Segmenti sulla Pedagogia della cultura di Riccardo Mancini
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Introduzione
1. Fondamenti di pedagogia sociale e della cultura 1.1 Cultura ed educazione 1.2 Paideia e società educante 1.3 Per una nuova paideia 1.4 I bisogni dell’anima e il loro sviluppo 1.5 L’educ-azione: medicina dell’anima
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2. L’integrazione: uno sguardo d’insieme 2.1 La complessità interculturale 2.2 Integrazione tra globalismo e glocalismo 2.3 La fine del multiculturalismo 2.4 Fraintendimenti diffusi 2.5 Conseguenze e soluzioni 2.6 Intercultura vs interculture 2.7 Pedagogia interculturale 2.8 Intercultura e integrazione
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3. L’apprendimento consapevole 3.1 I concetti e la mente 3.2 Il problema della coscienza e dell’anima 3.3 Categorie e metacategorie cerebrali 3.4 Creatività e cervello 3.5 Creatività: perfezione del cervello
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4. Nuove frontiere di ricerca: Centocinquant’anni di storia 4.1 I neet 4.2 Intelligenza: teorie e modelli 4.3 Natura o formazione culturale 4.4 L’intelligenza tra identità e diversità 4.5 Intelligenze multiple: onori e carenze 4.6 Quali prospettive?
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5. Il big bang delle neuroscienze 5.1 Uno scrigno segreto: il cervello “pilota automatico” 5.2 Biologia del cervello 5.3 Le eccezioni dell’amore 5.4 L’amore che nutre l’anima 5.5 I correlati dell’amore 5.6 Il progetto educativo e la relazione interpersonale 5.7 Neuroscienze, cultura e futuro
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Bibliografia
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Introduzione Gli interventi che danno una articolazione al discorso, sviluppato nelle pagine che seguono, sono riflessioni sui grandi temi della pedagogia contemporanea che Riccardo Mancini ha trattato con gli studenti dei corsi di Psicologia. Non c’è bisogno di recuperare un filo logico che comunque sottende ogni argomento, perché esso è nella filosofia che l’Autore privilegia, una filosofia che ha forti componenti interdisciplinari che si legano, in senso lato, alle scienze dell’educazione, a cominciare naturalmente dalla psicologia. Così tutti i riferimenti ai bisogni e alle necessità dell’uomo che la pedagogia, peraltro, ha l’obbligo di rappresentarsi e di orientare a soluzione, potrebbero interessare discipline affini, dalla sperimentale alla pedagogia sociale, dalla psicoanalisi alle neuroscienze là dove l’argomentare affronta i capitoli della mente e dell’anima. Va da sé che i discorsi sull’apprendimento hanno una chiara matrice psicologica, mentre quelli che riguardano la natura profonda dell’uomo riconducono ad una lettura filosofica che qui è richiamata con citazioni e riferimenti sempre puntuali. Difatti, la ricchezza del discorso è legata alle fonti bibliografiche che autorizzano ad approfondire le questioni, spesso comunque di natura multidisciplinare e interdisciplinare. Ma non c’è argomento che sfugge all’analisi pedagogica a cominciare dalla frammentazione determinata dall’intercultura e dalla pedagogia interculturale che guarda oltre la formazione scolastica per affrontare un’educazione destinata a durare oltre la scuola, per tutta la vita, cioè l’educazione permanente. Anche i richiami storici alla sperimentazione appaiono ben ordinati, con la sottolineatura delle aperture alle psicologie, non soltanto a quella generale, e soprattutto agli studi che, per la comprensione e la vastità, chiameremo senz’altro pedagogici, che chiariscono i significati di espressioni ormai di lessico comune come lo sono l’intelligenza e la creatività. Ma c’è un altro non secondario aspetto del problema che emerge alla disamina dei contributi offerti da Mancini. E’ la filosofia che, pur dichiarata, rinvia alla cultura, anzi più propriamente ad una teoria della cultura che nel novero dei programmi di Blankertz ha un suo specifico ed 4
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una incidenza notevole nella pedagogia e nella didattica, così che si possa parlare di una “pedagogia della cultura”, elaborata sugli studi di O. Willmann e E. Cassirer, rinvigoriti dalla necessità di circoscrivere il quadro degli insegnamenti in generale attorno ai nuclei fondativi delle discipline di studio: e questo è ciò che dà ragione del titolo della raccolta: Per una pedagogia della cultura. Difatti se, nella scelta dei contenuti dell’istruzione, appare più pertinente parlare di una didattica della cultura, i riferimenti colti alla scuola postkantiana e all’idealismo in genere legittimano una filosofia della cultura. Di una sociologia della cultura è superfluo parlare, vista l’entità e l’estensione del concetto di cultura umana che trova nella lingua, nella scienza, nell’arte e nella religione i suoi punti di approdo e di derivazione.
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Cap. 1 Fondamenti di pedagogia sociale e della cultura In un’era sempre più frammentata da climi tecnologici e metamorfosi sociali impreviste, si avverte, più che mai, la necessità di riflettere circa il valore assunto dalla pedagogia nella “società della conoscenza” rispondendo, così, alla provocazione espressa da Rosati sull’illusione pedagogica che connota questa periodo storico. Un’illusione, afferma il pedagogista, che “crolla, d’improvviso, manifesta una caduta d’interessi e di azione, ma ha senz’altro delle cause remote che la determinano” (Rosati L., La fine di un’illusione. Le scienze dell’educazione al bivio, Margiacchi, Perugia 2008, p. 15). Siamo, dunque arrivati al capolinea della riflessione pedagogica e del suo indiscutibile valore sociale? Certamente, in quanto provocazione, la metafora dell’illusione assume una valenza destabilizzante e provocatoria producendo un risveglio educativo di ordine pratico e teorico. Di qui l’obbligo di indagare i gangli e le profondità epistemologiche, nonché le prospettive di azione in grado di sorreggere la virilità scientifica della pedagogia, lasciandosi alle spalle un momento di crisi ideografica e nomotetica. Il senso fondamentale della ricerca pedagogica è, difatti, il bene dell’uomo con l’uomo e per l’uomo, in tutte le sue molteplici sfaccettature e potenzialità. Una meditazione e contemplazione che tende a valorizzare la persona per mezzo di quel “personalismo metodologico” espresso nel Magistero sociale di Papa Wojtyla. La pedagogia, nella sua connotazione funzionale, è generalmente riconosciuta come “teoria e prassi della società educante, cioè studio sistematico e interrelato delle strutture e dei modi di funzionamento dei gruppi indicati nei processi formativi” (Agazzi A., Problematiche della pedagogia e lineamenti di pedagogia sociale, La Scuola, Brescia 1968). Volpi invece riferisce di una pedagogia quale “studio delle strutture e dei processi connessi con la socializzazione dell’individuo, la crescita della personalità umana nei vari contesti entro cui si trova inserita progressivamente e sincronicamente fin dalla nascita e delle influenze che si hanno sulla formazione dei suoi atteggiamenti, valori, credenze, ecc...” (Volpi C., Crisi dell’educazione e pedagogia sociale, Lisciani e Zampetti, Teramo 1978, p. 68); definizione che scaturisce da quella 6
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tripartizione espressa dal King (Cfr. King E. J., Le scuole degli altri, Armando, Roma 1968) di pedagogia pura, applicata e sociale. Al di là delle accezioni che se ne possono dare, la pedagogia è comunque e pur sempre esprimibile come una riflessione educativa sulla società, sul suo continuo divenire, meditazione e rifrazione con e dell’educazione. Vengono, così, ad essere confermate le parole espresse da Carlo Perucci quando afferma che la pedagogia sociale è “quell’ampissima pedagogia speciale che sposta l’attenzione del singolo, finora prevalente, ai gruppi e alle istituzioni, per svilupparne non un esame sociologico, né psicologico o di antropologia culturale, bensì propriamente pedagogico, volto ad indagare quale sia la funzione educativa propria di ciascun ente, quali debbano essere i fini, i contenuti, i metodi della rispettiva azione educante” (Perucci C., Problemi di pedagogia sociale: la famiglia – il sindacato, Le Monnier, Firenze 1965, p. X). Alla luce di quanto appena espresso, Herbart Spencer, definito da Farotti “la coscienza scientifica” del suo periodo, può fungere da fonte di legittimazione epistemologica. Restio a dogmi religiosi, Spencer è ritenuto un autodidatta capace di fondare il suo percorso formativo sull’osservazione diretta della natura e dell’uomo nel suo relazionarsi con essa. È proprio dal gusto dell’indagine, condotta con rigore scientifico e filosofico, che trae l’idea che la natura sia la più grande educatrice. L’idea che lega Spencer a Rousseau di un’educazione secondo natura si completa nel riferimento darwiniano che segna lo sviluppo di una teoria dell’evoluzione, “l’evoluzionismo cosmico”, capace di non limitarsi alla sola evoluzione della specie, come prospettato dallo stesso Darwin, ma diretta a tutte le sfere della conoscenza e di quanto è conosciuto: una teoria olistica sullo sviluppo del tutto. Secondo tale modello è possibile classificare l’evoluzione in tre differenti modalità e tipologie: - evoluzione inorganica: tipica del cosmo e dello spazio siderale; - evoluzione organica: appartenente alla sfera biologica e alla sua diversità; - evoluzione super organica: riferibile alla maturazione soggettiva e sociale. C’è da osservare, continua il filantropo britannico, che tutte e tre le evoluzioni vengono governate dalle stesse leggi, così una volta scoperta la legge particolare essa può essere generalizzata per mezzo del metodo deduttivo. Ogni evoluzione, infatti, si basa su passaggi ben definibili: 7
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dall’incoerente al coerente, cioè la tendenza a muoversi da uno stato di disgregazione a uno di accentramento; - dall’omogeneo all’eterogeneo, quale naturale propensione delle “cose” al passaggio dalla semplicità alla complessità; - dall’indefinito al definito, transito dallo stato caotico a quello dell’ordine. Di qui la definizione spenceriana di evoluzione quale “integrazione della materia e una concomitante dissipazione di movimento, durante cui la materia passa da una omogeneità indefinita e incoerente a un’eterogeneità definita e coerente, e durante cui il movimento conservato subisce una trasformazione parallela” (Cambiano G., Mori M., Storia e antologia della filosofia, Laterza, Bari 1994, p. 411). Se, quindi, per il candidato al premio Nobel per la letteratura nel 1902, ogni cosa è soggetta a leggi generali, allora anche il concetto di cultura ha l’obbligatorietà di soddisfare tali principi. Nel senso più ampio del temine si può osservare che l’educazione della persona, in una prospettiva sociale e globale, obbedisce alle stesse norme dell’evoluzione. Secondo il modello espresso da Rosati, infatti, la cultura può essere descritta come “universo simbolico significante”, spazio, quindi, entro cui la persona è circondata da simboli caoticamente disposti che non aspettano altro che essere tradotti e dotati di significati per mezzo delle cinque forme culturali definite da Cassirer (Cfr. Cassirer E., Saggio sull’uomo. Introduzione ad una filosofia della cultura. Armando Armando, Roma 1986). In tale operazione di codifica, dal passaggio dall’omogeneo all’eterogeneo, la persona comunque viene ad essere sostenuta per mezzo di queste forme primigenie: la storia, la lingua, la scienza, l’arte e la religione; strumenti capaci di promuovere quel passaggio espresso da Spencer e cioè di rendere fruibile e funzionale la cultura. Un universo, quindi, che da principio si presenta come manifestazione disordinata di simboli e ricco di stati confusionari che non permettono ed autorizzano una chiara identificazione e definizione. Se la cultura si connotasse solo secondo tale variabilità essa non risulterebbe percepibile ed orientabile dalla persona; resterebbero idee iperuraniche e non funzionali, sicuramente non efficienti ed adeguate. Nel momento in cui tali simboli si avvicinano al soggetto (per mezzo della conoscenza, delle discipline e delle categorie) si comprimono e palesano, ovvero si rendono fruibili e funzionali. 8
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Se, infatti, la persona trova la giusta chiave/i di lettura di un determinato simbolo questo provoca non solo uno stato di benessere e di espressione sociale creativa, ma produce la possibilità di un uso costante, il quale autorizza ad accedere in cultura e conoscenza. Questa tensione conoscitiva ha, senza dubbio, un carattere evolutivo sia da un punto di vista diacronico, che sincronico. Di qui un concetto di evoluzione che non ha mai fine e che si lega in modo duraturo all’idea di educazione permanente. Infatti, “se convenzionalmente sembra arrestarsi l’applicabilità all’individuo adulto del concetto di evoluzione, pure il divenire della persona non si arresta certamente e in questo senso non si arresta neppure il suo evolversi, anche se acquista caratteri ben diversi, più nascosti, meno prevedibili, o forse soltanto meno studiati e catalogati. Nel periodo che conduce alla formazione dell’individuo adulto, evoluzione significa passaggio graduale a stadi successivi del divenire dei quali è possibile dare una esatta descrizione e indicare gli elementi di differenziazione” (Perucca A., Compiti evolutivi della persona, in Prospettiva EP, Anno IV Meggio-Giugno 1981, n. 4-4, p. 10). D’altro canto il riconoscimento dei simboli e della loro naturale codifica in significati, quindi il passaggio da uno stato uniforme ad uno multiforme, richiede una carica creativa di indiscutibile valore pedagogico - educativo. Si riconosce, in tale passaggio, l’atto della creazione e delle sfide che essa comporta. La complessità in tal caso rappresenta la differenziazione soggettiva del simbolo tradotto in significato da parte della persona, che, attraverso la propria sensibilità e singolarità, dona valore a qualcosa che prima era solo espressione non omogenea del processo di conoscenza. Per tali ragioni “i sistemi simbolici sono in grado di darci conto dei perché, delle ragioni profonde che hanno determinato l’azione dell’uomo. In ogni simbolo c’è sempre un significato che è un tutt’uno con l’elemento fisico” (Rosati L., Lezioni di didattica, Anicia, Roma 1999, p. 44) e a noi spetta di scoprire quale possa essere.
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1.1 Cultura ed educazione L’uomo, nel suo incessante divenire, ha la facoltà di rendersi autonomo ed avvalorare quelle espressioni creative di dialogo e apertura. Queste rappresentano, oltre che le stelle polari di ogni agire formativo, le manifestazioni delle più alte potenzialità possedute dal singolo e dirette al confermare quello che Peters sintetizza con: “viviamo per imparare e impariamo per vivere” (Peters 1977). Al fine di percepire nel miglior modo possibile la portata di tali riflessioni è opportuno fare un passo indietro ed analizzare quella che più comunemente viene ad essere descritta come pedagogia della cultura. Sulla scorta di tali concetti J. Dolch sostiene che la pedagogia della cultura indica un insieme di idee e correnti di pensiero in cui “la visione del fenomeno educativo è concepita in base alle civiltà storiche oggettivamente intese ed in cui assunsero corrispondentemente una posizione predominante concetti come campi culturali, valori culturali, processo culturale, energia culturale e simili” (Dolch J., in Rossi B., Teoria ed azione educativa nel pensiero di Eduard Spranger, a cura di, Armando, Roma 2000, p. 9). In tale modellistica, quindi, ciò che si ritiene essenziale è la contestualizzazione del fattore culturale e, di conseguenza, dell’agire educativo e formativo. Da un punto di vista pedagogico ecco allora che “non già la cultura come semplice aggregazione di materiali da offrire come contenuto alla persona, ma la cultura assunta nella sua natura costitutiva che soltanto le forme simboliche di matrice cassireriana possono rendere esplicita” (Rosati L., Didattica della cultura e cultura della didattica, Morlacchi, Perugina 2004, p. 72). Un primo esempio di pedagogia della cultura è proposto da O. Willmann (Willmann O., La didattica come teoria della cultura, La scuola, Brescia 1962), il quale afferma che l’azione culturale avviene attraverso impulsi consapevoli e inconsci. Il processo di arricchimento intellettuale di formazione interiore, afferma Rossi, “conosce l’embriacarsi di una pluralità di impulsi inconsci, desideri semicoscienti e volontà coscienti. La spontanea aspirazione alla cultura dà ragione dell’interesse immediato espresso dall’individuo nei riguardi della scienza e dell’arte; è un moto alimentato e sostenuto dal fascino di ciò che all’uomo si offre e dal piacere della maturazione spirituale; è un impulso che non ricerca né un vantaggio né l’adempimento di un dovere” (Rossi B., Motivi e significato della pedagogia della cultura, in Prospettiva EP, Bimestrale di 10
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educazione permanente, Anno V, Novembre-Dicembre 1982, n° 6, p. 30). Per Willmann la cultura “rappresenta l’insieme delle idee riflesse nel corso della storia; in essa confluiscono le forme e i contenuti della scienza, della moralità, della religione acquisiti dall’umanità nel suo faticoso cammino. È il capitale che viene tesaurizzato e trasmesso di generazione in generazione. La funzione di trasmissione o tradizione è quella che si suol chiamare educazione” (Wilmann O., in AA. VV., Didattica alla prova, Edizioni Scientifiche Italiane, Perugia 1998, p. 91). Una differenzzazione che trova ragione sociale nella distinzione tra cultura in senso classico e cultura in senso antropologico. Non a caso nella prima caratterizzazione vengono ad essere messi in luce tutti quegli elementi che connotano la storia dell’uomo, nel suo progredire, e gli elementi che via via si sono accumulati nel corso del tempo. Nel secondo caso, invece, la cultura rappresenta tutto quell’universo che è espressione dell’umanità nella sua singolarità. Un ulteriore contributo alla pedagogia della cultura è offerto da Kerschensteiner, il quale asserisce che “ciascun prodotto della attività spirituale umanizzata fenomenizza due aspetti fondamentali, l’uno oggettivo e l’altro soggettivo. Se il primo perviene la struttura essenziale del bene medesimo così da non lasciare spazio alcuno per esiti plurivoci, il secondo rimanda al carattere personale per il quale il soggetto esprime il prodotto culturale. Ne sono tipici esempi le scienze matematiche e i beni artistici” (Rossi B., Motivi e significato della pedagogia della cultura, in Prospettiva EP, Bimestrale di educazione permanente, Anno V, Novembre-Dicembre 1982, n° 6, p. 37). Ciascuna delle connotazioni culturali, quindi, è espressione di un duplice valore: il significato (beni culturali sociali) e l’espressione (beni culturali metafisici). Al fine di completare il quadro epistemologico della pedagogia della cultura è doveroso aggiungere altri due contributi, primo tra i quali quello riferibile al pensiero di Segej Hessen. Il filosofo dello spiritualismo e dell’idealismo assegna ai valori culturali una valenza formativa rintracciabile nei processi spirituali e metasociali. In tal senso l’educazione è intesa come “cultura individuale, cosicché, nel più elevati significato della cultura, l’educazione è da concepirsi come autoeducazione”, nella certezza che “il complesso dei valori costituisce la base della cultura e che il significato di ciascuno supera sempre la loro realtà storica” (S. S. Macchietti, Motivi e temi di una Pedagogia della cultura, in Prospettive EP 1985, n. 1 p. 4). 11
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Il secondo apporto è dato da Spranger, il quale dichiara che l’uomo colto è un uomo di coscienza, capace di azioni volontarie volte all’educabilità e all’apprendimento. Su tali basi lo psicologo tedesco fonda il convincimento che tutti gli uomini rappresentano “il ponte verso le altezze da cui vengono luce, amore, vita”. In una prospettiva maggiormente pedagogico-umanistica, tali concezioni sono confermate da L. Meylan. L’educazione rappresenta l’unico mezzo capace di rendere la persona “collaboratrice di Dio”, tale, cioè, che “come il Creatore non ha creato la rosa profumata ma la rosa macchia, capace di trasformarsi in rosa da giardino, grazie alla coltivazione e all’innesto, così l’uomo è stato creato in potenza e necessità dell’educazione per diventarlo di fatto” (Meylan L.,L’educazione umanistica e la persona, La Scuola, Brescia, 1958). In tale scenario la pedagogia dell’avere ha l’obbligatorietà di essere sostituita da una pedagogia dell’essere. Come ampiamente enunciato da Rosmini la pedagogia dell’essere risulta capace di accreditare quell’esercizio ermeneutico e di interpretazione dei simboli in significati profuso dalla persona. L’idea che se ne trae dalla pedagogia della cultura dell’educazione, quindi, appartiene alla sofisticata domanda sul significato totale delle cose e dell’uomo stesso, quale artefice di soluzioni creative e singolari. Nel divulgare gli elementi culturali come fondamenti sociali ed educativi, tale modellistica autorizza ad una presa di coscienza storica dell’educazione stessa. In questo senso i valori culturali sono riferibili alle mutazioni concernenti il passato, alla trasformazioni politiche e alle impostazioni ideologiche di un determinato periodo. Costruirsi una visione del mondo, tenendo conto dell’esperienza storica e culturale, “è un bisogno della persona”, afferma B. Rossi, ma se tale proiezione è avulsa dalle tendenze della cultura circa il riconoscimento ideologico del principio della persona e della tensione verso la verità e i valori più nobili, allora si è costretti a constatare un “horror ideologico”, capace di offrire solamente futili conquiste e obiettivi superficiali. Alla pedagogia delle cultura va riconosciuto il merito di aver indirizzato ogni disciplina appartenente al cerchio piagetiano verso la rivendicazione di quell’humanum garante di conquiste personali di sicuro spessore educativo; una “produzione spirituale” diretta alla persona. La cultura viene ad essere identificabile quale bussola nel difficile cammino formativo e orientamento quotidiano. Se potremmo essere d’accordo con Spencer nell’affermare che l’educazione deve essere considerata come “fatto”, perciò analizzabile 12
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secondo canoni scientifici e sottostante le leggi della natura e dell’evoluzione, non possiamo esimerci dal riferire che proprio il “fatto educativo” è anche espressione di volontà e di reali trasformazioni sulla cultura e sulla persona. D’altronde, anche lo stesso filosofo, nei suoi ultimi scritti, asserisce circa la relativa conoscenza che è possibile effettuare della persona e della sua impossibilità a conformarsi a schemi costruiti a-priori ed in modo olistico. L’inconoscibile, nel nostro caso, è rappresentato dal potenziale che diventa atto, in un processo evoluzionistico personale. Sotto tali aspetti indicativa è l’esigenza espressa da A. Parucca nel cercare di “sposare i traguardi educativi con le esigenze evolutive individuali e sociali” (Parucca A., in AA. VV., Globalizzazione e nuove responsabilità educative, La Scuola, Brescia 2003).
1.2 Paideia e società educante “Sempre caro mi fu quest'ermo colle, e questa siepe, che da tanta parte dell'ultimo orizzonte il guardo esclude. Ma sedendo e mirando, interminati spazi di là da quella, e sovrumani silenzi, e profondissima quïete io nel pensier mi fingo, ove per poco il cor non si spaura. E come il vento odo stormir tra queste piante, io quello infinito silenzio a questa voce vo comparando: e mi sovvien l'eterno, e le morte stagioni, e la presente e viva, e il suon di lei. Così tra questa immensità s'annega il pensier mio: e il naufragar m'è dolce in questo mare» Giacomo Leopardi
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Ci piace iniziare questa riflessione con la celebre poesia del Leopardi per una ragione molto elementare. Come il poeta immagina e fantastica sui mondi al di là della siepe, celebrando un pensiero a volte malinconico, così noi ci accingiamo a scrutare la paideia coscienti del fatto che non sia possibile descrivere ed analizzare tutto con esattezza e dimostrazioni. Anche nel nostro caso una siepe ostacola ed impedisce di gettare lo sguardo clinico in una parte del mondo appartenente alla trascendenza umana, un senso di universalità e misticismo unicamente riferibile alla persona e alla sua connotazione più profonda. Molti Autori sono inclini nel definire l’educazione una “forza debole”, certamente una meditazione e considerazione che ha bisogno solo di concetti essenziali, di variabili elementari, ma comunque fissati nella granito in maniera indissolubile. Non a caso Morin riferisce sul fatto che “i progressi maggiori delle scienze contemporanee si sono verificati reintegrando l’osservatore nell’osservazione. Ciò è logicamente necessario. [...] Vi è sempre, nell’astrazione, nell’isolamento, nella definizione di un sistema qualcosa di incerto o di arbitrario: vi sono sempre decisione e scelta, il che induce nel concetto di sistema la categoria del soggetto. Il soggetto interviene nella definizione di sistema nei e tramite i suoi interessi, le sue selezioni e le sue finalità; egli arreca cioè al concetto di sistema, attraverso la sua surdeterminazione soggettiva, le surdeterminazione culturale, sociale e antropologica” (Morin E., Il metodo, Feltrinelli, Milano 1989, p. 19). Il tema predominante quindi è quello “del diventar soggettivo, in quanto la soggettività è il problema necessario. Ma il diventar soggettivo necessità di operazioni non solo e non tanto concettuali: il soggetto è vita, passione, relazione all’essere, tensione al vero, relazione al Tu, dimora del pensare, libertà della decisione” (Mattei F., Sfibrata paideia. Bulimia della formazione Anoressia dell’educazione, Anicia, Roma 2009, p. 135). L’educazione è una scommessa che ha come risultato il “diventar uomo”, uomo totale, e per questo ha la necessità di essere quotidianamente e incessantemente corroborata ed avvalorata, certamente sostenuta. Tali riflessioni trovano terreno fertile nel pensiero di Edda Ducci soprattutto allorquando riflette sui margini che la paideia moderna possiede. Il tema di fondo, il cuore pulsante del pensiero della pedagogista, è proprio il riconoscere il fatto che “certi luoghi del soggetto sono ineducabili, e ineducati devono rimanere” (Ducci E., in Mattei F., Sfibrata paideia. Bulimia della formazione Anoressia dell’educazione, 14
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Anicia, Roma 2009, p.128). Lo stesso Nietzsche vieta al maestro ad educare le parti ineducabili del soggetto. Una essenza che accredita e sostiene l’idea che l’umano appartiene solo ed esclusivamente a se stesso e alla sua, come ama definirla la Ducci, “concreta esistenza” (Mattei F., Sfibrata paideia. Bulimia della formazione Anoressia dell’educazione, Anicia, Roma 2009, p. 131). Dello stesso parere sono le riflessioni espresse da G. Acone (Acone G., Fondamenti di pedagogia generale, EdiSud, Salerno 2001), il quale manifesta, rifacendosi alle idee proposte da W. Jaegere, che ogni cultura può essere letta secondo le strategie adottate per l’educazione delle nuove generazioni. Tale definizione fa il paio con quella espressa da Mattei. La paideia è “atto di accompagnare il bambino, dal cui etimo essa trae origine, alla costituzione di una adultità etico -conoscitiva autonoma. E quel tragitto ha termine quando il soggetto ha conosciuto e appreso il bello e il buono” (Mattei F., Sfibrata paideia. Bulimia della formazione Anoressia dell’educazione, Anicia, Roma 2009, p. 26). Una costruzione del sé che rappresenta l’inizio e la fine di ogni percorso educativo, compito e traguardo di ogni uomo capace di ri-conoscere e riconoscersi nel vero e nel giusto. Solitamente il concetto di paideia, oltre a presentarsi come riflessione o pensiero critico difficilmente ascrivibile, delimitabile e quanto mai indecifrabile, si caratterizza anche per la sua apertura a molteplici interpretazioni. Come ricorda Blankertz, il valore di un termine, o di più termini, è inversamente proporzionale al suo utilizzo e al senso comune. Nel concetto di paideia, infatti, rifluiscono quell’astrattezza e metafisicità appartenenti all’uomo, i paradigmi formativi e le variabili contestuali/sociali, le quali, mai totalmente comprensibili e classificabili, rendono l’educabilità il cuore pulsante della paideia. Nel mistero si entra concretamente solo nel momento in cui l’educabilità della persona si palesa “come presente nel soggetto che la indaga, presente in lui e in ogni soggetto umano, pertanto attingibile in ogni relazione davvero umana” (Ducci E., Il margine ineffabile della paideia. Un bene da salvaguardare, Anicia, Roma 2007, p. 9). Ecco, allora, che la paideia si pone come esito e come risultato di tutte quelle azioni educative che si concretizzano nella relazione pro-sociale da parte del soggetto con la cultura umana. Sotto tali aspetti la paideia, relazionata con l’educabilità, offre la sua immortalità e perenne permanenza all’interno del firmamento educativo. 15
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L’uomo si connota di necessità educative che trovano nella paideia e nella metessi un solido approdo maieutico, per una filosofia dei sentimenti ed una teologia del cuore. Una realizzazione e concretizzazione che getta luce su quel potenziale umano di pestalozziana memoria, il quale ha la necessità di divenire atto per non restare imbrigliato in futili stereotipi sociali e inarcato su se stesso. Diventa chi sei! Affermava il filosofo americano Ralph Waldo Emerson. Ad una “conoscenza il più possibile chiara e motivata, deve affiancarsi un esperire coraggioso che, ponendo e volendo una rischiosa e responsabile relazione intersoggettiva con un tu a dimensione assoluta e a dimensione antropologica, è certo del crearsi e dello svelarsi di una realtà personale” (Ducci E., Essere e comunicare, Adriatica, Bari 1974, p. 237). La paideia così non si evince per mezzo di un “lavoro da regole esteriori al soggetto, da vuoti formalismi. Essa vive e si struttura nella forma: nel dare forma e nel darsi forma. E lo scavo del formare una materia resistente è opera di lenta e paziente intelligenza e sensibilità” (Mattei F., Sfibrata paideia. Bulimia della formazione Anoressia dell’educazione, Anicia, Roma 2009, p. 140) Sotto tali aspetti la dimensione ontologica ha da legarsi con quella esistenziale. Infatti, occorrono tempo, sacrificio, volontà e sensibilità nel favorire l’espressione umana, non solo perché, come già ricordato, l’educazione è una forza debole, ma anche e principalmente per il fatto che l’umanizzazione si compie per mezzo di piccoli passi che modificano la “radice cattiva” del nostro essere e del nostro divenire. In questione c’è la generazione di un nuovo umanesimo; una rinascita che “abbia una fondamentale componente etica e dia la dovuta importanza alla conoscenza e alla stima delle altre culture e dei valori spirituali delle varie civiltà, ciò costruisce il necessario contrappeso a una globalizzazione che altrimenti potrebbe essere vista solo in termini economici e tecnologici. La coscienza di condividere valori comuni e un comune destino è in effetti la base su cui deve fondarsi qualsiasi progetto di collaborazione internazionale” (Rossi B., L’educazione dei sentimenti, Unicopli, Milano 2004, p. 148). Un umanesimo, quindi, che “davanti alla morte della ragione che è poi anche la morte di Dio e dell’uomo, come d’ogni altro valore, (ha) una sola possibilità di salvezza: il ritorno alla fiducia nei valori che l’uomo nutre dentro di sé; la restaurazione di un clima di razionalità di l’intelligenza e la volontà dirigono le azioni umane con il controllo dei mezzi e delle ricchezze, delle tecniche e dei bisogni: un circolo magico in 16
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cui, in fondo, l’uomo torna ad essere, a riconoscersi creatore e arbitro della propria condizione esistenziale, in solidarietà con gli altri, in un atteggiamento costante di riflessione e di ricerca, di apertura verso il progresso e di impegno a realizzarlo con tutte le sue forze” (Rosati L., Programmazione Sperimentazione e Innovazione come modelli culturali emergenti, Città di Castello, p. 180) Così la paideia si connota di quel concetto di appartenenza e di solidarietà umana, quali valori a fondamento di ogni asse educativo e riassumibili nell’aspirare a farsi secondo differenza ed identità culturale.
