RICCARDO MANCINI
PEDAGOGIA E EDUCAZIONE OGGI
Riccardo Mancini è ricercatore di Pedagogia generale e sociale presso l’Università degli Studi e-Campus. Fra le sue più importanti opere si ricordano: La valutazione delle attività educative. Qualità e quantità alla prova (Anicia, Roma 2006); Il lavoro di gruppo. Competenza per l’azione didattica (Morlacchi, Perugia 2007); Una coltura emergente l’Educazione permanente. Genesi e sviluppo di una idea (Aracne, Roma 2011)
Pedagogia e educazione oggi
RICCARDO MANCINI
ISBN 978-88-98870-35-6
€ 19,99
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22-09-2015 12:31:50
Riccardo Mancini
Pedagogia e educazione oggi
INDICE Introduzione...................................................................... p. 5 Cap. 1 La pedagogia generale........................................... p. 9 1.1 Il carattere epistemologico..................................................... p. 11 1.2 Campo di applicazione, statuto epistemologico e oggetto di studio .................................................................. p. 14 1.3 Orizzonti pedagogici............................................................... p. 16
Cap. 2 Pedagogia e didattica............................................ p. 21 2.1 La didattica............................................................................... p. 25 2.2 Dalla parte dell’educando....................................................... p. 27 2.3 Tecniche e strumenti............................................................... p. 29 2.4 La prassi. Realizzazione e funzionalità................................. p. 31
Cap. 3 Pedagogia e tecnologia.......................................... p. 37 3.1 Genesi e sviluppo dell’e-learning........................................... p. 40 3.2 Serietà digitale......................................................................... p. 43 3.3 Rivoluzione 2.0 ....................................................................... p. 46 3.4 L’e-Teacher................................................................................ p. 47
Cap. 4 La pedagogia come scienza sperimentale e competenza educativa .................................................... p. 55 4.1 Per una ricerca attiva.............................................................. p. 57 4.2 Sistema di valutazione............................................................ p. 60 4.3 Valutazione e sperimentazione ............................................ p. 62 4.4 La scienza docimologica ....................................................... p. 65 4.5 La valutazione oggi................................................................. p. 67 3
Cap. 5 Pedagogia e scienze sociali................................... p. 69 5.1 Saper comunicare in un linguaggio interculturale............. p. 73 5.2 L’oggetto di studio delle pedagogia interculturale............... p. 77 5.3 Cittadinanza planetaria.......................................................... p. 79 5.4 L’ intercultura ed il pregiudizio............................................. p. 82 5.5 L’intercultura a scuola............................................................. p. 85
Bibliografia........................................................................ p. 89
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Introduzione Questo lavoro possiede una sua innegabile specificità: nasce dal continuo confronto con gli studenti e si sviluppa cercando di approfondire questioni di carattere teorico-operativo. Questa connotazione pone sul crinale della ricerca il rapporto che sussiste tra il campionario delle tecniche che la Didattica mette a disposizione a chi “pratica” educazione e le varie declinazioni di “senso” aconiano che la Pedagogia offre. Se da un lato, infatti, è doveroso richiamare quei principi e quelle categorie fondamentali dell’agire educativo, dall’altro lato non possono essere sottaciute tutte quelle “buone pratiche” che realizzano l’intero palinsesto pedagogico della “buona scuola”. Proprio recentemente nei vari interventi alla camera sulla buona scuola, la senatrice Joseva Idem dichiara: “Quella della scuola è una sfida declinata al futuro. Un futuro che richiederà requisiti che la nostra scuola oggi, e in questo direi siamo tutti d’accordo, in gran parte non fornisce. E che la Buona Scuola si propone di COSTRUIRE”. Il valore del discorso, quindi, non è da rintracciarsi solo nell’esamina delle riflessioni epistemologiche prodotte da ormai più di un secolo dall’attivismo pedagogico, ma anche dai problemi di attuazione e contestualizzazione che scaturiscono dal rapporto che la pedagogia instaura con la “società della conoscenza”. Se la pedagogia, d’altro canto, ha l’obbligo di fornire le chiavi di lettura sociali e con esse la risultante della volontà educativa e dei suoi obiettivi ultimi, la didattica, come scienza autonoma appartenente al cerchio piagetiano, è chiamata in causa nel creare strumenti, metodi e tecniche volti a produrre effetti positivi nel comportamento individuale e collettivo. Di qui, la presa in carico di una relazione educativa che si legittima nel senso maieutico e si compie nel rapporto simmetrico e di incontro interpersonale ed interculturale che reclama rispetto, disponibilità, sacrificio ed empatia.
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Ecco, il perché della presentazione di tecniche innovative come: – il problem solving, motiva ogni attività investigativa in un ordine di progressione che, come aveva ricordato Cropley1, parte dal riconoscimento di un problema, suscita la formulazione di ipotesi risolutive da ricondurre alla prova e conduce alla definizione dei percorsi da seguire, con la prontezza a rimettere tutto in discussione qualora si avvertano intoppi e difficolta d’ogni genere; – il mastery learning, assicura quella padronanza a formare competenze e abilità sempre spendibili e in progress; – la ricerca-azione, quale garanzia di trasformazione della e nella prassi secondo un modello circolare. Certamente un ruolo fondamentale all’interno di una riflessione su una moderna prassi educativa è da assegnare al richiamo tecnologico, il quale da un lato non dovrà farsi trasportare dall’enfasi che piegherebbe il senso pedagogico a puro atto meccanico, dall’altro vede nell’informazione didattica un insostituibile strumento a disposizione di ogni operatore nel migliorare la qualità degli interventi. Di qui si legittima la presa in carico di una sperimentazione docimologica che induce e conduce alla “prova” e che obbliga a determinati criteri di qualità come elementi da ricondurre poi alla formulazione di giudizi. La valutazione diviene, così, una vera e propria “forma di intelligenza pedagogica”, come amava descriverla il Bruner, azione priva di ogni intendimento fiscale e selettivo, ma colma di volontà dirette all’espressione più intima del potenziale umano scandito da Pestalozzi. Nella proposta educativa, appunto, pensata e progettata con ordine e misura, si individuano modalità attraverso cui è possibile svincolare la persona dalle catene del pregiudizio, del sentito dire e dall’effimero che oggi, propina la società, ed assicurare il possesso 1. Cropley A. J. (1969). La creatività. Firenze: La Nuova Italia
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di nuovi traguardi di riferimento, esaltando la creatività, la libertà, l’identità e di ogni altra peculiarità individuale. La persona, così, viene ad essere assunta come autentico valore e principio universale, da proteggere e da realizzare sul piano dell’esistenza e dell’essenza, nella prospettiva di una formazione che va oltre il contingente e il provvisorio in quanto capace di alimentarsi e di rafforzarsi per tutto il corso della vita in cultura e perfezionamento del sapere, in apertura al dialogo, in rispetto e tolleranza nei riguardi dell’altro.
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Cap. 1 La pedagogia generale Fin dai suoi primi tentativi di legittimazione la pedagogia si pone come obiettivo di investigare sulla formazione e sull’educazione del soggetto, cercando di rintracciarne le finalità e i principi su cui erigere ogni maturazione antropica. La prospettiva maieutica, che dal metodo socratico in avanti ha caratterizzato lo sviluppo della persona, sancisce l’indiscutibile interconnessione che la scienza pedagogica possiede con la filosofia; un nesso che Giuseppe Vico dichiara necessario “ai fini della teoria e della teoresi sull’educabilità umana e della collocazione del discorso pedagogico in una concezione della realtà attenta all’intero e alle determinazioni dell’essere”2. Cosi la pedagogia si delinea come scienza avente un profondo legame con la filosofia, da cui, ancora oggi, trae riflessioni e categorie, anche se è proprio la teoresi pedagogica, “ossia quell’esercizio alto della razionalità finalizzato a indagare sulla natura, sulla struttura e sulla legittimità dei principi sui quali si delinea la teoria dell’educazione”3, che vive una profonda crisi. Una crisi che sempre più autori associano ad un declino sociale e culturale, tanto da poter parlare di post-umanesimo. Le radici rinascimentali e romantiche, che hanno spinto a meditare sull’uomo e sulle potenzialità che esso custodisce, trovano notevoli ostacoli nell’imporsi in una società fondata sulla prospettiva atomista ed economicista, ed anche lo stesso spiritualismo e idealismo vedono notevolmente affievolite le loro spinte. 2. Vico, G. (2014). La teoria pedagogica. in AA. VV. Educare nell’era digitale. Atti del LII Convegno di Scholè, La scuola: Brescia. P. 19 3. Ibidem, p. 21
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Pur consapevoli di uno sfondo sociale che attraversa vere e proprie temperie culturali, la pedagogia deve trovare la forza per tornare agli antichi splendori, soprattutto oggi che sempre più pressante è la necessità di investire sull’uomo e sulla sua educazione. In questo modo la pedagogia si pone come legittimazione dell’intervento educativo: studio scientifico dell’essere umano che Giuseppe Acone definisce come “il complesso di teorizzazioni, studi e progetti che si riferiscono all’educazione e simili (attività teorico-pratiche riferibili ad esempio anche ad istruzione, apprendimento, sviluppo formazione, socializzazione, acculturazione)”4. Volendo dare un ulteriore connotazione della pedagogia, capace di riassumere ed abbracciare le diverse angolazioni che nel corso del tempo hanno caratterizzato l’idea di tale scienza, possiamo esprimerci attraverso le parole di Flores D’Arcais (Flores D’Arcais 2002), il quale la declina come “la scienza che studia l’educazione”. Dal momento in cui la pedagogia si è caratterizzata come scienza autonoma, in virtù di caratterizzazioni assiologiche e dalla rivoluzione dell’insegnamento espressa da Richmond5 sul finire degli anni Sessanta, ha dovuto fare proprie tre caratteristiche: – statuto epistemologico, modelli e teorie di riferimento e legittimazione teorica; – campo di applicazione, in questo caso la poliformia dell’educazione; – oggetto di studio, la persona e il suo continuo divenire.
4. Acone, G. (2001). Fondamenti di Pedagogia Generale, Salerno: EdiSud 2001, p.11 5. Richmond, K. (1969). La rivoluzione dell’insegnamento. Roma: Armando. In questo saggio il noto pedagogista ha voluto sancire ciò che fino a quel momento era solo una tendenza, e ciò del mettere al centro del discorso il soggetto in apprendimento, definendo, così, il passaggio da una scuola magistrocentrica ad una puerocentrica.
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Il quadro che deriva dalla consapevolezza che la pedagogia è a tutti gli effetti una scienza all’interno delle scienze dell’educazione pone nella condizione di avanzare una riflessione circa lo stato di salute della teoria pedagogica, senza però dimenticare la sua componente pratica che, attraverso la scoperta pragmatista di Dewey, richiama il legame con la didattica, senza mai sovrapporsi o confondersi con essa. Di qui la necessità di cogliere la sostanza e l’identità della scienza e del discorso pedagogico, non solo per una doverosa interpretazione e percezione, ma anche e soprattutto per una nuova era in cui l’educazione umana sia contraddistinta come evoluzione della persona e il “problema educativo” sia risolto nella “soluzione umana”. Questa nuova prospettiva è sempre più incalzante, in quanto sollecita sia la necessità di una salvaguardia degli obbligatori equilibri che si devono avere con il passato, sia in termini di apertura verso le sfide che il postmoderno sollecita continuamente. Una rispesa, insomma, della pedagogia della persona, più che di una pensiero personalista; in quanto coscienza critica capace di essere propositiva e di sintesi, anche attraverso l’incontro con le altre scienze dell’educazione.
1.1 Il carattere epistemologico L’azione educativa necessita di una teoresi costante ed epistemologicamente vigile, ammettendo che “l’educazione può essere ben orientata solo se guidata da un’attenta riflessione teorica, tale riflessione è la pedagogia”6. Di qui una doverosa analisi, seppur sintetica, della genesi e dello sviluppo del pensiero pedagogico, a partire dal suo primo vagito conseguito grazie al distacco dalla madre filosofia. 6. Genovesi, G. (2007). Cultura pedagogica nella scuola dell’Italia contemporanea. Aspetti e problemi. Milano: FrancoAngeli, p. 16
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Se dovessimo dare un punto di inizio della scienza pedagogica certamente questo ricadrebbe nel XVII secolo, precisamente nel contributo offerto da Comenio nel testo “Didattica Magna”. Secondo lo studioso ogni persona possiede delle potenzialità, spesso nascoste, che non aspettano altro di essere espresse e venire alla luce: “l’arte di insegnare è […] un’arte universale di insegnare tutto a tutti e di insegnare con tale sicurezza che sia pressoché inevitabile conseguire buoni risultati. E insegniamo con criteri didattici fondamentali: non superficiali, così tanto per fare, ma volti a promuovere cultura vera, bontà di costumi, profonda religiosità”7. Di qui deriva l’identificazione ecumenica della pedagogia come specifico settore del sapere che indaga sui processi educativi. Ciò che è importante sottolineare è che a partire dalle riflessioni proposte da Comenio sulle esperienze educative è possibile rintracciare direttrici sia di carattere pratico, sia di fondamento teorico estremamente significativi e di grande pro positività, come, ad esempio, quelle espresse da Rousseau e dalla sua “educazione secondo natura”: “tutto ciò che e naturale e buono”. Sembra doveroso, allora, offrire una tassonomia dei più grandi contributi che hanno connotato l’evoluzione dello statuto epistemologico fino ai giorni d’oggi; una classificazione che evidenzia la caratura di ogni apporto alla scienza pedagogica: 1. corrente mistica, tra cui Rousseau, Tolstoj e Makarenko. Si connota come un’idea positiva da cui si originano tre punti nodali: a. la pedagogia ha l’obbligo di dirigere il cammino educativo; b. sulla scorta delle puntualizzazioni proposte tra gli altri da R. Cousinet, promotore delle Scuole Nuove e dell’Attivismo, la pedagogia viene ad essere identificata come scienza autonoma, distaccandosi definitivamente dalla filosofia; c. la 7. Comenio, J. A. (1974). Opere, a cura di, Torino: Fattori
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pedagogia si esprime quale scienza che ha per oggetto di studio il processo formativo e i rapporti che ogni persona si trova ad avere con il contesto culturale e sociale in cui è inserito; 2. corrente scientifica, al cui interno troviamo autori che hanno avuto una marcata operatività ed esperienza nella scuola; tra questi si richiamano i contributi delle sorelle Agazzi, della Montessori, di Rogers e del Decroly. Secondo questi Autori il bambino è un essere completo, possessore di valori morali ed etici, di capacita relazionali empatiche e di potenzialità intellettuali predisposte all’assoluzione dei problemi; 3. corrente filosofica, capace di una riflessione sui “massimi sistemi” dell’educazione a cui fanno capo tutti quei pedagogisti che cercano una sintesi completa, a volte universale, del processo educativo. Non può essere trascurato il lavoro svolto da E. Claparede, circa la “scuola su misura”, ne, tantomeno, quello di J. Dewey a cui si deve l’esaltazione dell’esperienza come risposta agli input dell’ambiente sociale. Certamente la rassegna presentata non esaurisce il suo operato che andrebbe arricchito con molti altri contributi che hanno connotato l’esegesi pedagogica. Numerosi pedagogisti, infatti, rimangono esclusi, autori che difficilmente possiamo collocare all’interno dell’una o dell’altra corrente di pensiero, ma che comunque hanno offerto un notevole contributo al sapere pedagogico. Ci si riferisce, ad esempio, a Flores d’Arcais, Santomauro, Leang, Gattullo, Freinet, Piaget, Bruner, Mencarelli etc. che, quantunque non appartenenti ad una specificità e singolarità epistemologica, nella loro letteratura si possono rintracciare le basi della pedagogia moderna.
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In ordine generale le varie “esperienze” e profondità educative hanno sviluppato teorie e modelli di pensiero sulle “grandi idee” appartenenti all’educazione. Ogni autore, infatti, possiede una visione specifica del mondo, dell’ambiente, dell’uomo e di Dio, e dalla loro sintesi sono nate le varie proposte scientifiche. Le singole idee hanno reso possibile, inoltre, esemplificazioni e traduzioni di carattere pedagogico estremamente feconde e funzionali alla vita della persona. Sotto tale ottica non possono non essere sottolineati i contributi di Autori come H.G. Gadamer, D. Goleman, H. Gradner e A. R. Damasio, i quali hanno prodotto, come la definirebbe Blanchard, una forte “rottura epistemologica” del processo educativo. Ogni epoca, descrive Rosati L., “è caratterizzata dalle scuola di pensiero dalla quali si fa discendere il compito educativo, senza però che specificatamente si analizzino questioni pedagogiche” (Rosati L. 2008). Una genesi dell’azione educativa che ogni educatore e studioso di settore dovrà fare tesoro.
1.2 Campo di applicazione, statuto epistemologico e oggetto di studio Le persistenti richieste di ingerenza incontrate nel suo operare nei vari contesti in cui è chiamata in causa, la legittimazione epistemologica a cui è sottoposta ed una netta delimitazione e specificazione dell’oggetto di studio hanno offerto alla pedagogia un ruolo centrale all’interno delle scienze umane e dell’educazione. Infatti, “identificare il campo epistemico della pedagogia con il concetto di educazione rappresenta soltanto un primo e sommario passo verso la risposta al problema della definizione del suo oggetto,
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e ciò per due motivi precisi: in primo luogo, perché lo stesso concetto di educazione rappresenta una nozione sfuocata, polisemantica; in secondo luogo, perche anche se si assume, come pensiamo sia possibile fare, tale nozione come intuitivamente adeguata a indicare un certo campo di esperienza che pure abbiamo difficoltà a delimitare in termini concettuali o precisi e non riduttivi, si deve registrare che questo medesimo campo appare in condominio epistemico con le altre scienze umane”8. Al fine di legittimare la pedagogia sia sotto un piano teorico, sia in quello prassico, Piero Bertolini (Bertolini, 1988) manifesta l’intenzione di descriverla come scienza “vera e propria”9, dove con questi due aggettivi si richiamano le semantiche husserliane di rigore e fondatezza epistemologica. All’interno di questi due paradigmi è possibile scorgere l’elemento volontà nell’atto educativo, una tendenza che si sviluppa e palesa attraverso una programmazione di intenzioni. Dello stesso parere sono le riflessioni espresse da A. Agazzi (Agazzi, 1968), il quale vede la pedagogia come una relazione volontaria tra teoria, quale fondamento filosofico ed epistemologico, e scienza, come momento di indagine conoscitiva. Da queste considerazioni deriva la certezza che i problemi che la pedagogia d’oggi deve affrontare sono molteplici. Il tecnicismo, la pedagogizzazione dell’intervento educativo, lo scientismo, etc. a volte hanno spento quella “fiammella”10 comeniana che conferisce alla persona la sua humanitas, in favore di un perfezionismo nichilistico. Non è superfluo aggiungere però, che “l’educare pur essendo un avvenimento essenzialmente spirituale ed interiore, non e tuttavia un fatto irrazionale, ne un comportamento angelico, attua8. Baldacci M., Metodologia della ricerca pedagogica, Bruno Mondadori, Milano 2001, p. 6 9. Bertolini, P. (1988). L’esistere pedagogico. Ragioni e limiti di una pedagogia come scienza fenomenologicamente fondata. Firenze: La Nuova Italia 10. Giesecke, H. (1990). La fine dell’educazione. Individuo, famiglia scuola. Roma: Ancia.
