Vittorio Giardino. La quinta veritĂ
In occasione di:
BilBOlbul. Festival internazionale di fumetto Settima edizione dal 21 al 24 febbraio 2013 Bologna www.bilbolbul.net Con il sostegno di: Comune di Bologna, Regione Emilia-Romagna – Assessorato alla Cultura Provincia di Bologna – Servizio Cultura e Pari Opportunità Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna, Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna Fondazione Cineteca di Bologna, Museo Civico Archeologico di Bologna Museo Internazionale e Biblioteca della Musica di Bologna, Biblioteca Salaborsa Alma Mater Studiorum – Università di Bologna Scuola di Lettere e Beni Culturali, Accademia di Belle Arti di Bologna, Goethe-Institut Italien Vittorio Giardino. La quinta verità Museo Civico Archeologico – Bologna dal 22 febbraio al 1 aprile 2013 a cura di Hamelin Hamelin Associazione Culturale Via Zamboni 15 40126 Bologna www.hamelin.net Hamelin è: Edo Chieregato, Roberta Colombo, Roberta Contarini, Liliana Cupido, Nicola Galli Laforest, Alessandra Montecchi, Giordana Piccinini, Simone Piccinini, Federica Rampazzo, Emanuele Rosso, Barbara Servidori, Ilaria Tontardini, Emilio Varrà, Barbara Vetturini. Un ringraziamento particolare ad Alessio Trabacchini e Alessandro Cochetti. piazza Roosvelt, 4 40123 Bologna Tel/fax 051232702 comma22.com Direzione Editoriale: Daniele Brolli Redazione: Francesca Guerra, Alessio Trabacchini Progetto grafico e impaginazione: Silvia Mocchegiani Copertina: Vittorio Giardino Traduzioni: Pablo Marchitto (Un autore elegante di Paco Roca) Silvia Mocchegiani (Un classicismo à la Giardino di Thierry Groensteen e Un omaggio di André Juillard) Foto dello studio di Vittorio Giardino: Emanuele Rosso © testi degli autori e degli aventi diritto, 2013 © immagini di Vittorio Giardino, 2013 © per questa edizione Comma 22, 2013 Stampato nel febbraio 2013 dalla Tipografia Rumor
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a quinta verità è il titolo che abbiamo voluto dare al presente volume e alla mostra con cui, in occasione della settima edizione di BilBOlbul. Festival internazionale di fumetto a Bologna, intendiamo omaggiare e far conoscere l’opera di Vittorio Giardino. Con esso si vuole alludere a una caratteristica che abbiamo ritrovato in modo ricorrente nel suo lavoro: una narrazione e una poetica che tendono a essere sempre interrogative e costantemente dubitative. Al di sotto del nitore del segno, dell’elegante evidenza delle immagini, della compostezza classica delle tavole, si nasconde un grumo di domande che non potranno avere risposta. Perché cercano di sondare i segreti dei nostri comportamenti e delle nostre convinzioni, le motivazioni recondite di gesti a dir poco scomodi, le trame difficili da districare dalle pastoie dei giochi di potere, degli interessi economici o politici o sentimentali, l’imperscrutabile procedere della Storia. Che sia tra le cinque o una ancora aggiuntiva, è un’altra verità che Giardino non ha avuto fino ad oggi una grande mostra nella città dove è nato e dove da sempre lavora. Conosciuto e tradotto in tutto il mondo – dall’area franco-belga, che gli ha da sempre tributato grandi riconoscimenti, alla Cina e al Giappone, da tutti i principali stati europei all’Argentina, il Brasile, gli Stati Uniti – il nostro è anche uno dei più significativi rappresentanti di quella tradizione che da metà degli anni Sessanta ha reso Bologna una città di eccellenza nel fumetto a livello nazionale e internazionale. Ci sembrava quindi importante colmare questa mancanza e arricchirla del presente volume, che vuole essere strumento di analisi e di indagine, e prezioso repertorio di immagini, spesso inedite o di difficile reperibilità. Hamelin
Vittorio Giardino: il fumetto come progetto Enrico Fornaroli
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el panorama fumettistico italiano Vittorio Giardino rappresenta di certo un unicum. Un autore difficile da classificare o incasellare in movimenti o tendenze, impossibile da ricondurre a maestri di casa nostra dai quali abbia tratto non solo influenza diretta ma anche un’ispirazione evidente, un autore senza epigoni o imitatori che ne ricalchino le orme e si inseriscano nel solco del suo stile. Questo non perché Giardino non trovi estimatori nei giovani disegnatori delle generazioni successive, ma perché la sua cifra stilistica si è costruita nel tempo adattandosi perfettamente all’accuratezza documentaria, al rigore narrativo e alla solidità grafica dell’autore. Architetture narrative difficili da imitare o da riprodurre con altrettanto rigore maniacale, quello che porta Giardino a disegnare le cartine dell’Europa esattamente com’erano nei periodi in cui sono ambientate le storie, e che faranno dire a Milo Manara: “Vittorio appartiene a quella scuola di autori rigorosi che disegnano prima la piantina di una stanza in cui sanno che si svolgerà una certa sequenza, e collocano