1.3 Per una nuova paideia Il tentativo di approdare ad un’analisi sulla totalità dell’uomo può sembrare un azzardo, quanto meno un goffo tentativo scientifico, soprattutto per il fatto che l’estendersi educativo della persona è incline a molteplici sfaccettature e tutte, paradossalmente, sostenibili. Eppure, il tema in questione è punto nodale nella speculazione sull’educazione già da molti secoli, tanto che non può essere tralasciato, né, tantomeno, messo in disparte in nome di un pericolo euristico a cui non ci si vuol sottoporre. Si è certi, comunque, che chi intraprende un’azione educativa, indipendentemente dal contesto di appartenenza e distaccati da ogni volere disciplinare, deve comunque aver riflettuto in profondità, almeno una volta, nei meandri dell’educazione, facendo sosta critica e senza la pretesa di raggiungere l’onniscienza, ma aprendosi al divenire e all’idea che, nell’era della “società liquida” (Bauman Z., Vita liquida, Laterza, Bari 2006), l’educatore deve relazionarsi con il processo, sempre più dominante, di evoluzione e metamorfosi sociale. Un cubo di Rubik, quello educativo, dalle mille sfaccettature che si angolano ed incastrano secondo l’abilità dell’agire umano, ma che richiedono, comunque, una rigorosa scientificità ed analisi, quanto meno una tendenza a quell’ “onestà perfetta” definita da Castiello nello scorso secolo (Castiello J., Una psicologia umana per l’educazione, Sei, Torino 1955). Si è generalmente tendenti ad affermare che se veramente si riflette circa la più intima essenza dell’uomo, la paideia rappresenterà la chiave di 17
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volta dell’arco educativo, sulle cui colonne erigere una formazione sostenibile e duratura. La paideia e la sua traduzione educativa e contestualizzata deve essere analizzata e sviscerata fin nel suo più oscuro abisso, al fine di poter approdare ad un concetto che sia in grado di ammettere e motivare sia chi si trova costantemente alla ricerca di se stesso, sia a chi indica la via maestra perchè questo percorso si realizzi. Una paideia che, oltre a svelarsi quale teoresi speculativa sull’educazione, si traduce in atto e prassi dalla quale e per la quale il concetto stesso reclama sollecitazioni e stimolazioni continue. Di qui, come ricorda Edda Ducci, “la responsabilità e la delicatezza di filosofare sull’educativo in un modo accorto e fondato, sopratutto in un modo capace di impregnare e direzionare sanamente la prassi senza condizionature inaccettabili” (Ducci E., a cura di, Il margine ineffabile della paideia. Un bene da salvaguardare, Anicia, Roma 2007, p. 149). Certamente l’idea di paideia che ne deriva non può essere accostata ad un’azione capace di formulare azioni conclusive o definitive, così come atto generante una esegesi di obblighi morali e scientifici; piuttosto è percepibile, come sostiene ancora la filosofa dell’educazione, come scelta continua, interrogazione ed investigazione che ne connotano lo stile di indagine e la riflessione critica, sempre aperta a nuove soluzioni e in continuo divenire. Anche se la paideia può essere considerata un concetto ampiamente esprimibile e semanticamente riconoscibile, ad essa va riconosciuto “un margine di indicibilità che va salvaguardato, rispettato, mai invaso illegalmente, perché è legittimato da quale e qualcosa di eterno che è nell’uomo, dalla presenza del mistero in lui” (Ducci E., a cura di, Il margine ineffabile della paideia. Un bene da salvaguardare, Anicia, Roma 2007, p. 16). Una frontiera, quest’ultima, che non può essere oltrepassata dalla ragione o dal linguaggio, né, tanto meno, dalla logica aristotelica. Un limite che si può solo osservare o scrutare, una siepe, dicevamo ricordando l’incantesimo del Leopardi, il più delle volte invalicabile, ma che, comunque, determina ogni causa ed effetto dell’azione educativa e formativa. Confine e margine che comunque possono essere oltrepassati tenendo sempre a mente e sostenendo costantemente “il mistero dell’uomo, della sua indefinibilità ontologica, l’arcano della sua educabilità e delle innumerevoli dinamiche che la sostanziano e la circondano, con assillo, ma senza presumere soluzioni. E vivere questo movimento con una 18
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modalità precisa: stare nella propria interiorità ma non isolati dalla convivenza, e liberare il tempo per procurarsi la familiarità con i grandi conoscitori innamorati dell’umano, in modo da innescare una circolarità semplice: il conoscere fa intravedere e desiderare le profondità del vivere, e il vivere fa avvertire l’urgenza e la necessarietà del conoscere” (Ducci E., a cura di, Il margine ineffabile della paideia. Un bene da salvaguardare, Anicia, Roma 2007, p. 17). Una paideia, quindi, che si lega al quotidiano, al concreto, insomma al vivere e al sentire della persona, ma che ricerca se stessa nella visione dei grandi maestri, nell’infinita metafisicità appartenente alla singola persona, nell’idea platonica, nel ragionamento socratico, innamorandosi dell’uomo e del suo divenire. L’uomo, così, appare e si svela secondo la sua triplice peculiarità di emotività, intelletto e ragione, dove “la prima caratterizzata da pulsioni di cui l’individuo non ha piena coscienza o consapevolezza, la seconda da inquadrare nella capacità dell’individuo di organizzare consapevolmente secondo fini precisi ciò che accade, si vede, si tocca, la terza riguarda la capacità di elaborare realtà astratte, che non cadono sotto i cinque sensi e che non potranno mai essere concretizzate” (Genovesi G., Pedagogia e oltre. Discorso sulla pedagogia e sulla scienza dell’educazione, Anicia, Roma 2011, pp. 154-155). Una educazione, insomma, che avrà confluenze sia in direzione di curabilità, assistenza e protezione nell’incessante progredire soggettivo, sia in consapevolezza, capacità, competenze e dialogicità nel riconoscere al soggetto un insieme di potenzialità da dover maieuticamente far esprimere. L’educazione pertanto si colorerà di variopinti tratteggi trasformativi e di un miglioramento dell’emotività, dell’intelletto e della ragione, dando alla persona, così, “la possibilità di rispondere consapevolmente alle grandi questioni della sua esistenza e ai problemi più pressanti che, per essere affrontati e risolti, esigono esercizio e potere decisionale il quale, però, chiede a sua volta fedeltà alla propria coscienza” (Rosati A., Per una filosofia dell’educazione, Anicia, Roma 2010, p. 58).
1.4 I bisogni dell’anima e il loro sviluppo Il concetto di paideia tracciato fino ad ora di certo ha reso delicato e increspato il procedere sia da un punto di vista analitico - scientifico, sia 19
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di ragionamento logico deduttivo. Fatto sta che tali insidie generano, a cascata, ulteriori precarietà e fragilità scientifiche, soprattutto qualora si tenti di completare la totalità dell’uomo inglobandola all’interno di schemi e modelli. Altrettanto certamente deve essere osservato che la paideia ha origine e si nutre da quella concezione classica che ha reso maestri nell’educere quei pensatori che hanno cercato di individuarne e tratteggiarne le peculiarità più ombreggianti ed i riferimenti scientifici percepibili. Per paideia è giusto intendere “la modalità complessiva della cultura formativa di una società in una determinata fase storica e il complesso delle strategie etiche, civili, tecniche, rituali, religiose, istruttive, addestrative rivolte alla continuità formativa tra le generazioni” (Acone G., Fondamenti di pedagogia generale, EdiSud, Salerno 2001, p. 105). Secondo il noto pedagogista, quindi, la collocazione in un determinato periodo storico e culturale del problema educativo rientra sotto il concetto di paideia. Sotto tale lente, il filantropo dell’educazione, distingue due tipologie della paideia: - paideia istituzionale: ne fanno parte la famiglia la scuola e la chiesa, le istituzioni educative, l’apprendistato, insomma tutte quelle agenzie formali che la società adotta nel fare educazione; - paideia informale: nella quale rientrano tutte le occasioni educative mosse dalla società e dalla cultura stessa come, ad esempio, la tecnologia, il sistema pubblicitario, lo spettacolo etc. Sono questi gli elementi che spingono a descrivere la società come “società educante” o, come riferito da Hegel, di “apprendere il proprio tempo con il pensiero”. Osservando più dettagliatamente la paideia istituzionale si può dichiarare che la famiglia può essere considerata come l’organo custode della continuità educativa. Un vero e proprio archetipo sociale capace di accompagnare il soggetto fino alla sua più completa maturazione, pur costatando il fatto che i problemi sociali inerenti la tecnologia, il narcisismo e l’atomismo sociale hanno reso il suo compito educativo sempre più gravoso e difficile. La scuola, invece, è riconosciuta come ulteriore pilastro educativo, nella quale rintracciare il compito dell’intermediazione istruttiva dei saperi (alfabetizzazione), la cui opera si basa sull’universale importanza data alla conoscenza delle scienze. Oltre a tale gravoso compito, in concordanza con l’educazione familiare, alla scuola spetta la formazione 20
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della personalità del soggetto, soprattutto sotto un profilo sociale e di cittadinanza per mezzo di una solidità gruppale, di senso e significativa, nonché basata sulla democrazia e sulla convivenza civile. La chiesa, rappresenta, adottando le parole di Pascal e San Giovanni Bosco, la detentrice dell’educazione del cuore, del rispetto della persona e della solidarietà. In continua diatriba con il processo di secolarizzazione – l’umanizzazione di Dio - trova posto la divinizzazione dell’uomo quale creatore della tecnica. Nello stesso modo, nella paideia informale si possono scorgere elementi che derivano dal clima culturale e dalle trasformazioni sociali, tecnologiche, storiche, politiche ed economiche. Questo aspetto della paideia è rappresentato, ad esempio, dalla “galassia elettronica” di cui ha riferito McLuhan, o “il gruppo dei pari” quale contesto formativo non istituzionalizzato. La duplice prospettiva della paideia rafforza l’idea che l’uomo, nella sua completezza, appare essere fortemente incentrato verso un’esistenzialità e un’essenzialità che, seppur palesandosi in ogni modo e momento della vita, non smentisce, anzi incrementa, l’enigma della persona. Un ulteriore aspetto della paideia è dato “dalla pluralità di sensi del sé”, dichiara Edda Ducci. Un senso che sovente è disorientato da mode e formalismi, che si distacca dalla persona nel momento in cui quest’ultima procede tentennante e senza orizzonti, che, preso nella sua totalità ed esclusività, offre un porto sicuro soprattutto nella percezione e convalida di se stessi. Nel rendere una persona migliore, la paideia offre la sua intimità più profonda e di valore, la quale si palesa in quel senso di nutrimento intellettivo - conoscitivo. Un’arte educativa di appagamento dei bisogni formativi capace di onorare gli orizzonti dell’anima di ognuno. Un “trattamento paideico” che non è di certo rivolto all’acquisizione di competenze e/o di elementi professionalizzanti che avrebbero come fine quello di essere finiti di per se stessi, ma che accoglie elementi che compiacciono i bisogni dell’anima. Resta solo da vedere di cosa si nutre l’anima, da quali bisogni sia sostenuta e quali elementi ne facciano parte. Domande e risposte che hanno mosso l’ironia di Ippocrate, il quale chiedendo provocatoriamente a Socrate “di che si nutre l’anima?” si senti rispondere: “di conoscenze, di insegnamenti”. Ecco, allora, la fonte, la conoscenza, ma anche di traghettatori, i grandi maestri, e di destinatari, se stessi, nel pieno riconoscimento dell’anima come elemento connotativo dell’essere persona. 21
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Il problema, dunque, rimane quello di definire quali possano essere i bisogni dell’anima, dato che si è potuto constatare che questi non appartengano al mondo dei sensi e delle conoscenze. Molti auctores, tanto per far capire al lettore a quali maestri ci riferiamo, sono inclini a definire i bisogni dell’anima come le necessità “dell’urgenza del vivere”, indicando “le fonti provate circa il complesso mondo dell’educabilità umana, alfabetizzare alla lettura seria e fruttuosa, invogliare alla frequentazione con il pensatore a cui ci si riferisce” (Ducci E., a cura di, Il margine ineffabile della paideia. Un bene da salvaguardare, Anicia, Roma 2007, p. 28). Una educazionità, come ama definirla Genovesi, che è diretta alla realtà astratta e/o ideale. “L’educazione come oggetto di scienza, astratto come tutti gli oggetti di scienza e, dunque, tipico costrutto concettuale, è opportuno chiamarla educazionità per distinguerla dall’educazione come fattualità. L’educazionità non ha alcun contatto diretto con l’educazione fattuale, anche se essa ha in sé l’istanza del contatto con l’educazione come fatto” (Genovesi G., Pedagogia e oltre, Anicia, Roma 2011, p. 176). Insomma, l’educazione appare essere uno “strumento”, quanto mai un “mezzo”, certamente un “percorso” a disposizione della persona al fine di procedere nel difficile e tortuoso cammino verso l’espressione completa del proprio sé, mentre l’educazionità rappresenta il paradigma di tale modellistica.
1.5 L’educ-azione: medicina dell’anima Fino ad ora si è cercato, pur nella coscienza della sua impossibilità, di delimitare gli infiniti orizzonti della paideia facendo leva nella descrizione dei suoi elementi e principi più caratterizzanti. Riprendendo la socratica domanda di cosa abbisogna l’anima per realizzarsi, occorre tenere in considerazione un ulteriore fattore nel processo evolutivo della persona e cioè l’educatore. Esso ha la peculiarità di tradurre tali elementi in entità qualitativamente e quantitativamente assimilabili e fruibili da parte del discente, che a sua volta avrà l’obbligatorietà di farli propri nella maniera più personale ed autonoma possibile. Così i bisogni dell’anima si traducono e si prestano alla soggettività di chi cerca di interiorizzarli. Ecco, allora, la necessità di competenze e 22
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tensioni educative che l’educatore e le istituzioni adibite alla formazione devono possedere-incrementare e che Girmes sintetizza con una nuova concezione e strutturazione dei contesti formali di educazione. In tale prospettiva vengono ad essere valorizzati un incessante sostegno alla professionalità docente, una acquisizione da parte degli educatori di curricula adeguati e di competenze funzionali, nonché abilità e conoscenze volte ad “accompagnare in modo intelligente i processi di lavoro e di apprendimento” (Girmes R., Lehrprofessionalitat in einer demokratischen Gesellschaft, Weinheim und Basel, Beiheft 2006). Un’estrapolazione, insomma, che ha come primo elemento quello di una calibratura dell’approccio verso la cultura, antropologicamente intesa, quale riconoscimento della paideia come “bussola per orientarsi e non perdersi nella complessità dei mondi in cui siamo chiamati a muoverci” (Ducci E., a cura di, Il margine ineffabile della paideia. Un bene da salvaguardare, Anicia, Roma 2007, p. 30). Il processo educativo che ha l’assoluto bisogno di far riconoscere la realtà, cioè permettere al soggetto di distinguere ciò che è da ciò che non è, ciò che è giusto da ciò che è sbagliato. Il mito della caverna espresso da Platone ne è un esempio indiscutibile. Il liberarsi da quelle catene che ostacolano l’uomo verso conoscenza del vero, permettendo solo la visione immagini ombra, resta un rischio tuttora impellente nella società moderna, basti porre a mente il conformismo alle mode o al pensiero di massa. Un processo, quello di liberazione dalla schiavitù e dalla cecità più oscura, che rappresenta un percorso lungo ed erto, nella quale il supporto dell’educatore diviene fondamentale. Forse è qui, dichiara la Ducci, “l’arte di una teoresi adeguata alla delicatezza della prassi paideica: veicolare cotesto affondo nella maniera più comprensibile e sperimentabile personalmente; sensibilizzare a saggiare quale tipo di certezza può dare l’intravedere l’intensità di essere dell’uomo, e come qui si fondino saldamente il senso della sua dignità, l’originalità incancellabile, la non scambiabilità, e far balenare la forza incomparabile sia della relazione interpersonale sia quella giusta con quanto è reale” (Ducci E., a cura di, Il margine ineffabile della paideia. Un bene da salvagurdare, Anicia, Roma 2007, pp. 31/32). Una paideia, insomma, che si delinea come “una nuova forma di umanità, detta non casualmente planetaria (M. Ceruti), capace di muoversi non solo nel pluralismo culturale ma anche aperta e responsabile nell’offrire risposte di senso per la nuova paideia, capace di fare davvero dell’educazione un processo globale che implica valori, 23
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regole e sistemi (G. Acone) , pronta a riscoprire l’attività della scuola quale autentico e intelligente filtro educante della società” (Rosati A., Senza ragione. Contraddizioni e incertezze del nuovo millennio, Anicia, Roma 2006, p. 49). Si lascia, comunque, al lettore, come giusto che sia, la possibilità di trarre un proprio ragionamento, proveniente dall’intelletto e dai sentimenti fino a giungere alla ragione, restando dell’idea che la maturazione dell’uomo sia possibile solo attraverso l’umano e la sua espressione. La solidità della paideia classica, la compattezza della institutio romana e la saldezza della bildung tedesca sembrano erose da una società che non risulta più capace di ritrovare la sua vera identità e il soggetto persona. Una società oramai inadeguata a fare chiarezza, incapace di distinguere il virtuale con il reale, l’onirico con il concreto, il tangibile al metafisico, l’avere all’essere. “Questa bulimia della formazione rischia di perdere il cuore della formazione, quella Bild o forma o paideia o institutio che hanno rappresentato i paradigmi dell’educazione. Un’educazione sempre più negletta, asfittica, afona, denutrita, anoressica” (Mattei F., Sfibrata paideia. Bulimia della formazione Anoressia dell’educazione, Anicia, Roma 2009, p. 34). La paideia, quindi, sembra essere risucchiata in quello che Aragon, nel Paesano di Parigi, definisce come vertigine del moderno, un vortice ed una instabilità che frastaglia e sminuzza ogni teorizzazione e/o prassi educativa nel nome di quella metacategoria chiamata “complessità”. Occorre far leva su una costruzione del sé che comprenda sia l’elemento conoscitivo-spirituale-metafisico, sia quello materiale-temporaleeconomico al fine di rendere la persona attiva in questo turbinio di informazioni e artificiosità. Una “cassetta degli attrezzi”, come la definisce L.Wittgenstein, che rende l’educazione un’opera sempre viva e capace di tirare fuori da ognuno il proprio essere, la propria inclinazione naturale, insomma la sostanza dell’anima. Non possiamo non essere d’accordo con Mattei quando annuncia che oggi la paideia appare “sfibrata”, sfilaccicata nel suo intimo, ma comunque, come ricordava spesso Edda Ducci, “la bellezza del rischio legato ad una grande speranza” (Ducci E., a cura di, Il margine ineffabile della paideia. Un bene da salvagurdare, Anicia, Roma 2007, p. 27). Ci preme chiudere il discorso riguardante la paideia con chi si è soffermato, con ironia e serietà critica circa il valore e sulla natura dell’educazione: “Per me educazione non è soltanto trasmissione di 24
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cultura. È anche questo. Ma è anche formazione della personalità. [...] Se l’educazione è l’arte di insegnare qualcosa a qualcuno, non esiste migliore educatore di un ladro che insegna al proprio figlio la nobilissima arte del rubare. Volendo intendere, naturalmente, che l’educazione non è soltanto l’acquisizione di determinati elementi, ma è anche maturazione dell’individuo. È anche, in definitiva, accostamento dell’individuo ai valori” (Broccoli A., a cura di Mattei F., L’educazione tra le immagini del moderno, Ancia, Roma 1989, p. 152).
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Cap. 2 L’integrazione: uno sguardo d’insieme Si è tendenzialmente convinti che una delle maggiori incertezze sociali inerenti il XXI secolo ruoti intorno al problema dell’integrazione sociale: la coabitazione e convivenza di diverse culture in un dato territorio. Erroneamente il termine integrazione viene ad essere identificato come oggetto di studio secondo una prospettiva sociale, tanto da poter parlare di “integrazione sociale”. Certamente la questione integrazione non può e non deve essere limitata ad una ricerca di comunità, popolazione o il semplice inserimento di soggetti all’interno di gruppi, piuttosto richiama “un processo per il quale si rende completa una entità; sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo” (Morselli E., Dizionario di filosofia e scienze umane, Carlo Signorelli, Milano 1993, p. 124). Ecco, allora la valenza pedagogica dell’integrazione quale sorgente di riconoscimento umanitario della persona e testimonianza valoriale del rapporto con il sé e con l’alterità. Se a partire dagli anni Settanta, infatti, si è assistito ad una lenta, ma inesorabile, emigrazione da parte di popoli alla ricerca del “sogno americano”, oggi, dopo decenni di immigrazione diffusa ed indiscriminata, le varie comunità si sono trasformate in agglomerati urbani di molteplici e diverse culture, provocando non poche problematiche sia a livello sociale, sia economico-politico. Questo riassestamento planetario ha indotto numerose ripercussioni, non solo di natura sociale che si è distinta per la ricerca di slogan sempre più d’impatto pubblicitario, piuttosto ha generato meditazioni circa le prospettive pedagogiche ed educative implicate in tale tendenza. A partire dagli anni Ottanta numerosi sono stati i quadri normativi che hanno cercato di regolamentare tale riassestamento. Tra le tante azioni si ricordano quelle del 1986 circa il collocamento degli extracomunitari nel mondo del lavoro o la ben più recente Legge Bossi-Fini del 2002 che attuava misure restrittive circa il contenimento dei flussi di immigrati. È possibile comunque rintracciare nello storico mondiale un punto di svolta che ha innescato un totale ripensamento circa la destabilizzazione provocata dal problema dell’integrazione. Certamente un forte impatto e un punto di rottura con il passato è dato dall’attacco alle Twin Towers nel settembre del 2001. Un momento di forte risonanza, quello dell’attentato terroristico, che ha sollecitato una presa di posizione circa la pacifica convivenza tra le diverse culture, soprattutto in una prospettiva globale. 26
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Il modello dello scontro delle civiltà, profetizzato da Huntington agli inizi del Secolo (Huntington S., Lo scontro delle diverse civiltà e il nuovo ordine mondiale, tr. it. Garzanti, Milano 2000), ha dato carta bianca alle opinioni circa la presenza di immigrati in un dato paese. Tra spinte alla chiusura e “atteggiamenti di differenzialismo da un lato e spinte che cercano di assecondare il dinamismo sociale dall’altro, l’Italia si presenta ormai come una realtà strutturalmente multiculturale, e non solo per la presenza degli immigrati, ma anche per effetto di una globalizzazione che, tanto sul piano economico quanto su quello culturale, contribuisce a ridefinire molti aspetti della vita sociale” (Benvenuto G., a cura di, La scuola diseguale. Dispersione ed equità nel sistema di istruzione e formazione, Anicia, Roma 2011, p. 369). In una prospettiva squisitamente scolastica le competenze di ogni insegnante devono essere capaci di lenire, attraverso l’acquisizione di strumenti e metodi atti alla salvaguardia dell’identità culturale, tale ferita sociale sempre più presente in ogni contesto. Se, infatti, l’ultimo Ventennio del secolo trascorso è servito ad analizzare ed esaminare dettagliatamente il problema, oggi le prospettive pedagogiche ed educative che fanno capo all’integrazione si presentano ben più articolate, aprendosi a nuove riflessioni ed interpretazioni. La necessità di passare da una educazione multiculturale ad una dialettica interculturale si è fatta sempre più pressante. “L’invito a non considerare la cultura/le culture in modo statico, descrittivo e museografico, si traduce in un serio approfondimento di questo concetto, in un’attenzione verso le prospettive dell’antropologia culturale, e ad una sua rilettura in chiave pedagogica che stimola il confronto non più sulle culture dell’altrove pensate in modo esotico, ma sul ruolo dei soggetti quali creatori di significati culturali” (Benvenuto G., a cura di, La scuola diseguale. Dispersione ed equità nel sistema di istruzione e formazione, Anicia, Roma 2011, p. 371). Così anche con l’esponenziale aumento del tempo libero e con il sempre più frequente contatto tra diverse culture, soprattutto nel mondo del lavoro, nella scuola e nei nuovi media di comunicazione, il problema dell’integrazione ha assunto nuove vastità, profondità e complessità, tali da richiedere necessari continui interventi da parte della pedagogia e più in generale dell’educazione. Ecco, allora, la necessità di dover investire circa un “progetto pedagogico interculturale generalmente inteso” (Santerini M., La qualità della scuola interculturale. Nuovi modelli per l’integrazione, Erikson, Trento 2010), dove la flessibilità culturale e la ricerca di uno stato di convivenza 27
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pacifica e solidale con le diverse culture rappresentano principi dai quali non possiamo discordarci o ignorare. Purtroppo siamo costretti a riferire che quantunque teoricamente si stia avanzando con il vento in poppa connotando l’intercultura come un qualcosa già interno alla società, a livello concreto stenta a decollare come idea di riferimento. Non a caso ancora attuali sembrano essere, purtroppo, le parole espresse sul finire degli anni Sessanta da Petracchi su tale questione. Il pedagogista, infatti, afferma che il problema dell’integrazione è compito dell’educazione, che “più che aggiungere attività ad attività, più che prolungare la permanenza del ragazzo nella scuola, si tratta di dare una più moderna fondazione e una migliore coordinazione delle iniziative che debbono gratificare il giovane nelle sue molteplici esigenze di vita, di crescita, di affermazione” (Petracchi G., L’integrazione scolastica, La Scuola, Brescia 1969, p. 11-12). Al di là della contestualizzazione delle riflessioni riferite da Petracchi, ciò che risalta è il fatto che è solo attraverso il riconoscimento della persona e alla sua valorizzazione, indipendentemente dal suo retaggio culturale, è possibile accedere in maniera significativa ad una società concretamente fondata sulla compartecipazione attiva di tutti i suoi membri. L’integrazione, continua l’autore, è qualcosa che è volta ad “animare i processi creativi, la capacità di autodeterminazione, l’assunzione di corresponsabilità, la libertà di scelta, la disposizione alla collaborazione” (Petracchi G., L’integrazione scolastica, La Scuola, Brescia 1969, p. 42). Ecco, allora, che la specificità della pedagogia, nella sua componente interculturale e di integrazione, oltre a potersi declinare come pedagogia comparata e specchiarsi circa la realizzazione di specifiche istituzioni educative vuole prospettarsi come una manutenzione dell’intero impianto teorico/prassico. È la pedagogia stessa, afferma la Dusi, che “si fa interculturale nel momento in cui accetta la sfida della multiculturalità, della diversità e rimette in discussione il proprio sistema di significati, prestando attenzione alle suggestioni e ai segnali del tempo presente” (Dusi P., Flussi migratori e problematiche di vita sociale. Verso una pedagogia dell’intercultura, Vita e Pensiero, Milano 2000, p. 205). In questa direzione pedagogica ci troviamo di fronte a quello che la Santelli Beccegato dichiara essere una uguaglianza ontologica e una differenza storico-psicologica. 28
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Secondo la pedagogista, infatti, solo nel momento in cui ci “sarà la convinzione diffusa, principio comune, che ognuno di noi è uguale all’altro e ognuno di noi è diverso dall’altro, la qualità della vita potrà migliorare per tutti e per ciascuno: nel gioco complesso di uguaglianza e di diversità si svilupperanno le dinamiche costruttive per una società interculturale” (Santelli Beccegato L., Interculturalità e futuro. Analisi, riflessioni, prospettive pedagogiche ed educative, Levante, Bari 2003, p. 22). Su tali basi la pedagogia si offre ad una ricostruzione del concetto di interculturalità quale problematica sempre più impellente in ogni società cosiddetta moderna.
2.1 La complessità interculturale Da recenti stime (Cfr. AA. VV., Cittadinanza e Costituzione. Cittadini consapevoli, Alicei, Città di Castello, 2009, p. 116) solo nel nostro paese gli immigrati entrano al ritmo di 500 mila all’anno provenendo da circa 187 paesi, senza contare l’odierno incremento dato dall’immigrazione massiccia dal nord Africa verso le coste lampedusane. Tali dati, oltre ad avere ripercussioni profonde nell’economia nazionale, rappresentano un fenomeno di dimensioni così ampie che non possono essere trascurate in nessuna delle sue molteplici sfaccettature ed evidenze. Se l’adattamento economico rappresenta un’azione per così dire a breve termine, lo stesso non si può affermare per ciò che concerne l’integrazione culturale e sociale, la quale coinvolge intere e diverse generazioni al fine di essere percepita nella giusta maniera. Anche se molti slogan, tra cui quello dell’unione europea In varietate Concordia, tradiscono il desiderio sempre meno ombreggiato di una coesione totale tra le diverse culture, ad essi, infatti, non sempre corrispondono azioni che tendono e hanno un risultato concreto perché questo si realizzi. Tutto ciò non solo è dovuto da forti limitazioni derivanti dalla percezione del concetto di intercultura e/o dalla diversità ad essa circoscrivibile, piuttosto, sempre più di frequente, si assiste ad una radicale chiusura sociale e valorizzazione estrema della propria cultura a discapito di una pacifica convivenza. Naturale diviene il fatto che nel momento in cui una cultura ha il sentore di sentirsi minacciata dall’esterno la sua più ordinaria reazione non 29
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dimora nella disponibilità al dialogo, ma alla serratura e alla conservazione di essa. A conferma di ciò, nei confronti dell’intercultura, Hunfeld afferma che “l’obiettivo dell’apprendimento interculturale non può essere quello di abbandonare il proprio, di scambiarlo con ciò che fino ad ora era estraneo o di perderlo in una diffusa multiculturalità senza distanza” (Hunfeld H., Die normalitat des Fremden, Durr-Kessler, Koln 1997, p. 52), piuttosto di percepire la diversità culturale come soltanto una delle innumerevoli manifestazioni che essa può assumere. La differenza, affermano Fehèr ed Heller, “non è un concetto sostantivabile; essa non si definisce tramite ciò che è, ma tramite il modo, la misura e i concetti della sua distinzione da altre differenze. La differenza è un concetto riflessivo, un concetto dell’intersoggettività, non della sostanzialità” (Fehèr F., Heller A., Biopolitik, Campus Velarg, New York 1995, p. 97). Attravreso tali concezioni l’intercultura giunge al significativo traguardo di una “autorelativizzazione di una forma di vita” (Lϋttersfels W., Roser A., a cura di, Der Konflikt der Lebensformen in Wittgestein Philosophie der Sprance, Suhrkamp, Frankfurt 1999, p. 13), ossia il riconoscimento che ogni cultura rappresenta una variante, una differenza delle molteplici realtà che la cultura stessa può assumere. La cultura, qualunque espressione essa assuma, deriva da una matrice comune e unitaria che si dona e si parcellizza a seconda delle molteplici variabili che intervengono nel suo processo di volgarizzazione. L’unità della cultura, stipula Lanfranco Rosati, “è costituita dalla ricomposizione dei singoli frammenti, assunti anche in tempi e con modalità diverse perché reclamanti atti differenziati, persino di natura percettiva” (Rosati L., Paradigmi culturali e didattica, La Scuola, Brescia 1998, p. 20). Di qui è facile giuoco dimostrare che il fine della pedagogia sarà quello di percepire e far considerare al cittadino tali diversità non solamente per mezzo di un vissuto passivo e multiculturale delle esperienze soggettive, ma una concorde prospettiva capace di spirito di cooperazione, cooptazione attiva e presente, posta a salvaguardia, anche con la forza se necessario, di identità e tratti culturali. Così ogni singolo soggetto non avvertirà la diversità come componente per una differenza, piuttosto una difformità arricchente, causa e conseguenza inevitabile dell’evoluzione sociale. Ben consci del fatto che “l’apprendimento interculturale è difficile, poiché è un apprendimento che toglie al singolo, anche in modo involontario, la sicurezza della propria comunità, esponendolo 30
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all’insicurezza di un nuovo rapporto” (Baur S., La pedagogia e le sfide della pluralità. La bildung nella società postmoderna, Erickson, Trento2008, p. 74), non possiamo esimerci dal fondare un processo educativo basato sull’acquisizione di quelle che Baur definisce come “le componenti di una competenza interculturale”. L’Autore declina tali competenze in: - di decontrazione - di decostruzione - dell’insicurezza - dell’empatia - della comunicazione - metalinguistica - di solidarietà. Tali metacompetenze hanno l’obbligo di essere incrementate e gestite in modo individuale, anche se difficilmente programmabile. Una “democrazia delle differenze”, come ricorda Frankl, ove l’educazione e la bildung di ogni soggetto si realizza per mezzo di un movimento senza ritorno, cioè “esperienza dell’altro che non torna più al proprio stesso, ma che si apre invece all’altro senza remore coinvolgendosi anche a rischio mettere in pericolo il proprio Io” (Lévinas E., Die spur des Anderen, Alber studienausgabe, Freiburg 1998, p. 110).