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tesi in una sfera intangibile qualsiasi. Esso è anche fatto osservabile e sperimentabile, attingibile dai sensi e dalla ragione. L’ambiente in cui si svolge, anzi l’ambiente che presuppone, non è una società invisibile, ma soprattutto un visibile e tangibile complesso di relazioni; i procedimenti mediante cui si compie sono procedimenti controllabili; le stesse finalità a cui i processi tendono non sono finalità astratte; i termini dell’attività intellettuale e volitiva, sono sempre colti nel concreto, almeno al punto di partenza”11. Mencarelli osserva tali questioni interpretandole soprattutto sotto un’etica professionale capace di avviarsi alla rivelazione di quello che Mounier (Mounier, 1947) definisce come “il mistero della persona”. Una educazione ed una pedagogia, insomma, sempre “più attente all’uomo nel mondo e ai fini della formazione che non sono, in ultima istanza, destinati ad esaurirsi in questo mondo”12.
1.3 Orizzonti pedagogici La pedagogia viene ad essere considerata una tra le scienze a fondamento delle Scienze dell’educazione, chiamata in causa soprattutto nel momento in cui si fa forte il bisogno di indicare il senso che l’educazione deve avere in una determinata società. Ancora attuali sono le considerazioni fatte da M. Mencarelli sul finire degli anni Settanta riguardo questo assunto. Il pedagogista italiano, infatti, afferma che “l’urgenza di una scienza pedagogica pratica invita tuttavia ad ulteriori osservazioni. Va rilevato anzitutto un cospicuo sviluppo della pedagogia pura (nel senso attribuito dal King): e quanto ha fatto denunziare il gap esistente tra teorie pedagogiche e la sempre più vasta esperienza educativa. 11. McBurney, D. H. (1986). Experimental psychology, Bologna: Il Mulino 12. Vico, G. (2014). La teoria pedagogica. in AA. VV. Educare nell’era digitale. Atti del LII Convegno di Scholè, La scuola: Brescia. P. 24
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Di qui il richiamo di quella metafora piagetiana del cercle des sciences capace di caratterizzare la pedagogia come scienza autonoma. “La metafora del cercle des sciences adoperata dal Piaget [in Mialaret G., Les sciences de ‘education, PUF, Paris (1976)] conferisce dignità scientifica ad ognuna, ma, al tempo stesso, obbliga a considerare ciascuna d’esse come punto di una circonferenza depennando il quale la stessa figura geometrica irrimediabilmente si rompe, assumendo un’altra forma figurale che non il cerchio. Questo vuole dire che se la didattica e uno di questi ipotetici punti, cosi come lo sono la pedagogia e ogni altra scienza umana, di quelle peraltro passate in rassegna da G. Mialaret, essa necessariamente dialoga con tutte le altre, offrendo contributi e ricevendone, cosi come riceverà dalla pedagogia proprio quel sapere valoriale che da ragione delle finalità dell’azione”13. Il cerchio, inoltre, richiama un’altra caratteristica che possiedono le scienze dell’educazione, e cioè la loro equidistanza dal centro. Se poniamo al centro del nostro discorso la persona, ogni scienza che investiga su di essa avrà la stessa dignità di quella a fianco, in quanto ha l’identica vicinanza alla verità. Di qui quell’idea universale della relazione tra le scienze, ognuna delle quali offre il proprio contributo in un equilibrio di valenza. L’educazione, in questo senso, avrà la possibilità di avvalersi di ogni sapere e nutrire il soggetto di cultura. A conferma di quanto espresso De Giacinto mette in risalto che, pur sancita l’unità e l’autonomia della pedagogia, spesso “ignora che l’educazione solo in parte dipende da una dottrina pedagogica esplicitamente formulata. Ad una costruzione concorrono differenti filoni di creatività dello spirito umano, e la pedagogia deve essere considerata come uno, ed uno soltanto, degli aspetti operatori storici dell’educazione. La pedagogia, per altro, deve essere attenta a rilevare, confrontare, discutere, elaborare sistemare tutto ciò che di fatto 13. Rosati. L. (2004). Didattica della cultura e cultura della didattica. La sostenibile leggerezza del sapere, Perugia: Morlacchi editore
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avviene e che va sotto il nome di educazione, sicché a buon diritto si possono studiare tutte le modificazioni che i cambiamenti dell’educazione impongono alla pedagogia”14. Ogni scienza piagetiana stipula un contratto formativo con la persona, rispondendo alla sempre più crescente domanda di educazione: “lo costatiamo per avvertire che essa (la società), con tutte le contestazioni che veicola e con tutte le contraddizioni che esprime, avanza autonomamente domanda di scienze pedagogiche”15. L’attenzione del processo educativo si focalizza sul soggetto in apprendimento al fine di liberare in piena autonomia, creatività e libertà quei valori e capacità per una piena consapevolezza e padronanza di Sé. Brezinka (Brezinka, 1983) identifica diversi livelli conoscitivi appartenenti al panorama pedagogico: – scienza dell’educazione: la pedagogia e vista come sistema di riflessione; – scienza empirica: spiega il fatto educativo; – filosofia dell’educazione: apparato ideologico di valori e sensi educativi; – pedagogia pratica: in cui, scrive il filosofo dell’educazione, si “designa una teoria normativa dell’educazione utile per l’azione, ovvero di guida all’azione”16. Tale discorso è ripreso analiticamente dal pedagogista G. Acone, il quale connota la natura problematica della pedagogia in questi termini: “L’articolazione complessiva di Brezinka sulla scienza dell’educazione, sulla filosofia dell’educazione e sulla pedagogia pratica pone il problema comunque del riportare ad unità, o 14. De Giacinto, A. (1982). Relazione introduttiva al XXI Convegno di Schole, in AA. VV. (1983). Teoria e prassi in pedagogia. Brescia: La Scuola 15. Mencarelli, M. (1986), Educazione permanente e democrazia. Teramo: Giunti & Lisciani 16. Brezinka, W. (1983). Metateoria dell’educazione, Roma: Armando
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ad un sapere complessivo, la pedagogia generale come disciplina. È un problema aperto; la soluzione parziale proposta da Brezinka rimane in gran parte interlocutoria: se dunque, in base ai nostri presupposti metodologici, appare impossibile una teoria pedagogica complessiva che sia al tempo stesso teoria scientifica e teoria pratica, ciò non vuol dire che si rinunzia a qualsiasi sintesi del sapere pedagogico. Invece sono possibili e urgentemente necessarie le sintesi valutative orientative dell’azione nella pedagogia pratica”17. L’intervento pedagogico, nella sua componente riflessiva e di esecuzione delle proposte teoriche, permette di “tirar fuori dall’uomo sia i difetti per liberarsene, sia le potenzialità positive per sfruttarle ai fini del suo miglioramento”18. Di qui la necessità di meditare circa le prospettive ed i panorami di una scienza, definendone le finalità contestuali e, magari, anche le specifiche funzioni che assolve a livello sociale ed individuale. Da sempre l’educazione è condizione ed azione indispensabile per qualsiasi sviluppo sociale, culturale ed individuale, soprattutto in una governace che fonda il suo agire nella vis democratica. Per tali ragioni è necessaria la creazione di un’architettura educativa completa ed efficiente, capace di soddisfare ogni esigenza formativa di ogni cittadino attraverso un fitto dialogo tra le forze –economiche, culturali, tecnologiche, sociali, etc.- poste in essere. Tutto ciò ha generato un profondo solco tra una prospettiva educativa classicamente intesa e quella che ormai molti pedagogisti definiscono come postmoderna. Tutto ciò non solo rende merito ad una educazione efficace, piuttosto un’azione in grado di stimolare e motivare il soggetto in una 17. Acone, G. (2001). Fondamenti di pedagogia generale, Salerno: Edisud 18. Genovesi, G. (1998). Le parole dell’educazione. Guida lessicale al discorso educativo, Ferrara: Corso Editore
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società sempre in divenire, o per dirla attraverso le parole di Zygmunt Bauman (Bauman 2013) una “società liquida”, dove l’aggettivo sta ad indicare la velocità, l’inconsistenza, la frenesia, l’instabilità e sfuggevolezza comunitaria. Nello stesso modo, però, non possiamo associarci ad un senso di smarrimento che porterebbe ad una “paideia liquida”, in quanto il vettore di ogni sviluppo umano non può essere sfuocato o sfuggevole, ma orientato secondo indicazioni culturali, assiologiche e sociali.
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Cap. 2 Pedagogia e didattica Lo studio sul rapporto tra pedagogia e didattica occupa molte pagine della letteratura di settore, tanto da non potersi risolvere in un quadro che definisca in modo univoco la distanza o la sovrapposizione di questi due settori del sapere. Numerose, infatti, sono le posizioni che è possibile esaminare, si voglia per la legittimità che oggi la didattica richiede, oppure per la naturale prospettiva unificatrice tra teoria e prassi. In origine, e per molti pedagogisti attuali, la didattica sostiene la pedagogia nella prassi quotidiana, cioè momento in cui la teoresi pedagogica si trasforma in atto formativo e quindi intesa come ars (una conoscenza di ordine inferiore) o ancilla. Se il rapporto che la pedagogia ha avuto con la filosofia ha creato non poche rivendicazioni da parte di quest’ultima, soprattutto in un’ottica epistemologica, la stessa cosa è successa alla didattica. Per molto tempo, infatti, la didattica è stata considerata la parte pratica della pedagogia, connotandosi, così, come un insieme di tecniche e strumenti piuttosto che una vera e propria scienza autonoma. In questo caso la didattica non viene ad essere intesa come una scienza a tutti gli effetti, ma semplice “revisore” dei giusti modi attraverso cui il pensiero pedagogico si compie. Secondo la Santoro (Santoro, 2010), infatti, la didattica non può essere considerata una scienza autonoma, in quanto è “protesa all’individuazione di contenuti specifici e delle possibili tecniche della trasmissione culturale, ma è quella parte della pedagogia che si occupa esplicitamente e organicamente degli aspetti tecnici e strumentali dell’esperienza educativa e della loro coerenza con la direzione intenzionale originaria”.
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La didattica è l’azione “didassi”, cioè lo studio delle modalità, dei metodi, degli strumenti, etc. che generano l’apprendimento, proprio come avanzato da Piero Bertolini19. I criteri che portano a compimento l’opera educativa, però, non sono sufficienti per legittimare una scienza e poterla definire autonoma, in quanto si esplicitano come atti “meccanici” che hanno bisogno di meditazione a-priori e che rimandano alla una scienza pedagogica. Insomma, secondo tale impostazione la didattica può essere definita come “braccio armato” della pedagogia. L’esigenza comune alle due scienze di liberarsi da vincoli scomodi che ne hanno per lungo corso delimitato l’agire e l’evoluzione, ha reso possibile lo sviluppo di due distinti saperi che, quantunque siano ben circoscrivibili e delimitati, restano sempre in contatto per determinare la corretta evoluzione ed educazione della persona. Una seconda prospettiva, alla quale ci accodiamo per linea di principio e legittimità scientifica, è quella che prevede due scienze, pedagogia e didattica, autonome nel loro continuo dialogare in favore di un’educazione centrata sullo sviluppo armonico dell’essere umano. Di esempi in tal senso di certo non mancano nell’epistemologia appartenente alle scienze umane e dell’educazione, basti porre a mente il cerchio piagetiano dove la didattica è uno dei punti della circonferenza. Epistemologicamente parlando, la didattica ha proposto modelli e tecniche d’intervento che possiamo tassonomizzare sul finire degli anni Settanta con i lavori di Blankertz.
19. Bertolini, P. (1999). L’esistere pedagogico. Ragioni e limiti di una pedagogia fenomenologicamente fondata. Firenze: La Nuova Italia
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In maniera più analitica, però, i maggiori contributi offerti a tale visione sistemica appartengono a Franco Frabboni, il quale concede alla didattica una vera e propria autonomia conoscitiva e di prassi. Il suo lavoro alle soglie del nuovo millennio evidenzia una scienza ormai matura, capace di camminare con le proprie gambe e proporre un contributo significativo alla conoscenza umana, differenziato rispetto alla pedagogia. Secondo Frabboni20 la didattica possiede macroscopiche finalità, tra cui predisporre percorsi di maturazione creativi, potenziare strumenti d’intervento, creare ambienti stimolanti e favorevoli all’apprendimento, ideare modelli di riferimento e promuovere valutazioni sempre aggiornate ed obiettive. Tali vettori creano una scienza che possiede specifiche peculiarità che in qualche modo si sposano con quelle pedagogiche, ma che comunque restano autonomamente in essere. Dello stesso parere paiono le riflessioni espresse da Elio Damiano21, il quale evidenzia la possibilità di distinguere tre grandi raggruppamenti dei modelli didattici: quelli incentrati sul “prodotto”, quelli che registrano una particolare attenzione ai “processi” ed, infine, quelli che evidenziano la funzionalità didattica come “oggetto mediatore”. Un ulteriore e fondamentale contributo verso una legittimità della didattica è dato da Cosimo Laneve, il quale asserisce che è sempre più impellente l’esigenza di “produrre conoscenza scientifica delle pratiche d’insegnamento e far avanzare altresì la riflessione teorica sulla didattica [...] sfociando in tutte quelle
20. Frabboni, F. (2000). Manuale di Pedagogia generale, Roma-Bari: Laterza 21. Damiano, E. (1994). Insegnare con i concetti (Un modello didattico fra scienza e insegnamento). Torino: SEI
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pratiche di trasmissione culturale diffuse nella società del nuovo millennio”22. M. Develey (Develey, 2005) dona alla scienza didattica un ruolo centrale all’interno delle scienze che si occupano dell’educazione della persona. Il pedagogista francese, infatti, descrive una educazione attraverso l’utilizzo di quattro scienze: le due D e le due P: “disciplina e didattica e pedagogia e psicologia. Come a dire che questi sono gli ambiti specifici di quel sapere pedagogico che dovrebbe tenere il campo senza mai smarrirsi nella cieca ripetizione di atti e nell’abitudinarismo”23. Significativa è, infine, la sintesi che Rosati24 compie nei confronti dei molteplici modelli che la didattica ha generato nel corso della sua evoluzione. Oltre, infatti, a riferire circa il modello dell’insegnamento, quello dell’istruzione di stampo bruneriano, quello della comunicazione o dell’apprendimento, il didatta tifernate intravede in quel concetto di cultura richiamato da Laneve una possibile modellistica integrale, che vede in Cassirer (Cassirer, 1979) e Willmann (Willmann, 1962) il suo fondamento epistemologico. Indipendentemente dalla particolarità e dalle impostazioni epistemologiche offerte, la didattica si delinea come scienza che indaga su ogni forma di insegnamento-appredimento. Di qui due scienze, quindi, completamente autonome dotate di determinati campi di applicazione, di teorie e modelli a sostegno del loro agire (lo statuto epistemologico) e di specifiche finalità e metodologie. Una relazione che pare orientarsi secondo il principio dell’applicabilità, ricordando che tale termine non significa né teoria, né pratica, ma l’unione contestuale di questi. 22. Laneve, C. (2011). Manuale di didattica. Il sapere sull’insegnamento. Brescia: La Scuola 23. Rosati L., La fine di un’illusione, op. cit. 24. Rosati, L. (1999). Lezioni di didattica. Roma: Aracne
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In conclusione è giusto osservare che “la relazione pedagogia/didattica nel senso della relativa autonomia scientifica di quest’ultima, rispetto ad una più generale considerazione del quadro educazione/ istruzione/sviluppo e della modalità dell’apprendimento/insegnamento, non solo riguardo alle conoscenze ma anche ai sentimenti, alle emozioni, ai e al senso dell’umanità e della sua costituzione onto-etico-ermeneutica”25.
2.1 La didattica Il bisogno di fissare un rapporto empatico, come ama definirlo Rogers, tra docente e discente pretende dalla didattica un intervento volto a ridurre il gap esistente tra insegnamento ed apprendimento. Tale distanza, infatti, è generata da entrambe le sponde del discorso, in quanto non è possibile focalizzarsi sulla sola trasmissione di informazioni che l’insegnamento cerca di veicolare, così come non è sufficiente che l’alunno memorizzi qualcosa, ma è l’unione dei due momenti didattici che sembra avere le maggiori probabilità di successo educativo e formativo. Troppo spesso sono state avanzate critiche sulla lontananza tra le riflessioni teoriche che donano un senso all’educazione e le azioni. Frequentemente si assiste addirittura a due mondi completamente separati; non esiste comunicazione: l’impianto teorico sembra essere utopico e l’attività pratica risulta non possibile, oppure constatiamo una “didattica cieca”, priva cioè della sua componente riflessiva, o una “teoria vuota”, carente di situazione pragmatiche. In tale modo i problemi che emergono dal contesto esperienziale della didattica hanno l’obbligo di calibrare nuove teorie, così come i modelli generati originano moderni strumenti, tecniche e metodi.
25. Acone, G. (2001), Fondamenti di pedagogia generale, op. cit, p. 161
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L’evoluzione didattica avviene grazie a tale relazione, la quale stimola la parte più naturale del sapere e che reclama una diretta partecipazione degli attori posti in essere. Non solo, quindi, una didattica volta alla standardizzazione di apprendimenti più o meno complessi, piuttosto una sincrona operazione pedagogico-didattica capace di abbracciare la persona nelle sue molteplici dimensioni. Da un punto di vista squisitamente didattico occorre riflettere su quelle abilità che Philippe Perrenoud26 evidenzia come le dieci competenze per insegnare: – – – – – – – – – –
organizzare ed animare situazioni d’apprendimento gestire la progressione degli apprendimenti ideare e fare evolvere dispositivi di differenziazione coinvolgere gli alunni nei loro apprendimenti lavorare in gruppo partecipare alla gestione della scuola informare e coinvolgere i genitori servirsi delle nuove tecnologie affrontare i doveri e i dilemmi etici della professione gestire la propria formazione continua
Le capacità prospettate da Perrenud, non solo delineano una gura dell’insegnante sempre più competente, ma anche uno scenafi rio educativo in continua evoluzione, tale da portare Meirieu (Meirieu, 1989) a descriverlo come un vero e proprio nuovo mestiere, che seppur avendo gli stessi principi e valori di un tempo, oggi necessità di sensibilità e conoscenze diverse.