i personaggi in modo che poi, a seconda dei vari punti di vista, abbiano sempre il giusto sfondo”1. Meticoloso artefice di dispositivi narrativi, Giardino, nato a Bologna nel 1946, decide infatti di abbandonare la promettente carriera di ingegnere elettronico per dedicarsi completamente al fumetto (altro elemento di unicità), forse proprio nella convinzione che in fondo non c’è molta differenza fra la progettazione di un circuito elettronico e quella di un racconto. Ha trentadue anni quando fa la scelta della sua vita e la consapevolezza che questa passione richieda un impegno e una dedizione totali, “Disegnare mi è sempre piaciuto e ho sempre amato i fumetti, così, a un certo punto, ho deciso di provare a farlo come mestiere. Anche perché il fumetto, contrariamente alla scrittura, impone dei tempi talmente lunghi che se uno cerca di farlo nei ritagli di tempo, o come secondo lavoro, per riuscire a terminare una storia ci impiega dieci anni.” 1 Francesco Verni, Vita e Donnine di Milo Manara, Leopoldo Bloom Editore, Verona 2008, p. 40.
a sinistra: “Piombo di mancia”, 1978
Vittorio Giardino. La quinta verità
Vittorio Giardino: il fumetto come progetto
L’esordio avviene nel 1978 sulle pagine del supplemento alla rivista «La Città Futura», diretto da un giovane Luigi Bernardi, che lo stesso anno lo coinvolgerà nel volume antologico Indagini nell’Altroquando, pubblicato dalla casa editrice bolognese L’Isola Trovata. Questi primi racconti brevi, nei quali Giardino cerca di rifarsi a grandi maestri italiani come Dino Battaglia, gli permettono di prendere confidenza con il linguaggio del fumetto e di affinare lo stile grafico. Il tutto avviene in un periodo particolarmente favorevole all’esplorazione di nuovi percorsi editoriali che coinvolgano giovani talenti. Sono gli anni in cui si stanno dispiegando al massimo le energie espresse dalle riviste a fumetti, nate nella scia e sull’impulso di «Linus» (1965) e ormai diventate il contenitore privilegiato di una nuova politique des auteurs che focalizza il proprio sguardo sulle storie e gli autori più che sulla serialità incentrata sui personaggi.
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Riviste come «Eureka», «Il Mago», «Alter Alter», «Cannibale», stanno rivoluzionando il linguaggio del fumetto e ridefinendo non solo il target (il lettore è sempre più adulto) ma anche le modalità di produzione e di fruizione. Da un lato si propongono come crocevia, punto di snodo per la proposta di autori e storie internazionali – prodotto di analoghe esperienze editoriali, per esempio riviste come «Hara-Kiri», «Métal Hurlant», «(À Suivre)» in Francia – dall’altro si offrono come spazio della sperimentazione narrativa, della definizione di nuovi stilemi, nonché come collegamento fra l’edicola (tradizionale punto di vendita dei periodici) e la libreria (luogo di distribuzione della produzione libraria). Non è una coincidenza quindi che già l’anno successivo all’esperienza ancora embrionale de “La pratica Ab” in Indagini nell’Altroquando, Giardino metta in cantiere un nuovo personaggio dichiaratamente ispirato alla tradizione del romanzo americano hard boiled: il detective Sam Pezzo, il baffuto investigatore emulo di Philip Marlowe e Sam Spade. La voglia di pubblicare è tanta e l’occasione di proporsi al grande pubblico gli viene offerta dalla rivista «Il Mago», diretta da Beppe Zancan, che nel 1979 pubblica il primo episodio della serie “Le indagini di Sam Pezzo”, intitolato “Piombo di mancia”. In apparenza l’esordio potrebbe presagire una produzione in serie, in realtà la struttura di genere poliziesco, estremamente solida nell’impianto narrativo e nei riferimenti iconografici, permette a Giardino di concentrarsi sull’affinamento del disegno (ancora lacunoso, vista la formazione autodidatta dell’autore) e di esplorare la realtà urbana bolognese, che diventa sorprendentemente la scenografia di queste storie “dure” alla Dashiell Hammett. Un originale ed efficace pastiche che però resterà circoscritto a Sam Pezzo, poiché nelle opere successive, come vedremo, Giardino preferirà curare con estrema precisione documentativa l’ambientazione delle sue storie. Ma questo apparente esercizio di stile, che coniuga diversi piani semantici, è in realtà l’indizio di una propensione al gioco citazionista, alla commistione
delle forme e alla sperimentazione nel linguaggio che negli stessi anni, in piena narrativa postmodernista, ritroveremo nei romanzi noir di Stuart Kaminsky con protagonista il detective Toby Peters e nel malinconico omaggio chandleriano Triste, solitario y final di Osvaldo Soriano. E che nel fumetto José Muñoz e Carlos Sampayo avevo già introdotto nel 1974 in Alack Sinner, personaggio in grado di “riprendere un genere tradizionale come il poliziesco e riempirlo di temi sociali, psicologici e politici senza togliergli nulla della tensione narrativa, ma anzi arricchendolo e vivificandolo”2.