2.2 Integrazione tra globalismo e glocalismo Il termine integrazione ha assunto nel corso del tempo una valenza sempre più decisiva e fondamentale in ogni società. Di integrazione se ne discute in vari settori del sapere come, ad esempio, integrazione del disabile, integrazione sociale, integrazione culturale etc. Nel cercare una definizione il più possibile esaustiva, ma non completa, dell’integrazione Morselli E. dichiara che essa è connotabile come un “inserimento ed adattamento in modo più o meno duraturo di un individuo ad un gruppo o di un gruppo ad un organismo più vasto. L’integrazione comporta che vengano recepiti gli ideali sociali, i modelli di comportamento e i tipi di relazione del gruppo” (Morselli E., Dizionario di filosofia e scienze umane, Carlo Signorelli Editore, Milano 1993, p. 124). L’indiscutibile importanza che assume tale riflessione nella generazione di una società che si possa definire moderna ruota attorno alla presa di 31
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coscienza di un’identità sociale plurale, di una fusione o interdipendenza del soggetto alla cultura, ma soprattutto la necessità di stabilire un contatto tra globalismo e glocalismo. A partire dagli anni Novanta del secolo trascorso, infatti, l’integrazione era vista come una forma di interdipendenza globale o una lotta contro le esclusioni sociali, riassunte in quell’imparare e vivere insieme espresso da J. Delors nel rapporto Unesco del 1999. Il filantropo dell’educazione, infatti, suggerisce una duplice valenza dell’educazione: “ad un primo livello, la scoperta graduale degli altri; ad un secondo, l’esperienza di obiettivi comuni per tutta la vita, ciò che sembra essere un modo efficace di evitare o di risolvere conflitti latenti” (Delors J., Nell’educazione un tesoro, Rapporto all’Unesco della Commissione Internazionale sull’educazione per il Ventunesimo Secolo, Armando, Roma 1999, p. 86). La continua scoperta dell’altro e la costante tensione propositiva nella ricerca di obiettivi comuni offre tanto alla società, quanto al singolo soggetto, la possibilità di generare una democrazia che possieda in sé il potere generativo della persona. Da principio è possibile distinguere un’integrazione semplicemente fisica e una integrazione modale. Nella prima ci si riferisce alla presenza di più soggetti e di più culture all’interno di uno stesso territorio e/o contesto sociale, mentre nel secondo caso alla coesione e fusione dei modi attraverso cui la cultura si realizza. In atri termini è possibile tradurre tale suddivisione in due prospettive: la prima di natura esterioristica in cui la mutevole diversità soggettiva è percepita come diversità visibile e conclamata, ed una di natura interioristica in cui vengono messe in luce le diverse peculiarità che ogni soggetto possiede ed espresse nel confronto con l’alterità. Certo è che non appare per nulla facile, allo stato attuale dei fatti, trovare nuova luce e nuovi orizzonti che gettino chiarezza sull’argomento e che siano sufficientemente “nuovi”, tali, cioè, da generare forme di integrazione e socializzazione tra diverse culture. La questione riguardante la multiculturalità e l’integrazione può sembrare ormai una questione di ieri, ma la realtà e lo stato dei fatti ci suggerisce che è ancora quanto mai attuale e, soprattutto, non potrà non essere di domani visto la continua richiesta di interventi educativi volti alla sua risoluzione. Che sia una questione di ieri non c’è dubbio, in particolar modo osservando la copiosa letteratura degli anni Cinquanta e Sessanta circa l’immigrazione e l’emigrazione europea e mondiale. Che è, nello stesso 32
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tempo, una questione attuale appare innegabile, specialmente in sollecito alle continue trasformazioni sociali ad opera della globalizzazione, dell’avanzare tecnologico e del forte esodo da parte del popolo mussulmano da terre ormai devastate dalla guerra. Che sarà una sfaccettatura dell’educazione di domani v’è certezza perché l’uomo, sempre più libero di muoversi in cyberspazi e nell’intera totalità del globo, troverà sempre maggiori ostacoli e confini culturali da dover oltrepassare in una chiave di lettura di glocalismo. Il problema della laicità e dell’autonomia appartenente ad ogni soggetto appare, quindi, un problema sempre impellente, che non potrà mai dirsi concluso o definitivamente superato. La laicità prevede infatti, una “autonomia del pensare, del fare scienza, del costruire una socialità ed una politica comune” (AA. VV., Motivi per una educazione morale, in Prospettive EP. Bimestrale di educazione permanente, Maggio-Giungo 1983, n° 3, p. 25), capaci di rispecchiare le peculiarità dei soggetti appartenenti ad una data area. Se tale diversificazione da un lato ha l’assoluto valore di incrementare la settorialità e specificità di un dato contesto, dall’altro lato pro-voca e produce una diversità che ha da essere educata e analizzata al fine di studiarne i contorni e le soluzioni. Gli effetti di tale modello, infatti, non possono non essere che la costruzione di società volte al pluralismo culturale e al riconoscimento delle diversità, ma consolidato dalla salvaguardia delle culture specifiche e settoriali. A. Agazzi riferisce sul fatto che “il credente sa di dover distinguere tra la sostanza fondamentale della sua fede, quell’insieme cioè di certezze che mette al centro della sua vita, e i molteplici rivestimenti e le interpretazioni storiche che, legati a strumenti culturali contingenti, ammettono un certo margine di provvisorietà e indeterminatezza” (Agazzi A., Autenticazione del pluralismo e educazione al pluralismo, Atti del 3° Convegno tenutosi a Roma 1978, p. 140). Il problema diviene quando tali manifestazioni culturali non prevedono una provvisorietà e indeterminatezza e si prescrivono quali prospettive assolute e indiscusse, insomma totalitarie, certamente imposte con la forza, la soggezione e la paura.
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2.3 La fine del multiculturalismo All’interno dello scenario scandito dall’integrazione, in cui ogni soggetto è percepito come detentore di elementi propri immersi in contesti magari differenti, tuonano le parole del Primo Ministro inglese David Cameron. “Il multiculturalismo ha fallito”, ha pontificato Cameron ad un’assise a Monaco di Baviera di quest’anno. Secondo Cameron, infatti, il “multiculturalismo di stato ha fallito e ha lasciato i giovani musulmani vulnerabili al radicalismo. È tempo di voltare pagina sulle politiche fallite del Paese. Per prima cosa, invece di ignorare questa ideologia estremista, noi dovremo affrontarla, in tutte le sue forme. (E ancora), sotto la dottrina del multiculturalismo di stato, abbiamo incoraggiato culture differenti a vivere vite separate, staccate l'una dall'altra e da quella principale. Non siamo riusciti a fornire una visione della società, alla quale sentissero di voler appartenere. Tutto questo permette che alcuni giovani musulmani si sentano sradicati. Appare il momento di lasciare da parte la tolleranza passiva del Regno Unito, ha dichiarato Cameron, con un «liberalismo attivo, muscolare», per trasmettere il messaggio che la vita in Gran Bretagna ruota intorno a certi valori chiave come la libertà di parola, l'uguaglianza dei diritti e il primato della legge. Una società passivamente tollerante rimane neutrale tra valori differenti. Un paese davvero liberale fa molto di più. Esso crede in certi valori e li promuove attivamente” (www.corriere.it) Il multiculturalismo è visto ormai come una chimera o addirittura come una vera e propria utopia. Secondo Angelo Panebianco (Panebianco A., Addio società multiculturale, tratto da Il Corriere della Sera del 5 aprile 2004) addirittura il multiculturalismo non è adatto alle democrazie europee quale forma di aggregazione sociale ed avanzamento culturale. A tal proposito Alberich sottolinea il fatto che il problema non risiede nella diversità e nel pluralismo, ma nelle loro concrete e storiche realizzazioni. Certo è che se non educato il pluralismo genera dubbio, incertezza, paura, xenofobia ed ansia e, nella maggior parte delle volte, sfocia in forti momenti di instabilità sociale e perdita dell’identità soggettiva. Garritano riflettendo su tale questione asserisce che “se Das Unheimlieche rimanda all’espressione locus suspectus (luogo sospetto), è altresì vero che rievoca il termine xenos (straniero). Tanto lo xenos che locus suspectus rinviano a quanto non è familiare, a quanto può generare timore, paura, minaccia, insomma a ciò che può mettere in discussione l’identità e la sua integrità, la proprietà del proprio. Il locus suspetctus è 34
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appunto quel luogo in cui è probabile che ci si imbatta in un evento non tranquillizante, nell’incontro con lo xenos” (Garritano F., La formazione come questione in Jacques Derrida, Ancia, Roma 2008, p. 286). Quel luogo, oggi, è la società entro cui ci si muove quotidianamente. Le seppur sommarie riflessioni consentono di evidenziare “come la condizione di pluralismo in quanto tale non sia garanzia per una più ricca umanità, una laicità solo subita e tollerata non approda ad esiti positivi. La laicità è subita o solo tollerata quando accetto l’altro e la sua cultura soltanto per convenienza, perché in qualche modo l’altro stimola le mie posizioni che finiranno, di certo, per affermarsi. [...] Se è vero che la tolleranza è atteggiamento obbligato per realizzare una condizione di laicità, è anche vero che il tollerare e il tollerarsi non sono che un primo passo verso la laicità. Non siamo che alle soglie della laicità se non si procede oltre la tolleranza che potremmo definire come una laicità negativa, nella quale le differenti posizioni non comunicano e il desiderio del monopolio della proposta culturale è costantemente presente” (Prospettive EP. Motivi per una educazione morale, bimestrale di educazione permanente Maggio-Giungo 1983, n° 3, p. 27) In tale ottica si può affermare che il multiculturalismo rappresenta la più dannosa e classificatoria delle politiche occidentali a partire dalla metà del secolo scorso, da quando cioè la fine della Grande Guerra ha generato enormi flussi emigratori ed immigratori.
2.4 Fraintendimenti diffusi Il problema fino ad ora analizzato, oltre ad avere molteplici sfaccettature, genera equivoci soprattutto per le numerose accezioni che la parola multiculturalismo ha assunto nel tempo rispetto al suo reale significato. Nella maggior parte delle volte il termine multiculturalismo si è semplicemente tradotto in multirazzialità o pluralismo sociale, in multilinguismo o pluridentità. Proprio da tale disorientamento ed indeterminatezza semantica il multiculturalismo ha concepito nazioni paragonabili ad ostelli in cui ogni soggetto si è sentito libero di “imporre” la propria cultura agli altri, provocando così delle profonde lacerazioni sociali. Eppure ogni qualvolta un’autorità movesse qualche incertezza o critica rispetto a tale modello veniva immediatamente etichettato, nella migliore 35
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delle ipotesi, come intollerante o dispotico, senza comprenderne la reale valenza espressa. Il multiculturalismo ha promosso stati incapaci di imporre leggi e culture proprie, lasciando alla deriva o, come succede nella maggior parte delle volte, senza riconoscere la necessità di una guida non solo legislativa, ma soprattutto culturale. Identità e alterità rappresentano i due pilastri della convivenza e socializzazione e non possono essere considerati come sovrapponibili, meno che mai che l’uno sia di ostacolo all’altro. Piuttosto identità e alterità sono le due facce della stessa medaglia, nella quale la prima richiama costantemente l’altra per completarsi e rendersi fruibile da parte della persona. Solo così il soggetto è messo in grado di ri-conoscersi e ri-conoscere gli altri, solo attraverso la netta percezione di sé e della propria identità nell’alterità. Certo è che, come stabilisce Edmond Husserl (Husserl E., L’idea di Europa, Cortina, Milano 1999), nei vari Paesi europei si assiste ad una incessante crescita di una identità plurale, la quale se da un lato ha la grande prerogativa di diversificare lo status quo e generare spinte determinanti all’avanzamento sociale, dall’altro provoca un forte disorientamento nella persona, incapace di disporsi dentro determinate frastagliature culturali e dialogiche. Come riferisce S. Baur, l’identità fino a non molto tempo fa aveva un significato specifico e cioè quello di essere assimilata e concepita all’interno di stereotipi e, nello stesso tempo, possedere connotazioni e peculiarità individuali. Il principio di identità collettiva e monoculturale ha rappresentato e rappresenta, comunque, la base della costituzione della maggior parte degli stati nazionali tuttora vigenti, anche se questo, a volte, sfugge ad univoche determinazioni e definizioni. L’identità, oggi più che mai, ritrae l’insieme di identità parziali, ognuna delle quali esprime uno specifico aspetto della vita dell’uomo. Tutto ciò deriva da quel pluralismo fino ad ora descritto, da un’articolazione e segmentazione della lingua, della religione, della storia, dell’arte e delle scienze. L’Europa rappresenta una tra le più alte espressioni di una unità non omogenea, ma che comunque, rileva Morin, è generata da “un vortice fatto di interazioni e interferenze tra dialogiche multiple” (Morin E., Pensare l’Europa, Feltrinelli, Milano 1990), che, seppur costantemente 36
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ha unito popoli, oggi sembra deteriorarsi sotto i colpi della globalizzazione. L’identità europea, comunque, non può essere circoscritta alla semplice identità plurale o ad un sistema laicizzato capace di problematizzare tutte quelle libertà espressive. Lo stesso Morin afferma che “siamo gli eredi della problematica; dobbiamo ora divenire i pastori” (Morin E., Pensare l’Europa, Feltrinelli, Milano 1990). Per far sì che questo processo avvenga non possiamo non riflettere sul fatto che l’identità europea nasce e ancora si evolve secondo il pensiero greco e l’eredità romana. L’idea di ragione, di scienza, di arte, di dogmi religiosi etc. derivano dal lungo processo che la cultura occidentale ha subito nel corso del tempo. Essa ci appartiene ed è parte integrante del nostro pensare ed agire, rappresenta l’anima di ciò che siamo e solida base del nostro futuro. Sono queste le ragioni che spingono G. Minichiello a ribadire che la cultura occidentale sta mano a mano perdendo la sua vera identità dichiarando che “il declino dell’occidentalismo e delle forme progressive della sua cultura, si pongono come forze anonime e potenze indecifrabili di una minaccia complessiva portata al cuore di quella forma di esistenza che contraddistingue l’essere personale, che non è l’essere in generale, ma la sua declinazione nelle articolazioni della singolarità vivente (Minichiello G., Tra identità e universalità, in Cinquant’anni di Scholé tra memoria e impegno, La Scuola, Brescia 2005, p. 299). Tutto ciò si scontra con la pretesa di una multicultura che incapace di amalgamare concezioni platoniche ad impostazioni eclettiche, ideologie socratiche a valori giudaici. Il carattere nazionale che ci rappresenta si scontra contro quelle ebraiche e musulmane, ma non genera una “terza cultura”, nata e sviluppata dall’unione di due culture differenti. Non possiamo chiedere ad un islamico di avere un’anima culturale europea prodotta per mezzo del sangue e di secoli, ma nemmeno possiamo pensare di promuove l’operazione inversa. La Cultura italiana, ad esempio, è una evoluzione del pensiero a partire dal mondo romano, uno sviluppo che si è acutizzato nel Romanticismo e nell’Illuminismo, una maturazione che è giunta a noi per mezzo di lotte e profonde trasformazioni. È un tema, suggerisce Benvenuto, che comunque “non può essere trattato senza guardare ad alcuni dei problemi, complessi, delle politiche dell’istruzione e della formazione mirate alla promozione di ciascuno di quei tutti” (Benvenuto G., a cura di, La scuola diseguale. Dispersione ed equità nel sistema di istruzione e formazione, Anicia, Roma 2011, p. 251) 37
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2.5 Conseguenze e soluzioni Come conseguenza delle parole espresse da Cameron, di cui abbiamo già riferito, l’Inghilterra si è posta come obiettivo di ridurre in maniera drastica il flusso immigratorio, passando dai 200 mila arrivi annuali a qualche decina di migliaia entro e non oltre il 2015. Questo restringimento dovrà essere attuato per mezzo, come si evince dal proseguimento del discorso dello stesso Cameron, di tre punti nodali: - politiche concrete sull’accoglienza volte a segnalare abusi, illeciti e interventi mirati; - una immigrazione qualificata e quantificata, soggetta sia a restrizioni numeriche (non di massa), sia ad una qualificazione degli immigrati; - il contributo delle comunità straniere quale collante tra società e immigrato - il riconoscimento del valore persona. Non si tratta di strategie difensive o affronti xenofobi, piuttosto occorre dare il giusto valore e peso a ciò che è la cultura di appartenenza; la quale, senza calpestamenti o fraintendimenti, deve essere tangibile e di riferimento a chi si affaccia nel paese ospitante. In pieno accordo con le idee di Cameron, sono le riflessioni di Geert Wilders, leader olandese del Partito per la libertà, il quale ribadisce il decadimento del multiculturalismo e della sua insostenibilità sociale ed economica, ma soprattutto azzarda l’ipotesi che la stessa integrazione rappresenti un modello inaccettabile per produrre avanzamento sociale. In sintonia con tali prospettive sono le idee della Cancelliera tedesca Angela Merkel che, pur rilevando l’importanza degli immigrati nella manovalanza di ogni paese, si preoccupa del fatto che quest’ultimi hanno l’obbligo di integrarsi, rispettare ed adottare la cultura e i valori del paese ospitante. Un esempio tra i tanti ci è dato dall’esperienza dei primi immigrati americani, i quali venivano lasciati per i famosi “quaranta giorni” davanti alla Statua della Libertà a studiarsi le leggi e le norme che vigevano in America prima di poter solcare il suolo. Certo un esempio che può apparire un po’ duro, ma ci può dare la netta percezione di ciò che significa conoscere la propria cultura e rispettare quella degli altri. A livello educativo non può essere trascurata una trasformazione così radicale nella percezione dell’immigrato, così come non può essere 38
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tralasciata una politica nazionale posta a salvaguardia dell’identità di un paese che altrimenti rischia di svuotarsi dei propri valori e principi. A conferma di quanto espresso va rilevato che seppur in tutta Europa si susseguano progetti e strategie alla ricerca di un equilibrio nell’integrazione, questi non trovano mai risposte concrete, soddisfacenti ed efficienti. Dello stesso parere sono le riflessioni espresse da Minichiello al XLII Convegno di Scholè tenutosi a Brescia nel 2005. Il pedagogista afferma che il pensiero e quindi l’azione laica sono il risultato di un “qualcosa che nasce sì dal soggetto – o viene riconosciuto da lui -, ma a prezzo di un processo, di un sacrificio di sè, che fa spazio, progressivamente, mediante esercizi di spoliazione del proprio io e della propria medesima soggettività, ad un altro modo di essere, di conoscere e di amare” (Minichiello G., Tra identità e universalità, in Cinquant’anni di Scholé tra memoria e impegno, La Scuola, Brescia 2005, p. 301) Nel semplice tollerarsi si nascondono idee che oltrepassano, di poco, il semplice ignorarsi, di certo non si è diretti verso la piena comprensione dell’altro e della sua identità culturale. Oltre la tolleranza non vi è un appagamento temporaneo e pacifico degli elementi che definiscono una cultura, ma una coscienza civile, quale insieme di regole e di norme, culturali e giuridiche, comuni ed univoche e alle quali ogni soggetto possa rifarsi senza indugi e tentennamenti. La questione è chiaramente posta già a partire dagli anni Ottanta da Flores d’Arcais il quale si domanda se: “la cultura personale, quella che appartiene a ciascuno, che è cioè intimamente vissuta da ciascuno, possa essere intrinsicamente pluralista” (Flores d’Arcais G., Pluralismo culturale ed impegno-responsabilità educativa, in op. cit. convegno, p. 112-113) La risposta è tanto semplice quanto lapidaria. La cultura appartenente ad ogni soggetto non può essere pluralista soprattutto perché questo comporterebbe l’annichilimento del soggetto stesso. Saverio Avveduto ha riflettuto recentemente su tale questione asserendo che “ammettere un pluralismo nella cultura sarebbe come constatare che la persona non ha raggiunto alcuna verità o che addirittura non ha iniziato una qualche forma di ricerca della stessa. [...] Non può esserci dunque pluralismo nella cultura personale a meno che non si voglia veder compromessa l’identità della persona che la esprime” (Cfr. Saverio A., La cultura relativista. Breviario di zetetica: alla ricerca di una verità irraggiungibile, Armando, Roma 2010). 39
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Resta da vedere se la pluralità culturale può essere veritiera in un modo estrinseco alla persona, cioè se sia possibile una pluralità di culture che raggiungano il vero, indipendentemente dal punto di partenza. Certamente viene ad essere confermata ancora una volta quella valentia della cultura che se da un lato si fa nella sua unicità, dall’altro lato si traduce, per e con la persona, secondo diverse modalità. Una tendenza della cultura a divenire culture, un vettore che “testimonia che una cultura o una società conferiscono al proprio presente storico” (AA. VV., I filosofi e le idee. Esperienze filosofiche e storia del pensiero. Il Novecento e il dibattito contemporaneo, Vol. III Mondadori, Milano 2004, p. 284) e che si traduce nelle accezioni più disparate della cultura stessa. È proprio da tale modello che nasce l’idea, non ancora pienamente corroborata, di intercultura, intesa come superamento del concetto di multicultura e rappresentante il vero riconoscimento del valore persona, preso nella sua più singolare autonomia, apertura e singolarità. Bisogna ammettere, una volta per tutte, che oltre alla cultura di appartenenza, ne esistono delle altre e che queste possono essere vicine ai nostri schemi culturali o lontano da essi. Il problema, ricorda la Beccegato, “va ricondotto al significato e al valore che ha una cultura nel vissuto individuale e sociale” (Santelli Beccegato L., Interculturalità e futuro. Analisi, riflessioni, proposte pedagogiche ed educative, Levante, Bari 2003, p. 22). Rispetto ad una tolleranza reciproca e passiva deve essere riconosciuta quella categoria rappresentata dal carattere identitario di una data area territoriale, quale idea tendente a “riconoscere che ciascuna è prodotto della creatività di un popolo e come tale ciascuna va rispettata” (Secco L., L’educazione della volontà in prospettiva interculturale, in Portera A., a cura di, Pedagogia interculturale in Italia e in Europa. Aspetti epistemologici e didattici, Vita e Pensiero, Milano 2003, p. 341). Non è solo una questione legata alla pacifica convivenza, seppur di fondamentale importanza, piuttosto un riconoscimento del soggetto uomo e certezza che ogni evoluzione passa dal difficile equilibrio tra diversità e interconnessione.
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2.6 Intercultura vs interculture “L’homme est ce qu’il devient”, dichiara A. Classe. Tale notificazione garantisce che la personalità di ogni soggetto si matura e si modella secondo le relazioni che esso instaura con l’alterità. L’adesione al concetto di diversità come metacategoria offre una fonte di evoluzione sociale insostituibile, a patto che ogni persona sia messa in grado, nel suo divenire, di esprimere se stesso e le proprie peculiarità. A conferma di ciò Flores d’Arcais afferma che “il molteplice – e dunque la possibilità del diverso e del nuovo – è luogo dell’esistenza umana” (Flores d’Arcais G. F., in AA. VV., La mia pedagogia, Liviana Editrice, Padova 1972, p. 155) e ambiente critico entro cui si diviene capaci di perfezionarsi e svilupparsi secondo una prospettiva pluralista. Fatto sta che una volta appurata una prospettiva interculturale non possiamo esimerci dal riferire che l’uomo, “in quanto avente anche una propria specificità storica e sociale, avverte il costante bisogno di realizzarsi con gli altri, di fronte ai quali si pone con le proprie aspettative ed il proprio carico di desideri ed emozioni. Il soggetto umano nel proprio sviluppo dinamico, scrive e realizza la sua storia, che è poi la storia dell’umanità, non solo del singolo se è vero che gli effetti prodotti dalle proprie scelte e decisioni, non sempre improntate al rispetto di un vero impegno etico, hanno inevitabilmente ripercussioni anche sugli altri, testimoniando così che la libertà individuale finisce sempre per determinare e comunque incontrare la libertà altrui” (Rosati A., Senza ragione. Contraddizioni e incertezze del nuovo millennio, Ancia, Roma 2006, p. 67). È proprio un fatto di libertà espressiva che rende difficile, se non impossibile, quel multiculturalismo di cui abbiamo definito i tratti salienti. Il concetto di libertà, se non ben orietato, ostacola, inoltre, anche quell’interculturalità che reclama una collaborazione e una intersezione tra le diverse culture. Delle innumerevoli definizioni che ne sono state date di intercultura quella di Franco Cambi sembra essere la più completa ed esaustiva. Il pedagogista, infatti, afferma che l’intercultura “-come modello teorico, come obiettivo storico sociale e come fascio di etnie operative – ci sta, oggi, di fronte sia come compito sia come sfida. O meglio: come compito che sfida gli abiti mentali, pregiudizi, canoni cognitivi e axiologici e ci conduce oltre le identità, pur non negandole, e verso un universo logico41
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epistemico ed etico costruito sull’incontro, il dialogo, il mètissage. Ci conduce verso un orizzonte nuovo di vita, di relazione, di scambio in cui la regola è porsi con gli altri, accordarsi insieme e far maturare spazi comuni, sempre più comuni, seppur rispettosi delle differenze e del loro valore” (Cambi F., Incontro e dialogo. Prospettive della pedagogia interculturale, Carocci, Roma 2006, p.7). Non è facile, afferma Agnese Rosati,“costruire rapporti e neppure mantenerli, nella dimensione Io-Tu c’è sempre un carico problematico, una complessità che non risparmia le relazioni umane e che oggi pare risentire della rete nella quale viviamo che ci colloca da una parte in una dimensione planetaria e che allo stesso tempo non trova orizzonti se non si ha il coraggio di guardare oltre, in quell’universo della intercomprensibilità umana” (Rosati A., Senza ragione. Contraddizioni e incertezze del nuovo millennio, Ancia, Roma 2006, p. 74) L’educazione interculturale deve essere una scelta, un atto volontario, ma anche, condividendo il pensiero di Bruno Rossi, “una scelta di civiltà” (Rossi B., L’interculturalità, una scommessa pedagogica, in AA. VV., Pedagogia interculturale. Problemi e concetti., La Scuola, Brescia 1992,p. 257). Una preferenza e selezione, quindi, che chiama in causa direttamente l’evoluzione della specie umana e ne definisce ed orienta il cammino per gli anni futuri. C’è da chiedersi, allora, quali possano essere i punti di contatto tra culture apparentemente del tutto differenti e che, in modo superficiale, difficilmente possono avere corrispondenze dialogiche e storico-culturali, soprattutto laddove è forte il sentimento di appartenenza. Molte sono state le iniziative che nel corso del tempo hanno cercato di avvalorare questa componente dialogica e di libertà della persona. A partire dalle Controscuole fino a giungere alle free schools americane, dalla scuola della Quinta Strada di Manhattan alla Scuola bernardiniana (Bernardini A., La supplente, La nuova Italia, Firenze 1975), tali istituzioni educative hanno promosso, a volte anche riuscendo con successo, la forte carica sociale della persona. Si deve comunque registrare che tali proposte si sono scontrate con programmi didattici sempre più ingessati ed incentrati sul sapere nozionistico, lasciando, così, poco spazio alla creatività docente e aumentando il divario culturale prodotto dalle nuove generazioni di immigrati. Tale limitazione educativa ha prodotto modelli che fino ad ora rappresentavano un vero e proprio successo educativo, ma ora siamo 42
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costretti a constatare che non possiedono più quella valenza nel generare nuove società improntate sulla dialogicità e interscambio Io-Tu. Certamente l’educazione ha l’obbligatorietà di elaborare idee e prassi in grado di risolvere, quello che a noi pare essere, il vero problema del XXI secolo. Una sfida che ha origini lontane, ma che ancora stenta ad essere risolta, distante, di certo, dall’essere definita come conclusa. La maggior parte della letteratura riguardante l’intercultura, infatti, non sempre sembra capace di rispondere positivamente alle continue richieste sociali, soprattutto oggi che la relazione interpersonale si sta evolvendo e si consuma secondo canoni dettati dall’avanzare tecnologico e, quindi, non ancora circoscritti ed analizzati fino in fondo. L’unico punto di raccordo, a noi pare, è rappresentato ancora una volta nell’idea di “cultura unica”, la quale, attraverso il suo donarsi alla persona, si specifica e si delinea secondo le forme culturali della storia, dell’arte, della scienza, della religione e della lingua. Infatti, “ogni cultura ha la sua lingua, per esprimersi e comunicare, la sua arte, cioè le sue proprie manifestazioni di esteticità, la sua scienza come interpretazione del mondo fenomenico, la sua storia, dunque il suo passato, la sua religione come soluzione compositiva delle contraddizioni, delle incomprensioni, della coscienza della finitezza umana” (Rosati L., Il tempo delle sfide. Educare nel postmoderno, La Scuola, Brescia 1993, p. 121).
