Ti picchio, ti rompo. Il bullismo un fenomeno alla deriva

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ISBN: 978-88-96663-32-5 ISBN: 978-88-96663-32-5

“TI PICCHIO, TI ROMPO” “TI PICCHIO, TI ROMPO” Il bullismo un fenomeno alla deriva Il bullismo un fenomeno alla deriva “TI PICCHIO, TI ROMPO” bullismo fenomeno a Il cura di Riccardoun Mancini e Danielealla Gigli deriva a cura di Riccardo Mancini e Daniele Gigli a cura di Riccardo Mancini e Daniele Gigli


“TI PICCHIO, TI ROMPO” Il bullismo un fenomeno alla deriva a cura di Riccardo Mancini e Daniele Gigli

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Indice

Introduzione Cap. 1 Aspetti neurobiologici del comportamento aggressivo 1.1 Caratteri generali 1.2 Strutture anatomiche del comportamento aggressivo 1.3 Meccanismi cellulari alla base del comportamento aggressivo 1.4 Dal sistema nervoso al resto dell’organismo: gli ormoni e l’aggressività 1.5 …concludendo Bibliografia essenziale Cap. 2 Il bullisimo: il punto di vista psicologico 2.1 Introduzione 2.2 Cos’è il bullismo: aspetti psicologici ed educativi 2.3 Cosa non è il bullismo 2.4 Caratteristiche del bullo 2.5 Caratteristiche della vittima 2.6 Il contesto familiare 2.7 Il contesto scolastico 2.8 Bullismo e disturbi della condotta 2.9 Modelli e tecniche di intervento 2.10 Conclusioni Bibliografia essenziale Cap. 3 Questioni e prospettive educative 3.1 Il bullismo: origini ed orientamenti educativi 3.2 Regole per crescere 3.3 Dal bullismo al mobbing: quale modalità d’intervento 3.4 Bullismo femminile: analisi del fenomeno sociale 3.5 Cyberbullismo: disagio e vetrinizzazione sociale nell’era digitale 3.6 Bullyng: policy e strategie nazionali e internazionali Bibliografia essenziale 5


Cap. 4 Il fenomeno del bullismo alla luce della normativa civile e penale italiana 4.1 Definizione di bullismo e normativa di riferimento 4.2 ResponsabilitĂ degli autori degli atti di bullismo 4.3 ResponsabilitĂ dei genitori, degli insegnanti e dei dirigenti scolastici 4.4 ResponsabilitĂ civile e penale del bullo 4.4.2 Le violazioni di leggi civili nei comportamenti del bullo 4.5 Conclusioni Bibliografia essenziale

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INTRODUZIONE Il comportamento disciplinare degli alunni delle scuole italiane, da diversi anni, ormai, riempie le testate dei principali mezzi di informazione, a causa di gravi episodi, sempre più frequenti, che hanno indotto il Ministero dell’Istruzione ad assumere “iniziative di contrasto” a questo fenomeno. Le proposte si sono concretizzate nella creazione di Osservatori sul bullismo, nell’istituzione di un Numero Verde Antibullismo e nella modifica dello Statuto delle studentesse e degli studenti della scuola secondaria, per quanto riguarda le sanzioni disciplinari (DPR 235/2007), cui ha fatto seguito la circolare del MIUR (Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca) del 31 Luglio 2008, n. 3602/PO. Queste recenti disposizioni chiamano in causa i Consigli di Istituto delle singole istituzioni scolastiche, che sono invitati a riformare anche nel loro regolamento la materia delle sanzioni disciplinari per gli alunni, con margini di discrezionalità che richiedono, data la delicatezza della materia, grande ponderazione, al fine di evitare l’impugnazione delle sanzioni disciplinari e dello stesso regolamento da cui esse scaturiscono, nel caso in cui questo violi precetti di rango superiore dell’ordinamento giuridico. All’aumento dei margini di discrezionalità corrisponde, ovviamente, una maggiore responsabilità, che per essere assunta con consapevolezza deve tener conto da un lato dei principi fondanti l’ordinamento giuridico italiano, con particolare riguardo ai precetti costituzionali ed al diritto minorile, dall’altro, delle peculiarità psicologiche, educative e biologiche dei soggetti in età dello sviluppo, alle quali i procedimenti e le sanzioni disciplinari vanno commisurati. Ma, soprattutto, l’impegno di tutte le componenti scolastiche, e delle professionalità che offrono ad esse supporto, deve essere volto alla prevenzione delle infrazioni disciplinari, nel rispetto della funzione educativa della società in generale e della scuola in particolare. Gli autori



Cap. 1 Aspetti neurobiologici del comportamento aggressivo di Daniele Gigli1

1.1 CARATTERI GENERALI Parlare di bullismo, e quindi di un tipo di comportamento aggressivo, vuol dire entrare in un campo di ricerca che per anni è stato considerato puro appannaggio della psicologia e della pedagogia. Solo nella prima metà del ‘900, infatti, grazie ad una serie di esperimenti portati avanti da Walter R. Hess, insignito poi con il premio Nobel, si aprì per la neurobiologia la strada dello studio del comportamento aggressivo. In realtà, l’origine biologica dei comportamenti aggressivi, intesi come meccanismo di adattamento all’ambiente, è più antica, e si può far risalire alla fine dell’’800 agli studi sull’evoluzione animale condotti da Charles Darwin. Con l’affermarsi delle teorie evolutive, infatti, si è iniziato a ipotizzare un substrato biologico che, va ricordato, era stato negato alla psicologia da Cartesio. In quest’ottica le emozioni, come la rabbia, divengono dei meccanismi evolutivi che permettono una migliore vita di relazione intra ed interspecifica che permette la sopravvivenza e la maggior probabilità di mettere al mondo e gestire una prole numerosa. Alla luce della teoria evolutiva possono essere inquadrati tutti i comportamenti: si può sostenere che per comprendere pienamente le basi neurobiologiche del comportamento è fondamentale inserirle, e con loro tutto lo studio sull’uomo, in un percorso che origina negli altri animali. I comportamenti come rabbia ed aggressività, quindi, non sono altro che il prodotto di milioni di anni di evoluzione. Affrontato in questa prospettiva, il concetto può sembrare riduttivo, invece, dal punto di vista umano, dovrebbe essere lusinghiero, in quanto l’uomo rappresenta, in questo modo, l’attuale apice del processo evolutivo. Aggressività e rabbia, dal punto di vista neurobiologico ed evolutivo, sono risposte complesse dell’organismo verso determinati stimoli; risposte che si manifestano attraverso pattern di azione altamente specifici sia su un piano ambientale (come può essere un’azione di fuga dettata da una paura), sia su quello dell’organismo (attraverso reazioni fisiologiche e biochimiche come il rilascio di epinefrina e il conseguente aumento del battito cardiaco a seguito di uno stimolo che provochi paura). Il comportamento aggressivo, osservabile in tutte le specie viventi, tra due individui della stessa specie, è uno dei

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Daniele Gigli è docente di Biologia applicata presso l’Università degli Studi e-Campus

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meccanismi attraverso i quali gli individui competono per le risorse. In ultima analisi, quindi, non è altro che una espressione di competizione legata alla sopravvivenza, una strada utile per aggirare un limite ambientale. Gli studi di Hess, dicevamo, focalizzarono l’attenzione su una specifica area sottocorticale appartenente al sistema limbico, l’ipotalamo, che, se stimolata, dava vita ad una serie di comportamenti emotivi svincolati dalla realtà in cui si trovava il modello. Grazie a questi esperimenti, condotti in gran parte su gatti, venne definito il fenomeno della “falsa rabbia”: l’animale presenta un insieme di atteggiamenti rabbiosi senza che ve ne sia motivo. Successivamente, gli studi sulle aree cerebrali coinvolte nei meccanismi emotivi iniziarono a moltiplicarsi; venne osservato che negli animali in cui si operava una lesione a livello del sistema limbico, e più specificatamente a livello del giro del cingolo, veniva repressa ogni espressione di rabbia. Le aree maggiormente implicate nei meccanismi emozionali, infatti, sono raggruppate in una rete complessa che si estende attorno al tronco encefalico, il sistema limbico appunto. Oggi, nel sistema limbico, vengono inserite, oltre ad ippocampo e giro del cingolo, anche l’amigdala e la corteccia prefrontale. In questo modo si viene a formare un sistema limbico esteso in cui compaiono anche strutture fondamentali per la comprensione e l’interpretazione della natura delle esperienze emozionali che portano allo sviluppo delle risposte del corpo. Le funzioni associate a queste strutture, che sono alla base di tutta una serie di comportamenti emotivi, sono state studiate per anni attraverso la stimolazione elettrica o lo studio delle variazioni comportamentali che provocava la distruzione di specifiche e circoscritte aree. È proprio per questo motivo che la maggior parte dei dati neurobiologici relativi alla fisiologia delle emozioni arriva da modelli animali inseriti in specifici ed artificiali disegni sperimentali. In effetti, fino a pochi decenni fa, non era possibile misurare l’aggressività, soprattutto a livello comportamentale. A questo proposito, si preferisce parlare dell’espressione fisica dell’aggressività, ovvero l’aggressione, un fenomeno molto più facilmente misurabile. Negli ultimi anni, però, grazie al progresso degli studi di ingegneria biomedica, si è avuto uno sviluppo notevole dei macchinari per analisi tramite neuroimaging; in questo modo è stato possibile avviare dei protocolli sperimentali anche sugli uomini. Queste tecniche, infatti, utilizzano dei meccanismi non invasivi per lo studio dei processi neurofisiologici; permettono lo studio delle aree cerebrali che si attivano durante una specifica attività senza causare danni o morte del soggetto studiato. Tra le tecniche di neuroimaging, quella che presenta maggiori potenzialità nelle ricerche sulla neurobiologia delle emozioni è senza dubbio la risonanza magnetica funzionale, fRMI, che evidenzia i livelli di ossigenazione del sangue 10