26. Perrenoud, P. (1999). Dieci nuove competenze per insegnare. Invito al viaggio, Roma: Anicia
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È un dovere deontologico e morale del docente che “la verità dell’educazione deve coniugare la razionalità dell’esperienza e l’esperienza del valore”27. Il perfezionamento costante dell’azione educativa è certamente incatenato alla preparazione e formazione professionale degli insegnanti, tuttavia insufficiente “se il sapere che li prepara professionalmente non è in grado, esso stesso, di rendere conto di quell’agire” che “è conoscibile, insieme, per spiegazione (mediante il ricorso a cause) e per comprensione (mediante il riferimento a motivi o intenzioni”28.
2.2 Dalla parte dell’educando Se Perrenoud evidenzia le competenze che ogni moderno insegnante deve possedere, comprendere ed adottare, queste danno ragione di un’educazione di senso deontologico. In molti dei suoi saggi Rosati sottolinea tali aspetti, stabilendo che se l’educatore si pone in maniera fredda e asettica, come “portatore sano” di conoscenza, senza rendersi minimamente disponibile ad incontrare e capire l’altro, può generare disagio, ansie e sofferenza nell’educando, rovinando irrimediabilmente lo stesso processo educativo. Non possiamo non ricordare che il rapporto educativo è basato su forti componenti emozionali, le quali fanno il paio con quelle motivazionali, cognitive ed evolutive. Per questo occorre un dialogo continuo, una vera e propria relazione empatica e fiducia reciproca. Se questa relazione venisse a mancare sarebbe improbabile realizzare un progetto che risulti pertinente, sentito, condiviso e piacevole. Il docente deve esortare e ravvivare la curiosità alla scoperta, 27. Margiotta, U. (1998), L’insegnate di qualità, Armando: Roma 28. Rosati L. (1999). Op. cit, pag. 88
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l’interesse ad applicarsi ed il gusto di mettersi in discussione, proprio rinvigorendo quel lumicino comeniano. Tutto ciò avrà come risultato sia quello di incentivare una acquisizione di abilita, competenze e conoscenze spendibili nei svariati contesti, sia caratterizzare l’evoluzione della persona secondo quattro assiomi, che Jacques Delors29 dichiara come veri e propri pilastri educativi: – – – –
imparare a conoscere, imparare a fare, imparare a vivere insieme, imparare ad essere.
“Quando si dice che lo sviluppo deve essere previsto a lungo termine, quando si dice che deve essere migliorato il livello di vita delle future generazioni, quando si sollecita il rispetto degli ambienti naturali dai quali dipende ogni vita – e sono parole del rapporto all’UNESCO di J. Delors -, si traduce un concetto nuovo: quello della sostenibilità dell’educazione, considerata un autentico tesoro come parte di un nuovo approccio a problemi nei quali essa non è semplicemente uno dei molti vezzi verso lo sviluppo, ma uno dei suoi elementi costitutivi ed uno dei suoi obiettivi essenziali”30. Il fine ultimo è rappresentato, cosi, dal far proprie strutture cognitive che autorizzino ogni persona ad impadronirsi di capacita di analisi e una sintesi comunitaria creativa: “l’analisi costruisce e la sintesi crea”31. L’espressione delle potenzialità individuali nascono da quel bagaglio esperienziale e valoriale che è intimo nell’uomo e che hanno la possibilità di “realizzarsi” in piena autonomia, volontà, libertà e singolarità. Valori attribuiti alla persona che dovrà prima di tutto “essere” per poter 29. Delors, J. (1999). Nell’educazione un tesoro. Roma: Armando 30. Rosati, L. (2011). L’uomo e la cultura. Perugia: Morlacchi 31. Capponi, G. ( 1969). Pensieri sull’educazione. Firenze: La Nuova Italia
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divenire e cercare la verità senza confondere l’individualità con l’individualistico, perché, se si cadrà in questo equivoco, “tutto sarà perduto. Essa –la persona- procederà irrimediabilmente alla negazione dell’assolutezza ai propri stessi valori, poggiati sulla loro verità obiettiva di essere e di cognizione; ed essi, crollando nel relativo, lasceranno posto in un primo tempo all’anarchia, al dis-soluto, alla polverizzazione del valore; e, subito dopo, alla gara e infine alla lotta tra varie verità”32. Un ritorno, insomma, dalla parte dell’educando, senza però attuare quel processo di “pedagogizzazione” prospettato da Herman Giesecke33 che renderebbe l’educazione lasciva, asimmetrica, priva di senso e di autorevolezza.
2.3 Tecniche e strumenti La complessità delle manifestazioni educative e la persistente dinamicità e “liquidità” sociale richiedono tanto alla didattica, quanto alla pedagogia un ventaglio di tecniche e strumenti volti a dare correttezza, fattibilità e legittimità scientifica all’intervento educativo, senza, però, sfociare in un tecnicismo procedurale o in una frammentazione e perdita d’identità di cui non è più possibile gestire gli estremi. Altrettanto necessariamente, dichiara Bertolini, “quegli stessi orizzonti di senso originari, pur nella loro esplicazione metodologica, esigono, come condizioni di fattibilità, discorsi chiari e congruenti sul piano delle procedure d’intervento e degli strumenti operativi”34.
32. Agazzi, A. (Saggio sulla natura del fatto educativo in ordine alla teoria della persona e dei valori. Brescia: La scuola 33. Giesecke, H. (1990). La fine dell’educazione. Individuo, famiglia scuola. Roma: Ancia 34. Bertolini, P. (1999). L’esistere pedagogico. Ragioni e limiti di una pedagogia come scienza senologicamente fondata. Firenze: La Nuova Italia, p. 113
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Questa impostazione consente non solo di determinare la pertinenza e la risposta che l’agire educativo offre ai vari problemi che di volta in volta si presentano davanti, ma soprattutto di stabilire la sua rilevanza ed efficienza nel risolverli. Senza addentrarci troppo nella divisione delle tecniche di indagine, l’esigenza di offrire un corollario di strumenti operativi è fattore imprescindibile per fornire adeguate risposte ai progetti educativi. In questo senso la tecnica è un ponte tra il concetto e l’azione, tanto da portare J. Dewey (Dewey, 1954) ad evidenziare l’esigenza di una costante comunicazione tra i fini e i mezzi che si hanno a disposizione. Sicuramente la costruzione e l’ideazione di una tecnica “personalizzata” richiede un notevole sforzo creativo ed una profonda conoscenza delle dinamiche gruppali e delle risorse a disposizione. Pertanto è possibile e comprensibile che pur riconoscendo la validità di uno strumento contestualizzato, l’educatore adoperi una tecnica già formulata, standardizzata e sperimentata. In entrambi i casi, ovviamente in modo maggiore nel secondo, ciò che appare fondamentale è la flessibilità attuativa della tecnica selezionata, dato che ogni contesto e momento educativo appare unico ed irripetibile. Di qui una capiente “cassetta degli attrezzi” che ogni moderno educatore deve possedere per legittimare il proprio operato. Proprio su questa linea di pensiero Flanders (Flanders, 1966) avvalora la possibilità di adattare le tecniche in modo malleabile e duttile a seconda dei casi riscontrati. Celestin Freinet35 afferma che la pedagogia e la didattica dovrebbero ispirarsi ad un criterio che si caratterizza come l’esprit èxperimentale, il quale sottolinea l’assunto che non esistono certezze assolute e soluzioni prefabbricate e scontate ai problemi che l’educazione dell’uomo produce e solleva. 35. Freinet, C. (1971). Le mie tecniche. Firenze: La Nuova Italia
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Si comprende così la scelta di tecniche e strumenti “attivi”, intendendo con questo termine la possibilità di modificarsi e calibrarsi per rispondere nella maniera più efficace, flessibile ed efficiente possibile ai problemi formativi. Nella realizzazione di una proposta formativa e nella sua consecutiva attuazione pratica, la scelta di strumenti e tecniche deve essere compiuta con sensibilità e competenza, sostenuta da un’incessante “vigilanza epistemologica” che ne orienta l’attuazione. Ecco, allora, che “le tecniche risultano essere dettate sia dal contesto in cui sono inserite che dall’utilizzo, ma pur sempre adottate secondo una sensibilità intellettuale, vero patrimonio che deve essere posseduto da chi si avvia nel difficile sentiero dell’azione educativa. Per tale ragione le tecniche sono destinate a modificarsi nel tempo divenendo, così, sempre espressione della cultura in risposta alle continue modificazioni che l’educazione, come scienza, è chiamata a interpretare”36. Il quesito diviene, quindi, “quello di conoscere i pregi e i difetti dello strumento impiegato, ovvero di sapere esattamente quali siano le sue caratteristiche formali, quale sia il livello di misurazione (qui ci riferisce a strumenti di valutazione)dell’apprendimento consentito dallo strumento, quali operazioni siano permesse dal tipo di misurazione compiuta, e, quindi, quale grado di affidabilità si possa ragionevolmente attribuire alle informazioni desunte dai dati rilevanti e opportunamente trattati”37.
2.4 La prassi. Realizzazione e funzionalità Di seguito si presentano alcune tecniche e strumenti che la pedagogia e la didattica adottano nella loro prassi quotidiana. 36. Salvato R., Mancini R. (2007). Il lavoro di gruppo. Competenze per l’azione didattica. Perugia: Morlacchi editore 37. Domenici G. (1991). Gli strumenti della valutazione, Napoli: Tecnodid
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Tale rassegna, pur richiedendo doverose puntualizzazioni di natura critica, di ricerca e metodologica, rappresenta un punto di inizio da parte di chi sente la necessità di conoscere le varie tecniche ed adottarle in modo flessibile e pertinente. Anche se, in un panorama formativo, può fungere da legittimazione, “nell’apprendimento scientifico la tecnica della soluzione dei problemi, il cosiddetto problem solving, o l’uso della statistica elementare, come anche l’annotazione rigorosa delle apparenze e della frequenza nella ripetizione dei fenomeni, rappresentano le tecniche più praticate. Così accade nelle altre forme di insegnamento/apprendimento, soltanto che si pensi all’educazione artistica per la lettura dell’opera d’arte e la riproduzione di immagini pittoriche e scultoree con il sapiente uso delle cosiddette tecniche del colore. L’uso delle tecniche contrassegna la proceduralità della azione didattica, scandendone la sua rigorosità e la sua efficacia produttiva”38. Si possono evidenziare due grandi famiglie di strumenti e tecniche che abbiamo a disposizione: – la prima affonda le sue radici nell’idea olistica della persona (il linguaggio, il corpo come momento espressivo, l’esercizio, l’esempio, l’esperienza, la motivazione, il senso di responsabilità, il lavoro di gruppo, il gioco e la programmazione); – nella seconda si possono far rientrare tutte quelle tecniche per così dire più operative (osservazione, ricerca azione, sperimentazione, statistica, laboratori, focus group, panel, phillips 6-6, giochi di ruolo, sociometria, braistorming, mastery e cooperative learning).
38. De Bartolomeis, F. (1994) L’arte contemporanea e noi, Firenze: La Nuova Italia
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II problem solving Il Problem Solving è l’arte della scelta delle strategie migliori per raggiungere i traguardi prefissati. Secondo Crispiani e Giaconi è possibile definire il Problem Solving come l’attività “mentale di risoluzione dei problemi o situazioni problematiche, in modo consapevole ed intenzionale, individuale o collettivo, secondo varie e contestualizzate strategie”39. L’impostazione dei due pedagogisti permette di rilevare dei fattori caratterizzanti il problem solving, in quanto avviene per mezzo di una elaborazione intellettiva, soggettiva o di gruppo, delle informazioni. Il fattore che Crispiani evidenzia ulteriormente è la possibilità di una determinazione del problema anche in modo inconsapevole, cioè un insight che avviene come una folgorazione improvvisa, sintetica e critica. Un dinamismo del pensiero, insomma, che nel collegare cuore-ragione, pensiero-sentimento, logica-emozioni si attiva per giungere ad una condizione desiderata, la soluzione, a partire da un presupposto dato, il problema. A tal proposito pagine sublimi sono state quelle offerte dal Bruner: “È raro, sulla frontiera della conoscenza, scoprire nuovi fatti nel senso di incontrarli, come dice Newton, a guisa di isole di verità nell’inesplorato mare dell’ignoranza. Anche quando sembrano che siano scoperti in questo modo, ciò accade quasi sempre per grazie ed alcune felici ipotesi sulla rotta da seguire. La scoperta, come la sorpresa, favorisce soltanto una mente ben preprarata”40. L’approccio scientifico della ricerca di soluzioni rispetto ai vari problemi educativi non può essere lasciata al caso o alla sola intuizione dell’insegnante, ma richiede puntualità metodologica e rigore.
39. Crispiani, P. & Giaconi, C. (2010). Hermes 2010. Glossario pedagogico professionale. San Paolo: edizioni Junior 40. Bruner, J. (1968). Il conoscere. Saggi sulla mano sinistra. Roma: Aramando
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Andavamo discutendo altrove41 le fasi del Problem Solving, il quale prevede: – prima fase, identificazione del problema, delle risorse e dell’obiettivo (fase osservativa); – seconda fase, realizzazione di eventuali soluzioni (fase creativa). Ha come fine quello di concepire soluzioni possibili e per questo e richiesto un atto che lasci terreno libero al pensiero al fine di accreditare visioni, intuizioni, connessioni, sensazioni ed emozioni. La ricerca di soluzioni richiede, a volte, l’abbandono di alcune convinzioni, pregiudizi e preconcetti che ci hanno guidato fino a quel momento, ma che risultano ormai inadeguati; – terza fase, scelta, pianificazione e progettazione della soluzione (fase critico-realistica). – quarta fase, realizzazione della terza fase e valutazione dei risultati ottenuti (educativa). C’è da aggiungere che è possibile reiterare i passaggi qualora i risultati ottenuti non diano soddisfacenti esiti. In conclusione possiamo affermare che il problem solving è “una dimensione dell’attività cognitiva, che riguarda tutti i compiti, a vari livelli di complessità, in cui l’individuo utilizza dei piani e delle strategie per raggiungere un obiettivo”42. Il braistorming Il temine di origine anglosassone braistorming nasce dall’unione di due parole: brain, che significa cervello, e storm, cioè tempesta. Tale tecnica favorisce l’espressione libera, proprio come una vera e propria tempesta. 41. Mancini, R. (2009). Soluzioni metodologiche nell’azione educativa. Perugia: Margiacchi-Galeno 42. Boscolo, P. (1999). Psicologia dell’apprendimento scolastico. Torino: UTET
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Adottata in svariati contesti, da quello militare a quello pubblicistico, la sua procedura attuativa è relativamente semplice perché basta porre in essere un gruppo (8/10 persone) che discute su un determinato tema o argomento per circa 30 minuti. D’importanza fondamentale è sia l’animatore, quale orientatore della discussione, sia il contesto in cui si svolge l’esercizio, che deve essere ricco di stimoli al fine di motivare ed alimentare la partecipazione. Ogni membro del gruppo ha una sola funzione, quella di produrre il maggior numero di idee, a volte anche strampalate, sull’argomento trattato, per giungere all’idea originale e creativa in modo collettivo e cooperativo. Una volta annotate le idee da parte dell’animatore o il segretario, saranno vagliate le migliori e magari poste come nuovo contenuto di discussione. Il panel Utilizzato in presenza di gruppi molto numerosi, il panel è una tecnica che permette l’approfondimento di una tematica secondo diverse prospettive simultaneamente. Il panel consiste nella costruzione di due gruppi in cui il primo (di solito meno numeroso) è composto da “esperti” e l’altro dai restanti membri. Dopo che l’animatore ha esposto a grandi linee l’argomento/i che vogliono essere approfonditi, passa la parola al piccolo gruppo che interviene secondo le proprie competenze e conoscenze. Il grande gruppo, dopo aver ascoltato le varie relazioni, prepara delle domande su dei foglietti in forma anonima, che l’animatore consegna al diretto interessato del gruppo degli esperti. Le varie risposte alle sollecitazioni offerte dal grande gruppo può dare luogo a nuove domande fino alla soddisfazione generale che
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determina la conclusione dei lavori, sanciti anche da una chiosa da parte dell’animatore. Possono essere presenti notevoli variazioni di tale tecnica, la quale risulta flessibile pur nella sua tassonomia di criterio. Piergiuseppe Ellerani scandisce una di queste modifiche: 1. “i prodotti dei gruppi vengono disposti sui tavoli dei gruppi che hanno lavorato. 2. Gli studenti si muovono simultaneamente e liberamente per la stanza per guardare, discutere, far riflessioni sugli elaborati, come se fossero in una presentazione. 3. In ogni tavolo vengono predisposti dei fogli o dei piccoli diari di feedback, così che ogni gruppo possa annotare le proprie osservazioni sul lavoro visionato: punti di forza, suggerimenti, commenti. 4. Al termine della fase di visita, ogni gruppo ritorna sul proprio lavoro, analizza i commenti degli altri gruppi ed eventualmente procede alla revisione/sistemazione/completamento dello stesso. Ogni commento degli altri compagni e frutto della discussione viene annotato nel proprio diario di bordo”43.