2.7 Pedagogia interculturale L. Pati, in un recente testo (Pati L., Pedagogia sociale. Temi e problemi, ISU, Milano 2006), riferisce del fatto che la pedagogia interculturale si deve mettere in dialogo con tutte le pedagogie, ma maggiormente con quella generale (dalla quale ricava gli orizzonti di senso) e con quella sociale (condividendone la dimensione comunitaria). Una pedagogia interculturale, quindi, che può essere definita come “un progetto educativo intenzionale che taglia trasversalmente tutte le discipline insegnate nella scuola e che si propone di modificare le percezioni e gli ambiti cognitivi con cui generalmente ci rappresentiamo sia agli stranieri sia al nuovo modello delle interdipendenze” (Susi F., a cura di, Come si è stretto il mondo, Armando, Roma 1999, p. 11). Nel momento in cui l’educazione, e cioè la prospettiva di avanzamento sociale, investe in tali diversificazioni culturali e si fa non più pedagogia 43
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interculturale ma educazione interculturale resta difficile trovare solide basi su cui erigere un impianto teorico conoscitivo capace di avvalorare ogni peculiarità individuale e nello stesso tempo non sminuirne altre. Ogni persona è gelosa e fiera della propria identità ed alterità e l’educazione interculturale rappresenta una predisposizione alla relazione con l’altro che si completa in quello che Duccio Demetrio definisce come “pedagogia relazionale” (Demetrio D., Favaro G., Immigrazione e pedagogia interculturale. Bambini, adulti, comunità nel percorso di integrazione, La Nuova Italia, Firenze 1992, p. 11). Nello stesso tempo, se prendiamo come punto fermo l’unicità della cultura tutto diviene più fluido e pacificamente accettato da parte del singolo, il quale trova soddisfatto il proprio essere immerso nella molteplicità. Tale prospettiva risiede nell’assoluta certezza che è solo insieme che si può costruire il futuro, “con la forza della pluralità di competenze, del non sentirsi mai soli, incoraggiandoci a vicenda per superare i problemi. [...] Insieme si discute, si cambiano idee ed esperienze, in una dimensione che va oltre la tradizione cousinettiana (Salvato R., Mancini R., Il lavoro di gruppo. Competenze per l’azione educativa, Margiacchi, Perugia 2007, p. 2). Di qui si percepisce in maniera immediata che ogni cultura è espressione di una delle innumerevoli possibilità che essa può assumere. La differenza, affermano Feher e Heller, “non è un concetto sostantivabile; essa non si definisce tramite ciò che è, ma tramite il modo, la misura e i concetti della sua distinzione da altre differenze. La differenza è un concetto riflessivo, un concetto dell’intersoggettività, non della sostanzialità” (Baur S., La pedagogia e le sfide della pluralità. La bildung nella società postmoderna, Erickson, Trento 2008, p. 71). Per tali ragioni la pedagogia interculturale, ricorda Cambi, “deve attrezzarsi a comprendere le culture altre, deve elaborare vie di comunicazione e criteri di scambio tra queste culture, deve allenare al dialogo e alla tolleranza. Si tratta, quindi, di porre enquestion l’etnocentrismo della pedagogia e smascherarne i caratteri di razzismo e di intolleranza, nella società. Così si apre alla pedagogia un compito arduo, urgente ed epocale, che essa deve cercare di risolvere” (Cambi F., Storia della pedagogia, Laterza, Bari 2001, p. 535). Ecco, allora, che “ogni cultura è allora stesso tempo ricca e povera. Ricca quando sa esprimere se stessa senza tradire la sua autenticità e la sua saggezza, valorizzando tutte le virtualità e tutti i linguaggi e aprendosi ai contributi degli altri; povera quando mortifica alcuni linguaggi e alcune dimensioni, quando si chiude, quando teme l’incontro o quando cerca di 44
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dominare le coscienze e di ridurre la pluralità all’uniformità” (Rizzi F., Educazione e società interculturale, La Scuola, Brescia 1992, p. 80). Dello stesso parere sono le parole di Baur Siegfried, il quale asserisce che il motto dell’Unione europea “In Varietate Concordia” (l’unità della pluralità), pur essendo uno slogan che livello pubblicitario veicola l’accettazione incondizionata della pluralità culturale-sociale-economica dei vari paesi, risulta di poco spessore pragmatico e contestualizzato. Per questo, sostiene ancora Rizzi, “prima che diversità di culture è pluralità di soggetti, di uomini-fini che, servendosi del patrimonio culturale acquisito, si aprono verso altri sistemi culturali, ritrovano nell’altro il sentimento fondamentale dell’essere e apprezzano il diverso come un sistema di valori, come una delle articolazioni e modalità dell’essere” (Rizzi, F., Educazione e società interculturale, La Scuola, Brescia 1992, p. 14). Occorrono nuovi piani organizzativi a livello istituzionale alto, in quanto occorre “trovare un giusto rapporto tra coesione sociale e diversità culturale” (Perotti A., in Rizzi F., Educazione e società interculturale, La Scuola, Brescia 1992, p. 12). L’integrazione dunque, “non può significare l’assimilazione dell’altro a noi, ma cooperazione. La cooperazione richiede una determinata qualità di vicinanza ed è opposta alla produzione sociale di distanza” (Baur S., La pedagogia e le sfide della pluralità. La bildung nella società postmoderna, Erickson, Trento 2008, p. 43) L’idea di identità culturale alla quale si appartiene è “fantasticata sempre come collettiva e si alimenta della credenza che a essere diverso sia il cosa e non il come. Si vuol negare che le diverse culture esistenti al mondo non sono altro, nei termini dell’antropologia culturale, che risposte diverse che le differenti etnie hanno trovato e scelto per organizzare concretamente e rappresentare simbolicamente tutte le condizioni della vita. Ogni cultura è un agglomerato dei più diversi influssi culturali. Non esiste una cultura pura e indipendente. Se deve essere così, essa non è altro che una costruzione ideologica di ciò che è proprio realizzata attraverso l’esclusione di ciò che è estraneo” (Baur S., La pedagogia e le sfide della pluralità. La bildung nella società postmoderna, Erickson, Trento 2008, p. 57). Ecco la nuova scommessa e la nuova sfida dell’educazione, la quale è alla ricerca di una propria identità e connotazione, capace di sradicare le vecchie impostazioni lassive e passive appartenenti alla multiculturalità e proiettare l’umanità verso una paideia non più sfibrata e introvabile, ma persistente e orientativa. 45
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Una intercultura che non è più passiva alle sollecitazioni sociali, ma diviene parte essenziale di quell’azione e quel progetto che genera rispetto e dialogicità in ogni contesto. Un’azione volta alla salvaguardia di tutte le espressioni creative culturali, ma anche posta a custodia della tutela dell’identità soggettiva. È la pedagogia stessa “che si fa interculturale nel momento in cui accetta la sfida della multiculturalità, della diversità e rimette in discussione il proprio sistema di significati, prestando attenzione alle suggestioni e ai segnali del tempo presente” (DUSI P., Flussi migratori e problematiche di vita sociale. Verso una pedagogia dell’intercultura, Vita e Pensiero, Milano 2000, p. 205). Tutto questo comunque resta realizzabile e non utopico a patto che ogni cultura si avvicini alle altre, soprattutto alla cultura “ospitante” e non resti isolata nel proprio credo, nei propri dogmi, e non tenti di imporsi quale cultura primaria in modo totalitario.
2.8 Intercultura ed integrazione Secondo Demetrio (Cfr. Demetrio D., a cura di, Nel tempo della pluralità. Educazione interculturale in discussione e ricerca, La Nuova Italia, Firenze 1997) nei confronti di una cultura diversa dalla propria si possono avere tre tipi di atteggiamento: ‐ Neoilluminista: quantunque riconosca i diritti fondamentali della persona, non ha condotte sociali né di ostilità, né di interesse, ma di totale indifferenza. Tale impostazione si basa sul fatto che il problema non sussiste perché siamo “tutti uguali”; ‐ Solidaristico: considera i problemi dell’integrazione e dell’intercultura come non propri seppur individuando la necessità di offerte sociali e formative volte a “colonizzare” le culture diverse; ‐ Etnocentrico: riconosce la propria cultura come cultura guida e di riferimento per tutti coloro che tendono vivere in quel determinato contesto ed ambiente. In questa accezione il diverso deve rifarsi agli usi e costumi della cultura autoctona. Se da un lato l’impianto neoilluminista ha generato una tendenza ad attenuare le leggi morali e poca tempestività nel determinare e circoscrivere il problema del multiculturalismo, dall’altro lato il modello solidaristico, basato sul mutuo-aiuto, e quello etnocentrico, incentrato su 46
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prescrizioni culturali, lasciano qualche perplessità a riguardo, anche se quest’ultimo ha il grande pregio di autorizzare ogni soggetto a riconoscersi in determinati elementi culturali. Su tali basi l’interculturalità rappresenta la volontà comune di condividere un determinato territorio, apprendendo, così, il concetto di “confine culturale”, quale distanza capace di generare libertà, fiducia reciproca ed una dialogicità avvolgente, anche se non troppo prossimale. Già a partire dai primi anni Novanta, A. Langer riferiva che “le situazioni di compresenza di comunità di diversa lingua, cultura, religione, etnia sullo stesso territorio saranno sempre più frequenti, soprattutto nelle città. [...] La convivenza pluri-etnica, pluri-culturale, pluri-religiosa, plurinazionale... appartiene dunque, e sempre più apparterrà, alla normalità, non all’eccezione” (Langer A., Tentativo di decalogo per la convivenza interetnica, Sallerio, Palermo 1996, p. 295). Quel domani rappresenta il nostro presente. Essere nella distanza, riprendendo il concetto di confine e prossimità, “può aiutare a distaccarci dall’immediatezza delle proprie sensazioni, dall’esclusività delle proprie percezioni, riconoscendo la distanza che ci separa dagli altri” (Baur S., La pedagogia e le sfide della pluralità. La bildung nella società postmoderna, Erickson, Trento 2008, p. 67). Tale idea richiede comunque la netta percezione da parte di ogni soggetto dell’intervallo e della prossimità che intercorre tra sé e l’altro e di quali differenze sia connotato tale divario. A tal proposito Hegel affermava che “ciascun rispetto all’altro è il medio, per cui ciascun estremo si media e conchiude con se stesso; e ciascuno è rispetto a sé e all’altro un immediata essenza che è per sé, la quale in pari tempo è per sé solo attraverso questa mediazione. Essi si riconoscono come reciprocamente riconoscentesi”. G. Benvenuto, adottando riflessioni espresse da Fadda, riflette sul fatto che nei rapporti con ciò che popola la nostra realtà, la vita di tutti i giorni, abbiamo un “atteggiamento segnato di superficialità, per non dire di pregiudizio, che porta a pensare alla familiarità connessa alla presenza, mentre la familiarità è accompagnata dall’assenza, con il risultato che l’oggetto (o il soggetto) è di rimando lo spazio in cui viviamo sono costitutivamente infidi, perturbanti” (Benvenuto G., a cura di, La scuola diseguale. Dispersione ed equità nel sistema di istruzione e formazione, Anicia, Roma 2011, p. 296). Occorre un processo e degli schemi mentali tendenti a trasformare l’estraneo in normale, così come ci appare l’oggetto in sé nel quotidiano vederlo, a patto che non sia esso stesso a reclamare la sua anormalità e 47
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diversificazione scostandosi dalla possibilità della sua percezione e comprensione da parte dell’altro. Sul finire del XX secolo Hunfeld stabilisce che l’obiettivo dell’apprendimento interculturale “non può essere quello di abbandonare il proprio, di scambiarlo con ciò che fino ad ora era estraneo o di perderlo in una diffusa multiculturalità senza distanza” (Hunfeld H., Die Normalitat des Frenden, Dϋrr Kessler, Köln 1997, p. 70). L’apprendimento comunitario porta in serbo la realizzazione di un impianto sociale basato sul concetto di intercultura. Una vera e propria sfida soprattutto perché “è un apprendimento che toglie al singolo, anche in modo involontario, la sicurezza della propria comunità, esponendolo all’insicurezza di un nuovo rapporto” (Baur S., La pedagogia e le sfide della pluralità. La bildung nella società postmoderna, Erickson, Trento 2008, p. Baur 74). Un apprendimento e movimento, come viene definito da Levinas, “senza ritorno”, cioè “quell’esperienza dell’altro che non torna più al proprio stesso, ma che si apre invece all’altro senza remore coinvolgendosi anche a rischio di mettere in pericolo il proprio Io. Un tale coinvolgimento è una avventura. Richiede un’azione unilaterale: la rinuncia a voler sapere tutto, e richiede comprensione” da ambo le parti (Levinas E., in Baur S., La pedagogia e le sfide della pluralità. La bildung nella società postmoderna, Erickson, Trento 2008, p. 76). Tale impostazione “riveste un ruolo centrale in situazioni di convivenza, di convivenza attiva e non di semplice coesistenza passiva, di gruppi di lingua e cultura diverse, sia in regioni che per ragioni storiche si configurano come plurilingui, sia in situazioni, ancora prevalentemente urbane, in cui la multiculturalità sta diventando, a causa dei movimenti migratori, sempre più la normalità” (Baur S., La pedagogia e le sfide della pluralità. La bildung nella società postmoderna, Erickson, Trento 2008, p. 91). L’interculturalità deve essere posta come pietra angolare di ogni agire sociale ed educativo, elemento cardine in ogni società. Come sancito da Buber, “le parole fondamentali non sono singole, ma coppie di parole. Una di queste parole fondamentali è la coppia io-tu. L’altra parola fondamentale è la coppia io-esso. [...] La parola fondamentale io-tu si può dire solo con l’intero essere. La parola fondamentale io-esso non può mai essere detta con l’intero essere. [...] Il mondo come esperienza appartiene alla parola fondamentale io-esso. La parola fondamentale io-tu fonda il mondo della relazione” (Buber, Il principio dialogico e altri saggi, San Paolo, Cinisello Balsamo 1993, p. 59). 48
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L’esperienza ha dimostrato che, dichiara alla metà degli anni Settanta Richmond, “mentre è possibile acquisire grandi conoscenze nella solitudine del proprio studio o in biblioteca, la capacità percettiva e quella di giudizio si formano, si nutrono e si arricchiscono mediante la discussione con altre persone che abbiano i medesimi interessi” (Richmond K. W., Educazione permanente nella società aperta, Armando, Roma 1974, p. 204).
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Cap. 3 L’apprendimento consapevole L’attività principale del cervello è sicuramente l’acquisizione di nuove conoscenze. Tale azione avviene attraverso cellule cerebrali specifiche e che, in una unità di intenti, permettono di organizzare, catalogare ed analizzare gli input esterni per poi procedere nella loro astrazione ed assimilazione. Questa singolarità ed alta specificità non vale solo per una diversità polifunzionale e conoscitiva di acquisizione, ma anche nella stessa messa in opera delle singole aree adibite alla conquista di nuovi apprendimenti. Il cervello visivo, ad esempio, è suddivisibile in diverse zone, ognuna delle quali adibita ad una specifica conoscenza, così ad aree e cellule differenti spettano compiti differenziati. Si noti, infatti, che nell’eventualità sia presente un danno in V5 (l’Area visiva V5, detta anche Area visiva MT in quanto collocata nel medio temporale, è una regione della corteccia visiva extrastriata la quale si suppone giochi un ruolo fondamentale nella percezione del movimento, nell'integrazione di segnali locali di movimento in percetti globali e nella guida di alcuni movimenti oculari. Tratto da: Born R, Bradley D. Structure and function of visual area MT.. Annu Rev Neurosci 2005,http://www.annualreviews.org/doi/abs/10.1146/annurev.neuro.26.0 41002.131052), non si è completamente ciechi, ma solo impossibilitati nel percepire visivamente il movimento. Già nelle filosofie kantiane è presente l’idea che lo spazio e il tempo sono caratteristiche innate e date a-priori, presenti fin dalla nascita, dato che il cervello possiede sistemi ereditari che permettono l’acquisizione di informazioni riferibili alle due categorie anche in presenza di deficit visivi. C’è ulteriormente da rilevare che il cervello percepisce per mezzo di una “asincronia percettiva”, la quale genera una percezione attraverso una scala di comparazione di priorità. Esempio ne è il fatto che il colore viene ad essere percepito prima dell’orientamento o le espressioni del volto anteriormente il suo riconoscimento. Tali schemi o percezioni stanno alla base della polimorfia della conoscenza soggettiva la quale si arricchisce per mezzo dell’esperienza, delle azioni quotidiane, delle proprie esigenze e bisogni, nonché i propri obiettivi. Altrettanto certamente però dobbiamo riferire che in ogni processo conoscitivo intervengono molteplici fattori tra cui la conformazione 50
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biologica (corporea e cerebrale), la struttura genetica, gli schemi pregressi e l’esperienza. La complessione biologica del cervello influisce in maniera determinante nell’apprendimento, soprattutto per quel che concerne il suo organigramma, connessione e disposizione neuronale. Tutte queste capacità di apprendimento, legate alla biologia e all’esperienza soggettiva, “si basano sul modo in cui i neuroni parlano tra loro, sullo schema in base alla quale è stato cablato il cervello quando eri piccolo e sulle connessione che si sono formate o interrotte da allora nel corso dell’apprendimento” (Aamodt S., Wang S., Il tuo cervello, Mondadori, Milano 2008, p. 114). Allora cosa serve continuare ad istruirsi per tutta la vita se una volta appresa una determinata conoscenza essa ha generato la sua meccanica neuronale, cioè il suo percorso di attivazione cerebrale? Purtroppo o per fortuna ogni neurone ed ogni sua connessione con gli altri neuroni devono essere costantemente elasticizzati per mezzo di nuove informazioni o il ripetersi di quelle già apprese, altrimenti si indeboliscono e nel peggiore dei casi interrompono la loro funzione facendoci perdere quella data abilità. Ogni capacità deriva da quella che comunemente viene ad essere descritta come plasticità neuronale, la quale altro non è che la funzionalità e flessibilità dei neuroni di attivarsi e comunicare tra loro. La plasticità neuronale è tanto potenziabile ed incrementabile con l’esercizio cerebrale (potenziamento a lungo termine), quanto inefficace e indebolita con il non utilizzo (depressione a lungo termine). A ragione di ciò Boncinelli riferisce che “il nostro cervello si sviluppa per tutta la vita, perché tutta la vita siamo in grado di imparare cose nuove” (Boncinelli E., A caccia di geni, Di Renzo, Roma 1996, p. 64). Al di là dell’indiscutibile valenza educativa che possiede la riflessione espressa dal noto neuroscienziato, il riferimento appare indiscutibilmente chiaro ed imperativo: non si finisce mai di imparare perché il cervello rimane sempre predisposto, anche con l’avanzare dell’età, ad acquisire nuovi saperi. Viene ad essere leggittimato così il concetto di educazione permenente. Tale rafforzamento neuronale però non può essere protratto all’infinito, se non altro per il fatto che arriverebbe al paradosso di non poter apprendere più nuova conoscenza, detto in altre parole renderci onniscienti.
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Non va dimenticato, comunque, che ogni processo di apprendimento ha da fare i conti, ancora una volta, anche con la sfera delle emozioni, soprattutto nella sua componente motivazionale e di curiosità. Non a caso l’elemento motivazionale, oltre ad essere una componente fondamentale capace di generare una giusta vocazione ad apprendere, stimola il soggetto ad una maggiore concentrazione e volontà al sacrificio, quali elementi indispensabili per il raggiungimento della conoscenza, sia sotto una prospettiva didattica, sia educativa. Tutta colpa delle emozioni, sancisce Rosati in un suo recente saggio. “Quello che il soggetto apprende gli è funzionale all’esistenza, perché lo fa tetragono nelle situazioni più impensate e impreviste, donandogli il possesso della parola, il senso del divenire, il piacere dell’ordine e del rigore, la spinta al superamento dei limiti posti dalla condizione finita dell’uomo, affina la sua sensibilità estetica cosicché vede il mondo della realtà in maniera gioiosa e allettante” (Rosati L., La scatola magica, Morlacchi, Perugia 2006, p. 64). Le emozioni rappresentano lo stimolo primario di ogni apprendimento, azione, relazione e conoscenza. “Nella vita reale la maggior parte delle valutazioni non può basarsi esclusivamente sulla logica, perché di solito le informazioni di cui disponiamo sono incomplete o ambigue” (Aamodt S., Wang S., Il tuo cervello, Mondadori, Milano 2008, p. 135). Il cervello emotivo ha un valore predominante nell’assolvere la funzione di apprendimento di ogni soggetto. Basti porre a mente il rapporto esistente tra emozione e memoria. Probabilmente il ricordo più nitido è quello in cui interferisce un profondo senso emotivo. Di qui l’importanza di alcune parti del cervello, quali, ad esempio, l’amigdala (sede delle emozioni, della paura e della gratificazione), il gaglio basale - l’insula (centri del disgusto e del rifiuto) e la corteccia cingolata prefrontale e anteriore (zona deputata al controllo cognitivo delle emozioni). Su tali assunti si basa l’idea che “quanto la vita emozionale serva all’attività conoscitiva non è da mettere in discussione, dal che deriva la necessità di assumere il cervello come il centro della vita e la legittimazione di ogni comportamento, soprattutto di quelli che il soggetto che apprende è destinato a fare propri per raggiungere una condizione di serenità e di originalità creativa” (Rosati L., Le sfide del cambiamento, Morlacchi, Perugia 2005, p. 6).
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3.1 I concetti e la mente Nel riflettere ulteriormente circa le istanze che portano il cervello ad acquisire nuova conoscenza va osservato che tale funzione deriva principalmente da due concetti primari: ‐ ereditari: capaci di dare un senso ai segnali proveniente dall’esterno; ‐ acquisiti: che, indipendentemente dalle informazioni che ci pervengono dal mondo sensibile, permettono di guadagnare nuovi apprendimenti delle cose e delle situazioni. In questa duplice valenza il cervello genera schemi entro cui collocare nuove acquisizioni che appartengono al concetto “modello”. Lo schema venutosi a creare avrà, così, la qualità di essere permanente e di modificarsi in base all’esperienza e all’aggiunta di nuovi elementi che lo connaturano. La difficoltà implicita ai concetti acquisiti è rappresentata dalla necessità di ottenere concetti che hanno carattere duraturo, indipendente, cioè, dal contesto entro cui si sono appresi. Se da un lato tale ottenimento presenta degli indubbi vantaggi, dall’altro lato è messaggero di deformazioni nella conoscenza stessa. Basti porre a mente le distorsioni derivanti dalla non completa conoscenza dell’informazione acquisita o dall’immutabilità e sedentarietà del concetto stesso. Se questi sono gli elementi che il cervello utilizza per l’acquisizione di nuove informazioni e conoscenze, allora, come ricorda Kant, l’uomo non è capace di comprendere la “cosa in sé”, in quanto la conoscenza può avvenire solo attraverso l’utilizzo da parte del cervello di questi due elementi. Comunque è possibile asserire che la fatica che ogni soggetto impiega per conoscere è legata all’impegno del cervello e al suo corretto funzionamento. Analizzando più in profondità gli elementi facenti parte i concetti ereditari, secondo Zeki, possiamo distinguerne due tipologie: il colore e l’unità nell’amore. Allo stesso modo è possibile osservare che entrambe le categorie godono di tre caratteristiche: ‐ non è possibile ignorarli, contraddirli o negarli. Non si è liberi di scegliere di chi innamorarsi, così come non si è detentori di libero arbitrio nello stabilire quando questo sentimento deve rendersi palese; 53
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sono immutabili nel tempo e nello spazio tanto da affermare W. Shakespeare che “non è amore quell’amore che muta quando trova un mutamento”; ‐ possiedono autonomia relativa nei confronti delle altre funzioni cerebrali. I concetti acquisiti o sintetici, invece, si formano per mezzo dell’esperienza e derivano da una categorizzazione del cervello che, nella sua attività di astrazione, genera concetti indipendentemente dalla singolarità con cui esso si presenta. In questo caso, infatti, essi sono modificabili da parte dell’ambiente, della cultura, del contesto sociale di appartenenza e possono generare astrazioni ipotetiche, come ad esempio la tipologia di persona che ci piacerebbe amare. Va osservato che, come è facile intuire, la vigoria con la quale si presentano alla coscienza i concetti ereditari è profondamente maggiore rispetto a quelli sintetici, tanto che, a livello razionale e logico, è possibile scegliere e stabilire di chi innamorarsi, di quali caratteristiche debba possedere il potenziale amato o di quali caratteri fisici possegga, ma questo non implica il fatto che l’innamoramento avvenga e che il legame sia diretto ed orchestrato dal sentimento amoroso. Per produrre i concetti acquisiti, una sintesi di tutti gli input, occorre che siano effettuate dal cervello due comparazioni: ‐ quella ereditaria: indica quali e quanti confronti devono essere prodotti ed azionati; ‐ quella sintetica: confronto tra il risultato dell’azione precedente con gli elementi e le connotazioni che già si possiedono come concetto originario. Se la corrispondenza è univoca, allora la nuova conoscenza non ha prodotto modifiche negli schemi posseduti, altrimenti dovrà essere modificata in base alle nuove informazioni. I concetti sintetici acquisiti possono cambiare non solo per mezzo di input esterni, ma anche attraverso processi interni di pensiero, quale attività intrinseca e soggettiva nell’elaborazione di conoscenza. Se, allora, i concetti ereditari fungono da principio organizzativo e i concetti acquisiti esplicitano la funzione categorizzati essi, comunque, sono legati dal fatto che “il concetto cerebrale ereditario è indispensabile per generare l’esperienza, così l’esperienza è indispensabile per generare il concetto acquisito” (Zeki S., Splendori e miserie del cervello. L’amore, la creatività e la ricerca della felicità, Le Scienze, Torino 2010, p. 45). Se da un lato Platone sosteneva l’esistenza di idee universali indipendenti dall’uomo e che solo tali idee erano la vera e sola conoscenza in quanto ‐
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risultanti da un processo di pensiero, la neurologia ammette che “non esiste nel sistema neurobiologico alcun ideale universale di bellezza, o della forma di un oggetto, e neppure di un paesaggio. Ciascuno di essi è ritagliato secondo l’esperienza individuale, e varia nei diversi individui” (Zeki S., Splendori e miserie del cervello. L’amore, la creatività e la ricerca della felicità, Le Scienze, Torino 2010, p. 48).
3.2 Il problema della coscienza e dell’anima Fino a questo momento si è potuto evidenziare come le emozioni giochino un ruolo fondamentale nel processo conoscenza, in quanto detentrici di spinte motivazionali la cui assenza renderebbe inefficace ogni aspetto educativo. Senza le emozioni e i sentimenti ogni intervento didattico e pedagogico rischia di divenire una gelida immagine burocratica e di sterili ripetizione mnemoniche. Non a caso oggetto delle più recenti ricerche neuroscientifiche è proprio comprendere quanto le emozioni influenzino l’acquisizione di nuovi saperi e quanto determinino il processo di interiorizzazione definito dal Piget. Certamente il problema che si solleva non è di poco conto, soprattutto perché apre gangli di indagine non ancora circoscritti e completamente analizzati, nemmeno dai più illustri neuroscienziati. Ogni informazione pervenuta al cervello attraverso i sensi non è ancora conoscenza fintanto che non viene ad essere ricondotta alla coscienza. Il problema che si solleva dal voler prendere come punto nodale dell’evoluzione umana il percorso di coscientizzazione è quello risalente al voler comprendere se la coscienza stessa esista indipendentemente dal cervello o se dipenda da una determinata funzionalità extra-biologica. Molti sono gli interventi su tale questione. Ad esempio J. R. Searle riferisce che “la coscienza è un fenomeno naturale, biologico. Essa fa parte della nostra vita biologica quanto la digestione, la crescita o la fotosintesi (ed è) causata da microprocessi di livello inferiore nel cervello ed è una caratteristica del cervello a macrolivelli superiori” (Searle J. R., Il mistero della coscienza, Cortina, Milano 1998, p. XIV). Tradotto nella maniera più semplice possibile, quanto espresso significa che qualsiasi processo di conoscenza avviene attraverso una alternanza di 55
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stati di “sensibilità e consapevolezza”, momenti, quindi, che possiedono la caratteristica di interpretare in concetto ciò che altrimenti resterebbe insignificante e privo di funzionalità. Lo stesso neuroscienziato californiano continua affermando che “la parola coscienza si riferisce a quegli stati di sensibilità e consapevolezza che caratteristicamente iniziano quando ci svegliamo da un sonno senza sogni e continuiamo fino a quando andiamo nuovamente a dormire o cadiamo in un coma o moriamo o in qualche modo diventiamo incoscienti” (Searle J. R., Il mistero della coscienza, Cortina, Milano 1998, p. 3). L’idea di coscienza che ne deriva è, quindi, concreta nel funzionamento sinaptico, tangibile nella struttura encefalica, biologicamente intesa e racchiusa nella conoscenza stessa del meccanismo cerebrale. Tutto questo però va a cadere davanti a quello che comunemente viene ad essere descritto come il “mistero della coscienza”, segreto, quindi, non ancora del tutto svelato né dai filosofi, né, tanto meno, dai neuroscienziati. Siamo comunque aperti nel ritornare sui nostri passi, a patto che lo studio del cervello stabilisca in maniera indiscutibile la sede e il funzionamento biologico della coscienza. Ne rende conto Semir Zeki quando, prendendo come esempio gli esperimenti svolti sulla coscienza visiva, afferma che “nel complesso questi esperimenti ci offrono importanti cognizioni, oltre che sull’organizzazione del cervello visivo, anche sulla coscienza visiva. Recentemente, si è fatto gran parlare dell’unità della coscienza. Eppure, gli esperimenti appena citati non sostengono una simile idea, tranne in casi sporadici. [...] Di conseguenza non esiste qualcosa che sia una coscienza visiva unitaria, ma esisteranno molte coscienze visive distribuite nello spazio e nel tempo, che potremmo definire microcoscienze” (Zeki S., Splendori e miserie del cervello. L’amore, la creatività e la ricerca della felicità, Codice Edizioni, Torino 2010, p. 36). Non solo, quindi, un problema di tracciabilità genetica della coscienza, ma anche una rendicontazione unitaria difficile da riferire e caratterizzare, nonché sostenere. Il concetto di microcoscienze spalanca le porte per una nuova ridefinizione di coscienza, non più unitariamente intesa, bensì diversificata e parcellizzata secondo le variabili dell’apprendimento e di ogni agire educativo. Certamente la filosofia della mente, nel processo conoscitivo e di coscientizzazione delle informazioni, reclama l’esigenza di un libero 56
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arbitrio esprimibile e realizzabile da scelte non sempre riferibili alla chimica neuronale o al funzionamento sinaptico. “Prevedere nei particolari che cosa farà un intero cervello è sostanzialmente impossibile: in senso pratico, è questa una definizione funzionale di libertà e di libero arbitrio” (Aamodt S., Wang S., Il tuo cervello, Mondadori, Milano 2008, p. 227). Nell’esperienza cosciente parte del processo di acquisizione che ci rende consapevoli di ciò che siamo e delle nostre azioni è espressione di una azione unitaria del cervello. Il punto nodale diviene, quindi, se la coscienza è percepita dai propri stati e dal proprio essere o se rappresenta “il ripiegarsi dello spirito sopra se stesso, o, in un terzo significato, l’insieme dei processi psichici che si susseguono nel nostro interno” (Morselli E., Dizionario di filosofia e scienze umane, Carlo Signorelli, Milano 1993, p. 57). La coscienza rimane, anche a fronte delle ultime ricerche in campo neurologico, una alchimia che tuttora resta e si conferma un mistero, tanto da portare ad affermare Chalmers che essa è la cosa più “familiare e la più misteriosa tra le cose del mondo” . Per dare ragione a quanto espresso basta osservare che risulterebbe relativamente facile leggere il pensiero cosciente, investigare cioè le idee più recondite del nostro meditare. Ma ciò, ancora, come sappiamo, non è possibile. L’incosciente e il cosciente si incontrano al fine di rendere plausibili le nostre scelte, anche se non tutte per mezzo di una volontà universalmente riconosciuta e palese. A ragione di ciò è giusto riconoscere che il libero arbitrio non fa parte della volontà cosciente e nemmeno della sua esperienza sensoriale, ma può essere paragonato all’impulso continuo generato dal nostro cervello, il quale, in maniera del tutto autonoma, gestisce le varie opzioni che ogni soggetto è tenuto ad affrontare e le rende palesi solo nel momento in cui sono già apprese. Molti neuroscienziati sono giunti alla conclusione che il “libero arbitrio” non esista, in quanto l’azione di decidere non avviene in maniera volontaria e cosciente. Kerri Smith, riflettendo su tale questione, afferma che “a noi esseri umani piace pensare che le nostre decisioni siano sotto il nostro controllo consapevle, cioè di essere dotati di libero arbitrio”. “abbiamo la sensazione di scegliere, ma in realtà non è così”, sancisce Patrik Haggard. Si può credere, per esempio, “di aver deciso se bere tè o caffè per colazione, ma la decisione è stata presa assai prima che di divenirne 57
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consapevoli. Haynes lo reputa molto destabilizzante. In tutta onestà, trovo difficile venire a patti con questa cosa, dice. In che senso posso dire che una scelta volontaria è mia se non so neppure quando è avvenuta e che cosa ha deciso di fare? I filosofi, però, non sono convinti che basti qualche scansione cerebrale a demolire il libero arbitrio. Alcuni di loro hanno messo in dubbio i risultati e le interpretazioni (perchè è di questo che si tratta, e quindi soggettive) dei neuroscienziati, sostenendo che i ricercatori non hanno capito a fondo il concetto che sostengono di star dimisticando” (Mente & Cervello, Obiettivo: il libero arbitrio, mensile di psicologia e neuroscienze, n° 84, anno nIX, dicembre 2011, p. 96). Concordiamo comunque con Searle quando asserisce che “noi non viviamo in molti, ma nemmeno in due, mondi diversi: un mondo mentale e un mondo fisico, un mondo scientifico e un mondo del senso comune: Non c’è che un unico mondo: è il mondo in cui viviamo, e dobbiamo spiegare come esistiamo in quanto parte di esso” (Cfr. Searle J. R., Il mistero della coscienza, Cortina, Milano 1998). Non esiste, quindi, solo un mondo psichico ed uno tangibile, riferendoci all’errore di Cartesio, bensì una pluralità di possibili esistenze, ognuna delle quali dettate dagli elementi dalla natura e dalla metafisicità appartenenti all’uomo. In conclusione si può osservare che comunque il nostro ragionare sia imbrigliato in quella duplice prospettiva rifiutata dallo stesso Searle, ma gli elementi che fanno parte dell’uno e dell’altro avanzano richieste multiple, tali che la loro concretizzazione sfocia in una polimorfia di mondi possibili. Non a caso la stessa cultura non è circoscrivibile solo per mezzo della sua unità, bensì si dona alla persona quale pluralismo culturale generato dai possibili intrecci delle variabili in esso contenute.
