Il fumetto a nudo

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due o tre cose che so di lui

il fumetto a nudo


Il fumetto è un gioco di prestidigitazione

Uno degli aspetti più interessanti della cosiddetta Pop Magick prevede la possibilità di evocare come divinità personaggi del mondo della fiction, compreso il fumetto. Ci sono lettori di fumetti che si spingono oltre e considerano delle divinità gli stessi autori di fumetti, adorandoli in ogni loro manifestazione e collezionando con la passione di un indomito feticista ogni oggetto sfiorato dal loro dio. È di uno di loro che ci racconta Talbot, intento a seguire Frank Miller al gabinetto per fargli firmare una copia del Cavaliere oscuro: l’estasi del discepolo mentre stringe al cuore un oggetto irrorato dai fluidi del Maestro. Ricordo lo stupore di uno dei suddetti lettori che, giunto a Bologna per lavorare in una casa editrice di fumetti, era stupefatto nel vedere che quegli artisti sublimi che adorava da lontano non solo si conoscevano e si frequentavano, ma facevano cose normali come mangiare, bere e altro. A costui e ai suoi simili si rivolge Talbot per metterli in guardia dall’idolatria, compiendo una sana opera di demistificazione: nelle pagine che seguono ci mostra queste divinità intente in attività umane (troppo umane), ce li presenta come esseri gelosi e litigiosi, inclini a ciascuno dei sette peccati capitali più altri inediti, ma anche come esseri dotati di un corpo che disobbedisce agli impulsi emanati dalla mente razionale per affermare priorità proprie, spesso imbarazzanti. Più si avanza nella lettura, però, e più sorge un dubbio: e se la demitizzazione nascondesse un’ulteriore fase di adorazione, ancora più subdola? In fondo, se non siete pronti a cedere ciò che avete di più caro per passare un’ora accanto ad Alan Moore o Grant Morrison, cosa ve ne importa di quello che ne racconta Talbot? Sicuramente in questo libro Talbot svela anche riti e rituali dell’industria del fumetto, celebrati nelle cerimonie più o meno fastose delle convention o dei

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tour di promozione. Tuttavia, è il gusto dell’aneddoto che resta, la storia, vera o apocrifa che sia, che illustra un mondo intero, osservato con lo sguardo mai moralistico ma sempre divertito di chi conosce perfettamente grandezze e miserie di quella realtà. Se siete interessati solo ai valori estetici o sociali del fumetto, troverete delle osservazioni interessanti, ma il libro vi sembrerà l’equivalente libresco di una copia usata di «Cronaca Vera». Avrete l’impressione che voglia solleticare i bassi istinti del lettore invitandolo a guardare dal buco della serratura la vita di fortunati artisti. Ma attento, lettore, perché una volta iniziato il libro rischi di perderti nel vortice delle nefandezze narrate e lì crogiolarti per poi chiudere ipocritamente il libro con un sorrisetto di superiorità e il vago malore di chi si sveglia ricordando gli eccessi della notte precedente. Con un atto di prestidigitazione, attività per altro da lui praticata assiduamente e con cui allieta le comitive che siedono alla sua tavola, Talbot trionfa sul lettore ingenuo e su quello smaliziato: rimescola le carte, smitizza per esaltare, esalta per smitizzare, racconta un mondo con il distacco della Fiera delle Vanità e insieme la partecipazione di un iniziato ai misteri del fumetto. Riflette su una professione che ha luci e ombre, ed è comunque ben lontana dall’immagine splendida che se ne fanno i lettori. Fornisce una serie infinita di utili consigli pratici sulle scuse usate per giustificare ritardi nelle consegne e su come infilarsi di soppiatto nelle sfarzose feste private dei grandi editori. Ma soprattutto è divertentissimo. Anzi, come direbbe Harvey Kurtzman, è super. Gino Scatasta