43. Ellerani, P. (2012). Metodi e tecniche attive per l’insegnamento. Creare contesti per imparare ad apprendere, Roma: Anicia
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Cap. 3 Pedagogia e tecnologia L’incontro tra la pedagogia e la tecnologia è uno spazio che necessita di continuo aggiornamento; si voglia per la varietà e la poliformia degli interventi educativi, oppure per la costante propensione che oggi l’uomo sembra rivendicare nell’essere “connessi” con l’evoluzione digitale. Nel corso di poco più di un decennio, infatti, l’ingresso prepotente delle tecnologie all’interno della vita di ognuno di noi ha costretto l’educazione a ricalibrare il suo intervento, in modo tale da non essere avulsa, obsolescente e distante dalle profonde funzionalità ed influenze che queste esercitano. La principale caratteristica della rivoluzione tecnologica è quella del mutare per il mutare, dichiara Hervé A. Cavallera (Cavallera, 2014); una trasformazione continua, che avvalora l’istante e l’ebbrezza che deriva dal poter sempre rinnovarsi. Di qui, un mutatis mutandis che richiama l’epoca sofistica, in cui la ragione era direttamente proporzionale all’abilità di comunicazione, piuttosto che alla tradizione conoscitiva e di impegno diretto alla scoperta della verità e del sapere. Si tratta, quindi, di una interpretazione nuova a quello che Stefanini descrive in questi termini: “ogni sapere è un sapersi, ma, nelle condizioni umane del sapere, non c’è sapersi senza un sapere”44. In tal senso l’educazione classicamente intesa comincia a sgretolarsi, reclamando la necessità di ulteriori riflessioni ed apporti in grado di rivendicare la libera espressione delle potenzialità umane, senza falsi idola o scorciatoie formative. 44. Stefanini, L. (1962). Personalismo filosofico, Brescia: Morcelliana. P. 80
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L’utilizzo della tecnologia all’interno delle agenzie educative di ogni ordine e grado, infatti, è ormai quotidiano, basti pensare alla funzionalità didattica della LIM o di qualsiasi altro insegnamento qualificato da strumenti tecnologici (videoproiettori, FAD, registratori, espansione della memoria, elaborazione dei dati, etc.). L’evoluzione della tecnica ha costruito, nel corso del tempo, una tecnologia sempre più all’avanguardia e pertinente nel risolvere problemi che quotidianamente si presentano nel panorama dell’evoluzione umana. L’idea nuova che oggi sembra avanzare è quella che vede l’assunto vita biologica Vs vita cibernetica, piuttosto che una ragionevole cooperazione. Nota, a tal proposito, è la posizione di Heidegger quando stabilisce che più che “pro-durre” solo benessere, le tecnologie “pro-vocano” un aumento ed espansione delle risorse. La tecnologia è un presente educativo, il quale ha prodotto una vera e propria rivoluzione nel modo di pensare: l’insegnamento tradizionale a cui siamo abituati è destinato a lasciare spazio a nuovi modelli e nuove tecniche didattico-pedagogiche. Il processo di informatizzazione avviene ormai in ogni dove e in ogni quando, tanto da portare Severino a prospettare che il destino della tecnica è segnato dal suo dissolversi: sarà parte naturale dell’agire umano. I media, per come li abbiamo concepiti fino ad oggi, “non esistono più”, viviamo in una condizione “post-mediale”45, dichiara Ruggero Eugeni. Tra poco tempo, insomma, il nostro vivere digitale sarà talmente scontato che sarà disperso e simbiotico. La distanza ed i confini che ancora oggi separano l’uomo e le situazioni mediali si eclisserà in favore di una interconnessione che apparirà del tutto ordinaria, in un processo di “naturalizzazione dell’esperienza tecnologica” (Eugeni, 2014). 45. Eugeni, R. (2010). Semiotica dei media, le forme dell’esperienza. Roma: Carocci.
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Spesso, però, la tecnologia viene ad essere presa come strumento e metodo in grado di sostituire l’uomo. Se è pur vero che ogni processo educativo trae vigore dalla varietà di metodi e tecniche utilizzati, è “accertato che nessuna strumentazione tecnologica, per sofisticata e perfetta che sia, possa sostituire l’uomo. Suoi, difatti, sono i progetti che vengono affidati alla tecnologia, suoi i programmi assegnati alla macchina per insegnare, sua la percezione della situazione di classe che esige alternanza di tecniche varietà di metodi, per assicurarsi la motivazione dell’alunno e dunque per garantire allo stesso di farsi costruzionista del proprio sapere”46. Queste critiche risiedono nella convinzione che se mal gestito il sapere ed il volere tecnologico riduce “gli spazi della creatività personale che ha fatto leva sulla manualità, nella pratica lavorativa come nelle attività intellettuali soltanto che si ponga a mente alla nuova forma di comunicazione che prima delle idee chiama in causa le abilita tecnologiche e informatiche”47. Una questione, quindi, che solleva la necessità di dotare la persona di strumenti critici tali da saper scegliere in che modo, quando e perché utilizzare la tecnologia. Internet di per sé, non rende stupidi, come evidenziato da Nicholas Carr, così come non rende intelligenti, ma “farà stupidi alcuni di noi e molto intelligenti altri, acculturerà alcune società e ne impoverirà altre. Niente è meccanico, scontato. Progressi e arretramenti non dipenderanno dall’affinarsi degli strumenti tecnologici, ma dall’affinarsi delle nostre menti e delle nostre società”48. Il problema didattico, però, rimane sempre aperto ed affascinante, in quanto richiede la necessità sia di acquisire competenze e conoscenze in grado di rendere accessibili le innovazioni informatiche, sia di padroneggiare, con coscienza e competenza, il fascino che esse 46. Rosati, L. (1999). Op. cit 47. Rosati, L. (2006). La scatola magica. Perugia: Morlacchi 48. Santamborgio, G. (2014). Trasformazioni sociali e culturali del web. in AA. VV. Educare nell’era digitale. Atti del LII Convegno di Scholè, La scuola: Brescia
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esercitano nell’uomo senza renderlo schiavo. A tal proposito J. Freeman dichiara: “questo stile di vita non è sostenibile. Questo essere costantemente on-line, in funzione, porta al tracollo emotivo e fisico. Produce infelicità. Quanti dei nostri ricordi più belli sono legati a momenti passati davanti ad uno schermo? Eppure si è scoperto che nel 2006 gli americani hanno trascorso più di metà della loro vita connessi ad apparecchi digitali di tutti i tipi. Questo significa che passiamo più tempo con questi media che non a dormire, più ore collegati in rete di quelle della giornata lavorativa”49. Uno stile di vita che comunque apre a nuove richieste, nuovi spazi (anche virtuali), nuove situazioni da gestire, nuove forme di relazione educativa e nuovi bisogni, i quali se da un lato provocano notevoli miglioramenti ed un aumento della qualità della vita, dall’altro confermano la necessita di un ripensamento continuo e critico, capace di far incontrare le evoluzioni e le risorse con l’uomo. La questione educativa, quindi, si gioca in una corretta vigilanza e responsabilità, cioè la consapevolezza e la partecipazione attiva ai mutamenti e alle trasformazioni che l’era digitale propone.
3.1 Genesi e sviluppo dell’e-learning Un significativo passo in avanti del sapere pedagogico è dato dall’ingresso delle nuove tecnologie, le quali hanno originato e creato possibilità didattiche ed educative che fino a non molto tempo fa erano inimmaginabili. L’avvento dell’informatizzazione su larga scala ha prodotto una vera e propria rivoluzione, tanto da modificare i normali assetti educativi, basti pensare all’e-leaning.
49. Freeman, J. (2010). La tirannia dell’email. Torino: Codice, p. 173
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Da un punto di vista squisitamente storico, metodologico e prospettico è possibile far risalire il termine e-learning agli scritti epistolari di S. Paolo. Secondo questa visione la formazione a distanza (FAD) è presa nella sua accezione più semplice ed elementare, e cioè nella possibilità di istruire un soggetto in apprendimento pur non essendo nello stesso luogo e nello stesso momento. Nel voler indicare, però, una prima modellistica di e-learning, certamente più vicina a quella attuale, si deve risalire a verso la seconda metà del XIX secolo in Svezia ed in Inghilterra dove furono attivati dei corsi a distanza, spesso per corrispondenza, per combattere l’analfabetismo che imperava durante quel periodo. L’innovazione tecnologica del novecento ha fatto il resto, promuovendo il successivo scatto di qualità. Oggi per e-leaning è giusto intendere “un sistema formativo fondato sulla combinazione degli strumenti utilizzati e dei contenuti in forma digitale e servizi legati all’apprendimento stesso. Un siffatto ambiente di apprendimento-insegnamento dà la possibilità di accedere, attraverso la rete Internet o reti Intranet, alle risorse didattiche in modo indipendente dalla loro locazione e compatibilmente agli impegni e ai tempi del discente”50. Di particolare interesse sono le riflessioni espresse da alcuni studiosi del Maise Center sul significato che può assumere il suffisso “e-” di e-learning: cambiamento e scambio di informazioni (exchange of information), oppure della scoperta continua (exploratory learning), non anche l’esprimere se stessi (express themselves) e il piacere di apprendere (exciting learning)51.
50. Guspini M. (2005). a cura di. Learning Center Eda, Roma: Anicia. p. 97 51. Falcinelli, F. (2005). E-Learning. Aspetti pedagogici e didattici, Perugia: Morlacchi
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Secondo Ardizzone la storia della formazione a distanza vera e propria si sviluppa attraverso tre generazioni: – dal 1830 al 1960. Le nuove tecniche di stampa e l’espansione ed il potenziamento del trasporto ferroviario resero possibile la produzione e la distribuzione estensiva di materiale didattico a favore di gruppi di studenti distribuiti su aree geografiche eterogenee; – dagli anni ’60 agli anni ’90. Ingresso della multimedialità; – anni ‘90. “A seguito della integrazione delle nuove tecnologie della comunicazione con la multimedialità e del successo crescente di Internet”52. Oggi è possibile aggiungere un’ulteriore tappa fondamentale a quanto proposto nel 2002 da Ardizzone: la dissoluzione dei vincoli spazio-temporali della formazione per mezzo della tecnologia. “La formazione si inserisce potenzialmente in qualunque spazio di vita dei soggetti, i quali possono adoperare a scopi formativi qualunque strumento a propria disposizione. La formazione viene risucchiata all’interno della galassia dell’iperconsumo mediale che caratterizza ogni momento delle nostre giornate. Non esistono più strumenti specifici dedicati alla formazione; piuttosto, qualunque strumento tecnologico e non tecnologico a disposizione dei soggetti può essere potenzialmente utilizzato come strumento di formazione”53. Paradossalmente la nostra generazione più che essere quella dei “nativi digitali”, appartenente ai nostri figli, è una generazione di “coloni digitali”, dichiara Rivoltella (Rivoltella, 2014). In ogni momento di trasformazione sociale, infatti, esiste una generazione che rappresenta il “punto di non ritorno” della metamorfosi, e questa è senza dubbio la nostra. 52. Ardizzone, P. (2002). Didattica e tecnologie dell’istruzione e dell’apprendimento. Milano: I.S.U. Cattolica. p. 13 53. Eugeni, R. (2014). La sfida educativa nella condizione postmediale. in AA. VV. Educare nell’era digitale. Atti del LII Convegno di Scholè, La scuola: Brescia
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“Siamo al contempo una generazione ultima e una prima; i miscredenti fondatori di una fede” (Flusser, 2004), generazione, quindi, madre delle invenzioni tecnologiche e figlia di una cultura classica. Le implicazioni, dichiara Evelina De Nardis, “hanno riguardato non solo l’affermazioni di nuove modalità di insegnamento- apprendimento, ma anche la modificazione delle strutture conoscitive”54. La metamorfosi conoscitiva appare, quindi, sempre più orientata verso l’utilizzo massiccio delle tecnologie, tale da ipotizzare obiettivi, principi, valori e assiomi del senso pedagogico e didattico.
3.2 Serietà digitale Lo sviluppo informatico e digitale apre sentieri estremamente interessanti e funzionali all’operare dell’uomo ed alla sua educazione. D’altronde il significato più intimo di e-learning si dirige oltre la semplice traduzione letteraria di “insegnamento elettronico”, piuttosto si offre come vera e propria esperienza della quale ancora si cerca di rintracciare i termini del discorso. In particolare, il rischio a cui spesso si va incontro è quello di smarrire la consapevolezza delle frontiere e dei confini che si oltrepassano ogni giorno, le quali causano l’uscita dell’uomo dalla sua naturalità e dialogicità, un disincarnamento ed una dissoluzione del corpo e la conseguente perdita di autenticità e veridicità. Non a caso, sempre più frequentemente si discute riguardo alla “ serietà” delle fonti epistemologiche che è possibile trovare in rete. Si, perché di questo si tratta, del poter accettare il nuovo che avanza anche sotto un profilo ed una valenza scientifica.
54. De Nardis, E. (2011), Dinamiche discorsive e interattive della rete: una riflessione attraverso la metodologia della Grounded Theory, in Rivista Formazione&Insegnamento Culture Formative: una questione di Sviluppo o di trasformazione, 2/2011
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Le questioni che si sollevano sulla possibilità di usare Wikipedia o i vari post sparsi nell’etere come fonte epistemologica attendibile per ricerche e sperimentazioni, spalancano la strada a riflessioni che raramente trovano una loro conclusione definitiva. Siamo, però, nella convinzione di dire che non si tratti di stabilire “quanto” e “quale” strumento tecnologico sia “serio” da un punto di vista culturale, piuttosto, ancora una volta, occorre precisare il “come” viene ad essere utilizzato. Le informazioni che è possibile reperire sono solo dati a-critici e decontestualizzati. Come abbiamo più volte affermato, la conoscenza, così come la cultura, non è un insieme di dati da accumulare in maniera disordinata, bensì un insieme di simboli che l’uomo custodisce in maniera ordinata per farli divenire significati. Ciò può avvenire solo attraverso lo studio, quale espressione che racchiude l’applicazione, la progettualità e la volontà ad imparare. Una “fatica d’amore”, coma amava definirla Rosati, uno sforzo ed un impegno che danno origine al sentimento per la cultura: ci si innamora! Un esempio che è possibile portare a sostegno di quanto espresso è la de-materializzazione del libro e la creazione dell’e-book. Il passaggio da un oggetto concreto, quello cartaceo, a quello appartenente al digitale di per sé non ha sminuito il suo valore scientifico, piuttosto ha dato la possibilità di ridurre costi, velocizzare l’acquisto, facilitare l’apprendimento in situazioni di deficit e rendere possibile il trasporto anche di una biblioteca intera all’interno di equipaggiamenti dal peso esiguo. Questo non significa confrontare quali sia migliore tra un modello o un altro, cartaceo o digitale, piuttosto occorre prendere consapevolezza che le due “prospettive possono coesistere”55. J. Gomez (Gomez, 2006) in merito asserisce che “i libri sono le percussioni, la tv un pianoforte, l’iPad un violino, l’iPhon un sassofono. Combinati tra loro danno origine a una vera e propria sinfonia: l’opera d’arte del futuro”. 55. Rivoltella P. C. (2014). La rivoluzione del libro digitale. Atti del LII Convegno di Scholè, La scuola: Brescia
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La cultura a cui siamo abituati è certamente quella del libro che, secondo ancora il pedagogista trevisano (Rivoltella, 2014), è espressione di: – singolarità, un autore scrive una sola volta per un lettore, – verticalità, in quanto solitamente lo scrittore è legittimamente un esperto di un determinato argomento rispetto al suo lettore; – pensiero lineare e narrativo, considerato il fatto che le operazioni che si effettuano su un libro sono quelle dello sfogliare una pagina dopo l’altra cercando di immagazzinare ciò che lo scrittore vuole riferirci. Nel momento in cui la digitalizzazione del libro subentra a tale modello, anche le caratteristiche si modificano divenendo: – orizzontale, lo scritto è pubblicabile direttamente senza intermediari che avvallano il lavoro; – plurale, cioè di consumo collettivo e di comunicazione e partecipazione attiva, non preclusa a nessuno; – pensiero non lineare, in quanto risponde alla coesistenza piuttosto che alla successione; – mappabile, è possibile lavorare in parallelo su più elementi – favorisce la flessibilità e l’iterazione tra più prospettive. Se da un lato, quindi, ogni percorso educativo richiama la necessità di usufruire di strumenti e tecniche per rendersi efficace ed efficiente, dall’altro non può prescindere da una continua trasformazione, la quale richiama l’acquisizione non solo di nuove conoscenze e competenze, ma di una vera e propria forma mentis in grado di tradurre in simboli che la tecnologia decifra in significati. Malgrado, allora, non si debba demonizzare la tecnologia, utilizzando la quale sarà possibile al contrario arricchire ed ottimizzare l’attività didattica, occorre sempre evitare l’enfasi, come induce a fare il clima culturale che viviamo. Troppo spesso, infatti, si ritiene
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che essa possa e debba risolvere tutti i problemi dell’umanità, senza “fatica”. La tecnologia, insomma, non minaccia l’educazione, anzi al contrario supporta e sostiene il lavoro quotidiano, senza sostituirlo in tutte le sue componenti fondamentali.
3.3 Rivoluzione 2.0 Lasciata alle spalle la diatriba che opponeva il modello digitale a quello classico, in favore di una proficua interconnessione tra un nuovo che avanza ed una tradizione che rimane secondo quel concetto di “meticciato” offerto da Rivoltella (Rivoltella, 2014), l’era della tecnologia ha aperto orizzonti di ricerca e di riflessione che si espandono continuamente. L’evoluzione sociale dei nuovi media “trasforma la vita delle nuove generazioni. Possiamo definire i ragazzi che vivono quest’epoca “Generazione Digitale” perché il web 2.0 condiziona il loro quotidiano e, conseguentemente, modifica la loro percezione del mondo e i loro profili cognitivi. Oggi, per esempio, i ragazzi imparano più facilmente attraverso le esperienze dirette piuttosto che attraverso l’ascolto. Internet offre molte risorse”56. Lo stesso pedagogista continua la sua riflessione asserendo che “l’attuale scenario socioculturale nel quale viene progettato l’uso didattico delle tecnologie informatiche è fortemente caratterizzato dal web 2.0. Questo termine, introdotto da Tim O’ Reilly (2005) delinea le potenzialità dell’attuale struttura di internet che consente ai cybernauti di interagire e condividere contenuti digitalizzati con estrema semplicità e rapidità”57. Per quanto concerne l’applicabilità e la funzionalità del mezzo tecnologico nell’agire educativo, molti studiosi prospettano addirittura un web 3.0, intendendo con questo un superamento della riflessione di O’ Reilly soprattutto in quello che concerne gli strumenti e gli ambienti utilizzati e la gestione della conoscenza. 56. Cassano, A. (2011). Il Web per capire il Web: possibili percorsi per l’educazione critica delle generazioni “Digitali”, in Rivista Formazione&Insegnamento Culture Formative: una questione di Sviluppo o di trasformazione, 2/2011 57. Ibidem
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Purtroppo, però, come una sorta di legge di contrappasso, se le giovani generazioni vivono sempre più in contatto con il web dove possono trovare ogni sorta di soddisfacimento dei loro bisogni, dobbiamo sottolineare casi estremi, ma non del tutto isolati, come quelli espressi nel fenomeno dei soggetti Hikikomori58. Il dialogo, la distanza materiale tra mittente e ricevente, le didattiche flessibili, le innovazioni telematiche e la velocità attraverso cui è possibile scambiarsi informazioni, sono esperienza quotidiana e condizioni che ormai viviamo continuamente quasi nella normalità o, per lo meno, nell’’incoscienza. In questo modo, l’agevolazione di scambio contenutistico sfocia in modelli come il Modnotate, il quale richiama il continuo incremento del sapere su di un dato argomento attraverso la proposta da parte di ogni lettore, o il Valobox, che tende a mettere in contatto chi cerca un’informazione con i testi che trattano quell’argomento, permettendone l’acquisto e l’uso pressoché immediato. Tale evoluzione tecnologica se da un lato ha dato la possibilità di uno sviluppo di spazi per l’esercizio delle intelligenze collettive, come richiamava Lévy nel 2008, dall’altro lato agevola i processi connessi alla produzione dei significati dei simboli culturali. Infatti, il social readind è un elemento caratterizzante delle nuove generazioni di lettura in quanto tende a porre in relazione simultaneamente più utenti che stanno leggendo un testo, offrendo la possibilità di scambiarsi impressioni o idee.