3.3 Categorie e metacategorie cerebrali É passato poco più di un lustro da quando, all’interno di un articolo pubblicato nella rivista telematica Vega Juornal, si andava assentendo che “la costruzione di una ipotesi di soluzione a problemi di apprendimento, quindi un corretto sviluppo conoscitivo, ha l'obbligo di basarsi sulla corrispondenza tra il dato esperienziale e la sua collocazione intellettuale”. Questa è resa possibile solamente se si tracciano, in modo 58
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rigoroso, le linee guida che orientano le categorie del pensiero, restituendo alla persona una chiara immagine dei frequenti contatti tra il concetto reale, consegnato dall’esperienza, e il pensiero, originato dalla mobilità riflessiva. Categorie, quindi, che oscillano tra l’immaginario e il concreto, tra l’esperienza e il “sogno” freudiano, tra il lògos e l’irrazionale, tra pensiero e conoscenza. Queste categorie esistono e vengono elaborate fin dai filosofi greci. Aristotele le definisce affermazioni delle “cose che ci si pongono davanti”, predicati più generali delle cose distinguendone dieci modalità. Kant, invece, le identifica “forme a priori del conoscere”, con le quali l’intelletto organizza il molteplice offerto dell’intuizione sensibile. Schopenhauer propone una versione semplificata delle dottrine precedenti; infatti, riduce, infatti, per il filosofo tedesco le categorie che strutturano il mondo fenomenico sono tre: spazio, tempo e principio di casualità” (Mancini R., Le categorie della didattica, in Vega Journal, Periodico di Cultura, Didattica e formazione universitaria, Anno III, numero I). I vari significati espliciti che assumono le categorie pedagogicodidattiche nell’azione educativa costituiscono le frontiere della ricerca scientifica. Su tali principi riflette Gennari (Mario Gennari, Trattato di pedagogia generale Bompiani, Milano 2006) sostenendo che l’esperienza e la conoscenza assumono proprie singolarità anche in ragione della loro collocazione categoriale. Queste sono le ragioni che ci hanno costretto a riflettere ulteriormente su tali concetti, cercando di circoscriverli e analizzarli secondo la relazione che intercorre tra l’elemento percepito a livello sensoriale e la sua connotazione sinaptica. Le categorie come concetti, serbatoi di conoscenza e operazioni attive della mente, “rappresentano dei modi di funzionamento dell’intelletto, cioè del logos mentis, che non valgono per la cosa in sé, ma sono per il fenomeno” (Rosati L., Le categorie della didattica, SEAM, Formello, 1999, p. 13). La percezione del mondo, infatti, avviene per mezzo di tali categorie e si sviluppa e diventa cosciente con l’attività mentale e cerebrale, cosicché ogni soggetto riesce a fare propri, in maniera del tutto singolare, variabili come l’estensione, la durata, il periodo, la lunghezza etc. 59
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Dobbiamo, quindi, ristabilire, per mezzo delle ultime scoperte neuroscientifiche, quali possano essere i livelli delle categorie, come ad esempio spazio-temporali, che autorizzano il soggetto a compiere nuovi e sempre diversi apprendimenti. La percezione del mondo circostante, difatti, “coincide con gli schemi mentali, attraverso i quali il soggetto cataloga ed elabora le informazioni ricevute, per mezzo della sua capacità sensoriale, e il mondo esterno. Se ci basassimo solo sull’acquisizione del mondo fenomenico, attraverso un passaggio diretto con i sensi, percepiremmo tutti nello stesso modo, cosicché il sapere e la conoscenza sarebbero risolte in un rapporto non mediato tra i sensi e la costruzione dell’idea. Ma non è così. La percezione del mondo fisico risulta soggettiva, in base all’utilizzo degli schemi mentali e dei processi che si attivano nel cervello quando viene sottoposto a stimoli con i quali interpreta la realtà che lo circonda. Il corpo, difatti, funge da “rilevatore” del posizionamento o della durata di “altre cose” e al cervello spetta il ruolo di elaborare gli input, in un contesto antropologico culturale che identifichi la specificità di tali meccanismi cerebrali” (Mancini R., in Vega Journal, Periodico di Cultura, Didattica e formazione universitaria, Anno III, numero I). Lo spazio e il tempo, insomma, si aprono alla coscienza per mezzo di “ripensamenti” e “ri-codificazioni” neuronali. Al di là della diatriba filosofica che è possibile aprire circa la valenza che riveste il tempo – quale categoria primigenia- sullo spazio (lo spazio diviene e muta nel tempo), per mezzo delle ultime ricerche neuroscientifiche siamo in grado di mettere in luce quello che fino ad oggi è rimasto sempre ed esclusivamente a favore delle filosofia. Amore, libertà, felicità, ma sopratutto le categorie rappresentano un universo conoscitivo squisitamente percepibile e analizzabile, anche se non completamente, secondo impostazioni scientifico-sperimentali. In questa ottica, afferma Boncinelli, “l’impostazione che il grande filosofo Immanuel Kant ha dato del problema generale della conoscenza sta diventando una specie di programma di lavoro per molte ricerche nel campo delle neuroscienze, che cercano tra le altre cose di dare una veste concreta alle sue forme pure a priori” (LeScienze, Rivista mensile numero 511, Marzo 2011, p. 22 ) Kant, infatti, presupponeva che l’organizzazione dell’esperienza è derivante da due concetti assoluti: lo spazio e il tempo e che tali categorie fossero presenti fin dalla nascita. Sulla categoria del tempo, ad esempio, Huarte asserisce che ogni persona “ha le potenze di conoscere tutte le tre differenze del tempo: memoria per lo passato; sentimenti per lo presente; 60
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immaginazione, intelletto per quelle, che hanno a venire” (Huarte J., a cura di Casalini C., Salvarani L., Essame degl’ingengni, Anicia, Roma 2010, p. 128). Spazio e tempo sussistono prima dell’esperienza stessa che può effettuare la persona. Prendendo spunto dalle ricerche di Stanislas Dehaene ed Elizabeth M. Brannon (Le Scienze, Rivista mensile numero 511, Marzo 2011, p. 22) si può osservare che l’orientamento spaziale è determinato da un continuo immagazzinamento di informazioni riguardanti le coordinate, le quali si modificano per mezzo di continue addizioni, sottrazioni e confronti. Lo stesso succede per la percezione temporale. Ciò comporta la prerogativa che si debba ammettere che all’interno di tali codificazioni siano presenti meccanismi “pre-esperenziali” capaci di manipolare tali concetti in base all’esperienza dello spazio e del tempo. Tale visione è pienamente confermata da Boncinelli quando afferma che “l’ipotesi secondo cui i meccanismi alla base dell’orientamento spaziale siano innati ha ricevuto una robusta conferma dalla scoperta che molte delle caratteristiche dei meccanismi neurali sono già osservabili in ratti neonati, prima di ogni significativa esperienza di navigazione spaziale” (Le Scienze, Rivista mensile numero 511, Marzo 2011, p. 22). Noto è l’esperimento del ratto neonato che lasciato cadere capovolto all’interno di un recipiente pieno di acqua, quindi privo di riferimenti spaziali, si gira verso il basso mosso da una innata direzionalità conforme alla forza di gravità. Le implicazioni che derivano da tali riflessioni sono molteplici, tanto da non poter essere totalmente investigate in profondità. Riportiamo alcuni esempi: - la percezione del movimento quale atto di comparazione tra due diverse successioni temporali; - i ritmi biologici e fisiologici controllati dal cervello (ritmo cardiaco, la masticazione, il problema del jet lag, la regolazione del dormiveglia, etc.); - creazione e memorizzazione di modelli e concetti adeguati al soddisfacimento dei bisogni della persona; - la coscienza unitaria nell’apprendimento, - il riconoscimento di oggetti, volti, linguaggi. Se da un lato le categorie delle scienze dell’educazione, di cui abbiamo riportano i due esempi più nobili, rappresentano gli “strumenti” attraverso cui la persona riesce a percepire la conoscenza, dall’altro lato occorre che i paradigmi attraverso cui l’analisi su tali istanze è stata 61
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condotta sia avvalorata dai contributi che, oggi più che mai, le neuroscienze ci offrono. Ecco, allora che le espressioni categoriali “costituiscono una specie di filtro che autorizza ogni ulteriore specificazione, una specie di rete attraverso la quale tutti i contenuti di conoscenza acquistano significato” (Rosati L., Le categorie della didattica, SEAM, Formello, 1999, p. 13).
3.4 Creatività e cervello La tendenza da parte di ogni soggetto all’eccellenza è innata e confermata dal principio di Platone quale elemento immutabile nel corso del tempo e dello spazio. Il filosofo, infatti, stabilisce che il trascendere è un processo che deriva dall’intelletto e non dai sensi, uno sviluppo che sintetizza in questi termini: “è il sangue l’elemento con il quale pensiamo, oppure l’aria o il fuoco? Oppure, non è nessuno di tutti questi elementi, ma è il cervello che produce le sensazioni dell’udito, della vista e dell’olfatto, dalle quali si generano, poi, la memoria e l’opinione, e dalla memoria e dall’opinione, una volta che abbiamo acquistato stabilità, si genera la scienza?” (Platone, Fedone, tr. it. Tutti gli scritti, Bompiani, Milano 2000). Tale deduzione comporta, nella letteratura neurosceintifica, la profonda convinzione che l’eccellenza soggettiva non è cosa data per assoluta, ma che ogni persona raggiunge la propria in un modo totalmente o parzialmente diverso rispetto ad un altro soggetto, di certo non in maniera uguale. Di qui la sua connotazione di non universalità e la certezza che l’appartenenza alla sfera della perfezione sia legata a quel “mondo interno” , definito da Solms e Turnbull (Solms M., Turnbull F., Il cervello e il mondo interno, Cortina, Milano 2004). In caso contrario, infatti, se cioè esistesse come dato sensibile ed oggettivabile, tutti avremmo la stessa attitudine e percezione della perfezione e ciò negherebbe il fatto che essa sia un ideale personalizzato e attività intellettuale generata dai concetti ereditari e/o acquisiti. La creazione di un concetto sintetico nel nostro cervello è derivante da un processo cerebrale e la sua traduzione è la creazione, concepita come momento pratico dello stesso atto creativo. 62
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Esempio ne è il fatto che non sempre un’opera d’arte ci appare per la prima volta perfetta, ma essa con il passare del tempo, ma soprattutto con l’acquisizione di prospettive e schemi mentali nuovi di osservazione e la corrispondenza tra il concetto artistico e il nostro, si trasforma in una opera unica e familiare. La creatività, nel suo compimento, assume quel nobile aspetto del fare umano e cioè la creazione. Creare non è difatti semplicemente un fare o un riprodurre determinati movimenti ed azioni nel corso del tempo. Esso è uno sforzo di gran lunga maggiore rispetto alla semplice azione, è una pro-azione, in quanto risulta irripetibile ed unica, un’intuizione pratica felice e risultato creativo. Quale prodotto “diverso” ed innovativo, il risultato della creazione è tanto inaspettato quanto imprevedibile, di certo funzionale ed efficiente. Creare, dunque, come atto e conclamazione del sé, opera compiuta e concepita quale passaggio dal nulla all’essere e al concreto. Anche se presuppone una materia preesistente nella quale l’uomo sbizzarrisce il proprio essere, è nella creazione che si riscontrano le più alte speculazioni pragmatiche che danno vita ad un mondo ideale, il quale spesso risulta più ordinato e conciliante del mondo reale stesso, di cui successivamente ne farà parte compiuta. “La perfezione è quindi raggiungere o trovare nel mondo esterno un riflesso del concetto sintetico costruito dal cervello” afferma Zeki, è come una costante ricerca di una visione speculare della nostra idea originaria ereditaria e/o acquisita. Detto in altri termini, l’osservazione di un’opera creativa è “il tentativo di tradurre in realtà ciò che è derivato dalla realtà, ma che non è più reale, nel senso che è sintetico e non può più corrispondere ad alcun singolo esempio reale particolare” (Zeki S., Splendori e miserie del cervello. L’amore, la creatività e la ricerca della felicità, Codice Edizioni, Torino 2010, p. 54). C’è da rilevare che la soddisfazione e il piacere generato nel cervello dal bello presente nell’opera d’arte attiva dei centri specifici cerebrali, i quali aumentano l’attività chimica della corteccia orbifrontale che produce benessere e stati emotivi soddisfacenti. Ciò “non vuol dire che il concetto in sé risieda nel sistema della ricompensa, quanto piuttosto che, tramite un meccanismo ancora a noi ignoto, il sistema stesso sia in grado di segnale quanto il paesaggio veduto corrisponda al concetto sintetico nel cervello” (Zeki S., Splendori 63
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e miserie del cervello. L’amore, la creatività e la ricerca della felicità, Codice Edizioni, Torino 2010, p. 55). La difficoltà di tale aspirazione, realizzazione ed appagamento restano alla base del concetto di creatività, la quale “deve dipendere per aspetti importanti non solo dal concetto sintetico del cervello, ma, cosa ancora più importante dalla difficoltà di realizzarlo nella vita reale” (Zeki S., Splendori e miserie del cervello. L’amore, la creatività e la ricerca della felicità, Codice Edizioni, Torino 2010, p. 57).
3.5 Creatività: perfezione del cervello Giunti alla certezza che il cervello è costantemente alla ricerca di nuovi apprendimenti, è doveroso affermare che tale atto di traduzione dei simboli in significati deriva dalla capacità di creare più interpretazioni di uno stesso stimolo. Una codifica che trova la sua massima espressione nel concetto di cultura, nella quale la persona nell’interpretare i simboli culturali in significati esercita una azione di analisi e di sintesi secondo la propria singolarità. Non è superfluo aggiungere che in questa azione il cervello può commettere errori, come ad esempio il triangolo o il cubo di Kanizsa. Nel completare le opere che sfuggono alla totale definizione sensoriale il cervello, infatti, attiva aree superiori in maniera del tutto autonoma rispetto alla realtà e al dato che le ha innescate. Il processo di completamento che il cervello avvia in queste situazioni comporta che nei vari casi ci siano cellule dominanti e cellule silenti, le quali possono cambiare la loro attività in base all’oggetto osservato o alla volontà dell’osservatore. Il cervello è ereditariamente predisposto ad attribuire le sue interpretazioni generando così il paradosso della “ambiguità stabile”. Secondo Zeki, infatti, “il cervello non ha molte scelte nelle multiinterpretazioni permesse dalla sua organizzazione” (Zeki S., Splendori e miserie del cervello. L’amore, la creatività e la ricerca della felicità, Codice Edizioni, Torino 2010, p. 85). Nel processo interpretativo del mondo il cervello si trova in una situazione difficile ed ambigua, dove esistono più soluzioni tutte possibili ed accettabili. L’unica spiegazione a tale problema è ammettere 64
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l’esistenza di più traduzioni del fenomeno e quindi della sua percezione da parte del soggetto. La cultura, infatti, nella sua molteplice prospettiva non si concede come univoca, bensì lascia libero arbitrio a più esegesi, tutte plausibili in quanto generate sia dalla polimorfia soggettiva, sia dalla natura stessa dell’oggetto. L’immagine più calzante della non univocità traduttiva della cultura è rappresentata dall’opera d’arte e, più specificamente, nell’incompiuto. Neurologicamente, se l’ideale, o meglio il concetto sintetico interno ad ognuno di noi, non è concretamente raggiungibile ed oggettivabile è giusto rappresentare questa tendenza per mezzo di opere incompiute e lasciare all’osservatore l’incarico creativo ed immaginativo. Ne porta esempio Rosati quando riflette sul fatto che: “ma sono soprattutto alcuni elementi che danno ragione del lavoro creativo svolto da questa scatola magica che è il cervello e che si ritrovano nelle grandi opere d’arte: l’insoddisfazione, in primo luogo, che lascia incompiute le creazioni dell’artista; la frammentazione che poi autorizza il cervello a suggerire una pluralità di interpretazioni; l’ambiguità che permette di mettere a fuoco l’attività cerebrale spostandosi da un’area all’altra sotto il controllo dei lobi frontali; l’illusione che dà ragione a Dante di idealizzare Beatrice che non è la donna per la quale il poeta ha scritto la Commedia, ma la gloriosa donna della mia mente come scriveva nella Vita Nova” (Rosati L., Le sfide del cambiamento, Morlacchi, Perugia 2005, p. 20). Altri esempi sovvengono alla mente come la letteratura di Zolà e di De Balzac, entrambi accumunati dall’incapacità di trovare nel mondo reale il concetto racchiuso solo nel loro cervello. Sotto tali aspetti si è inclini a sottolineare che l’atto creativo non è espressione fantasiosa, piuttosto è una volontà che richiama maggiormente sacrificio e determinazione, conoscenza e intelligenza, frustrazione e sedimentazione. Certo è che spesso, purtroppo, la creatività viene ad essere confusa con la fantasia, l’immaginazione, una fervida intelligenza o l’improvvisazione e, quantunque quest’ultime ne facciano parte, non la completano, né, tanto meno, possono sostituirla. R. Bodei non a caso riflette sul fatto che “non esiste creatività senza regole, senza disciplina, senza la volontà e la capacità di superare lo stadio raggiunto proprio perché si conoscono bene gli stati precedenti e si mira ad uno scopo”. 65
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Come è confermato da Taylor, la creatività ha determinate fasi di sviluppo che concorrono nel portare il soggetto nella posizione di poter risolvere un determinato problema. Il momento creativo, infatti, “ha inizio con la preparazione, perché nulla si dà a caso, né per folgorazione. Al momento della scoperta creativa si giunge attraverso una diligente attività di osservazione, di raccolta dati, di slanci immaginativi e fantastici che pure non escludono responsabilità e sacrificio.[...] Il secondo stadio è quello della frustrazione che, contrassegnato da lunghe ore di travaglio, autorizza poi il grande balzo in avanti, sempre che il soggetto non abbandoni il campo e sia costante. Il terzo è quello dell’incubazione in cui dati assunti vengono sedimentati, ripensati, ed emergono talora nel sogno, grazie al lavoro dell’inconscio che risulta positivo, perché non sottoposto a censura. Il quarto stadio è quello del fantasticare, cosa che si fa, di solito, nei momenti di guida dell’auto a radio spenta o al momento di farsi la barba. L’ultimo è quello dell’illuminazione: è più propriamente l’insight che precede la scoperta e traduce l’intuizione in dato reale” (Rosati L., Dentro l’anima della professione docente, Margiacchi, Perugia 2005, pp. 103/104). Sono queste le ragioni che hanno spinto sul finire degli anni Settanta M. Mencarelli a definire la creatività quale stato di “interfunzionalità”, momento in cui concorrono e si fondono, in una comunione di intenti, tutti gli elementi e potenzialità che contraddistinguono l’essere umano. Da un punto di vista neurologico è facile gioco dimostrare che l’idea mencarelliana della creatività era di gran lunga rappresentativa e rispondente alle ultime scoperte fatte sul cervello. Infatti, andando ad analizzare in profondità lo sviluppo della creatività stessa si può osservare che la preparazione e la frustrazione appartengono ad una analisi dettagliata della situazione, del problema e delle variabili che entrano in gioco per poi poter essere pensati ed elaborati. Tali momenti sono riferibili ad una elaborazione eseguita dall’emisfero sinistro, deputato, appunto, ad un esame critico del contesto che ci circonda. A partire dalla terza e quarta fase, quella dell’incubazione e del fantasticare, interviene l’emisfero destro, il quale si stacca dal mondo sensibile e analitico per dirigersi nel mondo emozionale che gli consente di guardare il problema da punti di vista differenti e poterlo analizzare così in profondità. Tutte queste fasi confluiscono nell’illuminazione, ove risiede tanto il lavoro e i prodotti dell’emisfero sinistro quanto quelli espressi dall’emisfero destro, in uno stato, appunto, di interfunzionalità tra i due emisferi. 66
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In conclusione si può osservare che la non diretta traduzione e definizione del concetto da parte del cervello rappresenta un limite dell’azione analitica, dall’altra autorizza a sperimentare nuove strade, a sintetizzare, cioè, il mondo secondo la propria naturale abilità e intuizione. Occorre educare alla creatività, così come si educa alla società, una potenzialità che ha da essere curata fin da bambino e costantemente incrementata ed alimentata durante tutta la vita. Lo spirito creativo “si nutre di incoraggiamenti e inaridisce con le critiche”, ricorda Goleman (Goleman et alii, in Rosati L., Le sfide del cambiamento, Morlacchi, Perugia 2005). La creatività rappresenta quel fuoco sotto la pentola capace di amalgamare spezie ed aromi, generando qualcosa di straordinario e nuovo, quell’èlan vitale di cui parla Bergson o quell’appena appena sussurrato da Vygotkij e che oggi viene ad essere descritto da Goleman come spirito creativo. Di qui la consapevolezza che la creatività appartiene a tutti, una dote che accomuna ogni essere umano, la quale essendo un prodotto del cervello ha bisogno solamente di essere stimolata ed attivata per mezzo di quegli impulsi interni o esterni. Nella creatività, infatti “è fatta consistere l’esaltazione più nobile dei poteri della persona umana che sarà allora capace di padroneggiare se stessa, di dominare ansietà e paure, di guardare al presente con la massima oggettività, senza eufemismi e facili proiezioni sentimentali, di progettare un futuro a misura d’uomo” (Rosati L., Il metodo nella didattica, La Scuola, Brescia 2005, p. 128).
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Cap. 4 Nuove frontiere di ricerca: Centocinquant’anni di storia Al gran parlare della ricorrenza dei 150 anni dell’unità d’Italia è corrisposta una domanda su quale possa essere il ruolo giocato nella società odierna dalla pedagogia, soprattutto nell’era dove la complessità si è promossa come slogan principale e metacategoria. Pur sempre fedeli all’epiteto della L. Fabbri: “la parola complessità è una parola problema, la parola semplicità è una parola soluzione”; non possiamo non accodarci a coloro che sanciscono l’enorme difficoltà in cui oggi il soggetto si trova. E allora che fare? Lasciare che l’universo tecnologico, pur rilevandone l’importanza nel favorire e facilitare il processo evolutivo, continui il suo corso e allontanarci attraverso facili elucubrazioni dalla realtà concreta o annoverare ancora una volta, mai stanchi, quella componente che trascende dal sensibile ed eleva l’uomo verso se stesso? Certamente una risposta completa e definitiva non può essere data, specialmente alla luce delle continue trasformazioni sociali, politiche, economiche, tecnologiche e culturali sempre più eterogenee e di difficile lettura. Sono queste le riflessioni che spingono ad affermare che "non tanto nei trattati sistematici di filosofia o di pedagogia, più spesso dalle opere di scrittori non comuni affiora una tristezza profonda per lo spreco di umanità di cui si rende responsabile il nostro tempo. Tristezza condivisa da molti, anche dai tanti che non la sanno oggettivare e comunicare. E sullo spreco di umanità rintocca un mare di sofferenza” (Ducci E., Approdi dell’umano. Il dialogare minore, Anicia, Roma 1998). Certo è che tale ricorrenza dà la possibilità di meditare su alcune tematiche educative che nella epistemologia pedagogica si sono sempre contraddistinte come pilastri di ogni processo evolutivo e che oggi, spesso, vengono messe da parte in nome di un tecnicismo smodato o dell’acquisizione di competenze sempre più settoriali e parcellizzate. Non a caso il concetto di libertà, tanto caro tra i tanti al Cousinet (Cousinet R., Un metodo di lavoro libero per gruppi, tr. it. La Nuova Italia, Firenze 1961) che lo annovera come principio fondamentale nell’educazione, può rappresentare quel paradigma di riferimento capace di donare al soggetto quel senso diritto ad essere se stesso, nella piena autonomia ed espressione della propria naturale vocazione. 68
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Una libertà che trova la sua più intima essenza e piena espressione nel “diventar soggettivo” di ducciana memoria (Ducci E., La maieutica kiekegaardiana, Adriatica, bari 1967). Secondo la pedagogista, infatti, la soggettività nel processo educativo rappresenta un problema necessario ed indispensabile, mai ridondante e fragile, piuttosto connotabile secondo la arbitraria sostanza dell’essere uomo. Tale idea trova terreno fertile nelle riflessioni espresse da De Ruggero quando assicura che “ non si nasce liberi, ma si diventa liberi. Così nella vita dell’individuo, come nella vita storica dell’umanità. Fanciulli, siamo dominati dalla vita sensibile e passionale; giovani, cominciamo a dominarla; adulti, la possediamo più compiutamente nella serenità della nostra riflessione" (De Ruggiero G., Storia del liberalismo europeo, Feltrinelli, Milano 1971). Dello stesso parere paiono le parole di Antoni C., quando, nel riflettere sui principi universali dell’educazione, asserisce che la persona, nella sua libertà, è fonte di valori e principio universale. La libertà è una conquista dell’uomo per mezzo dell’educazione, un conseguimento che si dona alla società per mezzo dei diritti universali di autonomia ed indipendenza e che si avvalora con la reciproca relazione con l’istruzione, il lavoro, la salute e la famiglia. Attraverso il concetto pedagogico di libertà vengono naturalmente maturate le idee di Stato e democrazia. Da quando Spinoza asserì che “il fine ultimo dello Stato non è dominare, e neppure opprimere gli uomini con il timore, e di porli alla mercè della volontà altrui, ma al contrario di liberare ciascun uomo dal timore affinché egli possa, quanto più gli è possibile, vivere in sicurezza” (Spinoza B., Trattato teologico politico), il legame tra Stato e libertà si è andato via sempre più consolidando, tanto da rendere merito allo stesso filosofo quando conclude affermando che “il vero stato è la libertà”. Nello stesso tempo la libertà assegna al soggetto quel carattere di singolarità nella propria espressione creativa ed unicità che si pone quale fondamento di ogni democrazia. Anche se uno tra i padri fondatori dello stato democratico John Locke sanciva che originariamente ogni soggetto è uguale ad un altro secondo quella prospettiva di uguaglianza nello sviluppare se stesso, attraverso la libertà il soggetto diviene capace di un processo di differenziazione ed emancipazione che lo distingue dagli altri. Un percorso che rende la persona non solo quale sterile possesso di materialità, piuttosto manifestazione del possesso di sé. 69
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Libertà, Stato e Democrazie rappresentano le fondamenta su cui erigere una moderna nazione, la quale, per mezzo dell’educazione, origina una evoluzione continua e fondata sul concetto di educazione permanente. Tali concetti rifluiscono e si fondono per dare origine all’idea di patria, quale unione di prospettive politiche, sociali, economiche educazione. A tal proposito piace ricordare le parole espresse da Carlo Azeglio Ciampi alle soglie del nuovo Millennio:"Proprio verso la metà del secolo, nel 1948, l'Italia, riconquistate le sue libertà e la sua dignità, seppe stipulare un patto nuovo fra tutti i suoi figli, la Costituzione repubblicana. In quel patto è confluita tutta la nostra storia, con le sue lotte per la democrazia, per la giustizia, per l'unità della Patria. A testimonianza ed eredità del passato, a guida dello slancio verso il futuro" (Carlo Azeglio Ciampi, Messaggio di fine anno agli italiani, Palazzo del Quirinale 31 dicembre 1999). All’interno di questa dichiarazione, quanto mai autorevole, non solo è possibile rilevare concetti chiave come identità, Nazione, libertà, democrazia, storicità e futuro, piuttosto si valorizza e palesa l’idea di Stato, quale patriottismo verso valori comuni, identificazione con altri soggetti appartenenti alla stessa cultura e sentimenti di orgoglio ed onesta verso quest’ultima. Di certo è che il concetto di patria ha una duplice valenza e cioè quella di valore geografico da attribuire ad un dato territorio e una dote concettuale in seno ad ogni soggetto appartenente ad una data area. Tullio De Mauro sintetizza questa duplice valenza asserendo che “laceri, stanchi, presi un poco anche dall’amor patriottico desideravano ritornare alla loro terra natia, alla loro Matria, alla loro Heimat. Lì avevano le loro mogli, le loro fidanzate, i loro figli, i loro amici; lì conciliavano il loro bisogno di vivere in armonia con l’ambiente d’origine. La terra natia, la matria viene prima della patria. La madre precede il padre e dà al figlio la sua impronta, la sua protezione. Nella terra natia si vive con naturalezza la propria vita comunitaria e ci si sente cittadini davvero; perché si conosce e si è conosciuti, perché si sa che si può aiutare l’altro e si viene aiutati. La patria viene dopo” (tratto da:Dalla patria alla matria. Ecco perché è la lingua che ci ha fatto italiani, intervista a Tullio De Mauro, in http://www.eleaml.org/sud/borbone/memoria_identita.html). Heimat è un termine tedesco che non trova una definizione univoca nel vocabolario della lingua italiana. Esso non è traducibile con le classiche semantiche di “terra natia” o “patria ristretta”, piuttosto rappresenta un ideale territorio ove ogni soggetto si sente a casa propria, in un connubio perfetto tra globale e locale. 70
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Non vi è nemmeno da interpretarla come glocalismo, è qualcosa di più intimo al soggetto, di più istintivo e naturale, così come non deve essere confuso con patriottismo, è qualcosa che parla una lingua diversa, quella del cuore e degli affetti più cari. Heimat è piuttosto un sentimento nobile, il fuoco che accende gli animi e scalda l’amigdala, il sentire, l’espressione delle emozioni più nobili e degli stati viscerali che richiamano alla fanciullezza, alla spensieratezza e al cuore di ognuno, facendoci partecipi del nostro sentire più interiore. Un concetto, quello di matria, che trascina con se quel personalismo metodologico espresso nel pontificato di Papa Giovanni Paolo II e che in Goleman trova la sua più ampia espressione sociale. Non a caso lo psicologo statunitense descrive da principio una intelligenza emozionale, quale competenza per la gestione dei propri stati d’animo, passa per una intelligenza sociale, quale relazione tra le diverse sensibilità emotive, e si conclude, in comune accordo con Georg Por, in una intelligenza collettiva, nella quale risiedono capacità sociali tendenti all’evoluzione umana per mezzo della collaborazione e dell’innovazione. Dal concetto di patria e matria è possibile estrapolare una ulteriore riflessione tendente a focalizzare le forme della leadership. È cosa risaputa che nella gestione del gruppo sono riconosciute due tipologie di leadership: - leadership formale: imposta dall’alto dove vige il senso della razionalità e del raggiungimento dell’obiettivo e che sfocia in un paese legale (patria); - leadership informale: consacrata per mezzo del riconoscimento di determinati valori in una persona autorizzando un paese reale (matria). Al di là della diatriba che potrebbe aprirsi a livello pedagogico del gap tra paese legale e paese reale, ciò che preme mettere in luce è la trasformazione di tali leadership in codici affettivi. Fornari definisce tali codici come “potenze decisionali inconsce che si strutturano come un codice, in quanto collegano unità presenti con unità assenti secondo regole, dando ragione a ruoli attanziali” (Fornari F., Frontori L., Riva-crugnola C., Psicoanalisi in ospedale, Cortina, Milano 1985, p. 144). Difatti, se da un lato la leadership offre alla società un tipo di codice affettivo che “sollecita e premia le iniziative e la crescita dei singoli in rapporto allo sviluppo della cultura” (Trentini G., Oltre il potere. Discorso sulla leadership, FrancoAngeli, Milano 1997, p. 111) rilevando costantemente un handicap positivo fondato sulla capacità del soggetto a 71
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raggiungere determinati obiettivi, dall’altro lato “persegue e premia la protettività del gruppo, globalmente inteso, nei riguardi di tutti i suoi membri” (Ibidem, p. 108), fissando così i pilastri per la protezione e il mutuo sostegno quale espressione del codice materno. Ecco, allora, confermato appieno quel senso di matria e di Heimat capace di destare l’uomo dal torpore in cui sembra essere caduto e far assaporare la sua più profonda intimità per mezzo della libertà e dell’amore più vero.
