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collana Attilio Micheluzzi n.1

DAL TANGANYKA AL KHYBER ©2008 eredi Attilio Micheluzzi ©tutti i diritti riservati isbn 978-88-88960-40-1 edizione a cura di Sergio Brancato direzione editoriale Daniele Brolli progetto grafico Mauro Luccarini redazione Irene Bozzeda, Francesca Guerra, Cinzia Negherbon un grazie a Sergio Bonelli Editore, Michele Masiero, Giuseppe Palumbo, Giacomo Pedullà ©per la presente edizione piazza Roosevelt, 4 40123 Bologna telefono e fax 051232702 info@comma22.com www.comma22.com stampa a cura di Magic Press srl finito di stampare nel mese di ottobre 2008


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DAL TANGANYKA AL KHYBER olte storie si intrecciano in questo primo volume della collana dedicata a uno dei grandi maestri del fumetto, Attilio Micheluzzi, lo straordinario narratore grafico di avventure sospese tra diverse culture ed epoche. Dal lago Tanganyka al passo del Khyber, ovvero dall’odierna Tanzania alle montagne dell’Afghanistan, guerre di ieri e oggi si rimandano l’un l’altra all’interno di una coscienza sofferta, quella di un uomo nato negli anni più aspri del Ventesimo secolo e destinato a vivere in bilico tra differenti età della Storia e geografie tra loro irriducibili. Micheluzzi era istriano, cresciuto sulla soglia tra due mondi, in una cultura ancora imbevuta dei miti della Mitteleuropa. Il suo mondo, frutto delle trasformazioni ottocentesche del Vecchio Continente, era ulteriormente cambiato con la Seconda guerra mondiale, che lui aveva visto attraverso gli occhi dell’adolescenza. La sua biografia lo portò dapprima a Roma e poi a Napoli, città che dovettero apparirgli straniere. Soprattutto Napoli, in cui visse e morì, e a cui era legato da sentimenti di irritata passione e rancore per ciò che poteva essere e non era. Ma nella comprensione del suo universo espressivo non possiamo dimenticare l’Africa in cui visse dieci anni, nutrendosi della sua alterità e delle sue immagini, delle emozioni primordiali che aggrediscono l’identità dell’uomo occidentale e ne portano alla luce le contraddizioni, le inquietudini, l’irriducibilità del corpo. Ritroviamo queste sensazioni nella costruzione di alcuni tra i suoi personaggi, per esempio nell’americano Ian Fermanagh de L’uomo del Tanganyka, che confessa di non riuscire a dormire “perché l’Africa mi fa paura. Pesa troppo…”. L’Africa, che “pesa” nella memoria, sarà per Micheluzzi il rimpianto costantemente rivisitato con l’immaginazione, l’avventura ritrovata sul cartoncino e nei segni della china. Evocherà nel fumetto le notti sotto il cielo stellato della savana, i suoi incontri con un’umanità “altra” e tuttavia familiare grazie alla cultura di massa del periodo fascista, quella che aveva nutrito la sua infanzia e adolescenza, aprendo le porte ad aspettative di vita assai poco fasciste (come ricorda un altro narratore della sua generazione, Umberto Eco, nelle pagine nostalgiche e acute del romanzo La misteriosa fiamma della regina Loana). L’Africa è anche il punto di catastrofe della volontà di dominio occidentale, il territorio selvaggio e primigenio che vanifica le illusioni e le ideologie della modernità. Sarà per questo che Micheluzzi e gli altri narratori della sua età non riescono più a immaginarla nell’ottica epica della conquista, ma piuttosto in quella del naufragio e della malinconia. Del resto, nelle sue storie i personaggi