3.4 L’e-Teacher Lo scenario che si apre utilizzando la lente tecnologica, offre alle scienze umane e dell’educazione indagini interessanti e complesse.
58. Il soggetto Hikikomori “vive rinchiuso in casa, senza alcun contatto con l’esterno, né con gli amici. Lascia raramente la sua abitazione, consuma persino i pasti all’interno della propria stanza”. Fonte: www.psicopedagogie.it/
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Anzitutto si sente la necessita di una profonda alfabetizzazione tecnologica, cioè “una educazione che ci insegni a navigare nel mondo dell’informazione per individuare, selezionare, elaborare e personalizzare ciò che ci interessa, che ci insegni a non confondere l’informazione con la comprensione”59. Ancora attuali sembrano, allora, le riflessioni proposte da S. Freud, secondo cui è proprio il fatto comprensione che rende l’insegnante uno dei mestieri impossibili, il quale, assieme a quello del genitore, è chiamato a confrontarsi con un costante ed imperituro investimento personale; insomma, come a voler dire che: si è sempre genitori, si è sempre educatori. Questo essere “mestiere impossibile” viene ad essere accentuato nel confronto che ogni educatore instaura con le trasformazioni legate al mondo digitale, soprattutto nell’adottare metodologie, strumenti e tecniche capaci di sostenere ed agevolare lo sviluppo umano. Oggi, però, internet e tutte le forme di comunicazione ad esso associate hanno spostato la pratica educativa dalla classe, tradizionalmente intesa, alla rete, generando nuove forme di apprendimento ed un ripensamento della figura dell’insegnante. Ogni insegnate è sempre più chiamato in causa nella decisione di quali catalizzatori informatici utilizzare nella pratica didattica, tanto da poter intravvedere una nuova figura nel panorama educativo: l’e-teacher. L’insegnante si delinea come un “esperto”, in grado sia di adottare tecniche attive di condivisione e cooperazione nella costruzione del sapere, sia di scegliere con quali infrastrutture digitali interagire. In questo senso Alida Favaretto delinea l’e-teacher come un soggetto che possiede determinate caratteristiche e competenze, quali: – “Competenze tecniche: utilizzo del computer, degli strumenti della Rete e dei softwares didattici; tali competenze verranno integrate da nuove figure di docenti; 59. Ghislandi P. (1999). Oltre il multimedia, Milano: FrancoAngeli
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– Competenze pedagogiche e didattiche nuove, legate all’uso nella didattica ed al ruolo educativo; – Competenze relazionali interpersonali: ossia cosa avviene fra i discenti che collaborano, tra alunni e docente, tra i digital natives e le tecnologie, tra docente e tecnologie; – Competenze interdisciplinari, interprogettuali: gli insegnanti potranno proporre, con l’uso delle Nuove Tecnologie, percorsi trasversali a diverse materie; – Competenze collaborative: tra colleghi, con i discenti, peer to peer; – Competenze organizzative: saper organizzare situazioni di lavoro didattico nuovo e processi che, grazie alle nuove tecnologie, puntano a prodotti. Nell’ambiente di apprendimento si sono sviluppate pratiche didattiche alternative che è possibile riassumere in questi termini: – Il teaching about: insegnare la tecnologia, fornendo competenze tecniche, ma, soprattutto, educando ad un suo uso consapevole; – Il teaching with: insegnare con la tecnologia, è stato utilizzato per il fronte motivazionale, e per quanto concerne l’aumento dell’efficacia (raggiungimento del risultato) e dell’efficienza (rapporto-risultato/energie investite) dell’insegnamento; – Teaching in – insegnare nella Tecnologia: ha svolto la parte del leone dato che insegnare direttamente ‘dentro’ alla tecnologia ha riscosso maggior successo tra gli insegnanti che hanno visto svilupparsi il loro prodotto didattico, mano a mano che procedevano le lezioni” 60. 60. Favaretto, A. (2011). Insegnare nella società della conoscenza. eTeacher e Global Learning, in European Journal of Research on Education and Teaching, Anno IX, n° 2
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L’e-Teacher diviene, così, un professionista della formazione in determinati ambienti e contesti, in questo caso tutto ciò che riguarda l’educazione multimediale. Il luogo entro cui solitamente opera l’e-teacher è la classe virtuale, concepita come luogo non fisico e struttura telematica dove trovano spazio sia variabili rintracciabili in ogni processo educativo, sia quelle tipiche di una relazione on-line. Tutti principi legati ad una didattica on-line e sviluppate in seno alle tecnologie 2.0, si arricchiscono e rinforzano con i fattori motivazionali che Chen61 descrive secondo questi punti: a) b) c) d) e)
la necessità di apprendimento con le Nuove Tecnologie; il bisogno di acquisire nuove conoscenze; la richiesta di processi di apprendimento interattivi; nuove metodologie per le attività didattiche; l’integrazione della realtà con i contenuti didattici.
Compito dell’e-Teacher diviene, quindi, quello di cercare un punto di contatto con i discenti, i quali sono dei digital natives nell’utilizzare le metodologie più adatte ai loro stili di apprendimento. Spesso, infatti, sono i discenti che “insegnano” al docente, creando un atmosfera di complicità e cooptazione senza pari. I docenti “diventano facilitatori e gli studenti diventato co-docenti, generatori di conoscenza condivisa. La collaborazione che si apre a tutti i componenti del processo formativo ridà spazio ai discenti, consentendo loro di fornire contenuti. Internet, infatti, offre la possibilità di essere contemporaneamente fruitore e costruttore della propria conoscenza. Lo spazio educativo nell’e-learning 2.0 prevede un coinvolgimento attivo dei discenti, i quali nel processo formativo cambiano ruolo, da passivi ad attivi, da allievi a costruttori di conoscenza”62.
61. Philip, D. (2007). The Knowledge Building paradigm: A model of learning for Net Generation students, in Innovate, vol. 3, n. 5 62. Favaretto, A. (2011). Op. cit
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Ogni docente ha un proprio stile d’insegnamento, nella stessa maniera in cui ogni discente ha un proprio stile di apprendimento: negli ambienti virtuali vige lo stesso principio. La figura dell’educatore on-line (e-teacher) non si sottrae a tale assunto, anzi, ne prende parte a pieno titolo, tanto da potare Morcellini a descrivere alcuni approcci d’insegnamento on-line: – “approccio democratico: disciplina e gestione sono sinonimi nel processo di controllo del comportamento degli alunni. L’e-Teacher dovrà assumersi il compito nella fase relazionale della condivisione di un insieme di regole di comportamento nel lavoro collaborativo in aula e in rete; nella fase operativa dovrà avere un calendario quotidiano, e aggiornato, di riferimento per le attività da svolgersi in classe e online in modo asincrono o sincrono; stabilisce i tempi dell’attività, le scadenze, le verifiche (…); – approccio indulgente: l’e-Teacher sa progettare percorsi e task; sa costruire dei contesti significativi; sa concretizzare situazioni in cui quello che si sta creando ha dei contenuti autentici e aiuta la realizzazione di una comunità di pratica in aula e in rete, per condivisione della conoscenza; – approccio ‘libro di cucina’: sostiene conversazioni diadiche, con l’intero gruppo, a piccoli gruppi, poiché padroneggia una raccolta di suggerimenti per tutti i componenti: l’e-Teacher è fornito della borsa dei trucchi del prestigiatore: per ogni occasione ha la giusta ‘ricetta’; – approccio istituzionale: il docente risolve i problemi di gestione confidando nella buona qualità delle lezioni, delle strategie didattiche, dei materiali; – approccio di ‘trasformazione’ del comportamento: l’e-Teacher eroga rinforzi opportuni per stimolare ulteriormente, nella classe reale e virtuale, l’apprendimento;
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– approccio del clima positivo di classe: l’e-Teacher presenta il problema; propone, ad esempio, uno studio di caso; pone delle domande nel Blog”63. Nella stessa maniera in cui è possibile evidenziare e descrivere gli approcci didattici di un e-teacher, è possibile sottilineare anche le differenti modalità educative che è possibile attuare in presenza di una formazione a distanza: – sigle mode: in cui la sola finalità è quella dell’educazione a distanza; – dual mode: sinergia tra corsi a distanza e quelli in presenza; – mixed mode: prospettano entrambe le modalità, lasciando allo studente la scelta rispetto alle proprie esigenze. Sul piano degli usi sociali questi tipi di insegnamento hanno avuto un notevole incremento, prendendo sempre più spazio in ogni proposta educativa, e da cui si generano “tre gli elementi distintivi della circolazione dei contenuti digitali: sarin, tagging, publishing. Quanto allo sarin si tratta della possibilità di pensare al contenuto non come qualcosa di concluso e definito, ma come un elemento che trova nella condivisione il proprio specifico. […] Il tagging è l’azione complementare rispetto allo sarin. In una logica emergente, di indicizzazione dal basso delle risorse, occorre garantire all’utenete la possibilità di marcare e commentare un contenuto rendendolo più facilmente rintracciabile e maggiormente funzionale per gli altri utenti. […] Infine occorre considerare il publishing. La diffusione degli applicativi di authoring e la de mediazione dei processi di comunicazione nel Web facilitano le pratiche di scrittura e pubblicazione”64. 63. Morcellini, M. (2004). La scuola della modernità. Per un manifesto della media education. Milano: Franco Angeli. 64. Rivoltella P. C. (2014). La rivoluzione del libro digitale. Atti del LII Convegno di Scholè, La scuola: Brescia
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Il computer diviene, cosi, “un allievo a cui l’allievo umano insegna programmandolo per lo svolgimento di varie attività”65. Tali mezzi, metodi, approcci, etc. rappresentano “un processo dinamico di apprendimento, di formazione del pensiero, di generazione di nuovi contesti di interazione e di nuovi linguaggi”66. Ciò significa principalmente che il cambiamento imposto dal volere tecnologico mette nella condizione di stabilire un proficuo contatto con ciò che la scienza tecnologica offre all’educazione. Una tecnologia, quindi, che favorisce un’interazione costante tra i fruitori e di promuovere un costante dialogo tra le scienze.
65. Papert, S. A. (1980). Mindstorms. Children, computers and powerful ideas. New York: Basic Book 66. Alessandrini, G. (1991). Formazione e tecnologia nell’impresa, Milano: Mondadori
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Cap. 4 La pedagogia come scienza sperimentale e competenza educativa Simon, Wundt, Edward e Thorndike nel tentare una sistemazione-tassonomia della Pedagogia sperimentale intravedono delle lacune nelle relazioni tra i fattori educativi e l’assenza di piani scientifico-sperimentali su cui formulare solide attività metodologiche e prassiche. Oltre al valore epistemologico della ricerca, tale riflessione rivela l’esigenza di prendere in esame i modelli sperimentali. Acone, definendo la genesi e la valenza scientifica della relazione tra teoria e prassi, dichiara “che nel passaggio dalla teoria alla prassi occorre sostituire il pensiero filosofico con quello delle scienze esatte, il più possibile oggettive, che investigano la natura dell’uomo attraverso tecniche e strumenti, nonché metodi, capaci di fornire informazioni, anche di natura sperimentale, attraverso il paradigma che sinergicamente mette in relazione l’aspetto scientifico, le innovazioni tecnologiche e le più recenti tecniche a disposizione”67. Questo pensiero lo si può scorgere anche nei precedenti lavori di Mialaret, quando denuncia che molte energie “sono dedicate alla storia ed al pensiero pedagogici, ma si è lontani dalla pratica quotidiana che, peraltro, continua a tirare avanti senza risentire più di tanto delle affermazioni e dei consigli dei teorici. Si può affermare che nel settore dell’educazione, teoria e pratica si sono, per lunghi secoli, sviluppate separatamente senza arricchirsi reciprocamente”68.
67. Acone, G. (2001). Fondamenti di pedagogia generate. Salerno: Edisud 68. Mialaret, G. (1976). Le scienze dell’educazione. Tornino: Loescher
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Di certo dalla fine degli anni Settanta le cose non sembrano essersi modificate. Siamo ancora a richiamare l’esigenza di una sinergia tra teoria e prassi, sia nell’indagine conoscitiva - in quanto scienza -, sia nella loro contestualizzazione, al fine di rendere il processo educativo il più efficace ed efficiente possibile. Preme un atteggiamento scientifico, una “vigilanza epistemologica” capace di dare un giusto tratto distintivo alla pedagogia, sia essa teorica che pratica, attraverso una “ragione ontologica” dettata principalmente da una sperimentazione appropriata. Tutto questo “esige dallo studioso dei problemi educativi l’assunzione di quell’atteggiamento non mondano proprio del fenomenologo, per mezzo del quale egli può sia volgersi alle cose stesse dell’educazione, al di là di tutti i pregiudizi e le false convinzioni che anche in questo campo gli procurano la sua personale formazione culturale e la società in cui vive; sia prendere in considerazione intere classi di dati genuini tradizionalmente dimenticati e ingenuamente sottovalutati”69. Per rendere tutto questo possibile, urgono tecniche, metodi, strumenti, etc. volti alla promozione dell’uomo e delle sue più intime potenzialità. Di qui la valorizzazione di quei metodi attivi, i quali si pongono come garanzia di qualità e riferimento nel momento in cui si vogliano programmare e progettare interventi validi ed efficaci. Il nodo problematico diviene, quindi, quello di dotare l’insegnate di tali abilità (tecniche e metodi), per sostenere e aiutare ogni discente nel suo naturale divenire. In questo caso la competenza del docente si evidenzia come “la comprovata capacità di utilizzare conoscenze, abilità e capacità personali, sociali e/o metodologiche, in situazioni di lavoro o di studio e nello sviluppo professionale e personale”70.
69. Ibidem, p. 146 70. Fonte: Raccomandazione del Parlamento Europeo e del Consiglio del 23 aprile 2008
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Proprio secondo quanto espresso all’interno della proposta di Piergiuseppe Ellerani si scorge una tassonomia delle competenze che vengono ad essere classificate in tre macro capacità: “A- interagire socialmente in gruppi eterogenei, comprende la capacità di relazionarsi positivamente con gli altri, cooperare, gestire e risolvere i conflitti; B- agire in modo autonomo comprende la capacità di agire all’interno di un contesto generale, dare forma e condurre progetti personali e di vita, difendere e far valere diritti, interessi, limiti e bisogni; C- utilizzare strumenti in modo interattivo comprende la capacità di utilizzare in modo interattivo linguaggi, simboli, testi, conoscenze e informazioni”71. Di qui, pratiche riflessive e professionalizzati capaci di far emergere il “come fare”, pur sempre senza tralasciare capacità cognitive volte alla scelta e alla risoluzioni dei problemi che mano mano si presentano.
4.1 Per una ricerca attiva Certamente se parliamo di competenze all’interno di un panorama scolastico non possiamo tralasciare un discorso che annoveri capacità metodologiche e tecniche “attive” appartenenti alla ricerca pedagogica. Fare ricerca è una azione faticosa, che richiede massima concentrazione e strumenti innovativi e funzionali al raggiungimento dello scopo che ha dato vita all’intero processo conoscitivo. La classe in questo modo diviene non solo luogo di sperimentazione, ma contesto nel quale si agisce secondo uno spirito cooperativo del fare e del produrre, un vera e propria fucina di ricerca. “La classe come laboratorio diviene quindi, formativa di competenze che consentono agli studenti di agire, negli altri contesti di vita, con un bagaglio minimo, ma sicuro, di possibilità competenti”72. 71. Ellerani, P. (2012). Metodi e tecniche attive per l’insegnamento. Creare contesti per imparare ad apprendere. Roma: Anicia 72. Ellerani, P. (2012). Op. cit. p. 46
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In tali termini la ricerca pedagogica può svilupparsi in due direzioni: 1. nel cercare riflessioni che il pensiero pedagogico produce su se stesso; 2. nell’ideare e promuovere strategie e tecniche d’intervento. Nella sua duplice sfaccettatura e sotto la spinta della sperimentazione, la ricerca assume un’importanza cruciale nella evoluzione della pedagogia stessa. In entrambi i sensi, comunque, la ricerca possiede delle caratteristiche uniformi. “Anzitutto occorre smentire che il processo della ricerca sia lineare, percorra una via che parte dal problema da risolvere, accumula informazioni e giunge, prima o poi, alla soluzione. Ridurre la ricerca a un procedimento unidirezionale e continuo, significa svilirla a bassa tecnica di collage di dati, di notizie e di informazioni raccolte alla rinfusa, senza la luce di ipotesi, e ricucite in modo estrinseco”73. L’indagine comporta tentativi, prove, avanzamenti e improvvisi ritorni indietro o arresti; una continua oscillazione tra la conferma e la smentita delle possibili strade da percorrere per giungere alla soluzione. Ecco, allora, che il ricercatore si fa carico di indagare, “umilmente”, proprio come una vero e proprio “eterno debuttante”, aspetti ed elementi che gli si pongono di fronte per promuovere e proporre nuove soluzioni ai problemi che una ricerca “esperenziata” gli sollecita incessantemente. La pedagogia ha a disposizione, al fine di legittimare la validità e in coerenza con i dettati scientifici della scienza moderna, metodi capaci di dirigere il processo educativo. 73. Becchi, E., Vertecchi, B. (1985). a cura di. Manuale critico della sperimentazione e della ricerca educativa. Milano: FrancoAngeli. p. 29
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Contrariamente a quanto si possa pensare, all’interno della scuola italiana si assiste ad un uso nettamente limitato di metodi attivi, basti porre a mente le problematiche che ha sollevato l’ingresso della LIM nel panorama didattica della scuola. Nella maggior parte dei casi si prediligono azioni che derivano da anni di esperienza, ma che spesso risultano inadeguati o superati, certamente poco propensi ed efficaci nel rispondere in modo pertinente agli stimoli derivanti dall’educazione moderna. Il problema, quindi, sarà quello non solo di enucleare le tipologie di metodo che il panorama pedagogico di ricerca e di prassi offre, ma anche trasformare quest’ultimi in vere e proprie esperienze di vita da parte del discente. I metodi rispondono alla domanda del “come” arrivare ad un determinato traguardo. Di conseguenza, vista la variabilità contestuale, culturale ed individuale, ciò che appare fondamentale è la scelta di quale sia il più adatto per raggiungere un determinato obiettivo. Non potrà, perciò, sussistere un metodo universale, bensì un ventaglio di possibili metodi da dover selezionare e conoscere per scegliere quello più efficiente ed adeguato, proprio come ipotizzato dallo stesso Cartesio. Questa idea finisce per diventare essa stessa un metodo, qualora il procedimento adottato si possa identificare con la strada per la ricerca di quest’ultimo. In tale modo i “metodi attivi” avanzano la loro pretesa di legittimità, soprattutto nel promuovere azioni calibrate alle esigenze individuali. Per Dewey il metodo attivo possiede determinate caratteristiche: – situazione di esperienza continua e motivante – problema come stimolo – rassegna delle informazioni necessarie per la risoluzione del problema – confermare validità delle soluzioni attraverso la prova.