(un’area cerebrale che si attiva per svolgere un determinato compito richiede una maggior quantità di ossigeno per supportare l’attività delle sue cellule). Ma come possiamo definire un comportamento aggressivo? Rispondere a questa domanda è tuttaltro che semplice. Un comportamento aggressivo, dal punto di vista biologico, è un comportamento volto ad arrecare un danno, di qualsiasi natura, ad un altro individuo per trarne un vantaggio, risorse alimentari, spazio vitale o individui del sesso opposto. L’aggressione, quindi, è un mezzo e non un fine, e in genere è un comportamento a cui si ricorre in assenza di altre strategie di competizione meno rischiose; risulta essere una via prioritaria per ottenere l’accesso alle risorse. Come tutti i meccanismi volti alla conservazione della specie, anche i comportamenti aggressivi possono dividersi in interspecifici ed intraspecifici; quando parliamo di aggressività umana, però, si tende a considerare un comportamento interspecifico, ovvero rivolto ad individui della stessa specie. Riguardo al funzionamento delle varie aree cerebrali per produrre una risposta aggressiva, come per gli altri comportamenti, negli ultimi anni ha preso piede una nuova teoria psicobiologica sulle vie che regolano una risposta emotiva. Autore e sostenitore di questa nuova teoria è J. LeDoux, che ha individuato una via diretta tra talamo ed amigdala, portando ad una risposta emotiva priva dell’interpretazione che si ottiene a livello della corteccia. La presa di coscienza dell’atto, quindi, avverrebbe in un secondo momento, dopo che il corpo ha iniziato a reagire allo stimolo innescante; ci sono altri casi, invece, in cui l’emozione nasce prima nella mente, e quindi l’impulso parte dalla regione corticale e solo in un secondo momento il corpo attiva i meccanismi di risposta. Quindi si assiste a due tipi differenti di risposta, con due circuiti in cui l’informazione viaggia con ordini differenti; in entrambi i casi, però, una buona parte di questi circuiti, procede a livello dell’emisfero destro, che risulta quindi svolgere un ruolo fondamentale nei processi emotivi. A tal proposito si può concludere con un esperimento che può essere svolto su persone che presentano emiparesi dell’emisfero destro; tali soggetti non sono in grado di provare tutta una serie di emozioni a causa del non funzionamento del cervello emotivo, mentre riescono perfettamente a produrre, ad esempio, quello che viene definito sorriso di cortesia, ovvero un sorriso dettato da regole formali o dalla convenienza, questo perché il sorriso a comando, non essendo dettato da uno stimolo emotivo come la gioia o l’amore, è sotto il controllo dell’emisfero sinistro.

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1.2 STRUTTURE ANATOMICHE DEL COMPORTAMENTO AGGRESSIVO Parlare delle regioni cerebrali coinvolte in uno specifico comportamento non è mai facile, soprattutto quando si vuole affrontare un comportamento complesso come quello aggressivo. Il nostro cervello è costituito da milioni di neuroni interconnessi tra loro a formare un numero enorme di vie attraverso cui passa l’informazione; tutte queste “strade” presentano punti di connessione, aree di rielaborazione e zone effettrici, perciò in questo testo verranno forniti unicamente degli accenni neuroanatomici. Prima di affrontare le aree specifiche è giusto ricordare che il nostro sistema nervoso centrale è suddiviso in encefalo e midollo spinale, e l’encefalo è, a sua CORREZIONI GIGLI volta, suddiviso in cervelletto, bulbo, ponte, mesencefalo, diencefalo e telencefalo (che rappresenta l’area corticale); in questa sede verranno affrontate unicamente le zone diencefaliche e telencefaliche. Gli studi svolti, infatti, si pag. 5: nell'indice, il paragrafo 1.3: meccanismi al posto di meccanismo sono sempre concentrati su una specifica area definita sistema limbico (chiapag.da 9: nella nota 1, Docente al posto di ricercatore mata alcuni “cervello emozionale”), anche se negli ultimi decenni sono state condotte ricerche anche a livello della corteccia prefrontale. Ovviamente gli pag. 12: la figura 1 è inesatta di seguito la figura corretta studi sono stati effettuati, in larga maggioranza, su di uno specifico modello animale, il gatto; altri studi hanno utilizzato i ratti.

Fig.1: areecorticali corticaliimplicate implicate nei aggressivi, corteccia frontale ed Fig.1: aree nei comportamenti comportamenti aggressivi, corteccia frontale olfattiva

ed olfattiva pag. 14: le frecce della figura si sono spostate, di seguito la figura corretta

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Se sperimentalmente, infatti, si stimolano determinate aree del cervello del gatto, corrispondenti alle aree diencefaliche dell’ipotalamo e ad aree mesencefaliche, si riesce ad indurre un comportamento aggressivo; ovviamente il comportamento può essere anche modulato stimolando ippocampo, amigdala o specifiche aree corticali, olfattiva e prefrontale. Una volta individuate le zone coinvolte, gli studi si sono concentrati verso le varie parti di queste, permettendo di individuare l’area direttamente coinvolta nel comportamento aggressivo offensivo, costituita dal nucleo laterale perifornicale ipotalamico, ed in quello aggressivo difensivo, costituita dalla porzione mediale dell’ipotalamo e da quella dorsale della sostanza grigia periacqueduttale. L’ipotalamo, quindi, riveste un ruolo fondamentale nel comportamento offensivo; questa struttura è situata nel diencefalo, al di sotto del talamo; è un’area piccola, che supera di poco i 7g di peso, che forma il pavimento e le pareti inferolaterali del terzo ventricolo cerebrale. Nonostante le sue piccole dimensioni, però, rappresenta una delle aree più importanti per la vita di relazione dell’organismo, regolando svariate funzioni fondamentali per la sopravvivenza e per lo sviluppo sociale. Rappresenta anche il principale punto di congiunzione tra mente e corpo, visto che proprio attraverso le strutture ipotalamiche passano la maggior parte delle vie nervose che collegano le aree corticali superiori alle aree del bulbo e del midollo spinale. In questo modo la mente è in grado di inviare informazioni al resto del corpo, dalla semplice informazione sulla temperatura fino alle informazioni legate alla sfera emotiva. Tra le molteplici funzioni che svolge l’ipotalamo, quelle collegate al comportamento aggressivo riguardano il controllo dell’appetito; in quest’area, inoltre, sono racchiusi i centri della fame e della sazietà, il mantenimento dello stato di veglia ed il controllo di quello che alcuni autori indicano come tono affettivo, ovvero le risposte corporali alle diverse emozioni. A livello topografico, possiamo suddividere l’ipotalamo in due parti simmetriche, ognuna suddivisibile, a sua volta, in tre porzioni. Procedendo dal lato verso l’asse centrale di simmetria incontriamo: zona laterale (legata a comportamenti aggressivi di tipo predatorio), zona mediale e zona paraventricolare. La zona mediale risulta essere quella legata ai sentimenti di avversione e, se stimolata, è in grado di evocare comportamenti aggressivi offensivi.

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Fig.2: suddivisione dell’ipotalamo; nell’immagine vengono indicate solo le zone Fig.2: suddivisione dell'ipotalamo; nell'immagine vengono indicate solo le zone dell'emiparte sinistra dell’emiparte sinistra

Il comportamento predatorio, che potrebbe essere alla base dei comportaIl comportamento predatorio, che potrebbe essere alla base dei comportamenti aggressivi più evoluti, si genera attraverso una più serie evoluti, di circuiti che, come già accennato precedenza, originano a livello menti aggressivi si genera attraverso unain serie di circuiti che, come dell'ipotalamo laterale; da qui l'informazione viene inviata verso il talamo mediale, alla regione segmentale già accennato in precedenza, originano a livello dell’ipotalamo laterale; da qui ventrale ed alla regione perifornicale dell'ipotalamo. È proprio da questa ultima regione che parte uno dei l’informazione viene inviata verso il talamo mediale, alla regione segmentacircuiti più importanti del comportamento predatorio che si sviluppa sia verso le regioni più rostrali, come la le stria terminale, ed sia alla quelle più basali perifornicale del ponte e del dell’ipotalamo. locus coeruleus. A livello dell'ipotalamo laterale, ventrale regione È proprio da questa inoltre, arriva anche uno dei circuiti cerebrali che inibiscono il comportamento predatorio; un sistema che ultima regione che parte uno dei circuiti più importanti del comportamento origina a livello della corteccia prefrontale ed arriva, passando per il talamo mediale, fino all'ipotalamo. predatorio che si sviluppa sia verso le regioni più rostrali, come la stria terminale, sia quelle più basali del ponte e del locus coeruleus. A livello dell’ipotalamo laterale, inoltre, arriva anche uno dei circuiti cerebrali che inibiscono il Corteccia comportamento predatorio; un sistema che origina aprefrontale livello della corteccia prefrontale ed arriva, passando per il talamo mediale, fino all’ipotalamo. Talamo mediale