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che vi approdano non sono mai degli eroi (a parte, magari, le donne come Petra Chérie o la Carole Gibson di Marcel Labrume, che Micheluzzi immagina sempre più belle e coraggiose degli uomini), ma piuttosto dei gaglioffi alla John Huston, individui immersi nell’assurdità del conflitto bellico, che tentano di sopravvivere attraverso una professione di cinismo destinata a crollare di fronte all’inevitabilità della scelta morale. Altra costante – potremmo dire “autobiografica” – di questi personaggi micheluzziani è la tendenza a vivere nella linea d’ombra tra diverse culture, sentendosi a disagio in ognuna di esse poiché incapaci di appartenervi totalmente. Appunto Fermanagh, americano di origini irlandesi che collabora con la corona britannica, non senza ripensamenti e dubbi. Oppure lo splendido Reginald Winkie, figlio di un contabile della Compagnia delle Indie a Bombay e della più bella tra le sue domestiche indiane, quindi un mezzosangue destinato all’infelicità dei paria. Entrambi, come il loro autore, vivono sospesi tra due mondi, e qui nasce il fascino che esercitano su di noi. Veniamo, allora, alle due storie qui raccolte. Entrambe sono apparse nella collana “Un uomo un’avventura”, prodotta dalle edizioni Cepim (vale a dire da Sergio Bonelli) e curata da Decio Canzio. Apparsa più o meno mensilmente nelle edicole (ma anche nelle librerie) dal novembre 1976 al novembre 1980, offriva al pubblico albi cartonati in grande formato (24 per 31,5 cm) e a colori, realizzati da famosi fumettisti italiani e stranieri. La collana fu chiusa dopo quattro anni e trenta numeri, restando nella memoria dei lettori come una delle più belle iniziative editoriali realizzate nell’ambito del nostro fumetto: il prestigio degli autori, la qualità della grafica, il momento di grande entusiasmo vissuto in Italia dalle culture del fumetto, in breve tutto concorse alla riuscita di un progetto che ospitò opere oggi considerate classici a tutto tondo, e senza artificiose tassonomie tra un autore e l’altro (accanto a Toppi o Battaglia ritroviamo comic-maker ritenuti più “popolari” come Galeppini o Tacconi). Micheluzzi realizzò per “Un uomo un’avventura” le due storie che questo volume raccoglie. La prima, L’uomo del Tanganyka, apparve nell’ottobre del 1978. Racconta di eventi che hanno luogo nel corso della Grande guerra, uno scenario molto vicino alla sensibilità dell’autore: Micheluzzi, come Pratt, ama mettere in scena l’avventura dei processi di modernizzazione in una forma drammatica che ne sottolinei l’impatto sull’individuo. La Prima


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guerra mondiale costituisce il punto di rottura negli assetti del vecchio mondo europeo, aprendo il campo alla società di massa del Novecento, e dunque si presta a narrarne la genesi tragica. Micheluzzi trae dalla sua profonda conoscenza della storia e della letteratura il materiale necessario ad allestire una grande avventura delle coscienze e delle culture, prima ancora che dell’azione eroica. Prima si diceva dei protagonisti gaglioffi delle storie di Micheluzzi, personaggi contraddittori che infine conseguono, quasi contro voglia, il proprio riscatto etico: L’uomo del Tanganyka ripropone questa tipologia sulla scena del crepuscolo della Belle Époque, “rubando” alla storia un frammento di realtà per inventare un racconto dai tratti quasi mitologici (al lettore che volesse invece approfondire l’episodio dell’incrociatore leggero Koenigsberg e del suo comandante, Paul von Lettow-Vorbeck, suggeriamo la lettura di Heia Safari! La guerra nell’Africa Orientale Tedesca 1914-1918, libro autobiografico dello stesso Vorbeck. Se sulle acque del Tanganyka assistiamo a uno scontro di modelli morali e tecnologie industriali (la possente nave corazzata contro il fragile ma insidioso aeroplano, vero futuro delle logiche belliche), ne L’uomo del Khyber – pubblicato nel febbraio del 1980 – veniamo introdotti a un “altrove” geografico dai tratti assai suggestivi, e altrettanto importante rispetto all’epoca della Grande guerra. Il Khyber è infatti uno di quei luoghi leggendari dell’immaginario moderno in cui si concentrano i conflitti economici e culturali che determinano la lacerazione storica della sostanza del mondo tra Oriente e Occidente. La valenza simbolica del passo del Khyber è formidabile (non a caso, in epoca coloniale, attorno a esso si accesero ben tre guerre): una stretta strada incassata tra gli alti monti di frontiera dell’Impero britannico, un nevralgico viatico di quel processo di “civilizzazione” nelle cui problematiche derive ancor oggi viviamo. Non a caso, nel suo racconto lo stesso Micheluzzi cita Kipling per far capire quanta parte della storia recente passi per le dinamiche di espansione del capitalismo industriale in Asia (anche qui un suggerimento di lettura, il recente libro di Paddy Docherty, Khyber Pass, edito da Faber & Faber). Ma per Micheluzzi il rigore storiografico (“non mi va di passare per uno che racconta castronerie” amava ripetere), esibito nella ricercatezza del dettaglio grafico così come nell’architettura della trama, serve solo a rendere comprensibile le motivazioni dell’agire, il vagare – spesso disperato – delle affascinanti figure di antieroi che ritroviamo quasi sempre al centro dei suoi racconti. Lo stesso uso dei cronismi, la precisione documentaristica nella descrizione dei luoghi e delle iconografie, la quasi maniacale insistenza sulla pregnanza dei particolari… tutto contribuisce alla ricostruzione di un’epica del conflitto da cui sono assenti gli usuali artifici della retorica militarista. La figura dell’eroe “sporco”, lacero e lacerato, ci fa comprendere il dissidio essenziale di Attilio Micheluzzi, perso nella nostalgia di un passato, rassicurante ordine del mondo, e la tormentata consapevolezza del presente. In tal senso, il suo modo di intendere l’avventura non ha davvero nulla a che vedere con l’evasione: è invece un deciso, consapevole atto di presenza sulla scena della storia.