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Il problema o “discorso” sul metodo appare sempre più punto nevralgico nel sistema educativo, in quanto l’apprendimento non può prescindere da metodi che sono, per cosi dire, le strutture teorizzanti, come del resto non possiamo proporre metodi senza un’appropriata attività e partecipazione da parte del discente.
4.2 Sistema di valutazione Nell’aprile del 2008 all’interno dell’articolo 165, ex articolo 149, del Trattato di Maastricht, il Consiglio dell’Unione europea sottolinea la comune necessità di promuovere una “istruzione di qualità” ed uno “sviluppo del massimo livello possibile di conoscenza nelle popolazioni attraverso un ampio accesso all’istruzione e attraverso l’aggiornamento costante”74. Si percepisce ed evince l’esigenza di legittimare i progetti educativi e di ricerca attraverso una promozione della qualità, sia nelle strutture pubbliche, sia in quelle private. All’interno di questa promozione fattore determinate viene ad essere la sperimentazione di attività volte allo sviluppo umano, alla ricerca e alla valutazione come approccio globale e di sistema. Non a caso l’intento del vademecum, non è solo di stampo conoscitivo e classificatorio, ma anche, e soprattutto, di avanzamento ed impulso ad elevare gli standard dello stato di salute della formazione dei paesi membri per mezzo di un riconoscimento globale di indicatori valutativi. Di qui il discorso sulla qualità secondo due prospettive: puramente apprenditiva-scolastica o di ricerca.
74. Consiglio dell’Unione Europea. Versione consolidata del Trattato sull’Unione europea e del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea. Bruxelles, 15 aprile 2008
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È fuori discussione che la valutazione si modifica a seconda dell’ “ordine” e “grado” a cui facciamo riferimento, pur sempre intendendo il fatto che “la valutazione ha per oggetto il processo di apprendimento, il comportamento e il rendimento scolastico complessivo degli alunni. La valutazione concorre, con la sua finalità anche formativa e attraverso l’individuazione delle potenzialità e delle carenze di ciascun alunno, ai processi di autovalutazione degli alunni medesimi,al miglioramento dei livelli di conoscenza e al successo formativo, anche in coerenza con l’obiettivo dell’apprendimento permanente di cui alla «Strategia di Lisbona nel settore dell’istruzione e della formazione», adottata dal Consiglio europeo con raccomandazione del 23 e 24 marzo 2000”75. Il discorso si modifica nel momento in cui si vuole indagare la qualità della formazione e dell’istruzione all’interno del panorama accademico. L’Università, infatti, prevede una qualità elevata, si voglia per sua natura, e diviene gioco forza stabilire criteri, metodi ed indicatori precisi al fine di consegnare al soggetto in apprendimento curriculum capaci di soddisfare le singole esigenze di maturazione. A tal proposito l’Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca (ANVUR), prescrive parametri a cui dover sottostare e che vengono racchiusi all’interno del sistema integrato AVA. Proprio della descrizione del sistema di Autovalutazione, valutazione periodica di accreditamento (AVA) si evince la volontà di fondare la valutazione su tre principi: autonomia, responsabilità e valutazione. Quanto espresso va a braccetto con la qualità della ricerca, la quale vede nel VQR (valutazione della qualità della ricerca) un importante punto di riferimento ed omogeneità. Il progetto VQR possiede l’ambiziosa finalità di assegnare un valore universale ed omogeneo alla ricerca compiuta all’interno delle
75. DECRETO DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA 22 giugno 2009 , n. 122
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Università e degli Enti di ricerca per mezzo di criteri quali: rilevanza, originalità/innovazione, internazionalizzazione76. Da quanto espresso appare evidente l’urgenza di stabilire criteri specifici al fine di adoperare valutazioni che non risultino occasionali o parziali, ma che siano dirette alla promozione di eccellenze di ricerca e di educazione.
4.3 Valutazione e sperimentazione Per molti autori, tra cui Piero Crispiani (Crispiani, 2010), la pedagogia può essere definita come un insieme di saperi che convergono sullo studio dell’educazione umana. Un insieme che a seconda delle locuzioni ed aggettivazione associate al termine pedagogia determinano il senso dell’indagine. In questo compiersi la pedagogia diviene scienza empirico – ermeneutica capace di accreditare il suo aspetto sperimentale; quello spirito scientifico che risiede nell’attitudine a meravigliarsi ed il desiderio di comprendere il significato più proprio degli eventi attraverso il metodo scientifico. Proprio queste caratteristiche determinano la presa in carico di esperienze d’indagine, un azione che “contiene documenti raccolti metodicamente e riportati con sufficiente dettagli e precisione perché si possa, con questi documenti, ricominciare il lavoro dell’autore, verificarlo o trarre delle conclusioni che egli non ha rilevato”77. Non a caso molta letteratura pedagogica novecentesca attesta tale caratterizzazione, pur riscontrando impostazioni a volte molto eterogenee. La pedagogia, così, si veste di una prospettiva “sperimentale” come risposta a nuovi e vecchi problemi che l’agire educativo solleva 76. www.anvur.com 77. Binet, A., Henry, V. (1898), La fatigue intellectuelle. Paris: Shleicher
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quotidianamente. In questo modo la pedagogia viene ad essere trattettegiata come “una macchina di precisione, moderna, fisiologica, attenta ai programmi, ai metodi di insegnamento, alle attitudini dei ragazzi, all’ambiente, alle risorse umane, al ruolo degli insegnanti”78. La pedagogia si apre a nuove conoscenze, che altrimenti resterebbero sepolte o non tenute in considerazione da differenti categorie di senso. Da questa breve introduzione è possibile scorgere l’immediata connessione che l’atto valutativo possiede con la sperimentazione, soprattutto nel momento in cui l’azione pedagogica tende a legittimarsi in base alle sue conclusioni, ai suoi “fatti”, come amava definirli Dewey. Lo stesso Calonghi sostiene che la valutazione è “il confronto tra i risultati raggiunti e gli obiettivi; tra le prestazioni, la condotta e i criteri di confronto”79, insomma tra i “fatti” e la “teoria”. I fatti, però, si trovano inevitabilmente decisi e modificati dalla società: cultura, economia, politiche, etc., tanto che al modificarsi di questi, inevitabilmente si modifica la valutazione, le sue funzioni, le metodologie e gli strumenti di accertamento. Sta proprio qui lo spirito sperimentale della pedagogia, cioè in quella spinta che permette di non arrestare mai la ricerca di un legame tra i fatti e la teoresi. Dunque, sperimentare diviene un obbligo da compiersi attraverso progettualità e impegno, per divenire un vero e proprio modello culturale di riferimento. La valutazione e la sperimentazione si trovano a braccetto nel momento conoscitivo e di analisi, legittimando piani d’intervento mirati ed efficaci. L’atteggiamento sperimentale consiste nell’essere sempre pronti e vigili nel mettere in discussioni il precostituito, se stessi e l’azione, proprio come avanzato da Howard Gardner80 in un suo agile saggio del 2007. 78. Fornaca, R. (1991). Storia della pedagogia. Firenze: La Nuova Italia 79. Calonghi, L. (1977). Sperimentazione nella scuola. Roma: Armando 80. Gardner, H. (2007). Cambiare idea. L’arte e la scienza della persuasione. Milano: Feltrinelli
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La sperimentazione, “è un naturale antidoto alla retorica, all’improvvisazione, alla demagogia, che sono i nemici più decisi di una crescita ordinata e razionale della scuola e della pratica educativa”81. Di qui l’inscindibile rapporto tra la sperimentazione e la valutazione; non sussiste sperimentazione senza la sua accurata fase di analisi e di sintesi, così come non vi è giudizio e creatività senza il suo giusto apporto di ricerca del sapere. La valutazione è uno degli aspetti cruciali e maggiormente sensibili dell’intero percorso educativo, dalle cui soluzioni spesso dipende la qualità didattica. Questo non solo per il fatto che il processo valutativo sia concepito come momento conclusivo del programma, ma anche perché soggetto a continue critiche. Valutare è indispensabile quanto sperimentare, è un azione a cui nessuno può sottrarsi, soprattutto se si vuole avvallare il proprio processo. Proprio per questo la valutazione “è reperibile in un’attenta considerazione dei significati che può esprimere, nelle funzioni che essa può e deve svolgere nell’ambito formativo, nell’identificazione delle corrette procedure, nella formazione di idonee ed efficienti metodologie di lavoro”82. Tale prospettiva, ripresa da Reuchlin nella “funzione pedagogica della valutazione”83, non verrà più abbandonata. Certo è che, però, “una corretta valutazione punta a valorizzare l’iter che porta al raggiungimento degli obiettivi, privilegia le acquisizioni raggiunte, si fonda sugli obiettivi conseguiti; non abbandona al loro destino i meno preparati, ma intende individuare le cause dell’insufficienza e studiare le relative terapie. È ispirata a criteri di equivalenza, apprezza le diversità per creare le condizioni formative per tutti e per ciascuno; è, insomma, orientativa, in quanto sa valorizzare le qualità personali inserendole direttamente nel processo 81. Mencarelli, M. (1968). La sperimentazione nella ricerca pedagogica e nell’attività scolastica. Brescia: La Scuola 82. Santelli Beccegato, L., Varisco, B. M. (2000). Docimologia. Per una cultura della valutazione, Milano: Guerini Studio. p. 11 83. Reuchlin, M. (1974). Problemi di valutazione, in Debesse, M., Mialaret, G., Trattato delle scienze pedagogiche. Roma: Armando
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educativo scolastico. In sostanza occorre far leva non solamente sul discente com’è, né tantomeno come vorremmo che fosse, ma sul processo educativo della persona nella sua interezza e sui ritmi del suo processo educativo”84. Occorre, quindi, una mentalità predisposta all’oggettivazione del dato, così come si esige una obiettività del processo al fine di garantire un successo educativo duraturo. Ecco, dunque, che ogni valutazione e sperimentazione è ben accolta al fine di offrire una soggettività di sintesi ed una oggettività di analisi. Una “razionalizzazione metodologica” ed una “personalizzazione educativa” che trasposta il discorso di una valutazione per conoscere, ad una per educare Una “forma di intelligenza pedagogica” che il Bruner ci dona come “illuminazione dell’azione” pedagogico-valutativa, la quale “comporta un lavoro preliminare volto alla conoscenza dell’alunno, delle sue motivazioni, delle necessità come anche delle potenzialità di cui dispone, perché attraverso l’atto educativo, esse possano essere esaltate e liberate. Ma comporta altresì la conoscenza di ciò che si vuole insegnare, cioè dei contenuti di cultura con i quali il soggetto conoscente si esercita e si confronta per appropriarsene mediante apprendimenti significativi, non soltanto mnemonici”85.
4.4 La scienza docimologica Nel momento in cui alla valutazione viene richiesta un’analisi oggettiva dei dati, non può prescindere dal discorso docimologico. Considerata fin dai suoi primi tentativi come la scienza degli esami, la docimologia86 si sviluppa proprio come garanzia e controllo del percorso formativo. 84. Rosati, L. (1999). Lezioni di didattica. Roma: Anicia 85. Ibidem, p. 130 86. Per docimologia si intende “la scienza che ha per oggetto lo studio sistematico degli esami, in particolare dei sistemi di votazione e del comportamento degli esaminatori”
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La necessita di un piano valutativo puramente scientifico ha portato Pieron87, in Francia a cavallo tra gli anni ‘20 e gli anni ‘30, ad uno studio sistematico degli esami, constatando la precaria assegnazione dei voti. Oltre all’apporto del pedagogista francese, numerosi sono stati i contributi su tale tema, basti ripercorrere la storia della pedagogia sperimentale, tutti con il fine di offrire al discorso pedagogico una base solida e scientificamente valida su cui fondare il proprio teorizzare e la propria prassi. Esiste però una diversità di vedute su ciò che è stato appena affermato. Se nelle scienze naturali (o scienze forti) l’oggettività è perseguibile e quasi accertabile in quanto legittimata dalla riproducibilità dell’evento o dall’osservazione sistematica e diretta, nelle scienze dello spirito (o scienze deboli) la veridicità, validità e fedeltà di una “misurazione” è acquisita tramite una scientificità di metodo. Di qui il paradosso che Lydia Tornatore descrive in questi termini: “da un lato la ricerca sperimentale, avvertita come insufficiente e problematica quando ad essa si guardi come a un germe di novità che dovrebbe trasformare l’intero percorso pedagogico; dall’altro lato la rivendicazione di modi di far teoria che si collochino al di fuori della ricerca scientifica”88. Una querelle, quella offerta dalla Tornatore, che alimenta il continuo bisogno di ricercare nuove forme di controllo che diano una sempre maggiore obiettività nel proporre tesi finali in cui si possa affermare che il giudizio sintetico elaborato a-posteriori sia univoco ed incontestabile. 87. Pieron, H. (1963). Examens et docimologie, Paris: Presses Universitaires de France. Da questo lavoro emerse che circa il 20% delle votazioni avveniva in maniera del tutto casuale e che ciò che si indagava non era la maturazione e lo sviluppo del soggetto, piuttosto la sua predisposizione sociale alla vita scolastica, lasciando in disparte le sue difficoltà, spesso di natura economica. 88. Tornatore, L. Sperimentalismo educativo e conoscenza scientifica. in Becchi, E. e Vertecchi, B. (1985). Manuale critico della sperimentazione e della ricerca educativa. Milano: FrancoAngeli
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In questo quadro di insieme la valutazione entra non solo a far parte del discorso pedagogico, ma si presenta come timone per evitare, usando parole di Tafuri G., “secche insidiose” che si creano nel ritenere, all’interno delle scienze umane e dell’educazione, l’analisi quantitativa immune da errori nel suo procedere analitico e scientifico. Per questo la ricerca di elaborazioni teoriche e tecniche di rilevazione non potrà mai avere fine, anzi ogni giorno avanza proposte da corroborare, secondo il modello popperiano, al fine di garantire percorsi sempre più efficaci e efficienti. Come si evince dalle riflessioni di De Augustinis, occorre una sempre maggiore obiettività della valutazione, la quale ha nella oggettività dei processi scientifici e nell’affidabilità dei discorsi i suoi punti di forza.
4.5 La valutazione oggi All’interno del sistema formativo nazionale il nuovo regolamento sulla valutazione degli istituti scolastici, definito nel marzo 201389, decreta una riorganizzazione generale dell’intera esperienza valutativa. In alcuni passi del regolamento vengono messe in luce tre linee operative su cui erigere il processo di valutazione: autovalutazione come obiettivo finale dell’azione valutativa e delle istituzioni scolastiche, azioni di miglioramento generale del sistema e la rendicontazione sociale. All’interno del DPR, soprattutto in un ottica di sviluppo, rientrano la valutazione “esterna della scuola”, la “valutazione della dirigenza scolastica” ed un’attenta e scrupolosa “rilevazione nazionale sugli apprendimenti degli studenti e partecipazione alle indagini internazionali” ed una valutazione di sistema”. L’ente che promuoverà tali disposizioni è l’INVALSI (istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione), il quale, oltre ad operazioni di incoraggiamento e 89. DPR, Regolamento sul sistema nazionale di valutazione in material di istruzione, e formazione, 23 Marzo 2013, n. 80
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legittimità operativa, possiede funzioni di coordinamento e di creazione di protocolli e nuclei di valutazione. Si tratta, quindi, non tanto di analizzare quali siano queste direttive, ma di quali effetti si possano avere all’interno di un sistema scolastico sempre più messo a dura prova, in particolare per quanto concerne gli aspetti burocratici ed amministrativi. Infatti, secondo Luppi, “con questa nuova regolamentazione normativa si passa dal campo delle esperienze professionali liberamente scelte a quello dei doveri amministrativi obbligatori e legittimante oggetto di verifiche esterne”90. Deve essere aggiunto, comunque, che “non si tratta di una novità di poco conto per il sistema scolastico del nostro paese: emerge la richiesta di un impegno centrato sull’assunzione sistematica di responsabilità realmente fattive ed efficaci da parte delle istituzioni scolastiche”91. Da quanto espresso emerge, se possibile ancora più forte, la relazione tra valutazione e pedagogia. Ogni proposta di rinnovamento prevede due prospettive: la prima tende verso una obiettività che ha come fine ultimo la non criticabilità dell’intervento, mentre la seconda si dirige alla ricerca di una oggettivazione dei risultati per mezzo di analisi statistiche-docimologiche. Se la valutazione, infatti, si denota come carattere descrittivo-analitico, essa si espone a critiche feroci riguardanti la sua oggettivazione; così come un fondamento prescrittivo comporta notevoli lacune rintracciabili nella prospettiva di giudizio a-priori in quanto aeriforme. È doveroso, allora, tenere presente che il tutto di natura olistico-educativa della pansofica visione, non è riconducibile a formule matematiche prestampate, piuttosto la ricerca di una impostazione che segua il continuo divenire dell’oggetto valutato, e cioè dell’uomo, così come del contesto culturale, politico, economico, etc, entro in cui opera. 90. Luppi, A. Valutazione, efficacia e trasparenza nella scuola. In AA.VV. (2014). Ricerche pedagogiche. Rivista trimestrale, gennaio-marzo n. 190 91. Ivi
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Cap. 5 Pedagogia e scienze sociali
Il 2008, su volontà del Consiglio d’Europa, è stato definito come “Anno europeo del dialogo interculturale”92. Questa scelta è mirata a consolidare ciò che si registra ormai quotidianamente e cioè la relazione e la coesione tra diverse culture. Basterebbe questa breve indicazione europea a stabilire norme e principi su cui erigere il nostro futuro e confermare appieno il valore universale della persona e i suoi diritti e doveri come “cittadino del mondo”. Purtroppo però siamo costretti a sviluppare una riflessione più ampia, tale da offrire significato ai termini del discorso, proprio a partire dal rapporto che la pedagogia istaura con la dimensione antropologico culturale. Gli antropologi, tra cui è doveroso ricordare Arnold Gehlen, hanno stabilito che l’essere umano ha la più “lunga infanzia” rispetto a tutti gli animali cosi detti “superiori”. Secondo l’antropologo tedesco, proprio l’assenza di istinti e schemi culturali precostituiti rende l’uomo capace di produrre “cultura” nella sua evoluzione e divenire. Se inizialmente, quindi, la lunga gestazione ed una marcata fase infantile rappresentano un limite, tanto da portare Pietro Trabucchi (Trabucchi, 2003) a definire il bambino come “imbranato cosmico”
92. “A seguito degli ampliamenti successivi dell’Unione europea (UE) e dell’accresciuta mobilità dei cittadini, il contributo dei paesi dell’UE allo sviluppo delle culture è diventato essenziale. In questo spirito, l’UE si doterà di strumenti di sensibilizzazione e di promozione del settore culturale per favorire una gestione civica della nostra diversità culturali”. Fonte: www.europa.eu
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in quanto dipendente dall’adulto in tutto e per tutto, successivamente permette uno sviluppo che non ha paragone. Infatti, seppur fornito di eccezionali capacita cerebrali e una elevata attività neurale, il neonato è “privo di dispositivi in atto che soltanto l’educazione gli può fornire”93. In quanto prodotto di cultura, l’educazione umana trova la sua massima espressione nella formazione della personalità e, quindi, nell’approccio pedagogico, creando un sodalizio, tra antropologia e pedagogia, di indiscutibile valore epistemologico e fenomenico. Questo è principalmente dovuto alla natura stessa dei due saperi, i quali se da un lato, l’antropologia, vede i suoi natali nella semantica greca ánthropos, che significa “essere umano”, e può essere definita come la scienza che tenta di descrivere il significato, le modalità e le possibilità di “essere” dell’uomo, dall’altro lato, la pedagogia, caratterizza e scruta quell’essere descrivendone il senso. Entrambi i saperi si generano da una spinta olistica, dove per olismo si intende la presa in carico della globalità dell’oggetto studiato: la persona. In questi termini l’antropologia integra e completa tutto ciò che si conosce sugli esseri umani e sulle loro attività ed espressioni, mentre la pedagogia tratteggia ed analizza quelle stesse manifestazioni al fine di migliorarle e svilupparle attraverso l’atto educativo. Nello stesso modo l’antropologo si pone come obiettivo quello di mettere in discussione il proprio giudizio in vista di una poliformia culturale da esaminare e da descrivere in maniera scientifica e sistematica; mentre il pedagogista ha lo scopo di meditare e riflettere nella molteplicità culturale.