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Introduzione Pro e contro

Il vignettista satirico inglese Steve Bell una volta ha detto, in riferimento alle proprie battute per il «Guardian», che gli artisti devono vivere in un mondo tutto loro, il che è ciò che facciamo di solito. Per lo più noi fumettisti conduciamo una vita abbastanza solitaria. Lavoriamo in casa e passiamo intere giornate per conto nostro, persi nei nostri mondi immaginari e spesso vediamo famigliari e amici soltanto la sera. Quando una scadenza è vicina lavoriamo fino a tardi o anche tutta la notte, se necessario. Quando sono a casa, sono abituato a lavorare sette giorni su sette fino alle nove di sera ed esco solo per andare in palestra tre volte alla settimana. È il problema di lavorare in proprio: il capo è sempre un grandissimo bastardo. Non fraintendetemi, non mi lamento. Adoro questa vita e al mattino adoro alzarmi quando cavolo mi pare. Molto tempo fa per andare al lavoro uscivo di casa alle sette anche in inverno e mi aspettava un viaggio di almeno un’ora e mezza: adesso mi basta scendere le scale ed eccomi arrivato: è fantastico. Adoro passare tutto il giorno a inventare storie, circondato dai miei libri e dalle mie cianfrusaglie, senza uno stupido pallone gonfiato di manager che mi alita sul collo. Adoro il mondo del fumetto, le persone, le situazioni. Probabilmente è perché passiamo un sacco di tempo da soli che, quando dobbiamo uscire per partecipare a una convention, a molti di noi capita di lasciarsi un po’ andare: beviamo troppo, restiamo alzati fino a notte fonda a chiacchierare con colleghi che non vediamo da secoli o che abbiamo appena conosciuto, stringiamo amicizie, ci aggiorniamo sulle novità e raccontiamo storie, spesso storie su professionisti del settore che durante altre convention hanno bevuto troppo e sono rimasti alzati fino a notte fonda. Incestuoso? Altroché.

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È un po’ quello che capita all’investigatore privato alle prime armi di La sorellina di Raymond Chandler, che si attacca a Philip Marlowe perché si sente simile a lui e lo tormenta allegramente con i dettagli della propria vita privata perché sono entrambi “del giro”. Anche noi ci sentiamo in qualche modo legati per il fatto che lavoriamo nello stesso ambiente: tutti ne conosciamo le caratteristiche, le regole, la storia e la gente che lo popola. Qualche volta – ultimamente capita di rado, ma è sempre un’esperienza incredibile – partecipo a convention o a festival del fumetto all’estero e improvvisamente, mi prende un’esaltazione forsennata per il solo fatto di far parte di questa comunità internazionale di autori di fumetti, una specie di estasi tribale involontaria e inaspettata. E la riconosco anche nello sguardo degli altri autori, impossibile non accorgersene: sembrano vittime di un’autolobotomia frontale. Non sto dicendo che ci vogliamo tutti bene come i fratellini con la testa a spillo in Freaks di Tod Browning. Di fatto molti autori si odiano appassionatamente, in genere per questioni economiche del passato o dispute creative, anche se spesso si tratta di incompatibilità caratteriali pure e semplici, provocate, in una percentuale molto, molto ridotta di casi, dagli atteggiamenti di persone piacevoli come gigantesche lumache zombie, viscide, incontinenti e inclini al vomito propulsivo, ma sono casi davvero rari. Nel complesso, il mondo del fumetto è fatto di persone socievoli, simpatiche e interessanti ed è di gran lunga un ambito di lavoro più piacevole dell’industria del cinema e della televisione o della musica pop, per il poco che ne so. Ma metteteci insieme e dopo un secondo inizieremo a parlarci addosso, a spettegolare, a farci gli affari di vecchi colleghi, a diffondere notizie fresche o a rinverdire i classici. Sono queste storie, le leggende urbane della comunità del fumetto, l’argomento del presente libercolo: i racconti che si ascoltano a tarda notte nei bar delle convention frequentati da professionisti del settore, aneddoti oltraggiosi, divertenti o del tutto assurdi e che meritano di essere tramandati ai posteri. Sono storie che di solito non si leggono sulle pubblicazioni specializzate e non alimentano neppure le colonne del gossip fumettistico on line, apparentemente più interessato alle voci di mercato. Sono miti contemporanei e come tali devono essere letti. Storie che si evolvono nel racconto: gli eventi sono ingigantiti, i dettagli opportunamente trasformati per stuccare qua e là pezzi ormai mezzo dimenticati della trama, a volte anche persone e luoghi sono sostituiti da altri che funzionano meglio, sacrificando sempre la veridicità storica all’efficacia narrativa. Altri racconti sono inconfutabilmente fondati su fatti reali e devono quindi restare molto vicini alla verità, altri sono volgari caricature, altri ancora raffinati apocrifi. Potete credere o meno alla veridicità di queste storie; quel che è certo è che sono state raccontate più e più volte: moneta corrente degli scherzi da