Corteccia prefrontale

Ipotalamo laterale

Talamo mediale

Ipotalamo laterale Fig.3: in rosso il circuito di inibizione del comportamento predatorio

Oltre al comportamento aggressivo di tipo offensivo, di cui abbiamo esaminato brevemente l'esempio del comportamento predatorio, esiste un secondo tipo di comportamento aggressivo, quello difensivo. Uno dei punti cardine di questo comportamento si trova nell'ipotalamo mediale, a livello del nucleo anteromediale Fig.3: in rosso il circuito di inibizione del comportamento predatorio

Fig.3: in rosso il circuito di inibizione del comportamento predatorio

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pag. 26: manca parte della figura, allego la figura corretta


Oltre al comportamento aggressivo di tipo offensivo, di cui abbiamo esaminato brevemente l’esempio del comportamento predatorio, esiste un secondo tipo di comportamento aggressivo, quello difensivo. Uno dei punti cardine di questo comportamento si trova nell’ipotalamo mediale, a livello del nucleo anteromediale (in neuroanatomia vengono chiamate nuclei le aree funzionali costituite dai soma dei neuroni). Questo nucleo regola un insieme di funzioni di base, respirazione, temperatura etc., durante un comportamento aggressivo di tipo difensivo. Le varie aree funzionali dell’ipotalamo sono collegate, come accennato in precedenza, sia con le regioni corticali sia con le regioni sottostanti. Tra le molteplici vie, bisogna ricordare il fascicolo proencefalico mediale, che collega la corteccia olfattiva all’ipotalamo. Il sistema limbico è collegato attraverso la via ippocampo-ipotalamica, via fondamentale per il circuito emozionale e per molti comportamenti ed attraverso la via amigdalo-ipotalamica, specifica per una sola zona del sistema limbico, l’amigdala. A livello del comportamento aggressivo risulta fondamentale anche la via cortico-ipotalamica; questa via, infatti, collega la corteccia frontale e prefrontale con l’ipotalamo. Grazie a studi effettuati sui ratti, si è scoperto che le vie che escono dall’ipotalamo, soprattutto quelle che partono dall’area intermedia, svolgono un ruolo fondamentale nella genesi dei comportamenti aggressivi; queste vie, infatti, arrivano ad aree direttamente o indirettamente collegate a questi comportamenti. Insieme all’ipotalamo bisogna descrivere brevemente, dal momento che sono direttamente connesse con il comportamento aggressivo, alcune aree corticali che vanno a costituire il sistema limbico e alcune corteccie, quella olfattiva e quella frontale. Con il termine di sistema limbico, o corteccia limbica, si intende un insieme altamente interconnesso, tramite vie nervose che utilizzano specifici neurotrasmettitori, di aree telencefaliche, sia corticali che cortico-sottocorticali, tra cui ricordiamo il giro del cingolo, l’ippocampo, l’amigdala ed i nuclei del setto. Queste strutture si dispongono a formare una fascia sottocorticale. Il termine limbico, infatti, deriva dal latino limbus che significa appunto fascia. A livello funzionale, anche se non è facile definire le funzioni di questa area, possiamo considerare le strutture del sistema limbico come la sede di rabbia, ira e paura, oltre alle funzioni mnemoniche. Sono aree strettamente legate alle regioni olfattive e spesso vengono contrapposte alle regioni corticali soprastanti in quanto regolerebbero la natura istintuale rispetto alla natura cosciente legata ai processi di elaborazione che si attuano a livello delle corteccie. A livello anatomo-funzionale, è possibile distinguere due gruppi di strutture implicate nelle risposte aggressive: strutture effettrici, che attivano i meccanismi aggressivi, e strutture modulatrici, che possono potenziare o inibire i 15


comportamenti aggressivi. Tra le strutture effettrici si ricordano l’ipotalamo, l’ipofisi e la sostanza grigia periacqueduttale situata nel tronco encefalico. In realtà, se sperimentalmente si stimolano le regioni preottica o del tronco, si riesce ad indurre una risposta aggressiva; questo suggerisce una maggiore complessità cerebrale legata ad un numero elevato di circuiti neurali. A livello delle strutture modulatrici del comportamento aggressivo, si prendono in considerazione soprattutto l’ippocampo, l’amigdala, il giro del cingolo, alcune aree talamiche e le corteccie olfattiva e prefrontale. L’amigdala, o nucleo amigdaloideo, è una struttura a forma di mandorla situata nella regione profonda del lobo temporale; riceve gli impulsi dalle regioni olfattive dal talamo e dall’ippocampo, e si pensa anche dalla formazione reticolare, e li invia prevalentemente all’ipotalamo. In minima parte vengono direzionati anche ad alcune regioni del talamo e del giro del cingolo. Le aree talamiche e la corteccia olfattiva inviano all’amigdala informazioni provenienti dall’ambiente; l’ippocampo, invece, crea un circuito ben più importante per quel che riguarda lo studio dell’aggressività, permettendo un immagazzinamento nei circuiti mnemonici dell’espressione aggressiva difensiva, soprattutto degli aspetti legati alla paura. La via ippocampo-amigdaloidea, quindi, è responsabile della componente di paura che instaura il comportamento aggressivo difensivo agendo, inoltre, come circuito inibitorio sul comportamento aggressivo offensivo. L’amigdala è direttamente responsabile di un particolare comportamento aggressivo di tipo difensivo che ha un’origine molto antica, il comportamento aggressivo irritativo. Questo comportamento si osserva quando la causa della risposta aggressiva è aspecifica, ovvero non può essere fatta risalire a un soggetto, o ad un oggetto, chiaramente individuabile dall’organismo o a cui non ci si può sottrarre grazie a un meccanismo di fuga. In questo caso il comportamento è portato avanti da vie amigdaloidee-ipotalamiche e da vie che dall’amigdala arrivano fino alle regioni più basali del tronco encefalico. La risposta che ne consegue è fortemente disorganizzata, e si rivolge non tanto alla causa del comportamento quanto a soggetti, o ad oggetti, non direttamente implicati, che sono facilmente raggiungibili e che non siano in grado di innescare una reazione pericolosa. Nell’uomo, però, la reazione aggressiva irritativa viene spesso portata avanti insieme ad altri comportamenti di tipo aggressivo offensivo e aggressivo difensivo, creando un mosaico di comportamenti aggressivi molto complesso e in cui si attivano molteplici aree cerebrali. L’amigdala, quindi, è una struttura cerebrale fondamentale nella regolazione 16


comportamento quanto a soggetti, o ad oggetti, non direttamente implicati, che sono facilmente aggiungibili e che non siano in grado di innescare una reazione pericolosa. Nell'uomo, però, la reazione aggressiva irritativa viene spesso portata avanti insieme ad altri del comportamento aggressivo; a questo proposito, esperimenti condotti su comportamenti di tipo aggressivo offensivo e aggressivo difensivo, creando un mosaico di comportamenti aggressivi molto complesso e in cui si attivano molteplici aree cerebrali. ratti operati di amigdalectomia parziale (ovvero rimozione selettiva di parL'amigdala, quindi, è una struttura fondamentale nella regolazione comportamento ti dell’amigdala) hannocerebrale portato ad una sua mappatura. La regionedel anteriore aggressivo; a questo proposito, esperimenti condotti su ratti operati di amigdalectomia parziale risulta essere responsabile della regolazione delle risposte di fuga, quella po- (ovvero imozione selettiva di parti dell'amigdala) hanno portato ad una sua mappatura. La regione anteriore risulta steriore di comportamenti aggressivi difensivi ed offensivi (nello specifico il essere responsabile della regolazione delle risposte di fuga, quella posteriore di comportamenti aggressivi nucleo centrale e quello basolaterale sono legati al comportamento offensivo, difensivi ed offensivi (nello specifico il nucleo centrale e quello basolaterale sono legati al comportamento il nucleo mediale quello difensivo). offensivo, il nucleo mediale quello difensivo).