4.1 I neet Abitualmente si è tendenti a classificare adulta una persona che ha compiuto la maggiore età. Tale tassonomia e classificazione può variare a seconda dell’ordinamento e del sistema culturale, sociale e legislativo di appartenenza, così come in subordinazione al contesto disciplinare entro cui si opera. Infatti, al di là all’aspetto normativo, in medicina si parla di adulto nel momento in cui si è giunti all’apice dello sviluppo biofisiologico, mentre in psicologia quando il bagaglio psico-fisico ed esperienziale è pervenuto a completa maturazione. Senza addentrarci ulteriormente nelle prospettive disciplinari in grado di descrivere l’adultità in base a parcellizzazioni più o meno sensate e rigorose, oggi si sta assistendo ad un prolungamento della fasi della vita, tanto da rendere difficile una loro netta determinazione e/o definizione. Il continuo dilatarsi delle varie fasi della vita, la giovinezza che non si arresterà con l’ingresso nel mondo del lavoro, l’adultità, soprattutto alla luce delle recenti scoperte neuroscientifiche, che non termina con il passaggio dallo stato operativo-produttivo a quello del pensionamento hanno posticipato, quanto mai mutato, la caratterizzazione di ogni età evolutiva. Quanto espresso è di facile dimostrazione, specialmente se si pone a mente il fatto che i nostri nonni raggiungevano la terza età già a partire dal compimento del cinquantesimo anno, così come i nostri genitori erano considerati persone adulte a partire dai vent’anni e, cioè, da quando interrompevano il ciclo di studi per intraprendere la carriera lavorativa. Se da un lato questa estensione e trasformazione è pacificamente accettata e orientabile secondo le indicazioni sociali indicate da Spencer, dall’altro crea profondi disagi e gap formativi che non trovano riscontri epistemologico-scientifici all’interno della vasta letteratura delle scienze dell’educazione. 72
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Volendo focalizzare la nostra attenzione verso un determinato periodo della vita di un soggetto è doveroso prima di tutto domandarci come possiamo tratteggiare quella fase che non può essere più considerata età della spensieratezza, del gioco, della leggerezza e dell’imprudenza, ma che, allo stesso tempo, non può neanche essere inserita all’interno del periodo dell’adultità. Lo psicologico statunitense Jeffrey Arnett ferma la sua attenzione su questo problema identificando i soggetti appartenenti a tale categoria come “quasi adulti” (a livello europeo vengono definiti con l’acronimo “Neet”: Not in Education, Employment or Training): una nuova corrispondenza anagrafica avente proprie caratterizzazioni, peculiarità, prerogative e bisogni. L’età che comunemente viene ad essere descritta come “i vent’anni” è un periodo della vita in cui più che preoccuparsi del futuro o di trovare un posto di lavoro si sperimentano esperienze, si fanno viaggi formativi e ci si accredita di qualità come la leggerezza percettiva e l’assoluta libertà; una fase, quindi, che dovrebbe concludersi con la piena maturazione e il definitivo passaggio alla fase adulta. Nel corso di poco più di un quarto di secolo questo stadio si è ampiamente dilatato, lasciando spazio ad una nuova forma di adultogiovane o giovane-adulto, che, concluso il suo percorso di studio formale, si ritrova ad essere troppo giovane per entrare in una categoria, quella dell’adulto, ma, nello stesso tempo, troppo veterano per essere considerato un ragazzo. In tale periodo, solitamente compreso tra i 20 e i 29 anni, si è adulti da un punto di vista giuridico, medico e psicologico, ma non sotto un ottica sociale, in quanto non in grado di essere socialmente attivi. Palesi sono i dati forniti dall’Istat nel definire l’Italia in profonda crisi circa l’andamento alla partecipazione al sistema di formazione da parte dei Neet (21,3%), per non parlare delle stime riferite a soggetti che risultano fuori dal circuito formativo, educativo e lavorativo (21,2 pari a poco più di due milioni di soggetti). Certo è che le strategie di Lisbona, che ponevano entro il 2010 la riduzione degli abbandoni scolastici al 10%, sono risultate inadeguate e non a caso riproposte nella triplice prospettiva del programma europeo EU 2020 circa la formazione del cittadino (Cfr. Mancini R., Una cultura emergente l’educazione permanente. Genesi e sviluppo di un’idea, Aracne, Roma 2011). La strategia posta in essere dagli Stati europei, infatti, fa leva su tre punti nodali, quali: 73
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l’acquisizione di nuova conoscenza da parte del singolo soggetto come fonte di ricchezza ed innovazione individuale e collettiva; - l’acquisizione di competenze e flessibilità per mezzo di una partecipazione attiva alla vita politico-sociale della persona; - la garanzia di una economia competitiva fondata sulla salvaguardia dell’ambiente e sul sistema concorrenziale. Il non aver raggiunto tali traguardi non solo ha decretato il fallimento della strategia stessa, ma ha generato l’insorgenza di un problema ben più complesso e cioè quello della presenza, all’interno di una società sempre più multietniche, di soggetti che non producono e non incrementano le loro potenzialità. Al di là di sterili epiteti che è possibile attribuire a tale periodo, si ricorda quello espresso dal Ministro Padoa Schioppa dei cosidetti “bamboccioni” o della sindrome di Peter Pan, è doveroso chiederci quali caratteristiche presenti una categoria che comprende numerosi soggetti, ma soprattutto che rappresenta l’immediato potenziale di ogni società. Molte sono le cause e le ragioni che hanno prodotto tale metamorfosi sociale. Se l’educazione può essere considerata come “un problema di adattamento delle nuove generazioni alle esigenze dell’individuo e della società” (Spencer H., Educazione intellettuale, morale e fisica, tr. it. La Nuova Italia, Firenze 1967), allora è doveroso soffermare la nostra attenzione sulle congetture che hanno generato un simile cambiamento. Certamente molte sono le variabili che entrano in gioco a partire dalla sempre maggiore artificiosità sociale. Di certo hanno influito il prolungamento dei tempi di studio, dove è sempre più richiesta un’elevata specializzazione e settorialità data da Master, corsi di perfezionamento, tirocini post-laurea e seconde lauree, ma anche una sempre più pressante restrizione di risorse individuali derivante dal non trovare “posto sicuro” su cui poter fondare il proprio futuro. Ulteriormente non può essere trascurata una crisi economica che sta investendo l’intero pianeta e che arresta il processo di emancipazione dai genitori, così come una società che se da un lato reclama l’autonomia di ogni soggetto, dall’altro lato raramente mette a disposizioni strumenti perché essa si realizzi. Soggetti, quindi, che quantunque possano essere descritti adulti in base a criteri e standard comuni alle scienze, ancora non sono ascrivibili in quel determinato gruppo sociale. Non inascoltate devono essere le parole espresse dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, quando, alle porte degli anni Venti, 74
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sensibilizza gli organi e le istituzioni competenti ad investire e a credere maggiormente sui giovani. Ma quali giovani? Riflettendo con Duccio Demetrio si è tendenti ad osservare che l’educazione ha l’obbligo di “organizzare in settori necessità ed aspirazioni conoscitive al mutare delle esigenze sociali, politiche, economiche, del costume e del gusto, delle idee e degli andamenti demografici, delle tecnologie e delle pratiche di cura; di accadimento ed educazione delle generazioni che si succedono, rispetto alle quali gli adulti hanno il dovere di arricchire le loro conoscenze per aiutarne la crescita e l’affermazione” (Demetrio D., Manuale di educazione degli adulti, Laterza, Bari 2000). Ogni fase della vita ha determinati obiettivi e traguardi da raggiungere, bisogni e necessità da perseguire. Un esempio preso a prestito dalla mitologia è rappresentato da Icaro, il quale avvicinandosi troppo al sole si bruciò le ali. Il “quasi adulto” impara secondo i propri schemi mentali, il proprio bagaglio conoscitivo, le proprie emozioni, paure ed esperienze, le quali riflettono, in coesistenza, paradigmi dell’adultità e della fanciullezza. Dewey afferma che “l’educazione è una continua ricostruzione dell’esperienza” e, constato che la formazione dell’adultità è solitamente compiuta all’interno dei percorsi canonici di apprendimento culturale offerti delle istituzioni educative, oggi la società impone una preparazione alla vita dilatata nel tempo. Una educazione permanente che resta immune agli attacchi generazionali e contempla la persona quale garante di evoluzione e maturazione singolare e comune. L’età che abbiamo descritto con il termine quasi adulti e/o Neet è una fase della vita multiforme, certamente eterogenea e ricca di una varietà di caratteri che appartengono sia allo stato sociale dell’adulto, sia a quello del giovane. L’educazione e la formazione dei soggetti “quasi adulti” è un settore tutto da investigare, ma le sue pretese ed emergenze si fanno sempre più pressanti e impegnative. Occorre un carattere quanto mai empirico esplorativo che sia diretto ad investigare la complessità e le molteplici sfaccettature di una fase evolutiva che ha urgentemente bisogno di piani operativi calibrati. Per questo occorre investire direttamente e immediatamente in questi tratti identitari, così da avvalorare quella cultura avente “come suo paradigma il costrutto di competenza strategica per l’apprendimento permanente come competenza per apprendere ad apprendere” (Alberici A., La 75
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possibilità di cambiare. Apprendere ad apprendere come risorsa strategica per la vita, FrancoAngeli, Milano 2008). L’apprendere ad apprendere non rappresenta un mero salvavita professionale, continua la Alberici, piuttosto una continuità educativa che riguarda sia l’adulto, che il giovane e può rappresentare il primo passo e pilastro educativo per il soggetto “quasi adulto”, un libero sfogo di quel “pensiero pensante” espresso più volte da Gentile ed orientabile per mezzo dell’educazione permanente.
4.2 Intelligenza: teorie e modelli Al gran parlare di intelligenza non sempre corrisponde una chiarezza di significato, soprattutto se si confrontano le varie accezioni e valenze che a tale termine vengono accostate nei diversi contesti educativi. Nell’ultimo trentennio, costatando una notevole quanto recente accelerazione data principalmente dalle scoperte neuroscientifiche e dall’avanzare tecnologico, il termine intelligenza ha assunto nuove prospettive e profondità rispetto al passato. A livello semantico il termine intelligenza deriva dal latino intelligere, quale competenza di comprendere ed apprendere in modo attivo la realtà che circonda ogni singolo soggetto. Secondo tali principi l’intelligenza è da sempre riconosciuta quale il principale “organo di conoscenza” e regolatore di ogni facoltà (memoria, creatività, ragione etc.), tanto che per S. Tommaso rappresenta l’intelletto nella sua massima espressione ed attività: intelligentia significat ipsum actum intellectus qui est intelligere! Tale capacità è una delle più alte peculiarità possedute dal soggetto ed elemento di diversificazione, connotazione e distinzione. Non a caso nella sua accezione “differenziale” l’intelligenza è intesa come “l’elemento che differenzia gli individui nella capacità di affrontare i compiti cognitivi” (Cornoldi C., L’intelligenza, Il Mulino, Bologna 2007, p. 17), sia essa declinata come abilità, che come attitudine. Molti sono stati i tentativi di dare un’oggettivazione all’intelligenza e altrettanti possono essere considerati i fallimenti in questo esame, a meno che non si voglia concludere che la stessa può essere definita secondo variabili precise ed oggettive. Esempio ne sono gli azzardi di riduzione dell’intelligenza a caratteristiche cognitive e/o specifiche abilità, così come la confusione 76
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generata dal voler connotare l’intelligenza come genialità, esperienza o creatività. Cornoldi esorta nel fare chiarezza su tale questione e distingue: - Talentuosi: come persone con forme altamente specifiche di intelligenza; - Creativi: quali soggetti che riescono a trovare soluzioni nuove a vecchi problemi; - Geni: rappresentanti una combinazione di diversi fattori: cultura, società, biologia etc.; - Dotati: come persone che ottengono prestazioni molto elevate; - Super esperti: semplicemente soggetti aventi alta specializzazione. (Cfr. Cornoldi C., L’intelligenza, Il Mulino, Bologna 2007, p. 87) Certamente, quindi, lo stesso termine intelligenza porta in serbo una pluralità di significati e significati che determinano una difficile quantificazione e qualificazione. Di questo parere è Vygotskij, il quale dichiara che tale funzione dell’intelletto è il risultato dell’interazione che il soggetto si trova ad avere con l’ambiente. Parlare di intelligenza risulta essere sempre una impresa ardua se non per il fatto che essa stessa risulta possedere una natura sfuggente da una completa ed esaustiva definizione, soprattutto quando se ne ricerca una matrice oggettiva. Sicuramente tutte le persone a loro modo possono essere definite intelligenti, così come tutte le persone sono creative, ma è altrettanto certo che ognuna di queste intelligenze si differenzia dalle altre non solo per il fatto che possano raggiungere un determinato livello in un test, piuttosto perché ogni soggetto risulta essere unico nella sua singolarità, nell’espressione concreta delle proprie potenzialità e nella diversità di come si attuano questi stessi processi. Fare attenzione a questi fattori significa principalmente dare libero spazio al soggetto nel pensare, nel fare, nell’agire e nel produrre soluzioni sempre diverse e originali. Da qui nasce la certezza che ogni persona esprime ciò che è la sua natura, ciò che è incline alla sua intelligenza, nella coscienza che tale azione risulta essere un metodo per la piena realizzazione dei bisogni formativi e il raggiungimento di un elevato grado di benessere e felicità, come prospettato anche dal pedagogista e filosofo giapponese Makiguchi nella teoria sua della felicità (Makiguchi T., L’educazione creativa, La Nuova Italia, Milano 2000). 77
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Adottando le parole espresse da Rosati possiamo concludere che “le differenze esistenti tra soggetto e soggetto, determinate dal DNA individuale, ma anche dai condizionamenti derivati dall’appartenenza ad una cultura specifica, dall’ambiente di vita, dalle relazioni interpersonali rimbalzano nelle situazioni di apprendimento e conferiscono al metodo, qualora si voglia generalizzare, una sorta di precarietà che viene aggirata attraverso il ricorso a forme diversificate di intervento” (Rosati L., Il cervello non mente, Margiacchi, Perugia 2008, p. 40).
4.3 Natura o formazione culturale L’intelligenza si palesa e rende esplicita per mezzo dei concetti di abilità e attitudine, quali connotazioni della radice e della derivazione soggettiva ad essa appartenente. Molte volte si è tendenti a definire l’intelligenza come un aspetto per così dire spirituale, al di sopra del mondo fenomenologico e sensibile, mentre in altre circostanze si è inclini a caratterizzarla quale espressione biologica e strutturale del funzionamento neuronale o di qualche attività psichica ben definita. Nelle prime ricerche fatte più di un secolo fa l’intelligenza era considerata come un setaccio sociale con il quale formare una classe privilegiata partendo dal presupposto che l’intelligenza stessa possa essere misurata e quantificata in tutte le sue manifestazioni più rappresentative. Tipico esempio è il Q.I. ideato per la prima volta dal Binet sul finire del XIX secolo. Tale impostazione, chiamata eugenetica, ben presto però si rese inopportuna davanti alla polimorfia del soggetto e della sua espressione intellettiva. Non appena le ricerche sull’intelligenza si sono fatte via via sempre più scientifiche, infatti, si è potuto constatare che tale peculiarità umana è influenzata da una molteplicità di variabili interne ed un’altrettanta mutabilità di variabili esterne. Certamente non possiamo misconoscere il fatto che l’intelligenza ha una forte componente biologica, quale funzionalità cerebrale ed elemento fondante ogni attività intellettiva. Un’ulteriore caratterizzazione è data da una visione psicologica che ne matura il significato più intimo e che si lega a quella biologica per integrarla e definirla in tutte le sue sfaccettature. 78
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Infatti, per mezzo della tecnologia e più propriamente delle tecniche di imaging, così come di molte ricerche effettuate su gemelli monozigoti, si è potuto constatare che l’intelligenza è influenzata dalla componente genetica (struttura e composizione del cervello). D’altro canto lo studio psicologico evidenzia due elementi fondamentali che orchestrano l’intelligenza: - l’ereditarietà - i correlati biologici dell’intelligenza. Se nel primo principio appare determinante la totalità della struttura cerebrale, nel secondo, i correlati dell’intelligenza, vengono presi in esame costituenti come la qualità e quantità delle sinapsi e dei neuroni, così come il grado di mielinizzazione, la velocità di trasmissione tra i neuroni e lo sviluppo di tali aree. Entrambi gli elementi, comunque, concludono che “un individuo nasca già dotato biologicamente di un patrimonio intellettivo potenziale” (Cornoldi C., L’intelligenza, Il Mulino, Bologna 2007, p. 97), anche se ammettono che esso può svilupparsi pienamente solo in presenza di un ambiente favorevole e fertile. L’educazione dell’intelligenza risulta essere parte fondamentale per il suo sviluppo umano. Significativo è il fatto che nella grammatica inglese si trova l’espressione “nature or nurture”, quale sillogismo e/o ragionamento volto a definire l’intelligenza secondo la duplice veste genetica ed educativa. Se, infatti, da un lato si è stabilito che l’intelligenza è ereditata circa del 70%, dall’altro lato sarebbe riduttivo assegnare all’educazione una valenza così modesta e pari al 30%, soprattutto perché anche l’aspetto genetico ha da essere educato per potersi esprimere. Facile è dimostrare quanto espresso. Se l’intelligenza fosse solo un fattore ereditario allora i figli di geni dovrebbe essere essi stessi dei geni. Ma ciò raramente viene confermato. Nello stesso modo risulta critica l’impostazione watsoniana che identifica l’uomo squisitamente come prodotto dell’ambiente. Certo è che l’intelligenza deve essere educata come qualsiasi altra competenza o abilità del soggetto. Essa non può essere paragonata e limitata all’ereditarietà ed espressa nel DNA, piuttosto all’uso che il soggetto ne fa. Se due genitori sono alti non è scontato, anzi, che il figlio diventi un campione di salto in alto. Ecco, allora, l’importanza dell’educazione e cioè quella di orientare lo sviluppo intellettivo secondo le tendenze e le inclinazioni umane, rivendicando un’educazione fondata nella componente di sviluppo naturale di cui Rousseau, a partire dal XVIII secolo, ne connota l’agire. 79
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Huarte cerca una risposta a tale problematica e riflette sul fatto che l’uomo può essere esclusivamente considerato come una delle molteplici espressioni che può assumere nel corso della propria esistenza. Tale idea provoca un notevole colpo inflitto alla concezione di uomo intergale e quindi al concetto di Paideia classica. Se, infatti, da un punto di vista filosofico, pansofico e pedagogico vige l’assunto per il quale è possibile far apprendere in maniera significativa qualsiasi cosa ad ognuno (stabilito dal Richmond nel 1969 nell’affermazione “tutti gli uomini possono imparare le stesse cose e possono impararle bene allo stesso modo” basta che in tale azione siano presenti motivazione e volontà), dall’altro la ricognizione biologica limita tale concetto ed estende la sua riflessione anche sui limiti imposti dalla natura. Si attuerà, così, una azione fondata sul metodo, sulla gradualità e in condizioni ottimali, “nel rispetto delle potenzialità psicologiche del soggetto, motivandolo ad operare, per raggiungere i traguardi conoscitivi che vengono stabiliti per lui. Si tratterà, in ultimo, di organizzare l’ambiente ideale perché l’attività del soggetto conoscente possa essere compiuta senza manomissioni e incomprensioni, ma con facilità” (Rosati L., Lezioni di didattica, Anicia, Roma 1999, p. 43). Una impostazione che seppur rivendica la paideia come “modalità complessiva della cultura formativa di una società in una determinata fase storica e il complesso delle strategie etniche, civili, tecniche, rituali, religiose, istruttive, addestrative rivolte alla continuità tra le generazioni (Acone pp. 105-106), dall’altro richiama tale azioni ad una presa di coscienza della componente biologica dell’intelligenza, declinando la formazione e l’educazione ad una prospettiva quasi utopica nel suo senso generale. Un uomo, quindi, che raggiunge la sua maturità e si diversifica dall’altro proprio secondo le sue attitudini e abilità. Per Huarte c’è solo una verità e cioè “l’insieme delle molteplici opinioni umane determinate dalla varietà degli ingegni e la possibilità, tramite la filosofia naturale, di darne conto, disegnare una mappa, modificarle con l’arte medica.” (Huarte J., a cura di Casalini C., Salvarani L., Essame degl’ingegni, Anicia, Roma 2010, p. 19). Noto è l’esempio di Marco, figlio di Cicerone. Infatti, il filosofo e scrittore romano è stato costretto ad ammettere che, seppur facendo partecipare il proprio erede alle più alte summae di filosofia Ateniesi, esso appartiene a quella schiera definita dallo stesso Huarte di “ingegni tardi o capricciosi”. A tal proposito Huarte asserisce che “non c’è 80
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nemmeno un Dio a cui rivolgersi per interpretare un sapere, se la natura il nega”. Huarte propone un modello pedagogico antitetico ed alternativo alla paideia classica. “Provasi con uno esempio, che, se il fanciullo non ha l’ingegno, & l’habilità, che si reca a quella scienza alla quale egli vuole attendere, è cosa superflua l’udirla da buon maestri, l’aver molti libri, & di continuo studiarli” (Huarte J., a cura di Casalini C., Salvarani L., Essame degl’ingegni, Anicia, Roma 2010, p. 91). Chiara è l’impostazione del medico spagnolo nell’orientarsi verso una cultura delle differenze e delle peculiarità. Le due impostazioni si rincorrono e credo continueranno a farlo per ancora molto tempo, o almeno fin tanto che o la neurologia costaterà la presenza di un aspetto inconoscibile della persona, anche utilizzando le più sofisticate ed innovative tecnologie di indagine, o la filosofia cederà il suo primato nelle scienze dell’educazione ad una rivisitazione positivista dell’impianto pedagogico.
4.4 L’intelligenza tra identità e diversità Se fino a questo momento si è cercato di approfondire l’intelligenza secondo caratterizzazioni ed elementi che determinano il suo sviluppo e ne circoscrivono la sua natura, appare opportuno riflettere, in maniera più approfondita, sulla sua valenza sociale ed educativa. Si è giunti alla certezza che l’intelligenza può essere considerata quale risultato sia dell’aspetto biologico, sia di una contaminazione dell’ambiente nei confronti del soggetto. Comunque, come ricorda Cornoldi, essa risiede nei concetti di abilità o attitudine. Natura e processo educativo che accreditano la più alta essenza di identità e singolarità del soggetto stesso. In tale azione di valorizzazione, infatti, rientrano tutti gli elementi più peculiari della persona tra cui la sua dialogicità ed apertura, unicità ed irripetibilità, autonomia e libero arbitrio, nonché la sua componente creativa e antropologica risiedente nelle caratterizzazioni intrinseche ed estrinseche che esso possiede. Rosati riferisce sul fatto che i neuroni in azione provocano diversità tra i soggetti tanto da determinare due impostazioni e paradigmi di fondo: - risalenti alla lettura delle scienze naturali; - rintracciabili nelle cosiddette scienze umane e dell’educazione. 81
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“Le prime, ovviamente, insistono sulla natura biologica di certi processi di conoscenza che connotano lo sviluppo umano collegandolo in maniera reciproca percezione, cognizione e azione (e che noi abbiamo detto essere le attitudini). Le seconde, per converso, attribuiscono ogni processo intellettuale, di qui il nome di scienze cognitive, al funzionamento della mente che, di fatto, illumina il mondo della vita del quale facciamo costantemente esperienza e che diviene tale proprio in quanto rischiarata dall’idea (le abilità)” (Rosati L., La scatola magica. Tutto quello che vorremmo sapere sulla mente, Morlacchi, Perugia 2006). Tale idea viene confermata da G. Genovesi il quale dichiara che “l’oggetto educazione, come qualsiasi altro oggetto di studio, può essere affrontato razionalmente almeno attraverso due approcci. Il primo approccio è quello che considera l’oggetto nella sua perfezione formale e, quindi, inteso come idea che, in quanto tale, non può mai essere raggiunto ma sempre e solo perseguito (aspetto metafisico). [...] Il secondo approccio è quello che prevede la possibilità di perseguire l’idea e, quindi, considera il rapporto o l’impatto, che dir si voglia, dei vari meccanismi che compongono il modello ideale, la realtà astratta, con il contesto storico, con la realtà concreta, sempre più complessa” (Genovesi G., Pedagogia e oltre, Anicia, Roma 2011, p. 92). In tale scenario l’educazione si pone come risposta attiva dei bisogni del singolo, amplificando la diversità e realizzando strategie e programmi idonei alla soddisfazione dei bisogni esistenziali. La specificità di tale argomentazione e prassi pedagogica sono “orientate a rispondere in modo mirato ai bisogni educativi connessi alla diversità” (Bellatalla L., Genovesi G., a cura di, Scienza dell’educazione e sue piste di ricerca, Anicia, Roma 2009, p. 182), quale “caratteristica fondamentale della stessa educazione, poiché rappresenta una delle condizioni imprescindibili dell’avvio del processo educativo” (Bellatalla L., Genovesi G., a cura di, Scienza dell’educazione e sue piste di ricerca, Anicia, Roma 2009, p. 183). È solo grazie alla costruzione di un particolare percorso formativo che “diversità ed educazione si incontrano, si intersecano, tanto che la diversità diviene base su cui fondare la stessa educazione, che non può prendere forma se non appropriandosi dei soggetti, delle loro caratteristiche costitutive” (Bellatalla L., Genovesi G., a cura di, Scienza dell’educazione e sue piste di ricerca, Anicia, Roma 2009, p. 195). Al di là di una traduzione didattica individuale, sono proprio questi elementi che devono essere indirizzati ed educati, certamente orientati e 82
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valorizzati, al fine di non omologare e castrare ogni soggetto per mezzo di norme sociali rigide e vincolanti. Non possiamo non essere d’accordo con Huarte quando asserisce che “non si può affermare, che natura in questo significato sia quella, che faccia l’huomo habile. Perché, se questo fosse vero, tutti gli uomini haverebbero un medesimo ingegno e sapere” (Huarte J., a cura di Casalini C., Salvarani L., Essame degl’ingegni, Anicia, Roma 2010, p. 105). Una filosofia che accredita, in maniera indiscutibile, l’affermazione espressa da Juan Huarte, il quale, da una prospettiva squisitamente medica, dichiara che “senza filosofia decade ogni possibilità di intervenire sull’uomo, sui singoli uomini” (Huarte J., a cura di Casalini C., Salvarani L., Essame degl’ingegni, Anicia, Roma 2010, p. 31). Filosofia e pedagogia, quindi, che cercano una prospettiva educativa. “Se infatti la filosofia può costituirsi lontano dalle turbolenze della vita (non sempre, per la verità, e non i modo radicale), la riflessione pedagogica non può sottrarsi del tutto, invece, ai compiti di prospettazione, agli elementi di utopia, all’obbligo (seppur minimo ma essenziale) del dover essere” (Mattei F., Sfibrata paideia. Bulimia della formazione Anoressia dell’educazione, Anicia, Roma 2009, p.156). Ecco, allora, che la componente filosofica della pedagogia fa il paio con quella biologico-funzionale-strutturale delle scienze fisiche in una comunione di intenti capace di avvalorare corpo e spirito in maniera paritaria, al di là del semplice materialismo meccanico e al di sotto dell’aspetto puramente metafisico. In questo modello non vi è una gerarchia disciplinare, né tanto meno di saperi, ma presenta e conferma l’idea che “lo studente deve coltivare fin da subito il suo talento specifico” (Huarte J., a cura di Casalini C., Salvarani L., Essame degl’ingengni, Anicia, Roma 2010, p. 34), la sua intelligenza, insomma la sua diversità. Così come ogni intelletto deve essere compreso ed chiarito secondo le sue leggi, peculiarità, caratterizzazioni e libertà in una società laica e liberale, il patto sociale, e cioè il legame che si instaura tra società e singolo soggetto, ha da offrirsi secondo la disuguaglianza e sul riconoscimento della diversità. Una società, quindi, che vede il soggetto perennemente attivo ed autonomo nel suo progredire e differenziarsi. Non sussiste un metodo, un curriculum, un piano di studi, un ambiente ed un uomo ideale su cui fondare ogni agire educativo, ma una molteplicità 83
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di modelli ed elementi di riferimento e di una polimorfia soggettiva ed individuale. Soltanto così ogni soggetto si sentirà a proprio agio e rispettato secondo la propria natura. Ecco, allora, il grande merito di Huarte nell’aver riconosciuto l’importanza che l’intelligenza riveste all’interno della vita umana, quale leva di mobilità sociale e vitalità di pensiero. Ciò che si scontra con l’idea paideica è proprio la ricerca dell’uomo vitruviano, quell’uomo totale che non è realizzabile se non per mezzo di un totale riconoscimento della sua unicità e autodeterminazione. Un uomo che è educato secondo il proprio ingegno, rispettando la sua assoluta singolarità ed onestà intellettuale. “Ciascuno è figliuolo dell’opere sue”, riferisce un proverbio Castigliano, così come la locuzione attribuita discutibilmente a Sallustio “faber est quisque fortunae suae”. Qui subentrano le variabili che muovono ogni ingegno come l’interesse, il bisogno e la motivazione, quali uniche variabili capaci di destare ogni soggetto ad avanzare ed investire su se stesso per mezzo di quelle che Huarte descrive come le cinque “diligenze”: vedere se c’è ingegno, trovare la migliore condizione per farlo esprimere, un buon maestro, analizzare le scienze secondo un programma prestabilito e metabolizzare con il tempo suddetto sapere. Restando dell’idea, come esprime Ippocrate, “se manca l’ingegno tutte le altre sono diligenze perdute” e che “la natura fa abili”, occorre precisare che l’intelligenza venga ad essere speculativa secondo quel principio aristotelico che invoca: “bisogna che l’intelligente vada speculando i fantasmi”. Un modello che insomma estende le potenzialità umane e le sue capacità di conoscenza a tal punto da riconoscere nella persona intelletto, creatività e memoria quali unici strumenti per la sua evoluzione.