93. Gehlen, A. (1983). L’Uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo. Milano: Feltrinelli
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Questo rende l’antropologia una scienza che si pone all’interno di quelle scienze che investigano sull’uomo ed, in particolare, a cavalcioni tra le scienze sociali e le scienze naturali: alle prime cerca di offrire spiegazioni sulle differenze esistenti tra le comunità umane; alle seconde dona l’idea di una differenziazione biologica umana e del suo comportamento. Una particolare sfaccettatura dell’antropologia è quella che analizza i sistemi culturali, la cui caratteristica la collega direttamente a quel modello pedagogico avente come fulcro proprio la cultura. L’antropologia culturale, comunemente chiamata anche etnologia, è lo “studio dei fattori che determinano le differenze tra i gruppi umani”; ponendo al centro del discorso la cultura, in quanto manifestazione di tali differenze. La cultura, in questo contesto è “l’insieme di idee e comportamenti comuni ad una società che gli esseri umani imparano non volontariamente ma in quanto membri di questa”94, dichiara Andrea Guasparri. Se da un lato, quindi, l’antropologia culturale esamina tutte quelle attività che gli esseri umani svolgono all’interno della società in cui vivono, dall’altro lato la pedagogia si offre quale sedimentazione e caratterizzazione della direzione ed orizzonte di senso. In particolare, ciò che accomuna i due saperi è il termine cultura e la consapevolezza di un essere umano che padroneggia la natura simbolica che lo circonda. Da un punto di vista antropologico, attraverso determinati passaggi, infatti, la cultura produce delle tradizioni culturali95: comportamenti o idee codificate che si tramandano di generazione in generazione restando più o meno invariati nel corso del tempo. Una determinata società seleziona in modo arbitrario una traduzione dei simboli. Di qui il valore che l’educazione assume all’interno di una società, e cioè quello di orientare e indirizzare, nella maniera più funzionale 94. Guasparri, A. (2013). Il primate della moda. L’antropologia della moda come teoria della cultura. Milano: FrancoAngeli 95. Ivi
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ed efficiente possibile, quei modi arbitrari. L’azione che si produce sulla cultura non plasma solo le modalità di compiersi e di esprimersi di una data società, ma crea delle vere e proprie “visioni del mondo”, basti porre a mente il fatto che il termine multiculturalismo è definibile come “l’insieme delle norme e regole, dei costumi e delle abitudini, delle opere e degli artefatti di differenti società che si confrontano in un unico contesto geografico e storico”96. Ogni società elabora risposte particolari su com’è fatto il mondo, non solo da un punto di vista temporale e spaziale (interculturali), ma anche all’interno di una stessa società (intraculturali). Questo è principalmente dovuto al fatto che la cultura è in continuo divenire, prodotto dall’uomo e dalle sue esigenze contestuali, tali da poter offrire un ventaglio traduttivo, il più amplio possibile, ad ogni richiesta di significato o soddisfazioni di bisogni. Come asserisce ancora Andrea Guasparri, “gli esseri umani devono imparare a conformare il proprio comportamento, quindi i propri modi di pensare e i propri modi di sentire, a certi standard elaborati dalle rispettive culture di appartenenza e da esse ritenuti appropriati. Così, lo sviluppo cognitivo di un individuo è contemporaneamente (a) culturale e (b) sociale. Il primo dei due, quello culturale, viene definito processo di inculturazione e riguarda il modo in cui i membri di una società particolare devono confrontarsi con i modi di pensare e sentire appropriati nelle rispettive culture. Il secondo viene definito processo di socializzazione e rigaurda il modo in cui i membri di una società devono risolvere i problemi di organizzazione legati ai propri bisogni materiali armonizzandoli con quelli del gruppo”97. In questi termini la convivenza di due o più culture possiede una duplice prospettiva: la prima è diretta all’identità di gruppo, mentre la seconda è un prerequisito di un’identità individuale. 96. Orazi, R., Pattoia, M., Rosati, A. (2014). Pedagogia relazionale e sicurezza sociale, Napoli: Liguori editore 97. Guasparri, A. (2013). Il primate della moda. L’antropologia della moda come teoria della cultura. Milano: FrancoAngeli
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In questo senso le variabili del problema si possono suddividere in due grandi classi: – sociali, cioè l’economia, territorio, politiche, risorse, etc., – personali, quali il bagaglio culturale soggettivo, le competenze, le esperienze, le emozioni, le aspettative, le relazioni, etc.. Da ciò è facile gioco dimostrare come ogni processo evolutivo, tanto sociale, quanto individuale, deve essere “pensato ed attuato come un itinerario a lungo termine che può raggiungere esiti eterogenei e discontinui nella sua evoluzione costringendo a non dare mai nulla per scontato né acquisito, anzi postulando un’attenzione costante e una lettura profonda di tutte le dimensioni personali implicate e di tutte le istanze sociali chiamate in causa”98.
5.1 Saper comunicare in un linguaggio interculturale Se in modo elementare dovessimo dare una definizione del termine comunicazione diremmo che significa fare un’azione al fine di porre in comune un qualcosa. Il problema diventa, quindi, sia di ordine contenutistico, cioè cosa sia giusto mettere in contatto, sia di rete, che risponde alla domanda di quali strumenti utilizzare per condividere con l’altro tale contenuto. In senso più specifico per comunicazione si intende “lo scambio di messaggi, che avviene tramite un mittente, colui che invia il messaggio e un destinatario, colui che riceve sulla base di un determinato contesto, canale e codice, comune o parzialmente comune al mittente e al ricevente”99. Quanto espresso ha fin da subito una traduzione pedagogica legata al fatto che chi non riesce ad entrare in empatia, cioè in comunicazione, con l’alterità si ritrova rinchiuso nel proprio mondo, ignaro di quello che gli succede intorno e sprovvisto di quel “sentire” che 98. De Angelis, B. (2013). E come educare. Glossario di una professione poliedrica. Roma: Anicia. P. 133 99. Crispiani, P. & Giaconi, C. (2010). Hermes 2010. Glossario pedagogico professionale. San Paolo: edizioni Junior
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rappresenta una categoria sociale indispensabile per una evoluzione armoniosa e corretta. All’interno della comunicazione esistono due o più soggetti che cercano un codice condiviso per poter veicolare un qualcosa in un determinato contesto. Se però i soggetti non trovano o non possiedono il codice o il canale comunicativo ecco, allora, che la comunicazione perde di efficacia e diventa autoreferenziale e solipsistica, allontanando ed isolando i vari membri. Da un punto di vista comunicativo, la stessa interculturalità si delinea come “un approccio sociale, di relazione e di comunicazione, basato sulla convinzione che le diversità presenti in culture differenti dalla nostra possano rappresentare un enorme fonte di arricchimento, ma anche sull’evidenza che il confronto tra due culture non necessariamente debba concludersi con il prevalere dell’una o dell’altra”100. La comunicazione, infatti, non è solo un fatto di linguaggio ed insieme di regole e norme, postula anche l’essere disposti a donarsi ed offrire codici culturali al fine di entrare in contatto con il prossimo. “La frammentazione globale richiede di rispondere – ed elaborare pedagogicamente – il bisogno di riconoscimento come fatto umano costitutivo, ciò che fa esistere realmente agli occhi dell’altro e trovare conferma del proprio valore come essere umano. Ciò significa considerare centrale, per l’educazione, il problema della distanza e della prossimità, opponendosi alla produzione della distanza ed elaborando la costruzione della prossimità, dei legami, delle relazioni”101. L’apprendimento culturale si basa sulla disponibilità da parte del singolo di entrare nell’intima esperienza altrui.
100. Orazi R., Pattoia M., Rosati A. (2013). Op. cit. 101. Santerini, M. (2003). Globalizzazione, educazione, giustizia, in AA. VV. Atti del XLI Convegno di Scholé. Brescia: La Scuola
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La comunicazione dell’Io come identità culturale è la manifestazione di quello che ogni soggetto ha appreso nel corso del tempo in un determinato luogo. In questi termini la pedagogia e l’educazione “possono, attraverso la valorizzazione della creatività e della soggettività, realizzare progetti e percorsi innovativi effettivamente utili all’inserimento e all’integrazione sociale e culturale, conservando l’identità dei soggetti e, parimenti, generando un’idea condivisa di comunità alla cui costruzione ognuno può contribuire attivamente e pienamente, consentendo altresì di agire pedagogicamente anche sulla collettività che accoglie la persona”102. Tutto ciò genera una tendenza che obbliga ogni essere umano ad educarsi al continuo contatto con “anime culturali” diverse dalla propria. Il Saper vivere insieme diviene, così, un imperativo categorico, tanto che la stessa UNESCO sul finire del XX secolo esprime il suo giudizio in questi termini: “occorre imparare a vivere insieme, sviluppando una comprensione degli altri ed un apprezzamento dell’interdipendenza (realizzando progetti comuni e imparando a gestire i conflitti) in uno spirito di rispetto per i valori del pluralismo, della reciproca comprensione e della pace”103. Affondando le radici nella propria cultura ed espandendo i rami verso altre identità culturali la comunicazione diviene rispettosa, attiva, facilitata, pacifica e diremmo curiosa, di certo aperta ad uno scambio creativo. I simboli culturali verranno tradotti per mezzo di una negoziazione tra due o più soggetti, tale da prospettare elementi comuni e condivisi. Queste caratteristiche corrispondono alle sempre più complesse dinamiche dell’intelligenza collettiva, definita tra gli altri da Tom Atlee e Ron Dembo, dove il temine connessione “si tradurrà in un 102. De Angelis, B. (2013). E come educare. Glossario di una professione poliedrica. Roma: Anicia. P. 142 103. Delors, J. (1999). Nell’educazione un tesoro, Roma: Armando editore
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produttivo e costruttivo impulso alla circolazione, il piegarsi, il ripiegarsi e il dispiegarsi in uno spazio di prossimità di senso e di relazioni umane”104. L’intercultura, quindi, tenderà ad esprimersi come un riconoscimento identitario, interpretandolo come fonte di ricchezza e di evoluzione. “[…] alla reciproca conoscenza tra persone di culture diverse e fedi diverse viene assegnato non soltanto un valore fortemente positivo, ma anche l’obiettivo di prefigurare una società futura dove sia possibile vivere i molteplici aspetti della diversità in maniera legittima. Credere nella giustezza di tale progetto significa, da un lato comunicare, agire, stabilire relazioni con persone di origine, credenze, lingua, abitudini differenti dalle nostre, nella convinzione che quei modi siano indice di una diversa cultura, da riconoscere e di cui arricchirsi, piuttosto che segno di insufficienza e svantaggio culturale da compensare, nel migliore dei casi, da rifiutare invece, o da discriminare , nel peggiore. Dall’altro significa situare tale riconoscimento, culturale e politico, nel quadro di quello che riguarda la domanda di giustizia, di diritti, di solidarietà proveniente da immigrati, da minoranze, e dai paesi e dalle popolazioni che abitualmente definiamo come sud del mondo”105. Non a caso l’approccio interculturale “mentre punta a far interagire proficuamente le culture, è chiamato a riconoscere anche una piattaforma condivisa su cui esse possano esprimere le loro differenze contemporaneamente riuscendo a comunicare”106. La formazione di una cittadinanza globale parte necessariamente dal saper comunicare senza imposizioni, ma con la volontà reciproca di trovare un punto di contatto o di contiguità. 104. Lévy, P. (1999). C’è un’intelligenza collettiva nel futuro dell’evoluzione umana, in «Telèma», estate-autunno, 18. 105. Gobbo, F. (2000). Pedagogia interculturale. Il progetto educativo nelle società complesse, Roma: Carocci 106. Mari, G. (2013). Educazione e alterità culturale. Brescia: La Scuola
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5.2 L’oggetto di studio delle pedagogia interculturale Una particolare locuzione della pedagogia ed elemento strutturale della sua percezione ed epistemologia è sicuramente quello di cultura. Tale espressione è richiamata al fine di definire il “patrimonio delle cognizioni e delle esperienze acquisite in uno o più campi del sapere, della vita materiale, sociale e spirituale107”. A livello popolare la cultura è, quindi, l’eredità cognitiva che ognuno di noi acquisisce nel corso della propria esistenza ed esperienza, in quanto specifica i contenuti dell’apprendere e rivela la grande impresa dell’uomo e la sua evoluzione nel corso del tempo. Tutto ciò in ragione di significati che autorizzano la comunicazione, testimoniano il passato, rendono esplicita la tensione ideale e religiosa, abituano all’ordine e al rigore e, infine, rappresentano la produzione dell’uomo impegnato a celebrare la bellezza presente nel mondo e nella realtà. Di qui l’idea di una cultura che assume un ulteriore spessore assiologico e che richiama la persona nella sua più alta espressione critica e creativa, offrendosi come “universo simbolico significante”108. Un insieme di simboli, quindi, che vede nelle forme primigenie di lingua, arte, storia, religione e scienza il suo tratto identificativo e sistematizzazione. Se, infatti, da principio la cultura è posta in modo caotico, grazie all’azione di classificazione delle forme culturali diviene apprezzabile, funzionale ed esperienza dell’uomo per l’uomo. Secondo l’impostazione pedagogica espressa dal Greertz, la cultura è “un modello storicamente di trasmissione di significati incarnati in simboli, un sistema di concezioni ereditate, espresse in forme simboliche, mediante cui gli uomini comunicano, perpetuano e sviluppano la loro conoscenza e i loro atteggiamenti verso la vita”109. 107. Devoto G., Gian Carlo Oli. Devotino Vocabolario della lingua italiana, Le Monnier, p. 359 108. Rosati , L. (1999). Lezioni di didattica, Roma: Anicia 109. La Bella, M. (1973). Cultura istituzionale e strumenti di accountability, Greertz: FrancoAngeli. p.258
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In questo modo segni, costumi, abitudini ed usanze rappresentano l’identità del soggetto che interpreta la realtà che lo circonda, nella convinzione che “coltivare l’idea che la diversità di usanze nello spazio e nel tempo non è solo una questione di vesti e di appartenenza, di scenari e di maschere, vuol dire credenze che l’umanità è tanto varia nella sua assenza quanto lo è nella sua espressione”110. La cultura è insita nell’essere umano in quanto soggetto appartenente ad un società con determinati requisiti e dotato di potenzialità da far esprimere in modo maieutico. Un ulteriore contributo alla cultura vista come valore universale è offerto da Tylor (Tylor, 1871), il quale la definisce come “insieme complesso che include la conoscenza, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, costume e qualsiasi altra capacità e le abitudini acquisite dell’uomo in quanto membro della società”. Proprio la visione tyloriana esplicita un setting dalle sembianze dialogiche dove, indipendentemente dal proprio vissuto e dal proprio retaggio o storia, la persona può esprimere il suo essere e avanzare letture culturali diverse. Il riconoscere e il riconoscersi all’interno di un gruppo sociale, significa identificarsi e distinguersi nelle traduzioni simboliche che un gruppo di soggetti compie in un determinato territorio. La persona, fin dal suo primo vagito, apprende modelli e schemi traduttivi attraverso l’interazione con gli altri e con l’ambiente che lo circonda. In questi termini “la formazione è un processo di oggettivazione di sé nella cultura, è universalizzarsi uscendo dal sé, ma anche un riportare a sé tutta questa produzione dell’uomo, per riviverla, appropriarsene, per operare su di essa una sintesi vitale che diviene la forma del soggetto”111. Il percorso formativo che ognuno compie, altro non è che l’acquisizione di una identità. Una cultura, quindi, che seppur descrivendosi 110. Ibidem, p. 77 111. Cambi, F. (2008). Introduzione alla filosofia dell’educazione, Bari: Laterza. p.137
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come situazionale e collocata, non perde mai la spinta propositiva nel donarsi olisticamente. In questo modo l’idea che si evince della cultura parte da una localizzazione che “non chiude in vincoli e legami stretti con la cosiddetta cultura originaria, ma si esplica nel sentirsi parte dell’umanità, per riconoscersi nei principi, nelle aspirazioni e negli ideali”112. Di qui la capacità e la potenzialità della cultura di generare un cittadino planetario, che, possedendo conoscenza, capacità critica, spirito creativo e esperienza oltrepassa la propria immanenza contestualizzata, anche se ciò non significa perdere l’identificazione e la dignità culturale. Anzi è proprio attraverso la coscienza del nostro essere nel mondo che è possibile “saper riconoscere la diversità e la complementarietà delle ricchezze culturali e delle qualità morali delle comunità umane”113.