Fig.4: strutturazione dell’amigdala Fig.4: strutturazione dell'amigdala

Altri esperimenti, svolti sulle scimmie, hanno evidenziato come l’amigdalectomia totale riduce la risposta a stimoli minacciosi; in uno studio effettuato negli Altri esperimenti, svolti sulle scimmie, hanno evidenziato come l'amigdalectomia totale riduce la risposta a Stati Uniti, l’amigdalectomia bilaterale ha portato nell’85% dei casi trattati alla stimoli minacciosi; in uno studio effettuato negli Stati Uniti, l'amigdalectomia bilaterale ha portato nell'85% drastica riduzione di comportamenti violenti. dei casi trattati alla drastica riduzione di comportamenti violenti. Altra struttura legata al comportamento aggressivo è l’ippocampo, un insieme Altra struttura legata al comportamento aggressivo è l'ippocampo, un insieme di formazioni raggruppabili formazioniventrale raggruppabili in due porzioni, l’ippocampoe ventrale (chiamato n due porzioni, dil'ippocampo (chiamato anche corno d'Ammone) l'ippocampo dorsale. Nel suo anche corno d’Ammone) e l’ippocampo dorsale. Nel suo complesso prende complesso prende la forma di un verme ripegato o di cavalluccio marino, è costituito da sette differenti la formacon di caratteristiche un verme ripegato di cavalluccio è costituito da sette giungono strati cellulari, ognuno degli o elementi cellulari marino, peculiari. A questa struttura differenti strati cellulari, ognuno con caratteristiche cellulari prevalentemente vie nervose provenienti dalla corteccia olfattiva e da degli quella elementi temporale; le vie in uscita, peculiari. A questa struttura giungono prevalentemente vie nervose provenvece, sono dirette prevalentemente all'ipotalamo e da qui vanno verso le cortecce ed i corpi mammillari. nienti dalla effettore corteccia dei olfattiva e da temporale;Danni le viea inquesta uscita,struttura invece, sono alla L'ippocampo è il principale processi di quella memorizzazione. dirette prevalentemente e daruolo è fondamentale nella genesi di un qui vanno verso le cortecce base del morbo sono di Alzheimer e dei problemi di all’ipotalamo amnesia. Questo i corpi mammillari. comportamento edaggressivo: la risposta aggressiva si basa sul confronto della situazione presente L’ippocampo è il principale effettore dei processi di memorizzazione. Danni affrontata con quelle presenti in memoria in modo da poter attivare una risposta confacente. Uno dei circuiti su cui si possiedono informazioni riguardo al comportamento aggressivo collega le principali a questa struttura sono alla base del morbo di Alzheimer e dei problemi di sedi anatomiche a cui si Questo è accennato: registra il segnale avversione e lo invia amnesia. ruolo èl'ipotalamo fondamentale nella genesi didi un comportamento ag-al sistema

imbico. Giunto alla corteccia limbica il segnale viene inviato a quella prefrontale dove viene elaborato e egato ad un meccanismo di ansia. 17 Un altro circuito di regolazione del comportamento aggressivo, molto ben conosciuto, è il cosidetto Circuito di Papez, che collega l'ippocampo all'ipotalamo, al talamo e alla corteccia. Questo circuito si sviluppa partendo dal corno di Ammone; da qui, attraverso la via del fornice, le informazioni vengono inviate ai corpi


gressivo: la risposta aggressiva si basa sul confronto della situazione presente raffrontata con quelle presenti in memoria in modo da poter attivare una risposta confacente. Uno dei circuiti su cui si possiedono informazioni riguardo al comportamento aggressivo collega le principali sedi anatomiche a cui si è accennato: l’ipotalamo registra il segnale di avversione e lo invia al sistema limbico. Giunto alla corteccia limbica il segnale viene inviato a quella prefrontale dove viene elaborato e legato ad un meccanismo di ansia. Un altro circuito di regolazione del comportamento aggressivo, molto ben conosciuto, è il cosidetto Circuito di Papez, che collega l’ippocampo all’ipotalamo, al talamo e alla corteccia. Questo circuito si sviluppa partendo dal corno di Ammone; da qui, attraverso la via del fornice, le informazioni vengono inviate ai corpi mammillari (una struttura ipotalamica); a questo livello vengono processate e inviate, lungo la via mammillo-talamica, ai nuclei anteriori del talamo. Da questa area partono per la regione corticale del sistema limbico, il giro del cingolo, dove vengono reinviate all’ippocampo chiudendo il circuito.

Nuclei anteriori del talamo

CORTECCIA LIMBICA Via talamo-corticale

Giro del cingolo

Via mammillot alamica Corpi mammillari

Fornice

CORNO D'AMMONE

Fig.5: schematizzazione del circuito di Papez

Fig.5: schematizzazione del circuito di Papez Oltre alle strutture di cui si è parlato, non si può tralasciare, vista la sua importanza nella modulazione del comportamento, il giro del cingolo. Questa struttura non telencefalica, anche vista corteccia cingolata, è Oltre alle strutture di cui si è parlato, si può chiamata tralasciare, la sua imporsituata tra la parte anteriore del corpo calloso e il lobo temporale, è connessa con il talamo, da cui riceve gli tanza nella modulazione del comportamento, il giro del cingolo. Questa strutimpulsi e con le zone corticali, a cui invia gli impulsi; come ricordato prima, è anche in contatto con l'ippocampo con il quale costituisce parte del circuito di Papez. tura telencefalica, chiamata anche corteccia cingolata, è situata tra la parte Un lavoro svolto sulle scimmie ha dimostrato che la parte anteriore di questa struttura regola i anteriore del corpo calloso e il lobo temporale, è connessa con il talamo, da comportamenti sociali, e l'aggressività è fondamentale per le interazioni tra individui della stessa specie. cui riceve gli impulsi e con le zone corticali, a cui invia gli impulsi; come ricorNonostante la possibilità di traslare i risultati all'uomo, bisogna considerare alcune differenze tra il giro del cingolo scimmie e quello In quello nostra specie con si possono rinvenire delle strutture datodelle prima, è anche inumano. contatto condella l’ippocampo il quale costituisce parte cellulari peculiari che si ritiene intervengano nell'elaborazione delle risposte agli stimoli emotivi. Altri studi del circuito di Papez. hanno dimostrato che animali non addomesticabili perdono ogni istinto di ribellione in seguito all'eliminazione chirurgica del giro del cingolo.

Questa regione è direttamente collegata all'ipotalamo e alle aree corticali. Essa regola sia i livelli di 18 attenzione, e quindi la capacità dell'organismo di concentrarsi, sia i livelli dell'ansia. A livello telencefalico, le regioni corticali olfattiva e prefrontale sono quelle maggiormente attive nei comportamenti aggressivi. Per illustrare forma e funzione della corteccia olfattiva bisogna prima descrivere brevemente una struttura tondeggiante, chiamata bulbo olfattivo e localizzata alla base della corteccia prefrontale, nell'area corrispondente alla parte bassa della regione orbitofrontale della faccia. È una


Un lavoro svolto sulle scimmie ha dimostrato che la parte anteriore di questa struttura Nuclei regolaanteriori i comportamenti sociali, e l’aggressività èCORTECCIA fondamentale per LIMBICA Via talamole interazioni individui della stessa specie. Nonostante la possibilità di tradeltra talamo Giro del cingolo corticale slare i risultati all’uomo, bisogna considerare alcune differenze tra il giro del cingolo delle scimmie e quello umano. In quello della nostra specie si possono Via mammillo rinvenire delle strutture cellulari peculiari che si ritiene intervengano nell’elaborazione talamica delle risposte agli stimoli emotivi. Altri studi hanno dimostrato che animali non addomesticabili perdono ogni istinto di ribellione in seguito Corpi all’eliminazione chirurgica del giroFornice del cingolo. CORNO D'AMMONE mammillari Questa regione è direttamente collegata all’ipotalamo e alle aree corticali. Essa regola sia i livelli di attenzione, e quindi la capacità dell’organismo di 
 concentrarsi, sia i livelli dell’ansia. A livello telencefalico, le regioni corticali olfattiva e prefrontale sono quelle Fig.5:
schematizzazione
del
circuito
di
Papez
 maggiormente attive nei comportamenti aggressivi. Per illustrare forma e 
 funzione della corteccia olfattiva bisogna prima descrivere brevemente una struttura tondeggiante, chiamata bulbo olfattivo e localizzata alla base della Oltre
alle
strutture
di
cui
si
è
parlato,
non
si
può
tralasciare,
vista
la
sua
importanza
nella
modulazione
del
 corteccia prefrontale, nell’area corrispondente alla parte bassa della regione comportamento,
 il
 giro
 del
 cingolo.
 Questa
 struttura
 telencefalica,
 chiamata
 anche
 corteccia
 cingolata,
 è
 situata
tra
la
parte
anteriore
del
corpo
calloso
e
il
lobo
temporale,
è
connessa
con
il
talamo,
da
cui
riceve
gli
 orbitofrontale della faccia. È una struttura antica e, nell’uomo, notevolmente impulsi
 e
 con
 le
 zone
 corticali,
 a
 cui
 invia
 gli
 impulsi;
 come
 ricordato
 prima,
 è
 anche
 in
 contatto
 con
 ridotta rispetto alle altre aree corticali. Il bulbo olfattivo rappresenta il punto l'ippocampo
con
il
quale
costituisce
parte
del
circuito
di
Papez.
 Un
 lavoro
 scimmie
che ha
 dimostrato
 la
 cavità parte
 anteriore
 questa
 regola
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 di arrivo dellesvolto
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 sensitive partono che
 dalla nasale.di
Da qui struttura
 l’impulso comportamenti
 sociali,
 e
 l'aggressività
 è
 fondamentale
 per
 le
 interazioni
 tra
 individui
 della
 stessa
 specie.
 può seguire due vie, la prima passa per il talamo e poi si dirige alle strutture Nonostante
la
possibilità
di
traslare
i
risultati
all'uomo,
bisogna
considerare
alcune
differenze
tra
il
giro
del
 corticali che elaborano l’informazione; seconda, invece, arriva ad alcune cingolo
 delle
 scimmie
 e
 quello
 umano.
 In
 quello
la della
 nostra
 specie
 si
 possono
 rinvenire
 delle
 strutture
 aree cellulari
peculiari
che
si
ritiene
intervengano
nell'elaborazione
delle
risposte
agli
stimoli
emotivi.
Altri
studi

 limbiche: amigdala ed ippocampo, e da qui alla zona corticale olfattoria.