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bar tra professionisti, materiale grezzo per ogni buon narratore del mondo del fumetto. Un paio di storie sono apparse sulle riviste per appassionati, come la faida universalmente nota tra Dave Sim e Jeff Smith, ma qui la ritroverete in forma condensata e con un epilogo che, dopotutto, non ha avuto la pubblicità che meritava. Era inevitabile, un numero sproporzionato di racconti sono aneddoti che mi riguardano e credo che sia perfettamente legittimo: sono le storie che racconto al bar e so che altri riportano, dal momento che mi sono spesso sentito chiedere di raccontarle da qualcuno che ne aveva ascoltato una versione di seconda mano. Ho evitato i racconti piccanti su relazioni extraconiugali o su pratiche sessuali non convenzionali, come la storia dello sceneggiatore che faceva indossare vestiti da supereroine alle prostitute o su intime malefatte sessuali, come quella dell’editore che fece sesso con un disegnatore di supereroi sulla scrivania mentre l’interfono era acceso e trasmetteva direttamente nell’ufficio della direzione. Non sono interessato qui alle questioni private, o quasi. Ho evitato anche il resoconto di fatti che rientrano nel penale, per esempio quelle di editori che depredano impunemente gli autori, o come la storia dell’autore di Vertigo che corresse il drink di un rivale con l’acido. Per inciso, non lavorò mai più per quell’editore. Se volete sapere la storia di Bob Woods, autore, ironia vuole, di Crime Does Not Pay (il crimine non paga), che uccise una donna nei lontani anni Cinquanta e fu poi a sua volta assassinato da alcuni ex truffatori, o quella di Greg Brooks, disegnatore di The Crimson Avenger, che uccise a forza di botte la sua convivente negli anni Ottanta, cercatevele su internet. Su internet, fatta eccezione per un paio di casi minori, non troverete le storie raccontate in questo libro. Una delle eccezioni riguarda lo scandaloso incidente del Granada Comic Festival che, benché riportato nei dettagli da Eric Reynolds sul sito del «Comics Journal», non poteva non essere incluso anche qui. Capirete perché quando lo leggerete. Sebbene le storie siano state riviste per la pubblicazione, ho cercato di mantenere il più possibile lo stile aneddotico da bar, spezzando le frasi e spesso usando un linguaggio intenzionalmente volgare. I lettori che conoscono il mio lavoro solo attraverso La storia del topo cattivo o Alice in Sunderland potrebbero rimanere scioccati dal tono e da alcuni argomenti trattati in queste pagine, ma a parte raccomandare alle persone dalla sensibilità delicata di risparmiarsi la lettura e avvertire che deve essere tenuto il più lontano possibile da bambini e vecchie zie, non c’è altro che possa fare. Spiacente, nei miei primi cinque anni in questo settore ho lavorato nell’ambito del fumetto underground e sono ancora osceno, cattivo e volgare, è inevitabile. Agli autori che scoprono con orrore di essere protagonisti di uno o più di questi racconti: consiglio di tenere a mente il famoso epigramma di Oscar Wilde: “Nella vita, c’è solo una cosa peggiore del far parlare di sé, ed è non far parlare

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di sĂŠâ€?. A chi se l’è presa per essere stato escluso: raccontatemi la vostra storia la prossima volta che ci vediamo. Se il libro, per una qualche mostruosa perversione del mercato editoriale, dovesse diventare un best seller internazionale, la troverete nella seconda edizione. Dopo tutto, siamo nello stesso giro.