4.5 Intelligenze multiple: onori e carenze Se è pur vero che ogni soggetto possiede in sé il seme dell’intelligenza, conviene, allora, riflettere su questo elemento che differenzia e distingue ogni persona dall’altra. 84
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Gardner ama definirle intelligenze multiple, una poliedricità che garantisce ad ogni persona un proprio campo di eccellenza, dove riesce, in maniera del tutto naturale, ad esprimersi creativamente. A partire dalle teorie eclettiche e globali dell’intelligenza, riferibili sopratutto alle ricerche della metà del XX secolo che diedero sfogo alle scale di valutazione di Wechsler e alle batterie di Simon-Binet, si è assistito ad una rapida connotazione dell’intelligenza soprattutto secondo una prospettiva unitaria. In tale visione, infatti, l’intelligenza è percepita come fattore unico appartenente alla persona e facilmente oggettivabile e misurabile attraverso la somministrazione di test ed indici di correlazione. Un quid posseduto da ogni soggetto cosiddetto intelligente, quale fattore generale che, integrato da abilità specifiche, origina soluzioni ai vari problemi. Ben presto però tali assunti lasciano il posto a teorie multiple capaci di rivendicare quella diversità su cui abbiamo lungamente riflettuto. In particolare, nel 1938 Thurstone (Thurstone L. L., Pma: abilità mentali primarie, tr. it, Organizzazioni speciali, Firenze 1981) offrì per la prima volta una visione antiunitaria per mezzo del suo modello di intelligenza primaria. Lo psicologo statunitense, infatti, distinse sette tipologie dell’intelligenza: comprensione verbale, discorsività verbale, abilità numerica, memoria, velocità percettiva, ragionamento, visualizzazione spaziale. A tale idea, a suo tempo rivoluzionaria, si accodarono tutti quei modelli capaci di avvalorare un’intelligenza che si diversifica a seconda del soggetto e dell’ambiente. Da un punto di vista cronachistico una tra le prime teorie multiple sull’intelligenza universalmente riconosciuta negli ambienti accademici fa capo a Yale Robert Stenberg (Stennerg R. J., Ruzgis P., Le tre intelligenze. Come potenziare le capacità analitiche, creative e pratiche, tr. it., Erickson, Trento 1997), il quale identifica tre tipologie di intelligenza: astratta, pratica e creativa. Certamente più fortuna spetta, comunque, alla teoria delle intelligenze multiple espressa da Howard Gardner (Gardner H., Le intelligenze creative, Feltrinelli, Milano 1993), il quale, nella prestigiosa Harvad, enuclea, avvalorandosi dei lavori di Thurstone, la sua teoria delle sette intelligenze. Per tale teoria “le varie forme di contenuto simbolico utilizzabili dalla mente, quindi non solo parole, simboli logici, numeri, ma anche 85
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notazioni musicali, di movimento ecc., possono produrre tipi diversi di intelligenza” (Cornoldi C., L’intelligenza, Il Mulino, Bologna 2007, p. 51). Gardner distingue sette intelligenze partendo dal presupposto che non si può essere intelligenti in senso assoluto, piuttosto si può eccellere in un determinato campo del sapere o in determinate azioni personali, sia in senso motorio che psicologico. Conviene, allora, soffermarsi maggiormente su tale classificazione, soprattutto per dare una visione più estesa ed avere una prospettiva educativa capace di dare completo sviluppo a tutte le potenzialità possedute da ogni soggetto. “L’intelligenza linguistica è quella che autorizza l’espressione verbale e non verbale se ha avuto epigoni da Joyce a Nobokov. [...] La lingua, d’altra parte, è un mondo di simboli che assolve la funzione espressiva. [...] L’intelligenza logico-matematica dà ragione di un’altra forma della cultura umana, la scienza, e conferisce alla persona l’abitudine all’onestà perfetta se invita ad un’osservazione attenta e alla riproduzione sperimentale del fenomeno osservato, guidando il ragionamento e facilitando l’intuizione del numero e delle misure. Anche qui epigoni possono essere soprattutto Cartesio e Newton. L’intelligenza musicale costituisce una forma di creatività che, sul piano culturale trova spazio nell’arte, rappresentandone una modalità d’espressione che accredita, per distinguerli, il rumore e il suono, fino a dare origine ad una loro combinazione armonica. Il caso di Mozart è qui emblematico. Non meno importante è l’intelligenza spaziale che dà ragione di come si orientino nello spazio i diversi oggetti. [...] La paziente e diligente impresa ha come antesignani Eistein e Leonardo da Vinci. L’intelligenza corporeocinesica dà ragione dell’impegno del proprio corpo ed abitua alla conoscenza dei rapporti causa-effetto. Modelli creativi in questo ambito sono certamente Michael Jordan e la ballerina Martha Graham. L’intelligenza interpersonale dichiara immediatamente tutta la sua applicabilità nella vita di relazione, perché abitua a conoscere gli altri. Gandhi è il modello proposto. Infine l’intelligenza intrapersonale che fa capo all’introspezione e alla capacità di guardarsi dentro, come ci ha insegnato Freud”. (Rosati L., Dentro l’anima della professione docente, Margiacchi, perugia 2005). Una volta stabilite tali intelligenze diventerà gioco forza educarle e potenziarle secondo le inclinazioni individuali e soggettive. Così, se un soggetto sarà particolarmente predisposto a verbalizzare il suo operato, il 86
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suo percorso didattico-formativo tenderà ad essere impostato e accreditato secondo canali comunicativi e di dialogicità. Una forma educativa paragonabile al metodo di lavoro libero utilizzato dal Cousinet nel lavoro di gruppo. Infatti, il pedagogista francese nel suo metodo avvalora le inclinazioni individuali per mezzo della scelta libera e perciò più congeniale e naturale al soggetto. A livello potenziale fin dalla nascita tutti siamo creativi, logici ed intelligenti. Occorre, quindi, far esprimere fin dall’infanzia questo potenziale attraverso il lavoro, spinte motivazionali e l’espressione esterna e percepibile della natura umana. Deve essere osservato, comunque, che per quanto amanti di tali visione multipla dell’intelligenza, in essa si riscontrano alcune difficoltà concettuali. Infatti, “un problema delle teorie multiple risiede nel fatto che l’individuazione delle abilità primarie è in parte arbitraria e comunque oggetto di una serie di differenti proposte che continuamente vengono ad aggiornarsi con l’individuazione di altre abilità” (Cornoldi C., L’intelligenza, Il Mulino, Bologna 2007, p. 53). Ma questo non spiegherebbe tanta difficoltà nel riconoscere tali teorie come universali e incontestabili. Le forme che l’intelligenza può assumere non solo non sono olisticamente riconosciute da tutti gli studiosi del settore, ma sembrano avere diversa importanza anche nel raggiungimento di obiettivi generici. Se, infatti, impadronirsi di una intelligenza verbale adeguata risulta essere un obiettivo primario per la stessa sopravvivenza della specie, lo stesso non può essere detto, per quanto importante, di una abilità musicale. Le teorie che annoverano una molteplicità intellettiva se da una lato hanno il merito di aver diversificato e diviso quell’unicità dell’intelligenza rendendola viva e attiva sottolineando la presenza di forme importanti e trascurate dalla visione unitaria, dall’altro non completano ne esauriscono l’insieme delle peculiarità soggettive, e perciò soggetta a falsificazione e modificazioni continue.
4.6 Quali prospettive? Quanto espresso fino ad ora circa la variabilità e la molteplicità asseribile all’intelligenza, rifluisce sul fatto che ogni teoria ad essa riferibile 87
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rappresenta un tentativo di dotare la persona di quell’apparato critico che gli consenta di vivere secondo le proprie inclinazioni, necessità, bisogni e obiettivi. Di qui, la giustificazione ed il motivo del proliferare di “prospettive altre” e paradigmi sull’intelligenza. Bruno Rossi, ad esempio, esprime la necessità di investigare sulle intelligenze che ogni buon educatore deve possedere, quasi fosse una vera e propria competenza da far acquisire e interiorizzare. Il pedagogista senese, infatti, identifica cinque “intelligenza per educare” (Rossi B., Intelligenze per educare, Guerini Scientifica, Milano 2005), quale “cassetta degli attrezzi” in grado di rendere ogni percorso formativo si sicuro valore. Così vengono ad essere definite: - l’intelligenza ermeneutica - grazie alla quale, generalizzando, ogni soggetto sarà in grado di ricostruire il suo passato, leggere criticamente il proprio presente e organizzare il futuro; - l’intelligenza progettuale - quale esercizio costante di autodirezione e autogestione nel garantire un’esistenza ricca di significato e responsabilmente democratica; - l’intelligenza affettiva - capace di destare l’uomo da quella alessitimia che lo attanaglia e rende sterile da un punto di vista emozionale; - l’intelligenza interculturale - che guadagna la sua ragion d’essere richiamando le difficoltà sociali sempre più marcate a livello mondiale, nonché l’aspetto axiologico, dialogico e di differenziazione umana; - l’intelligenza riflessiva - che dovrà accompagnare ogni persona nel labirinto dell’introspezione e del pensiero riflessivo. Cinque intelligenze, insomma, che segnano e sottolineano la necessità di celebrare un educatore quale “professionista della conoscenza” e “professionista riflessivo”, insomma un “professionista del sé con gli altri”. Un altro modello di intelligenza multipla è offerto da Cornoldi il quale dichiara che le forme fondamentali di intelligenza possono essere riassunte principalmente in: - visuospaziale - capacità di gestire in modo proprio lo spazio e le figure circostanti; - verbale - adempie all’innata facoltà di comunicare con l’alterità; - numerica- competenza cognitiva di comprendere grandezze, estensioni e rapporti; 88
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pratica- abilità nel manipolare la realtà e gli oggetti in essa contenuti. Dopo aver enunciato le impostazioni di B. Rossi e di Cornoldi, sembra giusto riflettere su ulteriori intelligenze che richiamano la natura umana e la sua funzionalità quotidiana. La prima ad essere analizzata è l’intelligenza fluida quale capacità dell’intelletto umano di “operare su determinati contenuti (in particolare classificandoli, seriandoli, ritrovando analogie) senza ricorrere a conoscenze acquisite” (Cornoldi C., L’intelligenza, Il Mulino, Bologna 2007 p. 65). Non si tratta di intuito o di estrosità, bensì di una attitudine del nostro cervello di dare soluzioni senza avere la conoscenza esatta di tutte le variabili del problema. Sandra Aamodt e Sam Wang definiscono tale intelligenza come “la capacità di risolvere un problema mai incontrato prima per mezzo del ragionamento. Questa capacità è il miglior fattore predittivo del successo nell’assolvere a numerosi compiti, e differisce dalle competenze e dai dati già appresi” (Aamodt S., Wang S., Il tuo cervello, Mondadori, Milano 2008, p. 192). L’intelligenza cristallizzata, invece, è riferibile “all’attività della mente impegnata in situazioni in cui la cultura e la familiarità col materiale possono essere determinanti per affrontale efficacemente” (Cornoldi C., L’intelligenza, Il Mulino, Bologna 2007, p. 65). Esistono poi delle intelligenze singole che nella letteratura scientificoumanistica hanno trovato notevole spazio e successo. Ci riferiamo ad esempio all’intelligenza prosociale, quale predisposizione o naturale inclinazione da parte del soggetto a confrontarsi con l’altro per mezzo di una “comunicazione interpersonale” (Zani B., Selleri P., David D., La comunicazione, Carocci, Roma 2002). Detto in maniera più fruibile l’intelligenza prosociale o sociale, esprimendoci alla golemaniana maniera (Goleman D., Intelligenza sociale, Rizzoli, Milano 2006), è quella intelligenza che identifica tutte le forme di socializzazione (Cfr. Trentini G., Oltre il potere. Discorso sulla leadership, FrancoAngeli, Milano 1997) e di abilità e/o competenze sociali appartenenti ad una determinata cultura. Di qui l’importanza della comunicazione sociale “come comportamento di apertura, che fa perno tuttavia su un raggiunto stato di sicurezza, ancora da consolidare ma tuttavia emergente. Persone adulte egoiste, chiuse in se stesse, insicure e nutrite di pregiudizi non sono capaci di 89
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socializzare, né tanto meno di progettare e realizzare un lavoro comune” (Rosati L., Parole e significati, Morlacchi, Perugia 1999, p. 85). Come sottolinea Roche Olivar, nel promuovere la prosocialità come comportamento positivo nella relazione tra i soggetti occorre che sia sradicata ogni forma di violenza o di conflitto, aumentando la stima reciproca tra le utenze e cercando modalità di contatto e comunicazione dirette. In tale prospettiva diventano fondamentali “il ruolo che i comportamenti prosociali possono avere nel rendere più intelligenti le emozioni e mostrando come la promozione della prosocialità possa divenire un percorso preferenziale per l’educazione e la maturazione di tale intelligenza” (Roche Olivar R., L’intelligenza prosociale. Imparare a comprendere e comunicare i sentimenti e le emozioni, Erikson, Trento 2002, p. 13). Per rendere quanto appena espresso funzionale e fruibile occorre che ogni soggetto sia in possesso di competenze specifiche, riassumibili nella “cultura dell’empatia”, quale valore e metodo per dare significato a tutte le relazioni interpersonali. Forte è il richiamo alla riforma Gelmini e alla sua massiccia presenza nella scuola di un’educazione civica capace di avvicinare il soggetto all’alterità, secondo i principi sociali più propri e connotanti una società moderna. Confermate in pieno le parole spese da Olga Bombardelli (Bombardelli O., Educazione civico-politica nella scuola di una società democratica, La Scuola, Brescia 1993), la quale richiama, già dai primi anni Novanta, la necessità di una educazione civica all’interno dei curricula scolastici. Senza dubbio l’intelligenza prosociale fa il paio con un’ulteriore intelligenza, che, seppur già descritta precedentemente, ha bisogno di essere nuovamente affrontata se non per il fatto di una sua prospettiva fortemente educativa. Ci si riferisce all’intelligenza emotiva (Goleman D., Intelligenza emotiva, Rizzoli, Milano 1997), che, fra le varie forme di intelligenza, sembra essere quella che sta più a cuore ad ogni soggetto. L’intelligenza emotiva è una vera e propria emozione intelligente, una “capacità di sintonizzarsi emotivamente e cognitivamente con gli altri” e descritta da principio da Rogers. Essa diviene, così, capace di avvalorare quelle emozioni descritte nella scala di Lazarus (Cfr. Lazarus R. S., From Psychological Stress to the Emotions, Departmentof Psychology, University of California, Berkeley, California1993). 90
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Per condotte prosociali, quindi, è giusto intendere tutti quei “comportamenti che, senza ricercare gratificazioni estrinseche o materiali, favoriscono altre persone o gruppi o il raggiungimento di obiettivi sociali positivi e aumentano la probabilità di dare inizio a una reciprocità positiva e solidale nella relazioni interpersonali conseguenti, salvaguardando l’identità, la creatività e l’iniziativa della persone o dei gruppi coinvolti” (Roche Olivar R., L’intelligenza prosociale. Imparare a comprendere e comunicare i sentimenti e le emozioni, Erikson, Trento 2002). Lo stesso psicologo stila una lista di 10 comportamenti prosociali: aiuto fisico, servizio, dare/donare, aiuto verbale, conforto verbale, conferma e valutazione positiva dell’altro/valorizzazione, ascolto profondo, empatia, solidarietà e presenza positiva e unità. Se, allora, la prosocialità riveste un ruolo fondamentale per lo sviluppo di una società, essa deve essere educata e valorizzata secondo programmi e modelli adeguati a partire dall’ingresso di ogni soggetto all’interno della scuola, se non anche prima per mezzo della pedagogia della famiglia. La prosocialità è a fondamento di un modello e di programmi ministeriali capaci di rivendicare la dignità di ogni soggetto e la propria autostima emotiva, così anche la valorizzazione di relazioni che risultano essere fondate su comportamenti e norme chiaramente stabilite. Tutto questo riveste un ruolo predominante nella lotta contro quella massificazione sociale sempre più prepotente ed impellente e che limita e rende la comunicazione, ad esempio tra genitori e figli, un semplice esercizio di ripetizione di informazioni dette in maniera più o meno volontaria, comunque emozionalmente distaccata dall’essere educazione. In ultima analisi un posto in prima fila spetta sicuramente alla neonata intelligenza ecologica (Goleman D., Intelligenza ecologica, Milano, Rizzoli, 2009) descritta ancora una volta da Goleman nel suo più recente lavoro. Una intelligenza che completa e definisce la trilogia iniziata dieci anni prima e che richiama la necessità di essere educata al fine di fronteggiare quel “deficit evolutivo” che attanaglia tutte le società moderne. Il rispetto per l’ambiente, la salvaguardia dell’ecosistema, la tutela della flora e della fauna mondiale si relazionano in maniera indissolubile con una socialità intelligente e pro-naturalistica. Anche tale intelligenza, comunque, si nutre di motivazioni generate da un sentimento di rispetto e cura dell’ambiente in cui viviamo. Ogni tentativo, insomma, possiede in sé caratteristiche che consentono di riflettere maggiormente sulle potenzialità che ogni soggetto custodisce e 91
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che, spesso in modo latente, incrementa secondo le proprie inclinazioni e attitudini. Il problema non risiede in quante possano essere le intelligenze complessivamente e numericamente parlando, ma di quali siano le peculiaritĂ intellettive possedute dal soggetto in apprendimento al fine di incentrare un percorso educativo che partendo, da queste, incrementi la persona in tutte le sue facoltĂ .
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Cap. 5 Il big bang delle neuroscienze Il big bang rappresenta, metaforicamente, l’inizio di un qualcosa, la creazione di ciò che prima era solo in potenziale e che poi si trasforma in atto, ma soprattutto un punto di rottura e di cambiamento. Tali brecce debbono essere prese in considerazione con massima cura e vigilanza epistemologica, soprattutto perché rappresentano un “punto di non ritorno”, il passato che lascia spazio al presente e enuncia il futuro. Certamente secondo una prospettiva di frontiera della ricerca in campo educativo le neuroscienze descrivono una vera e propria esplosione di conoscenza e istante di profonda riflessione e ristrutturazione dei paradigmi educativi di riferimento, tanto che può essere considerata a tutti gli effetti come una delle rivoluzioni copernicane che nel corso della storia recente sono avvenute nei contesti formativi. Nulla di più sensato, basti porre a mente che se da principio la prima grande trasformazione è data dall’aver posto il fanciullo al centro del palcoscenico della sua attività di sviluppo e maturazione, grazie soprattutto alla magistrale descrizione data da E. Kelly che definì il XX secolo come “secolo del fanciullo”, successivamente si è assistito ad una prepotente, quanto scientificamente violenta, presa di posizione della tecnologia. Alle soglie degli anni Settanta, infatti, l’accesso della tecnologia nei meandri e nei modi didattici ha rappresentato uno displuvio tra una scuola ricca di strumenti ereditati da una cultura “primitiva” ed una scuola aperta all’innovazione e al futuro. Tale scenario avrà il merito, inoltre, di rovesciare “gli stessi contenuti, ieri rigidi e formali, per farsi nuovi sul piano del metodo, perché, secondo le sollecitazioni della pedagogia tecnologica elaborata dal Richmond, si verificherà il cambiamento della responsabilità educativa dall’educatore all’alunno, così che tutti potranno apprendere le stesse cose e potranno apprendere bene allo stesso modo” (Rosati L., Morganti A., La terza rivoluzione dell’apprendimento nell’era di internet, Margiacchi, Perugia 2008, p. 30). Certamente le due conversioni e mutamenti dell’educazione appena descritti fanno il paio con la rivoluzione che sta avvenendo in quest’ultimo decennio per mezzo delle neuroscienze, le quali sono ormai entrate di diritto in quel cerchio piagetiano capace di rivendicare uno studio sull’uomo in tutte le sue sfaccettature e complessità. 93
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L’attenzione che gli ultimi studi in ambito educativo hanno nei confronti delle ricerche del funzionamento cerebrale dimostra che occorre un’antropologia pedagogica capace di connotare ed evidenziare la persona nella sua totalità e componente bio-elettro-fisiologica, secondo il detto capponiano: l’analisi costruisce, la sintesi crea. È solo nella sintesi che avviene la piena comprensione e creazione, è solo attraverso lo sforzo e l’intuizione che si conquistano nuove frontiere ed orizzonti. Un dis-corso pedagogico, insomma, capace di far correre assieme una pluralità di elementi al fine di accreditare tutte le informazioni e potenzialità di quel diamante dalle mille sfaccettature rappresentante l’uomo. Difatti, “un discorso educativo sulla persona umana tende a fare d’essa una realtà poliedrica e polifunzionale, in cui il gioco degli elementi culturali, psicologici, sociali e filosofici (e, aggiungiamo, neurologici) vengono armonizzati dalle energie latenti nel profondo di ciascuno, così da esprimersi in autonomia e libertà, in creatività e originalità, in pienezza fisica e mentale” (Rosati L., Le sfide del cambiamento, Morlacchi, Perugia 2005, p. 5).
5.1 Uno scrigno segreto: il cervello “pilota automatico” Seppur tenendo presente la visione antropologica espressa da Erikson, nella quale si veste e configura un uomo avente una triplice valenza (psicologica-sociale-biologica), occorre fare luce su alcune delle ultime scoperte neuroscientifiche. Definito dallo Scientific Institut of Heart come “il secolo del cervello” il XXI secolo ha aperto le porte per parlare di neuroscienze, tanto che, nei casi estremi, si è anche ipotizzata una neuro-didattica. Va osservato, comunque, che nel momento in cui si vogliano investigare in profondità tutte le potenzialità che ogni soggetto possiede non è possibile prescindere dall’analisi di quell’organo descritto a più voci come “pilota automatico” o “scatola magica”. Nostro malgrado, occorre sottolineare la sua non assoluta conoscenza e la sua totale indipendenza ed autonomia. Tutto scaturisce dal cervello: apprendimento, emozioni, amore, diversità biologica e culturale, eros, motricità, coscienza e creatività; tutto, insomma, deriva dal funzionamento di tale organo e dalla sua struttura ed architettura biologica. 94
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Un nuovo scenario investigativo si è spalancato davanti, tanto da imporre un ripensamento continuo, soprattutto laddove nelle certezze che fino ad oggi hanno accompagnato l’agire educativo si è ubicato un dubbio che costringe a fare i conti con nuovi orizzonti e paradigmi operativi, sempre più funzionali ed efficienti. Non basta la chiarezza “espositiva né tanto meno la puntualità dell’informazione perché si verifichi un apprendimento significativo. Occorre conoscere a fondo i meccanismi della mente perché la sinergia sia reale e l’azione sia foriera di successo” (Rosati L., Il metodo nella didattica, La Scuola, Brescia 2005, p. 107). Di certo non possiamo neanche ipotizzare, per mezzo delle indicazioni forniteci dai più illustri neurobiologi, quali possano essere tutte le implicazioni educative di tale scienza, ma non possiamo tirarci indietro davanti al ricco bacino di conoscenza sull’uomo e sulla sua natura che rappresentano le neuroscienze. Paradossale è la riflessione espressa dal neurobiologo Simon Launghlin. In una recente intervista rilasciata al Sunday Times lo scienziato rileva la sua teoria secondo la quale il cervello è giunto ormai alla sua massima espressione potenziale. Continuando a riflettere su tale modellistica, Launghlin afferma che milioni di anni di evoluzione umana avrebbero raggiunto il massimo livello “avendo incontrato due barriere: - la riduzione delle dimensioni dei neuroni e delle sinapsi (le connessioni tra cellule cerebrali ndr) ha raggiunto il suo limite ed ultimo grado evolutivo; - il cervello umano, malgrado rappresenti solo il 2% appena del peso corporeo totale, consuma il 20% di energia, altro limite invalicabile” (tratto da: http://mediterranews.org). Di qui la presa di coscienza delle forti limitazioni dello sviluppo neuronale risiedenti nella struttura e nel funzionamento biologico del nostro cervello. Infatti, in mancanza di nuovo spazio da occupare per potersi evolvere e l’impossibilità di usufruire di nuove fonti energetiche per rendere maggiori e più potenti le nostre funzioni intellettive, secondo il neuroscienziato, il nostro cervello oltre a non poter più progredire è potenzialmente destinato all’involuzione. Certamente anche se proveniente da studi di tutto rispetto non siamo concordi con quanto viene affermato, in quanto annichilirebbe ogni sviluppo umano e sociale. 95
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Tornando alla nostra trattazione neuroscientifica è lecito domandarsi, allora, quale possa essere il reale contributo di tale scienza alle scienze dell’educazione. In tutta sicurezza si può affermare che il pensiero oscilla tra una reale e concreta certezza che le neuroscienze possano rappresentare la panacea di ogni male educativo, cioè una volta riconosciuto il problema attraverso le più sofisticate tecnologie di imaging il problema si dissolva con l’utilizzo di tecniche e strumentazione altrettanto adeguate e pertinenti, e la mancanza di un qualcosa, di una inquietudine che si ha soltanto qualora intimamente non si è del tutto soddisfatti di un pensiero o di una prospettiva. Una debolezza ed una apprensione che risiede e si palesa in quell’arte dell’insegnamento, quale essenza di un’azione rivolta dal soggetto al soggetto. Metafisica o biologia, concretezza o astrattezze, atto o potenza? Di quale delle due componenti siamo la massima espressione? Di certo non è facile rispondere a tale questione, ma non possiamo esimerci dal dare, seppur in modo parziale e mai definitivo, una risposta il più esauriente possibile. Al fine di proseguire nella nostra riflessione ed autorizzare ulteriori meditazioni si può considerare il sostegno offerto da Kandel nella sua trattazione del dualismo cartesiano: “questa natura duale riflette due tipi di sostanze. La rex extensa – la sostanza fisica di cui è fatto il corpo, cervello compreso – corre attraverso i nervi e permea i muscoli di spiriti animali. La res cogitans – la sostanza non fisica del pensiero – è esclusivamente umana, dà origine al pensiero razionale e alla coscienza, e nel suo carattere non fisico riflette la natura spirituale dell’anima. Le azioni riflesse e molti altri comportamenti fisici sono guidati dal cervello, mentre i processi mentali sono determinati dall’anima” (Kendel E., Alla ricerca della mente, Codice Edizioni, Torino 2007, p. 108)
5.2 Biologia del cervello Il cervello è un organo che nel suo relativo peso di circa un chilo e mezzo possiede una struttura semplice nella sua infinita complessità, tanto che seppur studiato nei suoi minimi dettagli cellulari da ormai quasi un ventennio è possibile circoscrivere la sua conoscenza solamente 96
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all’organigramma e alla composizione cellulare, ma poco più circa i suoi prodotti. Pur non riconoscendoci neuoroscienziati, si possono analizzare alcune sue caratteristiche al fine percepire la portata di un organo che regola ogni nostro essere. Genericamente il cervello è suddivisibile in due grandi aree: - emisfero destro: deputato al riconoscimento e alla conoscenza delle emozioni, delle passioni e della memoria (aspetti alogici); - emisfero sinistro: capace di produrre ed accertare operazioni matematiche, razionalità, calcolo, logica e criterio (caratteri dialogici). Il cervello è come un calcolatore che una volta impressionato da una informazione o un input, appresi attraverso i sensi, restituisce un output proprio come qualunque macchina tecnologicamente avanzata. Tale prospettiva porta Boncinelli ad affermare che tutta la vita del cervello è una “codificazione”. Si tratta, insomma, di informazioni che concorrono a “portare informazioni sensoriali relative al mondo esterno nel midollo spinale e nel cervello e per trasmettere comandi di azioni dal cervello e dal midollo ai muscoli” (Kendel E., Alla ricerca della mente, Codice Edizioni, Torino 2007, p. 68). Purtroppo però le cose non sono così elementari e pacifiche. Il cervello, nel suo operare, non produce calcoli lineari ed uniformi facilmente sintetizzabili e descrivibili, così come non produce esclusivamente operazioni del tutto razionali e pragmatiche. Le sue funzioni sono molto più complesse ed euristiche e rappresentano il vero punto interrogativo della scienza biologica che ancora aspetta di essere risolto con esauriente completezza. Si conoscono le funzioni della maggior parte delle cellule e dei neuroni, ma sovente è possibile solo ipotizzare il loro reale operato, così da rendere palese solo il risultato finale del suo processo. Tanto per fare qualche esempio note sono le peculiarità dei neuroni mirror quali cellule deputate al movimento e al riconoscimento dall’alterità, dell’amigdala quale sede emozionale e più specificatamente dell’ansia e della paura, del prosencefalo quali stazioni adibite alla ricompensa, ecc..., ma poco si può osservare circa la loro anima operativa. Tutte queste funzioni autorizzano la persona ad entrare in relazione con il mondo che lo circonda e, attraverso la loro orchestrazione, gestisce e 97
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coordina le situazioni che mano mano si prospettano nella vita quotidiana. Miliardi di neuroni, quindi, racchiusi in uno spazio relativamente piccolo e che comunicano tra loro per mezzo delle connessioni sinaptiche. Volendo classificare le cellule cerebrali si possono distinguere: - i neuroni, paragonabili ad una rete stradale - le cellule gliali, adibite allo svolgimento di varie mansioni. Per quel che concerne il funzionamento neuronale si può osservare che esso opera come una comune pila. Infatti, la membrana che riveste i neuroni è caricata negativamente rispetto all’ambiente in cui sono inseriti, creando, così, una sorta di differenziale di cariche. “Il neurone apre canali che consentono agli ioni di attraversare la membrana, creando una corrente che trasmette un segnale elettrico su tutta la sua superficie. Esso riceve le informazioni tramite strutture ramificate, i dendriti, che le raccolgono da una serie di fonti diverse, quindi manda un segnale elettrico lungo una struttura filiforme, l’assone, capace di trasportarle anche a notevole distanza” (Aamodt S., Wang S., Il tuo cervello, Mondadori, Milano 2008). Questi piccoli segnali hanno la durata pari a un miliardesimo di secondo, viaggiano circa a un centinaio di metri al secondo e variano di intensità generando picchi che si traducono in comandi. Invece la comunicazione tra i neuroni avviene per mezzo di sostanze chimiche chiamate “neurotrasmettitori” che si attivano all’insorgere di un picco. La disposizione, la conformazione e il numero delle sinapsi, e cioè dei collegamenti tra i vari neuroni, è la modalità attraverso cui si pensa e si agisce. Come suggerisce Semir Zeki, l’alta specificità dei neuroni nello svolgere il proprio lavoro è diretta conseguenza della moltitudine delle sinapsi presenti in forma microscopica all’interno del cervello. Ogni singola attività svolta da un soggetto, difatti, attiva pochi neuroni i quali però riescono a comunicare, attraverso la rete sinaptica, con gli altri neuroni.