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In questa temperie, che come vedremo Bologna saprà nutrire e coltivare nel decennio successivo, la collaborazione di Giardino con «Il Mago» prosegue fino al 1980, anno della sua chiusura. A questo punto, svincolato dalle poche tavole che racchiudevano le storie di Sam Pezzo, oliati gli ingranaggi narrativi e ormai conquistato dal rigore e dalla plasticità della ligne claire di tradizione francese, Giardino inizia a lavorare a un secondo personaggio, protagonista di una storia di più ampio respiro, questa volta debitrice delle trame spionistiche care a Graham Greene, a John Le Carré e, soprattutto, a Eric Ambler. È il 1982, e sulle pagine del mensile «Orient Express» esce in quattro lunghi episodi Rapsodia ungherese, la prima avventura di Max Fridman. La rivista fondata da Luigi Bernardi, intenzionata a porsi come sintesi e punto di mediazione fra le esperienze creative più radicali e una tradizione più classicamente popolare, si dimostra il perfetto contenitore per la complessità narrativa e il respiro grafico del nuovo progetto di Giardino, che non a caso dividerà il sommario dei primi quattro numeri con il ritorno in scena dello Sconosciuto di Magnus, magistralmente riportato in vita in Full Moon in Dendera. Fumetto popolare e fumetto d’autore diventano due categorie che si scompongo e si ricompongono in un gioco di rimandi e compenetra2 Daniele Barbieri, Maestri del fumetto, Tunué, Latina 2012. p. 136.
“La pratica Ab”, 1978
Vittorio Giardino. La quinta verità
Vittorio Giardino: il fumetto come progetto
story e di spy story. Come ha ben sintetizzato Daniele Barbieri: “L’ingegner Giardino progetta macchine narrative, fantastici meccanismi di eventi concatenati, che devono poter funzionare alla perfezione una volta messi sulla carta, se si vuole tenere avvinta l’attenzione del lettore. Leggendo le storie di Max Fridman, si capisce bene che è davvero grande lo sforzo di progettazione necessario per tenere insieme una vicenda così intricata come inevitabilmente è una vicenda di spionaggio, se si vuole che sia credibile, se si vuole che non dia qua e là l’impressione di perdere dei colpi. Senza dubbio, la prima grande qualità di Giardino è quella di sceneggiatore, è quella di ingegnere narrativo”4.
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zioni, in cui le sperimentazioni grafiche e narrative non si pongono necessariamente in opposizione a un modello espressivo più classico. Non a caso credo, l’anno successivo, in occasione della presentazione a Bologna di Arcicomics – la rete di circoli dedicati al fumetto, che l’associazione culturale aveva promosso e fatto nascere in numerose città d’Italia – a fungere da anfitrioni dell’iniziativa in una gremita sala di Palazzo Re Enzo furono Igort (Igor Tuveri), Andrea Pazienza e Vittorio Giardino, testimonianza di un’autorialità che si manifestava in altrettanti filoni di riviste – «Alter Alter»/Valvoline Motorcomics, «Cannibale»/«Frigidaire», e appunto «Il Mago»/«Orient Express» – e al tempo stesso trovava nel fermento bolognese dei primi anni Ottanta un fertile terreno nel quale dialogare e dar vita a nuovi progetti, non solo editoriali3.