Talamo

Cavità nasali

Aree corticali

Bulbo olfattivo

Sistema

limbico

schematizzazione delle vie olfattive, in blu la via collegata al comportamento Fig.6: aggressivo odori
a
specifiche
emozioni,
e
quindi
gli
odori
al
 È
proprio
questa
via
che
permette
di
legare
determinati
 comportamento
aggressivo.
 La
 seconda
 area
 corticale
 che
 prendiamo
 in
 considerazione,
 la
 corteccia
 frontale
 e
 prefrontale,
 è
 stata
 in
 parte
già
trattata.
Di
questa
zona,
infatti,
fa
parte
il
giro
del
cingolo.

19


È proprio questa via che permette di legare determinati odori a specifiche emozioni, e quindi gli odori al comportamento aggressivo. La seconda area corticale che prendiamo in considerazione, la corteccia frontale e prefrontale, è stata in parte già trattata. Di questa zona, infatti, fa parte il giro del cingolo. La corteccia frontale rappresenta una struttura altamente differenziata nell’uomo; rispetto agli altri animali, infatti, nell’essere umano è notevolmente più sviluppata. Questa crescita ha portato allo sviluppo dell’osso frontale ed alla formazione, unica nel regno animale, di una fronte. La corteccia prefrontale può essere suddivisa in due porzioni: la corteccia prefrontale laterale, che si occupa di selezionare e mantenere le informazioni e nell’esame degli errori dopo la sua attuazione, e la corteccia prefrontale mediale. In realtà, una precisa suddivisione morfologica, associata a una netta separazione funzionale, non può essere fatta. Le aree corticali sono caratterizzate da una grande plasticità, che può portare ad un certo livello di sovrapposizione. La fitta rete di vie che la collegano al resto dell’encefalo, però, non lasciano dubbi sulla natura di corteccia associativa, in grado di ricevere, integrare ed elaborare le informazioni provenienti dalle altre aree cerebrali. Questa struttura, nel suo insieme, si occupa di tutta una serie di funzioni che vengono tradizionalmente raggruppate sotto il nome di funzioni esecutive, e vengono considerate come alcune delle massime espressioni della mente umana. Essendo collegata direttamente alle strutture limbiche, ma anche al talamo e all’ipotalamo, il ruolo che assume questa corteccia nei comportamenti aggressivi come il bullismo è di primaria importanza. Diversi studi (ricordiamo quello di Dougherty e collaboratori del 1999 e quello di Raine e collaboratori del 2002) hanno portato ad ipotizzare un suo ruolo nel contenimento dell’attività dell’amigdala; in questo modo si potrebbe teorizzare un ipofunzionamento della via cortico-amigdaloidea nei soggetti particolarmente violenti. L’area corticale prefrontale del soggetto particolarmente aggressivo, cioè, non riuscirebbe ad esaminare gli impulsi prodotti dall’amigdala e a regolare le proprie risposte comportamentali. Tutte le strutture cerebrali esaminate possono essere riunite in quello che viene indicato come sistema della frustrazione, ovvero l’insieme delle porzioni encefaliche incaricate di rispondere ad uno stimolo negativo in maniera da evitarlo o limitarne l’effetto. In realtà tutte queste strutture presentano meccanismi cellulari di base, come verrà chiarito nel successivo paragrafo, che possono permettere una migliore comprensione del fenomeno aggressivo, e quindi degli episodi di bullismo, e conseguentemente giungere ad ipotizzare dei trattamenti mirati. 20


1.3 Meccanismi cellulari alla base del comportamento aggressivo Una delle poche teorie che resistono alle nuove scoperte che quasi quotidianamente si fanno in ambito biologico è la teoria cellulare. La prima formulazione di questa teoria risale al 1838, quando il botanico tedesco Matthias J. Schleiden ipotizzò che tutti i tessuti vegetali sono costituiti da cellule. Solamente l’anno seguente lo zoologo Theodor Schwann, insieme a Schleiden, intuì che la teoria cellulare poteva essere estesa a tutti gli esseri viventi, dai vegetali agli animali, ai funghi e ai procarioti. Si potrebbe affermare che l’intera biologia moderna si basa su questa teoria, che afferma: “tutti gli organismi viventi sono costituiti da cellule” In realtà per ampliare e completare la teoria cellulare bisognerà attendere il 1858, quando Rudolf Virchow ipotizzò che le cellule si possono originare solamente da cellule preesistenti. Perciò anche le cellule che costituiscono i viventi si sono originate da cellule preesistenti. Ovviamente il sistema nervoso umano non fa eccezione. Quindi è possibile risalire alle origini del comportamento aggressivo studiando le funzioni cellulari tipiche di quelle aree anatomiche che sono state esaminate nel paragrafo precedente. La cellula è una struttura complessa, in grado di svolgere tutti i processi che, nel loro complesso, prendono il nome di vita. È costituita da un insieme di organuli immersi in una matrice fluida, chiamata citoplasma, delimitata da La cellula è una struttura complessa, in grado di svolgere tutti i processi che, nel loro complesso, prendono una membrana che ne garantisce l’isolamento e gli scambi con il mondo exil nome di vita. È costituita da un insieme di organuli immersi in una matrice fluida, chiamata citoplasma, tracellulare. delimitata da una membrana che ne garantisce l'isolamento e gli scambi con il mondo extracellulare.

Fig.7: rappresentazione schematica di una cellula animale: sono riconoscibili alcuni organuli immersi nel

Fig.7: rappresentazione schematica di una cellula animale: sono riconoscibili citoplasma alcuni organuli immersi nel citoplasma

Nonostante tutte le cellule dell'organismo umano siano riconducibili alla descrizione appena fatta, le cellule del sistema nervoso, i neuroni, presentano alcune peculiarità che le rendono ideali allo svolgimento delle 21 loro funzioni. Un neurone possiede una forma unica che ne permette una istantanea identificazione; da una zona centrale, chiamata soma o pirenoforo, partono una serie di estroflessioni ascrivibili a due gruppi: i dendriti e l'assone.


ostante tutte le cellule dell'organismo umano siano riconducibili alla descrizione appena fatta, le istema nervoso, i neuroni, presentano alcune peculiarità che le rendono ideali allo svolgiment funzioni. Un neurone possiede una forma unica che ne permette una istantanea identificazione; Nonostante tutte le cellule dell’organismo umano siano riconducibili alla de centrale, chiamata o pirenoforo, partono una nervoso, serie di iestroflessioni ascrivibili a due g scrizionesoma appena fatta, le cellule del sistema neuroni, presentano riti e l'assone. alcune peculiarità che le rendono ideali allo svolgimento delle loro funzioni. Un neurone possiede una forma unica che ne permette una istantanea identificazione; da una zona centrale, chiamata soma o pirenoforo, partono una serie di estroflessioni ascrivibili a due gruppi: i dendriti e l’assone.

Fig.8: rappresentazione della cellula neuronale con evidenziati i dendriti e l'assone Fig.8: rappresentazione della cellula neuronale con evidenziati i dendriti e l’assone

I dendriti sono piccole estroflessioni citoplasmatiche che non raggiungono vandriti sono piccole estroflessioni citoplasmatiche che non raggiungono valori elevati di lunghe lori elevati di lunghezza ma che si ramificano aumentando enormemente la si ramificano loro aumentando enormemente la loro superficie. Rappresentano l'organulo riceve superficie. Rappresentano l’organulo ricevente del neurone. Sono loro, one. Sono loro, infatti, a raccogliere l'informazione sotto forma di impulso nervoso e portarla al infatti, a raccogliere l’informazione sotto forma di impulso nervoso e portarla lare di elaborazione, il soma. Per aumentare la superficie utile alla connessione con gli assoni de al centro cellulare di elaborazione, il soma. Per aumentare la superficie utile oni, i dendriti, spesso, sono dotati di piccole estroflessioni chiamate spine dendritiche. Il numer alla connessione con gli assoni degli altri neuroni, i dendriti, spesso, sono dotati di piccole estroflessioni chiamate spine dendritiche. Il numero delle spine e dendritiche aumenta con il passare del tempo, in maniera tale da permettere una sempre m passare del tempo,Bisogna in maniera tale da permettereche l’aument connessione dendritiche tra le varie aumenta cellule con del ilsistema nervoso. anche aggiungere una sempre maggior interconnessione tra le varie cellule del sistema nervoso. e dendritiche sembrerebbe essere direttamente correlato con i meccanismi di memorizzazione. Bisogna anche aggiungere che l’aumento delle spine dendritiche sembrerebeme dei dendriti di un neurone prende il nome di albero dendritico, questo a caus be essere direttamente correlato con i meccanismi di memorizzazione. erosissime diramazioni che producono i dendriti non appena si distaccano dal soma. L’insieme dei dendriti di un neurone prende il nome di albero dendritico, queologia, insieme numero e alla direzione (che, in caso, è sto aall’elevato causa delle numerosissime diramazioni chedell’impulso producono i dendriti nonquesto apripeto), rappresentano le principali differenze tra assone e dendriti. pena si distaccano dal soma. Questa morfologia, insieme all’elevato numero e alla direzione dell’impulso (che, in questo caso, è di tipo centripeto), rappresentano le principali differenze tra assone e dendriti. L’assone è un prolungamento molto lungo, può arrivare ad una lunghezza superiore al metro nel nervo sciatico dell’uomo, che origina da una specifica zona del soma, il cono di emergenza assonico, e permette la propagazione centrifuga di uno stimolo nervoso. Questo “organulo” neuronale è caratterizzato da una forma cilindrica che si mantiene costante per quasi tutta la sua lunghezza; solamente verso la parte terminale il cilindro si sfiocca per origi22