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Capitolo 1 Birra! Sauna! Uomini nudi!

Rispetto al gran numero di autori in circolazione, sono pochissimi quelli che hanno fatto fortuna con il fumetto. La maggior parte dei professionisti guadagna appena il necessario per vivere e anche questo può svanire da un momento all’altro se l’editore che ti paga finisce gambe all’aria o se per qualche ragione il cliente per cui lavori regolarmente da qualche anno all’improvviso decide che sei “superato” e non ti dà più lavoro. Accade più spesso di quanto io abbia voglia di soffermarmici. Tuttavia, questo lavoro ha un grande vantaggio: più volte l’anno (con un po’ di fortuna), capita di essere invitati in veste di ospite a convention internazionali o fiere del fumetto, oppure da editori che promuovono un vostro libro. Però per considerare un privilegio la possibilità di partecipare a questi eventi, bisogna saperli apprezzare; io li apprezzo e li considero vere e proprie vacanze, anche perché molto spesso gli organizzatori includono nel programma momenti di svago o gite turistiche. Le convention sono, di solito, eventi commerciali organizzati da piccoli gruppi di appassionati o da professionisti del settore, si tengono in genere in un’unica sede, spesso un hotel, e non durano più di due o tre giorni. Oltre agli stand dei rivenditori, sono in programma almeno un paio di seminari, dibattiti e in alcuni casi una rassegna cinematografica. I festival sono in genere eventi no profit, gestiti da istituzioni pubbliche per i beni e le attività culturali o da amministrazioni comunali e si svolgono in varie zone del centro della città che li ospita, con lo scopo di attrarre turisti che spendano soldi, a beneficio dell’economia locale. I festival possono durare da tre giorni a tre settimane, come quello di Amadora, in Portogallo. Oltre a rivenditori ed edi-

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tori di fumetti, ospitano di solito almeno una mostra e molti dibattiti, seminari, proiezioni e spesso cerimonie per la consegna di premi. La convention più importante è il Comicon di San Diego, che si tiene nel centro fieristico della città: un immenso hangar aeroportuale, che si estende per oltre duecento metri, tutti occupati dall’evento. Con un’affluenza che si aggira intorno ai duecentomila visitatori, tra appassionati e professionisti, e che aumenta di anno in anno, è ormai vittima del suo stesso successo, con le grandi case di produzione di film e videogiochi che cominciano a dominare la manifestazione, si appropriano di grandi stand per promuovere i loro prodotti. È vero che anche gli editori di fumetti, come DC, Dark Horse, Image e Marvel hanno stand imponenti con schermi tv, riproduzioni di supereroi a grandezza naturale e accessori vari ma, giusto o sbagliato che sia, l’impressione è che l’evento stia subendo un drastico cambiamento di rotta. Resta il fatto che si tiene in una bella città, con belle palme, un bel porto e un clima caldo piuttosto incoraggiante; la sera si può ammirare l’andirivieni degli scarafaggi sui marciapiedi dei ristoranti di lusso affacciati sulla darsena ed è nell’insieme un’occasione fantastica per incontrare gente, compresi famosi autori di fumetti. A una delle mie prime convention, negli anni Ottanta, ho conosciuto uno dei miei idoli, il disegnatore Jack Kirby, il prolifico co-creatore di Capitan America, Fantastici Quattro, X-Men e di centinaia di altri personaggi. Era un vecchio signore dai modi squisiti e mi venne voglia di abbracciarlo. Cosa che feci. Saltò fuori un ragazzino di sette-otto anni che gli chiese un autografo, che lui gli fece molto volentieri, a differenza di Bob Kane, il creatore di Batman, che arrivò cinque minuti dopo e se ne andò dopo aver scambiato qualche parola con Jack. Era circondato da quattro gorilla vestiti di nero e con gli occhiali scuri, che spingevano via i fan che cercavano di avvicinarlo. «Alla larga dal signor Kane,» grugnivano, «niente dediche!». A San Diego ho conosciuto autentiche icone del disegno a fumetti, come Gene Colan, Gil Kane e Will Eisner. In seguito, ebbi molte occasioni di conoscere meglio Will, durante i festival ai quali partecipavamo insieme come ospiti, dalla Francia al Brasile. Con mio estremo stupore, dopo aver letto La storia del topo cattivo, mi scrisse di sua iniziativa una lettera di vivo apprezzamento per le mie tecniche di narrazione. In occasione di una delle London UK Comic Art Convention, gli chiesi di scrivere un commento da pubblicare sulla quarta di copertina di Le avventure di Luther Arkwright. «Scrivi quel cavolo che ti pare,» disse, «giurerò che l’ho detto io!». *