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5.3 Le eccezioni dell’amore
Tutti dicono che il cervello sia l'organo più complesso del corpo e da medico potrei anche acconsentire. Ma come donna vi assicuro che non vi è niente di più complesso del cuore. Ancora oggi non si conoscono i suoi meccanismi. Nei ragionamenti del cervello c'è logica, nei ragionamenti del cuore ci sono le EMOZIONI... (R .L. Montalcini) Che l’amore sia un sentimento particolare e uno stato emotivo del tutto singolare e soggettivo è cosa quanto mai riconosciuta e universalmente intesa soprattutto nella feconda letteratura filosofica. Non vi è da stupirsi, infatti, che le più grandi opere letterarie abbiano come sentimento centrale quello dell’amore, analizzato secondo le molteplici prospettive che essa nutre e rende possibili. C’è chi descrive l’amore come motore dell’agire umano, paragonandola così al carburante dell’anima di ogni soggetto, chi invece, ancora più metaforicamente, l’identifica quale aspirazione verso il bene e riconoscimento della verità dell’essere umano; a tal proposito non possiamo non ricordare lo straordinario verso dantesco: l’amor che muove il sole e l’altre stelle! L’amore rappresenta quell’emozione che orienta e dirige le parole dei più grandi poeti e pensatori del passato e del presente, così come è espressione delle più grandi gioie e dolori di ogni persona. Per secoli si è sostenuto che l’amore risiedesse nel cuore, al centro del petto e punto focale dell’intero corpo. Niente di più errato replicano oggi le neuroscienze. Già a partire dal XVI secolo il medico spagnolo Juan Huarte de San Juan sosteneva che “innanzi che nescesse Hippocrate, & Platone, era cosa molto ricevuta tra i Filosofi naturali, che il core fosse la parte pèrincipale, dove la facoltà rationale facesse la sua resistenza, & l’istrumento, col quale l’anima nostra facesse l’opera di prudenza, di diligenza, di memoria, & d’intelletto. [...] Ma, venuti al mondo questi due gravi filosofi, fecero conoscere quella opinione essere falsa, & provarono con molte ragioni, & esperienze il cervello esser la sedia principale 99
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dell’anima” (Huarte J., a cura di Casalini C., salvarani L., Essame degl’ingengni, Anicia, Roma 2010, p. 108). Certo è che al gran parlare dell’amore non sempre corrisponde una omogeneità di significati. All’interno del termine amore, infatti, confluiscono molteplici accezioni del tutto differenti e particolari; si voglia per la sua naturale poliedricità e difficoltà nel circoscrivere tale semantica, ma anche per le diverse sfaccettature che essa può assumere a seconda dell’angolazione con cui la si osserva. L’amore si conforma e si traduce secondo la sua aggettivazione, così da poter parlare di amore verso la natura, verso il proprio partner, verso la cultura etc.. Seppur riconoscendo una sottesa unicità di tale concetto, capace di accumunare tutte le tipologie di amore, in questa frastagliata polimorfia semasiologica particolare attenzione spetta a quel tipo di amore che si genera tra uomo e donna, quale componente fondante una concreta e completa realizzazione dell’essere umano. Al di là della componente erotica, questo tipo di amore, in cui concorrono sia l’aspetto metafisico che quello corporeo, emerge come archetipo per eccellenza alla cui vista ogni altra modalità d’amore perde di valenza e di forza. L’amore così delineato è fonte di felicità e ricchezza umana, è una avventura che ogni essere umano vive, vivrà o ha vissuto; rappresenta una vera e propria fucina di espressione del potenziale umano e costante miglioramento di se stessi. Non a caso una delle più significative lettere d’amore che due amanti si scrivono si concludono con la promessa: per te vorrei essere una persona migliore! Certamente la chiave di lettura fino ad ora espressa rappresenta la matrice di ogni riflessione possibile del concetto di amore. La sua componente di rarità educativa e di singolarità formativa esprime quell’idea comune che connota l’amore quale principio essenziale ed elemento imprescindibile di ogni ricerca di felicità. Se spostassimo il nostro ragionamento da un piano meditativo filosofico ad uno positivista sperimentale, troveremmo le stesse risposte? Già Rosati evince, in uno dei suoi ultimi lavori, che “se tutto dipende dal cervello, anche l’amore deve trovare uno spazio apposito nei circuiti neuronali” (Rosati L., La fine di un’illusione, Morlacchi, Perugia 2008, p. 186). L’amore trasporta il mondo, ma è lecito domandarsi se a tale visione poetica corrisponda un’altrettanto efficace “meccanismo che giace e agisce nel corpo” (Rosati 2006). 100
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Partendo dalla certezza che l’architettura e la composizione della corteccia cerebrale è uniforme e comune ad ogni essere umano, a meno che non siano presenti anomalie genetiche, in teoria, secondo una prospettiva etologica classica, ogni comportamento dovrebbe essere comune a tutti in presenza di un input collegiali. Non solo. Oltre alla sua connotazione strutturale ulteriori due caratteristiche accomunano ogni cervello umano: - la classificazione delle cellule cerebrali in due sole specie: a piramide e a stella; - l’uniformità con cui queste cellule sono distribuite nel cervello, tanto da rendere difficile la suddivisione delle funzioni se non in base ai collegamenti che presentano con le altre zone del cervello. Resta comunque il fatto che ad una analogia e similitudine strutturale, mai corrisponde un’altrettanta attinenza traduttiva degli input. Lo stesso processo cognitivo, quale funzione primaria del cervello, ha sicuramente una derivazione neurologica, che, al di là dell’appartenenza ad una cultura piuttosto che ad un’altra, possiede una matrice comune: la struttura. Cosa è allora che differenzia un soggetto da un altro? Rispondere a tale domanda significa principalmente definire cosa è che ci fa innamorare, a livello biologico, di un altro soggetto, in altri termini ciò che attiva quei meccanismi chimico-elettrici in modo irripetibile e unico. Le cellule della corteccia, qualunque sia la loro funzione, hanno una capacità comune e cioè quella dell’astrazione (per astrazione si intende la funzione generale a spese di quella specifica). Se una cellula è deputata alla percezione degli oggetti posti in modo orizzontale essa percepisce ogni oggetto orizzontale indipendentemente dal contesto, astraendo solo la nozione orizzontale. Questo vale anche per le abilità cognitive. Tra gli esempi i più noti Zeki suggerisce quello del sistema visivo: “a questo livello di osservazione, potremmo dire che queste aree astraggono, nel senso che non sono specifiche di un qualsiasi esempio del mondo visivo per cui specializzate, ma tutti gli esempi di quella categoria” (Zeki S., Splendori e miserie del cervello. L’amore, la creatività e la ricerca della felicità, Codice Edizioni, Torino 2010, p. 12). Secondo tale modellistica un paesaggio attiva cellule adibite all’osservazione di tutti i paesaggi, così come il vedere un volto desta cellule adibite a scrutare tutte le fisionomie in senso generale. Tale capacità astrattiva è così comune che ogni soggetto, nel suo percorso di conoscenza, cerca “invece eccezioni, indicazioni che una 101
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particolare cellula o area cerebrale risponderanno solo ad un particolare esempio di una particolare categoria di stimolo” (Zeki S., Splendori e miserie del cervello. L’amore, la creatività e la ricerca della felicità, Codice Edizioni, Torino 2010, p. 13). Questa particolare attivazione ed unicità funzionale altro non è che l’amore. Il vedere una persona amata stimola cellule adibite solo a quel tipo riconoscimento, così come il sentir parlare o l’annusare l’odore di tale persona attiverà cellule uditive e/o olfattive riservate solo per quella specifica funzione di riconoscimento. L’eccezione attiva processi fisiologici unici e irripetibili legati in modo indissolubile alla persona a cui siamo congiunti emotivamente. In tale processo, infatti, si mettono in funzione cellule cerebrali non capaci di astrarre il concetto appreso e renderlo generale, anche se, continua Zeki, “pure in questo caso, è in atto verosimilmente una capacità astrattiva: queste aree si attiveranno probabilmente a prescindere dalla visuale della persona amata, vale a dire se è frontale o laterale” (Zeki S., Splendori e miserie del cervello. L’amore, la creatività e la ricerca della felicità, Codice Edizioni, Torino 2010, p. 14). Ecco, allora, che viene ad essere confermata quella unicità del processo di innamoramento, che, quando si trasforma in amore, rende, agli occhi dell’innamorato, una persona unica e insostituibile. L’amore “frega” proprio con le sue armi; spinte emozionali che hanno la possibilità di generare pazzie e follie al fine di attivare quelle aree cerebrali che altrimenti rimarrebbero silenti. Sono queste le ragioni che spiegano le sofferenze d’amore quando si è lasciati e non si può modificare quelle zone del cervello e le gioie nel poter avere la nostra metà sempre a fianco. “L’amore ha le sue ragioni che la ragione non comprende” o come diceva Neruda “amare è breve, dimenticare è lungo”. Non a caso le ultime ricerche neurologiche riferibili al concetto di amore riferiscono del fatto che esso è un fattore anche ereditario e per questo possessore di determinate caratteristiche quali: - la non arbitrarietà da parte del soggetto; - l’immutabilità nel tempo e nello spazio; - la relativa autonomia e singolarità sinaptica. Molti sono gli aforismi che popolarmente definiscono queste caratteristiche dell’amore. La sua immutabilità ci è espressa da Shakespeare nel sonetto “non è amore quell’amore che muta quando trova un mutamento”, o la sua non libera scelta che ci è stata tramandata 102
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per mezzo della semantica “più si vuol stare lontano dall’amore, più si soffre perché non lo si sente”. È facile percepire il fatto che il cervello possiede “la capacità di attivare il sistema del desiderio per un particolare tipo di esperienza visiva e non per altre” (Zeki S., Splendori e miserie del cervello. L’amore, la creatività e la ricerca della felicità, Le Scienze, Torino 2010, p. 29), così come quello di percepire l’amore come fatto unitario, il quale, quantunque modificabile per mezzo dell’esperienza, resta stabile cerebralmente. Si resta comunque d’accordo e coscienti del fatto che, come sostenuto da E. Borgna, “non è la ragione, non è la ragione calcolante, che può colmare la soglia fra espressione e la sua decifrazione; ma solo l’intuizione, l’area infinita e impalpabile del cuore, può solcare le acque inebrianti e oscillanti delle emozioni e delle loro espressioni” (Borgna E., L’arcipelago delle emozioni, Feltrinelli, Milano 2001, p. 36). Quantunque si possa conoscere la derivazione biologica dell’amore siamo nella certezza che mai riusciremo a tradurre i segnali del cuore in modo definitivo e assoluto, cogliendone il loro segreto. “Il mistero dell’amore è più grande del mistero della morte”, suggeriva Oscar Wilde.
5.4 L’amore che nutre l’anima È cosa risaputa che da un punto di vista squisitamente chimico i processi generati dall’amore attivano determinati neurotrasmettitori: - l’ossitocina, la quale accresce la fiducia nell’altro; - l’argina vasopressina, (AVP), che assieme alla prima controlla e vigila la formazione e l’evoluzione di una determinata relazione. L’ossitocina “viene rilasciata in molti mammiferi quando sono stimolate la vagina o la cervice, come nel parto e nell’accoppiamento [...]. Invece l’AVP è determinante per una serie di comportamenti maschili, tra cui l’aggressività, l’impulso a marcare il territorio e il corteggiamento” (Aamodt S., Wang S., Il tuo cervello, Mondadori, Milano 2008, p. 163). Ciò che diventa fondamentale sono, quindi, i ricettori di tali sostanze che sono presenti in tutto cervello, e più precisamente nel nucleo accumbens e nel pallido ventrale. In questo processo di secrezione e ricezione dei neurotrasmettitori interviene la dopamina, quale agente essenziale per produrre una sensazione di benessere e gratificazione. 103
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Su tali basi si fonda il pre-concetto che l’amore è una vera e propria droga, capace di causare dipendenza e un apprendimento incondizionato, proprio come sintetizzava D’Annunzio quando rifletteva sul fatto che “ci sono sguardi di donna che l’uomo amante non scambia con l’intero possesso del corpo di lei”. L’amore è un vero e proprio narcotico capace di inibire ogni altro senso e ogni altra funzione cerebrale. Goleman suggerisce che “quando uno è preso dall’amore romantico prova sentimenti travolgenti e perde il controllo di sé, diventando irrazionale”. Certamente non possiamo essere d’accordo quando si sostiene che “l’amore è cieco, questo è il motivo per il quale si può fare anche al buio”. L’amore reclama caratteristiche che difficilmente possono essere circoscritte, ma che per disappunto si dirigono in modo quanto mai preciso ed efficace nei confronti dell’agire umano. È insito nella nostra natura di innamorarci. Tale processo si ha perché l’amore è un vero e proprio sviluppo dell’uomo ed ha determinate caratteristiche come la sospensione del giudizio e l’irrazionalità. Anche l’amore ha i suoi splendori e le sue miserie come afferma Semir Zeki. Infatti, se da un lato l’innamoramento può e deve essere considerato uno stato da dover sentire almeno una volta nella vita, dall’altro provoca un estraniamento dalla società, un’esperienza totalizzante ed egocentrica dove tutto viene messo in secondo piano, provocando insoddisfazioni atroci e malinconia in assenza di esso. Ma quali sono le risposte che la neurologia fornisce per tali stati emotivi? Certamente nell’amore intervengono l’ereditarietà, così come influiscono i concetti sintetici che si modificano nel corso del tempo sia sul genere di persona da amare, sia su cosa dovrebbe darci ed essere l’amore. Sebbene il concetto sintetico di amore sia cosa sbiadita rispetto a quello ereditario essi vengono accumunati da un legame profondo sancito nell’unità dell’amore che J. D’Hormoy compendia con il suo aforismo: “l’amore vero, è il cammino in due verso la luce di un ideale comune”. Un paradiso, quello unitario, che rappresenta l’utopia dell’amore stesso, violante la fisicità umana e perciò irrealizzabile. Un amore “androgeno” dove sono presenti in egual misura l’amore di due persone unite fisicamente e cerebralmente, come se fossero una sola cosa. L’amore, quindi, è tendenza e desiderio di unità, anche se mai colmato o raggiunto. Tale stato provoca frustrazione e isolamento. “In effetti, il tema della solitudine è implicito nella ricerca incessante di uno stato che non può mai essere raggiunto perché è biologicamente impossibile. [...] Solo quando il concetto della persona amata e la persona amata reale 104
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coincidono possiamo realizzare quell’unità” (Zeki S., Splendori e miserie del cervello. L’amore, la creatività e la ricerca della felicità, Le Scienze, Torino 2010, p. 143)
5.5 I correlati dell’amore L’amore, ma soprattutto l’innamoramento, è scatenato da un segnale visivo, anche se non sono esclusi altri fattori sensoriali. “Il linguaggio d’amore è un linguaggio segreto”, asserisce un vecchio aforisma. Niente di più vero. A chi non è mai capitato di vedere, sentire, annusare con i sensi dell’amore qualcosa o qualcuno da proiettare l’anima verso un mondo del tutto sconosciuto, privo di legami terreni e ordinari, comunque di rara bellezza ed unicità. Il volto di una persona amata, infatti, “coinvolge l’insula e il cingolo anteriore, proprio come gli stimoli visivi sessualmente eccitanti. I volti attraenti, come del resto quelli della persona amata, disattivano non solo la corteccia frontale ma anche l’amigdala, un nucleo situato all’apice dei lobi temporali. Ne deduciamo che non solo il giudizio è meno severo quando guardiamo una persona amata o desiderata, ma che è anche sospesa quella studiata trepidazione con cui spesso indaghiamo i volti alla ricerca di segni di turbamento” (Zeki S., Splendori e miserie del cervello. L’amore, la creatività e la ricerca della felicità, Le Scienze, Torino 2010, p. 48). È stato ampiamente dimostrato che nel processo di innamoramento sono coinvolte un numero relativamente limitato di aree cerebrali, le quali risiedono principalmente nella corteccia cerebrale (ippocampo, cingolo anteriore, l’insula mediana) e nelle zone sottocorticali (parte dello striato, nucleus accubens) che formano il cervello emozionale. Anche se condivide aree cerebrali con sentimenti affini come il desiderio e la libido, l’amore è uno stato strutturalmente peculiare da un punto di vista anatomico cerebrale. Il sentimento amoroso crea una elevata produzione di dopamina, neuromodulatore prodotto dall’ipotalamo e accumulato nell’ipofisi (produttori di stati di felicità, benessere ed euforia). Per questo quando siamo innamorati tutto sembra più celestiale e poco appare insuperabile per mezzo di tale forza. Le ultime ricerche rivelano che il neuromodulatore della dopamina, quando rilasciato, genera una sensazione di appagamento legata 105
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soprattutto alla ricompensa e all’aspettativa di quest’ultima. Si potrebbe affermare che la dopamina è l’espressione biologica del desiderio e del suo imperituro appagamento. Come si è potuto osservare esistono due ulteriori neuromodulatori, anche se non dimostrato direttamente, che entrano in gioco nell’innamoramento: l’ossitocina, che aumenta il desiderio di attaccamento e fiducia verso la persona amata e la vasopressina, capace di generare un comportamento sociale di salvaguardia e possesso della persona amata. Su tali basi vengono ad essere confermate le idee espresse nella letteratura classica ed ellenica, la quale recita di compimenti eroici avvenuti solo per la persona amata, di gesta uniche ed improponibili agli occhi di chi quel sentimento non ne sia in possesso. L’amore, infatti, è un impulso che trasforma e modifica la normale attività neurologica. Confermato, così, viene ad essere il fatto che “il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce”: la ragione è biologicamente sospesa.
5.6 Il progetto educativo e la relazione interpersonale L’amore, oltre che avere peculiarità e connotazioni circoscrivibili al pensiero, possiede anche caratteristiche fisio-biologiche del tutto singolari. Il concetto di unità nell’amore, ad esempio, è un concetto ereditario e, in quanto tale, possiede tre caratteristiche: - ha una sola sfaccettatura - svincolato da elementi di pluralità, complessità e molteplicità. Si può amare in modo unico ed irripetibile, se è amore vero; - è diretto verso Dio – è espressione della trascendenza dell’umano, di ciò che appare ultramondano e platonico. Un senso che spalanca le porte a quell’aforisma di Emile Verhaeren che cita: “coloro che vivono di amore vivono in eterno”; - è dato, nell’unità – risiede nella rimozione dell’io a dispetto dall’altro e dell’alterità. “Amare non vuol dire impossessarsi di un altro per arricchire se stesso, bensì donarsi ad un altro per arricchirlo”, sosteneva Michel Quoist. Non a caso l’amore romantico, così come ogni avventura d’amore, anche se possiede tratti biologici comuni ad ogni soggetto, appartiene allo 106
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stesso concetto di amore, il quale si diversifica e si differenzia solo per alcune peculiarità e traduzioni terrene. Si potrebbe osservare addirittura che “i due concetti sono così fusi dal punto di vista neurale che alcune culture non li distinguono; anzi, considerano l’amore sessuale la via per avvicinarsi di più all’unione con Dio, e celebrano l’atto sessuale come compito religioso e un sentiero verso quest’ultimo” (Zeki S., Splendori e miserie del cervello. L’amore, la creatività e la ricerca della felicità, Le Scienze, Torino 2010, p. 168). Nota è la riflessione espressa da Platone il quale asseriva che l’amore terreno fosse il preludio all’amore divino, una corrispondenza ed una biga capace di condurre l’uomo verso la sua piena realizzazione. A livello neurologico questo è intelligibile soprattutto se si pone a mente il fatto che i due concetti sono indissolubilmente legati. A ben vedere, allora, il concetto di amore unitario, nelle varie culture, rappresenta un’unione tra sacro e profano, una tendenza continua dell’uomo all’unità che, pur se irrealizzabile nella vita, rappresenta il più alto legame con se stessi, con gli altri e con il divino. Nel momento in cui si parla di amore, lo si vuol intendere quale idea iperuranica che solo le entità percipienti riescono a descrivere, sia essa tra soggetto e soggetto, tra cultura e soggetto o tra società e persona. Comunque l’amore, anche se ne comprende i caratteri propri, rimane svincolata dall’eros, il quale richiama significati più terreni e sensoriali. L’esempio più calzante è dato dall’innamoramento, quale stordimento sensoriale, sospensione del giudizio ed empatia. Octavio Paz descrive l’amore proprio come una sospensione del tempo e dello spazio, essenza che sfugge e si dissolve ad ogni tentativo di catalogazione e categorizzazione. Il premio Nobel spagnolo, infatti, afferma che l’amore “non è l’eternità, non è neppure il tempo dei calendari e degli orologi, il tempo successivo. Il tempo dell’amore non è né lungo né breve: è la percezione istantanea di tutti i tempi in un tempo solo, di tutte le vite in un istante” (Paz O., La duplice fiamma – Amore ed erotismo, Garzanti, Milano 1994, p. 171) L’amore richiama caratteristiche che Stenberg (Stenberg R. J., Teorie dell’intelligenza: una teoria tripolare dell’intelligenza umana, tr. it., Bompiani, Milano 1987) sintetizza nella triade: intimità, passionalità e progettualità. Tali caratteristiche rappresentano la costante dedizione non solo al partner e alla sua felicità, ma al sacrificio che tenacemente reclama.
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Non a caso la creatività stessa viene ad essere definita una “fatica d’amore”, e di contrappunto l’amore è espressione di travagli, tensioni, trazione, ansie e paure, certamente fatica ed impegno. Alberoni sottolinea il fatto che “la morale dell’amore è una morale della gioia. Quella del dovere, una morale dello sforzo. Nella morale dell’amore l’atto buono viene compiuto con il cuore aperto, con piacere. Nella morale del dovere, invece, l’atto è buono solo se viene compiuto a fatica, con il puro sforzo della volontà. Amore non è solo fare il bene degli altri, è anche soffrire per il loro dolore e gioire della loro gioia” (Alberoni F., Veca S., L’altruismo e la morale, garzanti, Milano 1992, p. 65). L’amore, dunque, è quel cemento che unisce e che lega saldamente in modo indissolubile due variabili umane, tanto da poter osservare che se “i tre sentimenti principali dell’amore che sono l’attaccamento, la cura e la sessualità funzionano, allora il legame tra due persone è tenero, rilassante e sensuale per un’intesa feconda e appagante” (Rosati L., Il cervello non mente, Margiacchi, Perugia 2008, p. 35). Di certo, nella sua componente più autenticamente empatica, l’amore che si instaura tra docente e discente, rappresenta il collante di una educazione di senso e proficua. Senza amore e/o amorevolezza non sussistono le basi per procedere oltre nella formazione dell’uomo, non esistono i principi e i valori entro cui muovere i delicati passi di ogni progetto formativo. La relazione educativa è capace di annichilire o destare la persona nel suo processo di maturazione. Ecco, allora, che la vicinanza tra soggetto docente e discente ha l’obbligatorietà di orientare verso un percorso di miglioramento continuo, una strada da percorrere secondo canoni e sostegni sempre presenti e orientanti in una relazione educativa proficua. L’ambiente e la situazione entro cui si muove il senso della trasfomazione soggettiva ha l’obbligo di “rilevare le variabili che entrano in giuoco nella relazione educativa e che sono rappresentate dalla condotta dell’insegnante, dalle sue caratteristiche comportamentali, dai suoi metodi e dallo stile di insegnamento, dai mezzi verbali e non verbali dei quali si avvale nell’atto della trasmissione delle informazioni”(Rosati L., Didattica il senso e i luoghi, Ancia, Roma 1995, p. 67). Tuttavia c’è da osservare che le condizioni appena espresse si concretizzano solo nel momento in cui la formazione assume un carattere ed un valore condiviso e che procede come reciproca collaborazione delle forze poste in essere. 108
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Non basta, quindi, la simultanea presenza di più soggetti per rendere una relazione una “relazione educativa”, ma occorre che si instaurino delle congetture basate sulla fiducia e sul rispetto reciproco, i quali autorizzano un avanzamento continuo sia della relazione stessa che della maturazione soggettiva in quanto azione di conoscenza ed apprendimento. In questa che oggi chiamiamo relazione educativa, afferma Rosati, “c’è la forza della seduzione, talvolta operata dalla parola e dagli scritti. E tuttavia la forza di seduzione del maestro non ha rivali: nessuno può resistere al fascino carismatico di Socrate, alla stregoneria della sua presenza” (Rosati L., Dentro l’anima della professione docente, Margiacchi-Galeno, Perugia 2005). La forza seduttiva, carica di eros, non esclude, ma anzi suscita, una forte partecipazione all’azione comunitaria e cooperativa, tanto che, nei casi più estremi, può sfociare anche in relazioni d’amore vere e proprie. La storia è colma di esempi. La relazione educativa, insomma, può essere descritta come un morboso scambio “d’amore con amore, fiducia con fiducia”. Ecco, allora, “che sul tema della relazionalità si giocano le carte di un progetto educativo, volto a migliorare la qualità del rapporto e a garantire la creatività personale: nella scuola, se la relazione è istituzionalmente educativa; nella società e, soprattutto, nel mondo dell’adulto, se la relazione è funzionale alla formazione della coppia, come cellula di un’altra forma di educazione che è quella familiare; nella vita lavorativa in un ufficio o in una fabbrica. Anche in quest’ultimo caso, difatti, il successo è condizionato dal clima di relazione che si instaura all’interno di una comunità, per quanto piccola possa essere, fino a ridursi al cosiddetto nucleo familiare” (Cristofani A., Perugini R., Rosati L., Umanità e amore nella relazione educativa, Anicia, Roma 2001, p. 8). Maslow (Maslow A. H., Motivazione e personalità, tr. it., Armando, Roma 1973) afferma che è necessario comprendere l’amore, insegnarlo, crearlo e predirlo se non vogliamo una società basata sull’inimicizia e il sospetto, sull’intolleranza e la chiusura. Per questo occorre investire sull’arte dell’amore, promovendo la cultura del donare, quale valore capace di arricchire ogni soggetto. Così l’amore soprattutto nel suo incipit si delinea come lo spontaneo attivarsi di uno stadio di sensibilità a valori positivi che era rimasto dormiente o inattivato. L’educazione dovrà essere capace di destare questo stato come momento e interesse profondo verso l’altro nel donare se stessi. 109
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In conclusione “la fiducia che nutriamo nell’educazione, quale peculiare impegno di promozione umana e di cambiamento comunitario qualitativo, ci spinge ad individuare in essa (l’amore) una grande impresa suscitatrice delle disposizioni personali e, conseguentemente, generativa delle condizioni sociali indispensabili ai fini della costruzione di una convivenza fondata sull’amore” (Rossi B., L’educazione dei sentimenti, UNICOPLI, Milano 2004, p. 101).
5.7 Neuroscienze, cultura e futuro Mosso dalle grandi sollecitazioni neuroscientifiche e dalla moda generata dalle ultime scoperte in questo settore del sapere è giusto porsi una domanda fondamentale: è possibile parlare di neuroeducazione? Molti sono stati i tentativi di legittimare le discipline facenti capo alla metafora del cerchio piagetiano, e non solo, per mezzo delle neuroscienze. Si è assistito ad una rivendicazione della didattica come componente e studio dell’insegnamento dei neuroni, la neurodidattica, così come si sono avanzate pretese di scientificità nei confronti di una psicologia capace di scardinare, o magari rivendicare, vecchie fondamenta scientifiche, la neuropsicologia, come del resto si è assistito alla conquista di una neuro-economia o di una neuro-sociologia, etc.. Tutte attribuzioni legittime, nulla da obiettare, né da osservare. Certamente, però, il nodo che assale la gola, nel dover circoscrivere l’educazione ad un solo vincolo biologico, spinge ad una doverosa riflessione circa la natura più intima di quest’ultima parola. Oltre al problema della coscienza, riferita da Searl e capace di destare da quello stato di assenza di prospettive critiche della neuro- si aggiunga quello che si desidera- sembra essere un altro il punto nodale su cui meditare. Lo stesso Piaget ricorda che a suo tempo gli psicologi erano tendenti a “mettere tutto l’accento sui fattori di apprendimento e sulle azioni dell’ambiente, dimenticando le implicazioni della biologia contemporanea” , così oggi i biologi, e i loro epigoni, dimenticano “l’epistemologia e il pensiero e trattano spesso il cervello umano come un prodotto di selezione allo stesso modo in cui lo sono gli zoccoli del cavallo e le pinne dei pesci” (Piaget J., Biologia e conoscenza, Einaudi, Torino 1983, p. 384). 110
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Lo stesso Petracchi sovviene che “la ricerca neurologica si pronuncia sulla biologicità dei processi neuronali che sottendono quei (i processi di apprendimento)fenomeni mentali” (Petracchi G., Cultura umana. Origine ed evoluzione, Bulzoni, Roma 2001, p. 13). È innegabile che la relazione tra apprendimento e sfera biologica sia una relazione indissolubile, ma siamo nella coscienza di dire che essa non la completa, né, tanto meno, esaurisce la sua ricchezza soggettiva. Non possiamo non essere d’accordo con Rosati quando afferma che “in un quadro antropologico esaustivo della persona, in vista della sua educabilità, tende a comprendere il dato biologico al pari di quelli psicologico, sociologico e filosofico in un discorso che non ha mai fine e che piuttosto è destinato ad incrementarsi costantemente fino a comprendere, soprattutto oggi, le neuroscienze” (Rosati L., Il metodo nella didattica, La scuola, Brescia 2005, p. 19). Ecco quel concetto di scienza ed arte richiamato da Mialaret nell’introduzione al lavoro di De Landsheere. Una scienza, quella educativa, basata sull’oggettività biologica della composizione e del funzionamento del nostro cervello, ma anche arte quale riconoscimento di un potenziale che va oltre all’aspetto puramente conoscitivo e funzionale rendendosi capace di riconoscere quel mistero della persona generato dalle riflessioni di Mounier.
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