nare una struttura arborescente caratterizzata dalla presenza di rigonfiamenti (le varicosità) e chiamata terminazione sinaptica. In realtà, in molti neuroni, le varicosità sono presenti anche lungo il percorso dell’assone, in questo caso vengono definite varicosità en passant. Generalmente, ogni neurone è dotato di un solo assone; questo può decorrere libero nell’ambiente extracellulare, come avviene negli animali non mammiferi, oppure essere avvolto quasi completamente da una struttura isolante prodotta da specifiche cellule accessorie, la guaina mielinica. Questa struttura conferisce la capacità di aumentare la velocità di trasmissione nei neuroni lunghi e grandi permettendo il meccanismo di conduzione lungo grandi distanze. La mielina è una struttura che isola la fibra in modo che i vari neuroni possano condurre indisturbati (rispetto agli altri neuroni del nervo) i loro impulsi. La membrana plasmatica Lo studio cellulare del comportamento aggressivo si è prevalentemente focalizzato a livello della membrana cellulare. Questa struttura viene descritta tramite la teoria del “mosaico fluido”, chiamata in questo modo perché composta da più elementi, come in un mosaico, inseriti in una struttura dinamica e fluida in cui la maggior parte delle molecole può muoversi. Lo scheletro della membrana è costituito da un doppio strato lipidico, costituito per la maggior parte da fosfolipidi e dal colesterolo. Questa struttura rende la membrana altamente impermeabile alla maggior parte delle sostanze; solamente i composti liposolubili (in grado, cioè, di fondersi con lo strato lipidico) riescono a passarla liberamente. Questo stato, però, non permette alla cellula nervosa di scambiare con l’esterno sostanze essenziali per trasmettere gli impulsi e avviare la risposta comportamentale. Per risolvere questo inconveniente le membrane cellulari sono attraversate da una serie di proteine transmembranali che permettono i movimenti di sostanze tra interno ed esterno della cellula, ognuna di queste proteine viene utilizzata dalla cellula per un tipo specifico di molecola.

23


Fig.9: rappresentazione di una porzione di membrana plasmatica

I neurotrasmettitori Grazie alle proteine inserite nella membrana le cellule nervose (ma il discorso si può estendere a tutte le cellule dell’organismo) riescono a comunicare tra loro. Questa comunicazione si basa su segnali chimici costituiti da piccole molecole chiamate neurotrasmettitori. Un neurotrasmettitore è un composto chimico in grado di trasportare un’informazione da una cellula nervosa efferente ad un’altra cellula afferente. L’informazione neurotrasmettitoriale non copre lunghe distanze, la sua azione è limitata a un solo meccanismo di trasmissione del segnale, la sinapsi chimica. La sinapsi rappresenta il meccanismo che adotta il sistema nervoso per poter trasmettere l’informazione da un neurone ad un’altra cellula eccitabile. Infatti, nonostante le dimensioni (veramente notevoli se le paragoniamo a quelle delle altre cellule), difficilmente un singolo neurone potrebbe portare l’informazione da un capo all’altro del corpo di un uomo. Ogni sinapsi è composta da due elementi: il terminale assonale della cellula efferente, chiamato neurone presinaptico, e la membrana della cellula ricevente, chiamata neurone postsinaptico. Tra queste due strutture è presente uno spazio definito vallo sinaptico.

24


Fig.10: rappresentazione di una sinapsi

Questo meccanismo, benché presenti delle problematiche legate alla diminuzione della velocità di trasmissione, presenta alcuni vantaggi che lo hanno reso il più diffuso meccanismo di trasmissione dell’informazione nervosa del corpo umano. La possibilità di modulare l’impulso nervoso è, forse, la caratteristica più importante della sinapsi di tipo chimico. L’impulso nervoso che arriva all’elemento presinaptico deve essere trasformato in un messaggio chimico. Come si è già detto, esso è costituito da piccole molecole chiamate neurotrasmettitori, che vengono liberati nel vallo sinaptico in maniera che possano arrivare alla membrana neuronale dell’elemento postsinaptico ove si legano a specifiche proteine chiamate recettori. Con il termine recettore si identifica una proteina, a localizzazione intracellulare o membranale, in grado di cambiare la propria conformazione a seguito dell’interazione con una molecola segnale. La modifica conformazionale si riflette su tutta la proteina attivando una serie di meccanismi intracellulari che permettono alla cellula di rispondere al segnale che le è arrivato. Le risposte cellulari possono consistere nella liberazione di sostanze, nell’aumento dell’attività genetica, nello sviluppo di un impulso nervoso o nel blocco della propagazione dello stesso; ad ogni modo, l’arrivo della molecola segnale modifica profondamente l’attività cellulare, come quella dell’organismo in cui la cellula risiede. I recettori possono funzionare in due differenti modi: agendo essi stessi come un canale, e quindi cambiando la composizione citoplasmatica di determinate sostanze permettendone l’ingresso o l’uscita dalla cellula, oppure attivando una cascata di reazioni all’interno della cellula. Nel primo caso parliamo di recettori ionotropici, nel secondo di recettori metabotropici.

25


pag. 26: manca parte della figura, allego la figura corretta

A

B

Fig.11: Meccanismi recettoriali, A) recettore ionotropico B) recettore metabotropico

Fig.11: Meccanismi recettoriali, A) recettore ionotropico B) recettore metabotropico

pag. 33: nella figura sono spostate le frecce, allego la figura corretta I recettori ionotropici, agendo direttamente sul movimento delle sostanze, assicurano alla cellula una risposta veloce e localizzata; al contrario, quelli metabotropici, dovendo attivare una serie di proteine prima dell’effettore finale, offrono una risposta più lenta ma più generalizzata. Ogni recettore è, per ovvi motivi, strutturato in maniera tale da riconoscere una o pochissime molecole segnale, in modo da poter scatenare la giusta risposta cellulare ad una sollecitazione esterna. La presenza dei recettori, inoltre, permette all’uomo di poter utilizzare molecole simili al messaggero per poter innescare la risposta cellulare anche quando il messaggero non è presente. Su questo principio si basano la maggior parte dei farmaci oggi in commercio. Proprio in base alla risposta cellulare che il farmaco innesca possiamo distinguere due categorie di molecole: da un lato gli agonisti, molecole che legandosi al recettore innescano una risposta identica a quella del messaggero naturale; dall’altro gli antagonisti: molecole che quando si legano al recettore non permettono lo sviluppo della risposta cellulare. In entrambi i casi, agonisti ed antagonisti, i farmaci devono presentare una struttura molto simile a quella della molecola segnale, in modo da potersi legare nel sito del recettore senza problemi. Quindi il comportamento aggressivo può essere analizzato studiando l’interazione tra i recettori dei neuroni presenti nelle strutture anatomiche descritte nel paragrafo precedente e i neurotrasmettitori liberati nelle stesse sedi. Ma cos’è un neurotrasmettitore? Affinché una sostanza possa essere definita un neurotrasmettitore, deve soddisfare sei requisiti fondamentali:

26


1) la sostanza deve essere rinvenibile, a livello delle terminazioni nervose, in concentrazioni adeguate al suo utilizzo. 2) la sostanza non deve trovarsi libera nella cellula presinaptica ma deve essere immagazzinata in vescicole e poi liberata attraverso un meccanismo ben regolato. 3) si devono rinvenire, a livello presinaptico, le molecole implicate nella biosintesi del neurotrasmettitore. 4) la sostanza deve essere in grado di contrarre un legame molto forte con proteine ad attività recettoriale presenti nella membrana dell’elemento postsinaptico. 5) devono esistere meccanismi di stop: inattivazione metabolica e ricaptazione della sostanza, affinché venga impedita una iperstimolazione. 6) devono esistere sostanze, naturali o semisintetiche, in grado di intervenire sul meccanismo neurotrasmettitoriale; bloccandolo, amplificandolo o mimandolo. Un neurotrasmettitore è una molecola in grado di trasportare un’informazione da una cellula nervosa ad un’altra cellula eccitabile. Teoricamente, basterebbero solamente due sostanze ad attività neurotrasmettitoriale: una ad attività eccitatoria e una ad attività inibitoria. In realtà le molecole che possono trasportare l’informazione nervosa sono molte di più; questo per permettere una più precisa differenziazione funzionale delle varie aree del sistema nervoso.