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Una volta andai a San Diego al seguito di Big Entertainment, società risibilmente gestita e dalla vita molto breve, per la quale disegnavo Teknophage, ideato da Neil Gaiman e scritto da Rick Veitch. Un altro dei loro titoli era Mike Danger, basato su una storia originale degli anni Cinquanta del celeberrimo autore di gialli Mickey Spillane, che fui stupito di vedere alla convention. Era proprio come me l’ero immaginato, un vecchio signore coriaceo, capelli bianchi e fisico asciutto, con le maniere da ex pugile e la parlata da tassista di Brooklyn. Per tutta la settimana partecipò ai dibattiti con il disegnatore e sceneggiatore Frank Miller, autore di Il ritorno del cavaliere oscuro e Sin City, e con il loquace scrittore di fantascienza Harlan Ellison, un oratore nato. Ogni volta che Harlan partiva in quarta, Mickey iniziava a piazzare gran gomitate nelle costole di Frank borbottando: «Tutti paroloni! Cosa li usa a fare tutti quei paroloni?». * Il disegnatore Harvey Kurtzman, già ideatore di Mad ma oggi forse più noto come autore della lunga serie di fumetti genere commedia sexy per «Playboy», Little Annie Fanny, era in realtà un uomo molto timido. In una calda notte del 1977 a San Diego, Lynn Chevely e Joyce Farmer, che pubblicavano un fumetto erotico femminista, dal bizzarro titolo di Tits and Clits (Tette e clitoridi) e la disegnatrice di Lost girls, Melinda Gebbie, si tuffarono nella piscina dell’El Corte Hotel vestite dalla testa ai piedi. Stavano facendo un gran baccano, quando videro Harvey che si aggirava tra la folla di curiosi intorno alla piscina, lo afferrarono per le gambe e senza farsi tanti scrupoli lo tirarono in acqua. Uno dei fan a quel punto sentì il rumore del tuffo e si affacciò al balcone della sua stanza: «Ehi! Ma è Harvey Kurtzman!», gridò, abbastanza forte perché lo sentissero tutti, «si è tuffato in piscina con tre pollastre, e sono tutti vestiti!». Harvey e gli altri che si erano avvicinati e stavano lì a guardarlo a bocca aperta erano molto, molto in imbarazzo. Secondo un’altra versione in quella piscina erano tutti nudi, ma quella che riporto è più attendibile: l’ho sentita da Trina Robbins, testimone oculare e oggi storica del fumetto e dall’inchiostratore di Fables, Steve Leialoha. * Durante una Comic Art Convention in Gran Bretagna negli anni Ottanta, alla quale partecipavo insieme a Will Eisner, chiesi a Harvey un commento per Luther Arkwright. Il terzo volume doveva ancora uscire e io stavo raccogliendo commenti da pubblicare in quarta di copertina. Lui si lesse i primi due volumi e poi scrisse su un pezzo di carta: “Bryan Talbot... super!”. Succinto, ma efficace, pensai. Allora me ne andai piuttosto soddisfatto e il commento finì in quarte di copertina. Solo in seguito ebbi occasione di leggere altri commenti di Kurtzmann che pro-

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