5.3 Cittadinanza planetaria Costruire una società plurale, aperta e globale significa principalmente instaurare un rapporto simbiotico con la costruzione di un uomo totale, che risulti capace di superare l’unilateralità delle monodimensioni fruttando la logica dell’inclusione pluralista. Questo atteggiamento nasce dal passaggio da un etnocentrismo, espressione “di una cultura sorda, ad una cultura dell’ascolto e della recettività, dunque, da una cultura della conquista, ad una cultura che, se non dialettica nel confronto con le culture altre, sia perlomeno dialogica, accetti cioè di decentrarsi su un terreno neutrale che non è il proprio, sul quale non è abituata ad accettare di incontrarsi con l’altro”114. Tutto ciò esprime un nuovo, e neppure tanto, modello interpretativo di una realtà in continuo divenire, che, di certo, non permette più di restare imbrigliati in schemi ormai troppo obsoleti per poter leggere la realtà contemporanea. 112. Rosati, L. (1999). Op. cit. 113. Macchietti, S. S. (1992). Identità culturali e intercultura, in Pedagogia interculturale. Problemi e concetti. XXX Convegno di Scholé, pp. 181 114. Nanni, A. (1994). Educare alla convivialità. Bologna: EMI
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Formare in modalità interculturale ogni cittadino significa andare oltre la forma dell’Io presente, per rendere ogni persona universale e cosciente del proprio ruolo sociale. In questo modo non solo viene ad essere riconosciuto il diritto all’identità culturale individuale, ma anche quello alla differenza che si compie nell’incessante cammino del divenire comunitario. Il cittadino planetario, come ama definirlo la Rosati, diviene capace di riconoscere “l’importanza del senso di appartenenza che, però, non chiude in vincoli e legami stretti con la cosiddetta cultura originaria, ma si esplica nel sentirsi parte dell’umanità, per riconoscersi nei principi, nelle aspirazioni e negli ideali”115. In tal modo si legittima un “umanesimo planetario”, il quale rimanda la mente alle riflessioni offerte da Edgar Morin. Il celebre filosofo e sociologo francese caratterizza un uomo che modifica il mondo per essere presente come attore principale ed offrirsi la “possibilità di…”, cioè una vita ricca di valori, esperienze e relazioni con gli altri. Una sorta di desein di origine hegeliana, che richiama la necessità di una partecipazione e presenza attiva nel mondo, di memoria baconiana. L’uomo planetario “sa cogliere la differenza e la vive, non di rado drammaticamente, agendo nel quotidiano con la consapevolezza che la differenza non permette classificazioni gerarchiche, avverte la necessità di sentirsi relativo nel senso che pratica la verità non come un oggetto o come un possesso bensì come una relazione”116. L’intelligenza interculturale si delinea come una vera e propria promozione ed abilità di un cittadino privo di intolleranze, estremismi, pregiudizi e fanatismi, in quanto aperto alle disuguaglianze, all’eterogeneità e alle differenze che contraddistinguono ogni società moderna.
115. Orazi, R., Pattoia, M., Rosati, A. (2014). Op. cit 116. Rossi, B., Fabbri, L. (2007). La costruzione della competenza culturale. Agire educativo e formazione degli insegnanti, Milano: Guerini scientifica
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Il compimento di una prospettiva dialogica e culturalmente connessa, però, prevede una prerogativa fondamentale: la condivisione. La buona volontà di molti soggetti, infatti, si scontra ogni giorno con la sordità di violenze di molti altri. Ci stiamo abituando a quelle che Hannah Arendt definisce come la “banalità del male”117: l’abitudine alla violenza tende ad acutizzare la sua stessa azione, in una escalation di eventi che sempre più difficilmente producono una reazione al miglioramento. Crescita umana e rispetto della persona assicurano una evoluzione che non può essere mistificata da polifemiche visioni e restrizioni, piuttosto dovrebbe orientarsi nel difficile, ma doveroso, cammino di una convivenza civile. Il concetto di convivenza, infatti, mobilita la volontà di un gruppo di persone di coabitare e coesistere compatibilmente all’interno di un dato contesto/ambiente in cui sono riconosciute le individuali modalità espressive. Per giungere ad una concreta forma di comprensione sociale è necessario realizzare le giuste condizioni che autorizzino e facilitino ogni soggetto a instaurare relazioni significative con gli altri. Un incontro che però non deve essere di accettazione forzata o imposta, ma autentica e vera, in quanto esige disponibilità, rispetto ed accettazione del predicato della singolarità umana. In un incontro veramente umano, dichiara Alessandra La Marca, “sono implicate l’affettività e la moralità della persona, la sua intelligenza e il suo cuore, il suo impegno a divenire sempre più persona. La persona che intende farsi protagonista di un tale incontro non è appagata dalla semplice constatazione dei bisogni altrui, non re-agisce impersonalmente bensì pro-agisce in modo consapevole e intenzionale, controllato e creativo consentendo che la sua disponibilità e la sua sollecitudine siano interpellate e che la sua intelligenza e la sua competenza siano suscitate e messe alla prova”118. 117. Arendt, H. (2003). Banalità del male. Milano: Feltrinelli 118. La Marca, A. (2005). Per un’educazione alla convivenza civile attraverso l’amicizia a scuola. XIII Convegno di Scholé. Cinquant’anni di scholé tra memoria e impegno. Brescia: La Scuola
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L’adozione di un simile modello, comporta una modalità di pensiero diverso, che non è più un pensare per…, ma diviene un pensare con.... Nello stesso modo non è ipotizzabile concepire una società come un insieme di individui autonomi ed isolati, ai quali non rimane altra possibilità se non quella di “rubare” e “limitare” la libertà altrui per mantenere in vita la propria, ma è solo attraverso il donare la propria libertà119 che sarà possibile una società fondata nella convivenza civile.
5.4 L’ intercultura ed il pregiudizio All’interno di un discorso che tenti di analizzare gli elementi, i principi, i paradigmi e le condizioni su cui la pedagogia estende il suo contributo, si scorgono concetti che hanno la necessità di essere analizzati in maniera approfondita, in modo tale da non generare equivoci. Di qui la presa in carico di termini come il pregiudizio, la razza ed il razzismo. A livello comune il giudizio è una funzione umana parallela alla conoscenza che si esprime attraverso un’attribuzione quantitativa in comparazione a criteri/indici personali o universali di un dato evento o oggetto. Per Mauro Leang “il giudizio è il risultato di un processo critico di confronto tra i dati osservati e costrutti teorici”120. Il giudizio, quindi, è un atto che associa un pensiero o un dato ad un altro esprimendone il grado di relazione o, per essere maggiormente precisi, di correlazione. Paradossalmente il risultato della comparazione, per sua definizione, avviene in presenza di due variabili: ciò che è conosciuto, i dati o le informazioni, e ciò di cui non si sa niente, la loro interazione. Nel primo caso è una conoscenza universalmente accetta, mentre nel secondo caso è la ricerca di un qualcosa. La possibilità di errore si insinua qualora si cerchi di dare una soggettività nella relazione tra i due termini quantitativi conosciuti, così come esprimere o formare un giudizio non può prescindere dall’elemento soggettivo. Sicuramente, 119. per maggiori approfondimenti sul concetto di libertà si veda: Gatty, J. (2010). Finalità dell’educazione. Educazione e libertà. Roma: Anicia 120. Leang, M. (1989). Enciclopedia pedagogica. Brescia: La Scuola
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come stabilisce Kant, ogni esercizio di pensiero può rappresentare un giudizio in quanto capace di sintesi tra più elementi. Nel momento in cui pensiamo qualcosa, infatti, tendiamo ad associare due o più elementi cercando di dare un “parere” in base a queste corrispondenze. La logica contemporanea, che sostituisce il termine giudizio a quello di proposizione, intende quest’ultimo come il livello di connessione tra due o più variabili, messe in relazione mediante una costante. Quale significato assume il giudizio nel momento in cui lo associo al tema dell’interculturalismo? Ma soprattutto, quale valore nel momento in cui è volontà a-priori, divenendo pre-giudizio? Definito da Gordon Willard Allport (Allport 1954) come “un atteggiamento di rifiuto o di ostilità verso una persona appartenente ad un gruppo, semplicemente in quanto appartenente a quel gruppo, e che pertanto si presuppone in possesso di qualità biasimevoli generalmente attribuite al gruppo medesimo”, a livello evoluzionistico il pregiudizio è uno strumento a disposizione dell’uomo per effettuare una scelta o prende una decisione. Il pre-giudizio è talmente congenito nell’essere umano che può essere paragonato al respirare. Un soggetto, pur non dichiarandosi apertamente xenofobo, esprime continuamente considerazioni razziali e riflette stereotipi della società in cui si trova inserito senza nemmeno accorgersene. A ragione di ciò le ultime scoperte neuroscientifiche hanno dimostrato che quando ci relazioniamo con soggetti diversi dal nostro stereotipo, non possiamo esimerci dall’avere pregiudizi, spesso impliciti ed inconsci. Le ultime scoperte effettuate sul cervello, infatti, hanno dimostrato “che quando interagiamo con le persone di etnie diverse dalla nostra emergono pregiudizi impliciti che non rispecchiano i nostri giudizi espliciti, ossia quello che pensiamo e dichiariamo di credere, e a livello neurale si riscontra un’attivazione maggiore dell’amigdala, regione della corteccia temporale notoriamente coinvolta nell’elaborazione delle emozioni, in particolare della paura” (Mente & Cervello, 2013) Oggi, però, il pregiudizio ha oltrepassato quella soglia di aspetto positivo dell’evoluzione umana che magari ha permesso all’uomo
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neandartaliano di scampare dal pericolo. Questo, è divenuto ordinaria diffidenza ad allontanamento dall’altro. Per costruire una società equa e priva di disparità e discriminazioni occorre disinnescare quello che è possibile indicare come pregiudizio negativo, colmo di effetti dannosi per l’uomo, non solo nella sua quotidiana diffidenza ed allontanamento dalla diversità, ma anche nelle ragioni politiche, normative, economiche, etc.. A quanto pare, il pregiudizio culturale è un elemento connotativo dell’essere umano che è difficilmente, se non impossibile, da eliminare. Infatti, la storia insegna, e non di rado, che l’incontro tra diverse culture è quasi sempre contraddistinto da stati emotivi di paura, tensione, stress sociale, ostilità, scontro e non rispetto. Il pregiudizio, in questo caso razziale, ha caratterizzato notevolmente l’evoluzione di una società, basti pensare alle difficoltà che i modelli multietnici, multiculturali, transculturali e, a volte, interculturali hanno evidenziato nel corso del tempo. Naturalmente il pregiudizio deriva dalla cultura di appartenenza, quindi un surrogato dell’esperienza umana. Non a caso se un soggetto matura in un ambiente con forti inflessioni stereotipe, quest’ultimo è maggiormente esposto a sedimentare discriminazioni nel percepire l’alterità. Affermare che il pregiudizio sia insito nella natura umana, non significa che sia standardizzato e non modificabile. Per la stessa ragione, comunque, i pregiudizi non sono statici ed immutabili, ma, per mezzo dell’intervento educativo, possono essere modificati, in qualche maniera attenuati, al fine di promuovere l’incontro ed il dialogo. “Incoraggiare l’impegno del potere decisionale individuale, stimolare risposte personali creative, valorizzare profili di esperienza, dare gli strumenti per costruire il significato degli eventi e delle condizioni, vuol dire educare per offrire ad ogni persona la possibilità di crescere, emergere, distinguersi per autonomia e originalità”121. 121. Orazi, R., Pattoia, M., Rosati, A. (2014). Op. cit.
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E allora, come ovviare a tale problematica? Proprio qui ci sembra la chiave di volta. La risposta appare tanto scontata quanto veritiera. Si è timorosi del diverso, di ciò che è inusuale ai nostri occhi ed è differente dalle nostre abitudini. Ma se quegli stessi elementi divengono quotidiani, se quelle caratteristiche giornaliere, allora anche il nostro cervello si abituerà. Si è dimostrato che “l’esperienza e la familiarità con individui appartenenti a gruppi diversi dal nostro riducono il pregiudizio. […] Quindi, favorendo maggiori contatti e più intense relazioni tra persone di etnie diverse può essere modificata la risposta dell’amigdala e attenuata la reazione inconscia di paura” (S. Regina, 2012). Di certo non basta solo del tempo per abituarci a qualcosa che convenzionalmente e culturalmente non ci appartiene; sarebbe un processo troppo lungo, così come non è possibile lasciare che questo processo avvenga in maniera del tutto accidentale e risulti il frutto di scontri e violenze. Occorre, invece, investire sull’educazione e sulla funzione sociale che essa può e deve assolvere. Serve dotare l’uomo di strumenti propri per interventi quotidiani, metodi di lavoro attivi, progetti che sviluppino senso critico, di appartenenza e apertura, conoscenze che potenzino l’ascolto e la disponibilità al dialogo e all’empatia, ed, infine, trascendere il senso di nichilismo, solispismo e narcisismo.
5.5 L’intercultura a scuola L’intercultura trae la sua origine dall’esigenza di un apprendimento e di una legittimazione delle diversità culturali presenti nella gran parte delle società moderne. Con il termine intercultura si intende “un progetto di interazione tra le parti. In una logica interculturale i processi di socializzazione non mirano all’integrazione delle diversità. Non si può pensare di rendere integro, di rendere uno ciò che è costitutivamente diverso.
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Ovvero non lo si può fare, ma meglio sarebbe dire: si può tentare di farlo, cancellando, nella sua memoria la sua diversità”122. Nel momento in cui tale eterogeneità entra all’interno delle istituzioni educative, ogni ente è chiamato a soddisfare i bisogni individuali e collettivi attraverso la possibilità di un incontro comunitario. In questo caso la scuola, essendo la principale agenzia formativa, ha l’obbligo di assicurare un’istruzione ed una educazione al contatto costante tra le culture presenti. Attraverso le ultime indicazioni ministeriali123, in particolare a partire da quelle presenti nelle proposte del Ministro Fioroni, il “fare scuola” torna ad assumere un ruolo centrale nel dibattito politico nazionale. Infatti, la scuola viene ad essere descritta come “luogo di incontro e di crescita personale”, per questo crocevia di ogni evoluzione ed elemento paiedicamente imprescindibile. Non a caso la prima sezione delle riforme presenti nel curriculum proposto è intitolata “Cultura, scuola, persona”. Una triplice prospettiva educativa ed un impegno verso quello che è l’essere umano nella sua unicità ed irripetibilità, ma anche la salvaguardia di valori e forme culturali attraverso una “scuola su misura”124, di claparèdiana memoria. Considerati i numerosi apporti epistemologici che i tre termini hanno suscitato e provocato all’interno della letteratura pedagogica, assicurano il passaggio degli elementi fondativi di una società da una generazione ad un’altra, tale da modificare schemi non più socialmente utili immettendone dei nuovi. La scuola è fucina e cuore pulsante dell’educazione, “laboratorio” dove avviene il riconoscimento ed il soddisfacimento dei bisogni culturali della persona, intendendo con questo termine lo sviluppo del potenziale umano. 122. Bosi, A. (1998). La corte dei miracoli. Parma: Battei 123. Ministero della pubblica istruzione (2007). Indicazione per il curricolo per la scuola dell’infanzia e per il primo ciclo d’istruzione. Roma 124. Claparéde, E. (1921). La scuola su misura. Firenze: La Nuova Italia
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Ogni soggetto, infatti, “è prima di tutto una persona, con un pensiero e con delle caratteristiche proprie, che lo differenziano dagli altri e lo rendono unico.”125 Tutto ciò si dirige verso la possibilità “a far crescere una nuova e diffusa apertura a conoscere gli altri, a tollerare le differenze (fintantoché non ledono i diritti della persona), a rispettare tali differenze, ad accettare il fatto che le stesse ci possono arricchire, quando si sia disposti a mettere in discussione i propri modelli, a rivedere i propri assunti.”126 Di qui, una vera e propria esigenza sociale, basti porre a mente che la popolazione straniera è passata dal 1,3 milioni del 2002 a 4,4 milioni nel 2013127. Il fenomeno, dunque, “non è più, come si poteva pensare fino a due decenni fa, transitorio e sporadico, ma permanente, oltre che nei flussi, anche nella stabilizzazione dei migranti. Infatti, i lavoratori stagionali diminuiscono, il turn over degli immigrati nel mercato del lavoro decresce, mentre aumentano gli immigrati da tempo residenti”128. Questo perché all’interno della stessa Europa è possibile scorgere una eterogeneità di lingue, religioni, tradizioni, usi e costumi, insomma differenti tipologie di cultura. Manca però quel modello culturale europeo a cui ogni cittadino può rifarsi nel momento in cui vuole riconoscersi nell’altro e questo è compito delle istituzioni educative, in primis della scuola. Una cultura, insomma, che funga da principio unificatore e faro orientativo per le giovani generazioni, dismettendo archetipi che prevedevano il mantenimento forzato della propria identità culturale, senza margini di conciliazione con le altre culture e, soprattutto,
125. Morgagni, E., Russo, F. (1997). Sociologia dell’educazione. Bologna: Cooperativa Libraria. p.23-24. 126. Balboni, P. (2007). La comunicazione interculturale. Venezia: Marsilio. p.78 127. Fonte: ISTAT 128. Zincone G., op. cit. pag. 157
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l’origine di quella sovra cultura che dovrebbe offrire l’Europa nella sua totalità. Ovvio che serve tempo per realizzare uno stato ed una architettura scolastica in grado di unificare differenti gradi, ordini e modalità culturali, ma per il momento stentiamo a riconoscere volontà in questo senso. Il filosofo M. Buber sintetizza il problema della diversità in questi termini: “è infatti la diversità degli uomini, la differenziazione delle loro qualità, delle loro tendenze che costituisce la grande risorsa del genere umano. […] In ognuno c’è qualcosa di prezioso che non c’è in nessun altro”129. Lo stesso Buber continua asserendo che “la valenza pedagogica dell’integrazione è sorgente di riconoscimento umanitario della persona e testimonianza valoriale del rapporto con sé e con l’alterità”130. D’altronde integrazione, indica un’azione volta a rendere intero ciò che per il momento appare frammentato e sperato. In effetti, una società nella “quale coloro che la compongono sono suddivisi, in maniera implicita o esplicita, in categorie sociali che si distinguono nettamente per le reali opportunità di cui si può fruire allo scopo di emanciparci e realizzarsi, certo non può definirsi intera, ma solo costellazione di mondi che possono toccarsi senza mai fondersi”131. Ecco, allora, una accoglienza del “diverso” ed una legittimazione delle diversità in una prospettiva interculturale, di integrazione e di inclusione. Si fa intercultura, dichiara P. Dusi, “ nel momento in cui accetta la sfida della multiculturalità, della diversità e rimette in discussione il proprio sistema di significati, prestando attenzione alle suggestione e ai segnali del tempo presente”132. 129. Burber, M. (1990). Il cammino dell’Uomo. Torino: Qiqajon. pag.28-29 130. Mancini, R. (2012). Segmenti sulla Pedagogia della cultura, Perugia: Margiacchi – Galeno, p. 29 131. De Angelis, B. (2013). E come educare. Glossario di una professione poliedrica. Roma: Anicia. P. 133 132. Dusi, P. (2000). Flussi migratori e problematiche di vita sociale. Verso una pedagogia dell’intercultura, Milano: Vita e Pensiero. p.205
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