NEUROTRASMETTITORI AMMINE BIOGENE

Catecolamine Indolamine Imidazoliche

ACETILCOLINA

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Dopamina Norepinefrina Epinefrina Serotonina Istamina Acetilcolina


AMMINOACIDI

Eccitatori Inibitori

PROTEINE

Oppioidi

PURINICI

Tachichinine Gastrine Adenosine

GASSOSI

Glutammato GABA Glicina Encefaline Dinorfine Endorfine Sostanza P Colecistochinina ATP AMP CO NO

Tabella 1: classificazione dei principali neurotrasmettitori umani

Tra tutte le molecole ad attività neurotrasmettitoriale, in questo testo verranno trattate solamente quelle implicate nel comportamento aggressivo: il glutammato, il GABA, la glicina, alcune ammine biogene e alcune proteine. Amminoacidi ed ammine biogene Il glutammato è un amminoacido, un componente delle proteine, che nel cervello svolge anche la funzione di neurotrasmettitore eccitatorio. È il neurotrasmettitore utilizzato in alcuni circuiti che escono dall’ipotalamo mediale e sono implicati nei comportamenti aggressivi difensivi. Bloccando l’attività glutammatergica in questi circuiti, infatti, il comportamento aggressivo viene inibito. I recettori a cui si lega il glutammato implicato nel comportamento aggressivo sono chiamati “NMDA”. Attraverso alcuni esperimenti si è scoperto anche che questi stessi recettori sono collegati alle risposte aggressive determinate dall’utilizzo di alcool. In questo modo possono essere spiegati i comportamenti violenti delle persone affette da alcolismo. Un altro neurotrasmettitore, che deriva dal glutammato, implicato nei comportamenti aggressivi, è il GABA (acido γ-ammino-butirrico). Rappresenta il principale amminoacido inibitorio del sistema nervoso centrale, oltre ad essere l’unico neurotrasmettitore prodotto dai neuroni che escono dal cervelletto.

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O HO

O

H2N OH

NH2

CH2

C C COOH H2 H2

GABA

Glutammato Fig.12: glutammato e GABA

Le prove del ruolo del GABA nei comportamenti aggressivi si ottiene facilmente somministrando farmaci che mimano il suo effetto sui recettori. Esistono due classi principali di farmaci “calmanti”, ovvero inibenti il comportamento aggressivo, le benzodiazepine e i barbiturici. I farmaci appartenenti a queste classi si legano al recettore per il GABA andando ad agire come agonisti, rilassando l’individuo e diminuendo il livello di ansia. A questo proposito è importante notare che anche l’alcool, e nello specifico l’etanolo, può legarsi ad alcuni tipi di recettori per il GABA, agendo in maniera simile alle benzodiazepine. I circuiti GABAergici sono presenti a livello dell’ipotalamo mediale, ove rivestono un ruolo importante nel bloccare il comportamento aggressivo originato a livello dell’amigdala. Altri esperimenti hanno individuato neuroni che secernono GABA a livello dell’ipotalamo laterale, dove inibirebbero il comportamento aggressivo predatorio. Le varie parti dell’ipotalamo, però, sono implicate in risposte aggressive differenti, che vengono attivate alternativamente grazie all’azione bloccante del GABA che viene esercitata su di una parte e non sull’altra. Sono stati scoperti dei neuroni secernenti GABA che dall’ipotalamo mediale giungono a quello laterale. La stimolazione della porzione laterale, inoltre, sopprime la risposta comportamentale della parte mediale attraverso i neuroni GABAergici; gli studi che hanno portato a questa scoperta hanno chiarito i rapporti tra i circuiti delle due porzioni ipotalamiche. Questi circuiti sono integrati con quello che connette l’ipotalamo all’amigdala mediale; stimolazioni di questa porzione dell’amigdala, infatti, attivano il comportamento aggressivo-difensivo a livello dell’ipotalamo mediale e bloccano quello offensivo a livello dell’ipotalamo laterale. Le ammine biogene, nonostante le loro basse concentrazioni cerebrali, svolgono un ruolo molto importante nell’organismo; infatti sono coinvolte, in modo più o meno diretto, nella regolazione dei processi comportamentali, cognitivi ed emozionali. Sono molecole che contengono almeno un gruppo amminico e hanno un basso peso molecolare, la loro sintesi parte sempre da una singola molecola amminoacidica. Le ammine biogene più studiate riguardo al compor29


tamento aggressivo vengono suddivise in due gruppi, in base all’amminoacido di partenza: 1. catecolamine: la cui sintesi parte dalla tirosina 2. indolamine: la cui sintesi parte dal triptofano Le catecolamine sono tutte caratterizzate dal possedere un gruppo catecolo nella loro molecola e comprendono: dopamina, norepinefrina ed epinefrina; presenti sia nel sistema nervoso centrale che in quello periferico. La loro importanza è enorme, non tanto per la loro distribuzione (che è limitata a non più di 2 milioni di neuroni), quanto per il fatto che, grazie a questi neurotrasmettitori, il cervello riesce a modulare l’attività di altri neuroni altamente specializzati.

OH HO

R Fig.13: gruppo catecolo Alcune sostanze, che possono indurre reazioni comportamentali di tipo aggressivo, agiscono sui sistemi delle catecolamine. L’amfetamina, una sostanza stupefacente molto diffusa nel mondo occidentale, favorisce la liberazione di dopamina a livello delle terminazioni nervose. Gli effetti stimolanti prodotti da questa sostanza, infatti, vengono attribuiti prevalentemente all’aumento di liberazione di dopamina. Anche la cocaina, un principio attivo utilizzato come stupefacente ed estratto dalle foglie di coca, agisce sulla dopamina aumentandone la concentrazione nello spazio intersinaptico. A differenza dell’amfetamina, però, la cocaina agisce su di una proteina che trasporta il neurotrasmettitore che non si lega ai recettori, bloccandola ed impedendo la ricaptazione della catecolamina. In questo modo la quantità di dopamina nello spazio sinaptico rimane elevata causando una forte stimolazione dopaminergica. La dopamina è presente in un piccolo numero di neuroni encefalici. Nonostante ciò, più della metà del contenuto in catecolamine del sistema nervoso centrale è costituito da questo neurotrasmettitore. Questa molecola è implicata nel coordinamento motorio (bisogna ricordare che una diminuzione del numero di neuroni dopaminergici, dovuta a traumi o patologie neurodegenerative, porta al morbo di Parkinson) e nelle funzioni emozionali, è legata 30


alla regolazione del comportamento sessuale ed alimentare. Bassi livelli di dopamina sono implicati nei fenomeni depressivi, un gruppo abbastanza comune di antidepressivi (IMAO), infatti, agisce bloccando gli enzimi coinvolti nel catabolismo della dopamina. Alti livelli di dopamina, invece, sono alla base della schizofrenia, che viene curata inibendo i recettori per questo neurotrasmettitore. Studi effettuati sul gatto hanno dimostrato che un determinato tipo di recettore dopaminergico, chiamato D2, situato a livello dell’ipotalamo mediale, se stimolato, attiva e potenzia un comportamento aggressivo sia di tipo offensivo sia difensivo. A conferma di tali studi, somministrando a soggetti umani farmaci antagonisti della dopamina che si legano al recettore D2 si è ottenuta la riduzione, fino all’eliminazione, del comportamento aggressivo. Studi più recenti, però, hanno evidenziato il coinvolgimento di un’altra catecolamina, la norepinefrina (chiamata anche noradrenalina). Questa molecola, sintetizzata proprio dalla dopamina, svolge una funzione modulatrice a livello dell’ipotalamo mediale, e più specificatamente a livello di un tipo specifico di recettore, l’α2.

HO

NH2

NH2

dopamina-beta-idrossilasi

HO

OH

O2

H2O

HO

OH

Norepinefrina

Dopamina

Fig.14: biosintesi della norepinefrina a partire dalla dopamina

Oltre alle catecolamine, un ruolo importante nella modulazione del comportamento aggressivo è svolto da un’indolamina, la serotonina. Quesa molecola viene prodotta a partire da un amminoacido che l’organismo deve ricavare dagli alimenti che ingerisce, il triptofano. I pochi corpi cellulari che la producono si trovano nei nuclei del rafe nel ponte e nel tronco cerebrale, ma quasi ogni zona del sistema nervoso centrale riceve le terminazioni degli assoni serotoninergici. 31


NH

OH

O

O

O N

NH2

TRYPTOPHAN

N OH2

+

H

5-HTP

NH

CO2 OH

O N SEROTONIN

Fig.15: biosintesi della serotonina a partire dall’amminoacido triptofano

La serotonina è, infatti, implicata nella regolazione di moltissime funzioni del corpo, sia fisiologiche in senso stretto, sia comportamentali. L’attivazione del sistema serotoninergico è coinvolta nella regolazione di diversi comportamenti, svolge un ruolo importante nella modulazione dell’umore, dell’appetito, della rabbia, dell’aggressività, della temperatura corporea, della memoria e dell’apprendimento, del sonno, del comportamento sessuale e nella modulazione del dolore. A livello del comportamento aggressivo si sono svolti svariati studi che hanno evidenziato un ruolo di primo piano per questa molecola (tra i tanti si ricordano quelli di Romaniuk, 1987, e Kung,1994). Lavorando a livello recettoriale, si è potuto osservare un decremento del comportamento aggressivo a seguito di un incremento dell’attività dei recettori serotoninergici cerebrali. Sul campo opposto, una distruzione dei neuroni produttori di serotonina ha portato a un aumento della condotta aggressiva nel gatto. Alcuni studi sono stati effettuati anche sull’uomo, analizzando le quantità di un composto, l’acido 5 idrossiindolacetico, che deriva dalla degradazione della serotonina. Nel momento in cui questa molecola viene liberata nel vallo sinaptico, infatti, una parte non arriva ai recettori postsinaptici ma si disperde nel liquido cefalorachidiano che circonda l’encefalo, qui viene degradata ad acido 5 idrossiindolacetico che si riversa nel sangue per l’eliminazione attraverso le urine. Le quantità di questo acido, quindi, possono fornire informazioni riguardo alle quantità di serotonina prodotte dall’organismo.