Un ingegnere approdato al fumetto che compie questa sua parabola creativa – da Sam Pezzo a Max Fridman, con il baffuto detective che tornerà sulle pagine di «Orient Express» in altri due episodi inediti (“Shit City” e “Nightfire”) – tutta interna alla narrativa di genere, che lo porterà a confrontarsi con uno dei personaggi più maturi e complessi della sua più che trentennale carriera di autore. Eppure, nella lunga saga di Max Fridman – che si compone, oltre che di Rapsodia ungherese anche del racconto La porta d’Oriente (pubblicato su «Corto Maltese» nel 1985) e della trilogia No pasaràn (pubblicata in volume fra il 2000 e il 2008 ) – il semplice riferimento ai generi non basta a ricostruire l’articolata trama che lega intimamente i personaggi alle vicende storiche delineate sullo sfondo dei racconti, gli oscuri intrighi che precedono, in una rassicurante quanto apparente tranquillità, lo scoppio della seconda guerra mondiale. Due piani che si compenetrano e che offrono all’autore la chiave con cui svolgere l’intreccio spionistico: “Ho collocato Max Fridman in un preciso contesto storico perché volevo parlare, in generale, di storia e di politica, e di quanto i grandi fatti influiscano sulle nostre piccole storie personali. Per un attimo ho pensato di farne un eroe di oggi, ma poi ho avuto il dubbio, ritengo sensato, che i tempi della letteratura non possano mai coincidere con l’attualità.”5 Avevo sostenuto, in apertura, che Vittorio Giardino rappresenta un unicum nel panorama fumettistico italiano. E questo è altrettanto vero se consideriamo anche lo stile figurativo con cui l’autore ha dato forma narrativa alle sue storie, una ligne claire così facilmente riconducibile al canone franco-
Ciò nonostante Giardino rimane un battitore libero, un autore refrattario a farsi coinvolgere in movimenti e correnti, disponibile al confronto creativo ma geloso di una dimensione solitaria nella quale ordire trame avvincenti e predisporre congegni narrativi a prova del più esigente lettore di detective Copertina per Rapsodia ungherese, L’Isola Trovata, 1982
3 Nello stesso anno aprirà a Bologna la Scuola di fumetto Zio Feininger, che avrà fra i suoi docenti Igort, Andrea Pazienza, Lorenzo Mattotti, Daniele Brolli, Marcello Jori.
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4 Daniele Barbieri, op. cit., p. 230.
5 Leonardo Gori, Intervista a Giardino: http://www.fumetti.org/gori/giardgor.htm
Copertina per «Orient Express», 1982
Vittorio Giardino. La quinta verità
Vittorio Giardino: il fumetto come progetto
belga definito da Hergé e Edgar P. Jacobs, e perpetuato da epigoni come Ted Benoit, André Juillard, Floc’h, ma contemporaneamente così inusuale e poco frequentata nello scenario italiano. Una linea chiara estremamente funzionale all’oggettività del racconto, che immerge il lettore nella tessitura narrativa ma al tempo stesso rende fruibile, nel massimo della trasparenza, la sua complessità. E tutto questo senza che il fumettista bolognese esprimesse esplicite mutuazioni o dichiarate ispirazioni ai maestri, almeno non quelli che hanno definito la pietra angolare della ligne claire, semmai nomi come Jacques Tardi, Carl Barks, Floyd Gottfredson, Hugo Pratt e Mœbius. Tutti guarda caso affabulatori estremamente attenti alla solidità della narrazione. Una compattezza nell’intreccio, sempre più denso di citazioni letterarie, cinematografiche e fumettistiche, e una maturità del segno grafico che hanno fruttato a Giardino un immediato riconoscimento di pubblico e di critica. Egli appartiene infatti a quella cerchia di autori italiani, che annovera nomi del calibro di Hugo Pratt, Milo Manara, Lorenzo Mattotti, Paolo Eleuteri-Serpieri, che possono vantare una fama internazionale pari, se non a volte superiore, a quella nazionale. Non è un caso quindi che i suoi lavori siano stati pubblicati sulle più prestigiose testate straniere – come «Circus», «Vecu» e «(A Suivre)» in Francia, «Cimoc» e «Cairo» in Spagna, «Moxxito» in Germania, «Bond» in Norvegia, «Epix» in Svezia, «Babél» in Grecia, «Seleçoes BD» in Portogallo, «Puertitas» in Argentina – anche quando le riviste d’autore nostrane avevano progressivamente cessato di esistere.
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Ma prima che la gloriosa stagione delle riviste terminasse, sulle pagine de «Il grifo», apparve Jonas Fink – L’infanzia, romanzo di formazione che ha come protagonista un ragazzo ebreo nella Praga stalinista degli anni Cinquanta. Con questa nuova storia si riconferma la fama internazionale di Giardino, che infatti riceve il premio Alfred per il miglior album straniero al festival di Angoulême e il prestigioso Harvey Award assegnato dalla critica statunitense. Altri due traguardi che rendono sempre più unico Vittorio Giardino.
a destra: Rapsodia ungherese, 1982
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