Sergio Brancato


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L’UOMO DEL TANGANYKA 18) iglia in Tanganyka (1914-19 Un protagonista della guerr

a tragedia è una sola, senza fine, spaventevole e inutile. Ma i modi in cui è gestita sono due. Spallate terribili, che bruciano la vita di intere generazioni per l’acquisto di pochi chilometri quadrati di terra, da una parte. Fantasia, imboscate, lunghe marce veloci, guizzanti manovre, dall’altra. E su tutti, laggiù, in Africa orientale, un uomo che, in quattro brevi anni, diventa una specie di mitico monumento all’ingegnosità, alla cavalleria, alla genialità professionale, all’umanità. Paul von Lettow-Vorbeck. Prussiano, aristocratico e militare di professione, comandante del contingente militare in Africa Orientale Tedesca: il Tanganyka. Veterano delle campagne contro i Boxers nel 1900/1901 e dell’Herero, in Africa del Sud-Ovest, nel 1904/1906. Quando la guerra comincia, ha con sé 260 militari tedeschi e poco più di 2400 askari indigeni, organizzati in compagnie autosufficienti. Gli inglesi, sicuri che l’Atto di Berlino del 1884, riguardante la neutralità dei territori africani del bacino del Congo, non sarà operante, iniziano le operazioni. Dar es Salama, capitale del Tanganyka tedesco, e Tanga sono bombardate dal mare. C’è tuttavia qualcosa che toglie il sonno agli inglesi. La presenza del Koenigsberg, la più grossa, potente e veloce nave nella zona. Finché sarà a galla, nessun bastimento alleato potrà sentirsi tranquillo nell’Oceano Indiano, e il blocco della colonia tedesca non sarà assicurato. Si sa soltanto che l’incrociatore è in agguato nelle acque dell’Africa Orientale. Passeranno mesi prima che sia localizzato a circa 25 chilometri dalla foce del fiume Rufigi, e non sarà possibile metterlo fuori combattimento prima del luglio 1915. Cannoni ed equipaggio, messi in salvo, daranno del bel filo da torcere. A Tanga, uno sbarco britannico si conclude in un disastro. Mille ascari, comandati dai tedeschi, battono e ricacciano in mare ottomila indiani. Morale alle stelle in casa tedesca ed ennesima prova di superiorità militare. La campagna continua tenacemente fino alla grande offensiva britannica del marzo 1916. Ma quella che deve, nelle previsioni degli inglesi, concludersi in pochi mesi, diviene una guerra senza fine. I tedeschi scompaiono, attaccano (a Mahiwa, nell’ottobre 1917, la fanteria britannica perde 2700 uomini sui 4900 impegnati), scompaiono un’altra volta. Nel settembre 1916, pur occupando circa l’85% del territorio tedesco, la capitale, la costa e i grandi laghi, gli inglesi non riescono a mettere le mani sull’esercito di Lettow Vorbeck. Nel novembre 1917, Vorbeck entra in Mozambico, territorio portoghese, con 278 europei, 16mila ascari e quattromila portatori, e vi rimane dieci mesi, cibandosi di quel che trova, e rifornendosi di armi e munizioni catturate ai portoghesi. Poi, quando gli inseguitori lo hanno praticamente preso in trappola, il piccolo esercito torna in Africa Orientale tedesca per invadere la Rhodesia del Nord, dove la notizia che l’11 novembre è stato concluso l’armistizio mette fine alla campagna. L’eroe incontrastato della lunga vicenda è lui, l’aristocratico prussiano. È riuscito a meraviglia nel suo scopo dichiarato di impegnare il maggior numero possibile di truppe inglesi, stornandolo dall’impiego sugli altri fronti più importanti. La sua impresa è costata alla Gran Bretagna dodici milioni di sterline dell’epoca e tre volte più caduti che nella guerra boera. Alla fine del conflitto, nel novembre 1918, Vorbeck è ancora in armi, invitto. Forza di carattere, abilità professionale e maestria nella condotta degli uomini ne hanno fatto una delle poche figure mitiche della Prima guerra mondiale. Attilio Micheluzzi

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