italiana, dove la classe dirigente è sempre la stessa da quarant’anni, dove i partiti somigliano progressivamente gli uni agli altri, dove la mancanza di soluzioni è divenuta condizione abituale – «La situazione degrada ma non si precipita», dice a Cipputi un collega, ed egli risponde: «Agli italiani gli piacciono le cose croniche: non si muore, ma ci si può lamentare» – e dove 28
l’età media della popolazione invecchia di anno in anno, oppure se Altan stia solo anticipando i tempi a venire.
Le voci Ho letto, da qualche parte, che Altan lavora ascoltando la radio. Penso che sia vero. Dove potrebbe, infatti, ascoltare le voci che egli puntualmente fissa nelle sue vignette? A questo proposito, racconta Elias Canetti che per Karl Kraus, il grande scrittore e moralista austriaco, l’inizio della Prima guerra mondiale fu un intreccio allucinato di voci, dal quotidiano, ineludibile, orrendo grido: “Edizione straordinaria!” alle chiacchiere dei capannelli, dalle dichiarazioni tronfie e ignare dei potenti ai “pezzi di colore” della stampa, sino all’inarticolato lamento delle vittime. “Non c’era” prosegue Canetti, “una sola voce che Kraus abbia lasciato perdere, era invasato da ogni specifico accento della guerra e lo riproduceva con forza stridente.” Certamente, se vi è qualcosa di comune tra Kraus e Altan non è sicuramente l’ossessione invasata delle voci. Altan è uno spirito diverso, ma le voci che ascolta e riproduce su carta non sono voci interiori, bensì esteriori, rispetto alle quali egli conserva una certa distanza. Le sue battute, che hanno un andamento aforistico, sono riflessive, non posseggono, infatti, l’ossessione krausiana e il suo tormento linguistico. Altan ascolta le voci (dalla radio, dal televisore, dai giornali), Kraus, invece, le “sentiva”. Altan non fa, come si è soliti credere, del commento politico. L’efficacia della sua scrittura non è affidata all’avvenimento, all’istante, ma possiede la durata delle voci, del loro quotidiano ripetersi attraverso i mass media e i discorsi di strada. Le vignette di Altan non riproducono avvenimenti, anzi, quando si avvicinano troppo a un avvenimento, quando alludono direttamente a un personaggio politico, riproducendone le fattezze, perdono di mordente. La loro forza risiede nel ridarci il quotidiano, nell’attraversare la sua opacità mediante la citazione dei discorsi, mediante le voci. Scrive Blanchot che il quotidiano è la cosa più difficile da scoprire. “L’uomo è al tempo stesso sommerso dal quotidiano e privo del quotidiano.” Quando i personaggi di Altan parlano la lingua quotidiana, quella della chiacchiera (lingua che risulta essere la storpiatura di quella insegnata dalle grammatiche), non lo fanno soltanto perché così le ha “ascoltate” il loro autore, ma 29
perché Altan cerca in questo modo di avvicinarsi al quotidiano, di restituircelo, impresa difficilissima. Altan prende spunto dalle voci, non le fa parlare in presa diretta, ci riflette sopra, compie un’operazione intellettuale, una mediazione. In questo atto di riflessione, egli sembra inconsapevolmente fedele al detto di Blanchot che il carattere essenziale del quotidiano è di non lasciarsi cogliere. Il nostro autore si colloca a metà strada tra i due lati del quotidiano: quello fastidioso, penoso e sordido e quello inesauribile, irrecuperabile, sempre incompiuto e che sempre sfugge alle forme e alle strutture (Blanchot). Il primo lato ha il carattere della ripetizione, il secondo della imprevedibilità. E questi due sono anche i toni dell’umorismo di Altan. Potrebbe sembrare un paradosso ed è, invece, una grande qualità artistica.
L’epoca della secolarizzazione La celebre frase di Marx sulla religione come oppio dei popoli, che ha fatto la fortuna di quasi un secolo di polemiche anticlericali, quando giunge nel Tinello italiano ha affievolito la sua forza. «La religione è l’oppio dei popoli, babbo?» chiede il solito ragazzino. «Magari», risponde il padre. Viviamo in un’epoca postcristiana. Ben altre droghe, anche mortali, hanno preso il posto della religione nel consumo di massa. Del resto, a ben leggerlo, Marx aveva indicato non tanto la religione dei preti come soporifero stupefacente, ma la ben più solida “religione del Capitale”. Quando, all’inizio di Per la critica della filosofia del diritto di Hegel, scriveva che “la critica della religione è il presupposto di ogni critica”, non indicava tanto nell’istituzione ecclesiastica luterana o cattolica l’oggetto di una dura polemica, o nella teologia l’avversario da abbattere con l’affermazione dell’ateismo. Marx, intellettuale tedesco ed ebreo, aveva compreso che la civiltà moderna è figlia della tradizione ebraico-cristiana, e che la religione si è inverata nelle strutture economiche, sociali e politiche del “Moderno”. Lo spirito del capitalismo è religioso, sia nei paesi protestanti che in quelli cattolici, e dunque la critica della religione è la critica per eccellenza (il denaro, in altre pagine, è paragonato a Cristo nella sua funzione di mediatore tra le merci). 30
L’ateismo di Marx è una leggenda da seminari o da circoli anticlericali, una leggenda che semplifica brutalmente le cose. Ma noi viviamo, oltre che in un’epoca postcrstiana, anche in un’epoca postmarxista, immersi come siamo in un “naturale” ateismo di massa, frutto non della critica rivoluzionaria, ma dello sviluppo delle forze produttive capitaliste, e viviamo anche la crisi delle utopie rivoluzionarie. Senza Dio, senza Classe Operaia. Forse per questo alcune frange minoritarie guardano con interesse alla teologia postcristiana e alla fede come a una alternativa alla “religione del solido Nulla”, al nichilismo di massa. Ma questi recentissimi dati Altan non li ha ancora registrati nelle sue vignette. Egli è, invece, un fedele cronista dell’età postcristiana e postmarxista, evocata con tanta chiarezza nel dialogo tra il padre e il figlio. Forse per questo i suoi preti vestono la vecchia talare […] e hanno gli sguardi tristi. Vivono ai margini e il nuovo li sorprende: «Il papa dice che la sessualità è un dono di Dio, don Pino». «Non mi guardi in quel modo, don Gino.» Altan non è un anticlericale, in un paese che ha una solida tradizione di satira e di disegni anticlericali; la sua ironia applicata agli ecclesiastici è certamente meno “forte” e meno spietata di quella che applica alle grassottelle casalinghe impegnate ai fornelli. I preti sono davvero figure di contorno in un paese in cui i cattolici restano anagraficamente la maggioranza, ma in cui la Chiesa è divenuta una istituzione tra le altre, non l’Istituzione per eccellenza, come nel passato. La cifra dell’umorismo delle vignette dedicate al clero sta nella incomprensione al nuovo che esso dimostra. In genere si tratta di preti anzianotti e i loro commenti sono analoghi a quelli dei pensionati, altri personaggi di Altan. La differenza sta invece nel fatto che i primi sono seduti su di un divano e i secondi su una nuda panchina da giardini pubblici. Entrambi commentano i fatti di rimessa, al secondo rimbalzo. Non fanno il mondo, ma neppure lo addormentano più con generose dosi di oppio religioso.
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