32


urina Fig.16: schematizzazione del percorso attraverso attraverso l’organismol'organismo dell’acido 5 idrossiindolacetico Fig.16: schematizzazione del percorso dell'acido 5

idrossiindolacetico

urina

di acido 5 idrossiindolacetico basse possono essere collegate a compag.Quantità 33: manca tabella, la allego percorso attraverso Fig.16:laschematizzazione l'organismo dell'acido 5 portamenti aggressivi rivoltidelverso gli altri o verso se stessi; diversi studi, inidrossiindolacetico fatti, hanno dimostrato una quantità sensibilmente ridotta di questa molecola sia negli individui soggetti a custodia cautelare per crimini violenti, aggressio12 ne, stupro, violenza domestica, sia nei soggetti che hanno tentato il suicidio. È pag. 33: manca la tabella, la allego stato anche notato che la quantità dell’acido 5 idrossiindolacetico contenuto 10 nel liquido cefalorachidiano decresce col crescere dei tentativi di suicidio. 12

8 10 quantità di acido 5 idrossiindolacetico

6 8

4 quantità di acido 5 idrossiindolacetico

6

2 4

0 2 nessun tentativo

1 tentativo

2 tentativi

3 tentativi

0 nessun tentativo

1 tentativo

2 tentativi

3 tentativi

Tabella 2: rapporto tra concentrazioni di acido 5 idrossiindolacetico e tentativi di Tabella 2: rapporto tra concentrazioni disuicidio acido 5 idrossiindolacetico e tentativi di suicidio Tabella 2: rapporto tra concentrazioni di acido 5 idrossiindolacetico e tentativi di

In realtà le attività dei recettori suicidio serotoninergici sono molto più complesse, la loro attività inibente il comportamento aggressivo è legata solamente ad alcuni tipi recettoriali, che agiscono attraverso un meccanismo complesso che permette il controllo dei comportamenti pericolosi per l’organismo, tra cui quello aggressivo. 33


In molti esperimenti, però, a causa delle difficoltà strumentali viene misurato il contenuto di serotonina o dell’acido 5 idrossiindolacetico in aree molto vaste, in cui solamente alcuni gruppi neuronali sono effettivamente coinvolti nel comportamento aggressivo. Quindi i risultati potrebbero essere falsati dal fatto che in queste aree sono localizzati differenti tipi di recettori serotoninergici, quindi la serotonina potrebbe svolgere differenti funzioni, e solo in aree molto più limitate regolare il comportamento aggressivo. A seguito di misurazioni dell’attività recettoriale nel ratto, si è scoperto che i recettori implicati nella modulazione negativa, e quindi nell’inibizione del comportamento aggressivo sono i recettori 5HT2A e 5HT2B, che parallelamente inducono una forte inattività nell’organismo, e quelli 5HT1A e 5HT1B, che svolgono il loro ruolo senza controindicazioni. Proteine Oltre alle molecole di piccole dimensioni esaminate fino ad adesso, esistono alcune molecole di grandi dimensioni, proteine, che svolgono un ruolo importante nella modulazione del comportamento aggressivo difensivo. La prima proteina che viene presa in esame è la sostanza P, che regola il comportamento aggressivo interagendo con il suo recettore, chiamato NK-1. Tra le attività di questo neuropeptide è importante ricordare anche la modulazione dell’istinto dolorifico, spesso collegato a comportamenti aggressivi difensivi. Recettori per questa sostanza si ritrovano in tutte le aree cerebrali coinvolte, direttamente o indirettamente, nel comportamento aggressivo. Grandi quantità si ritrovano a livello dell’ipotalamo mediale, ma anche a livello dell’amigdala (soprattutto nei circuiti che la collegano all’ipotalamo mediale) e delle corteccie. Si può quindi ipotizzare che la sostanza P sia parte integrante del sistema inibitorio che dall’ipotalamo mediale arriva a quello laterale. L’altro neuropeptide che svolge un ruolo nel comportamento aggressivo è la colecistochinina, una proteina prodotta a partire dalla preprocolecistochinina, che viene tagliata a livello cerebrale per produrre la proteina “matura” di otto amminoacidi. È proprio questo taglio a rendere la colecistochinina cerebrale differente da quella circolante nel resto dell’organismo, che può essere più lunga o più corta ma mai di uguale lunghezza. I recettori encefalici per questa sostanza si trovano anche a livello ipotalamico, corticale e nell’amigdala e sembrerebbero coinvolti nell’attivazione del comportamento aggressivo di natura difensiva, anche se gli studi in questo ambito sono ancora in corso e non hanno fornito risultati definitivi. Sicuramente la colecistochinina è coinvolta nei meccanismi che originano i fenomeni ansiosi, ed è proprio la compenetrazione tra questi meccanismi e quelli alla base del comportamento aggressivo-difensivo che spinge la ricerca attuale a considerare questa molecola come parte del circuito alla base del comportamento aggressivo. 34


L’ultimo gruppo di neurotrasmettitori che verranno presi in considerazione in questo capitolo è un gruppo di proteine ad attività neuromodulatoria, gli oppioidi endogeni. A questo gruppo appartengono alcune molecole implicate prevalentemente nei sistemi del dolore e in quello della ricompensa, le encefaline, le endorfine e le dinorfine. Purtroppo riguardo al coinvolgimento di queste molecole nei comportamenti di tipo aggressivo ancora non si è riusciti a dare una conferma definitiva. Alcuni studi hanno individuato alcune aree del sistema limbico come bersaglio, legato all’inibizione del comportamento aggressivo, di alcuni oppioidi. Queste aree, tra cui vi è il nucleus accumbens, possiedono tutte specifici tipi di recettori per gli oppioidi che si pensa siano fondamentali per la modulazione del comportamento aggressivo. La stimolazione degli oppioidi sarebbe coinvolta anche nel meccanismo di inibizione dell’ipotalamo da parte dell’amigdala. Questo circuito porta al blocco del comportamento aggressivo-difensivo. In questo modo i collegamenti tra amigdala e ipotalamo risulterebbero molto più complessi, legati a molti più circuiti neurotrasmettitoriali che interagiscono tra di loro in un sistema di attivazioni e inibizioni reciproche.

1.4 Dal sistema nervoso al resto dell’organismo: gli ormoni e l’aggressività Nei paragrafi precedenti sono state esaminate le strutture cellulari ed anatomiche del sistema nervoso coinvolte nel comportamento aggressivo. Il sistema nervoso, però, non è l’unica parte dell’organismo che regola questo tipo di comportamento. Esistono, nel nostro corpo, una serie di sostanze chiamate ormoni. Si tratta di sostanze che viaggiano nel sangue agendo a distanza e, in questo modo, permettono l’interazione tra cellule distanti. Sono veri e propri messaggeri chimici, perché trasportano informazioni riguardanti la regolazione di particolari processi metabolici. Per consentire una loro rapida distribuzione, gli ormoni, che vengono prodotti da particolari ghiandole chiamate endocrine, vengono riversati nel sistema circolatorio e diffusi in tutto l’organismo. Gli ormoni possono essere classificati in base alla struttura chimica in: o Idrosolubili o Liposolubili Il trasporto degli ormoni idrosolubili avviene in forma libera, viaggiano sciolti nel plasma; quello degli ormoni liposolubili, invece, avviene tramite proteine plasmatiche. Gli ormoni liposolubili vengono legati appena immessi nel cir35


colo sanguigno, si slegano solo avanti alla cellula bersaglio; tante più cellule bersaglio avranno bisogno di ormoni, tanto più questi arriveranno tramite il circolo sanguigno. Il legarsi a proteine fa sì che gli ormoni liposolubili non vadano persi nei reni (le loro dimensioni non permettono il passaggio attraverso il filtro renale) come avviene per quelli idrosolubili, e quindi hanno una vita più lunga. A seconda del tipo di ormone, varia anche il meccanismo di azione: gli idrosolubili si attaccano ad un recettore extracellulare, quelli liposolubili a uno intracellulare. Questi recettori sono proteine composte da due parti, una riconosce l’ormone, l’altra svolge un dato tipo di funzione. In realtà il sistema endocrino non svolge le sue funzioni in maniera completamente autonoma. Come nel resto dell’organismo, è il sistema nervoso a regolare la funzionalità di questo apparato; che si esplica prevalentemente a livello ipotalamico. Questa struttura diencefalica, infatti, è direttamente connessa con una piccola ghiandola che nell’adulto non supera i 0,6g di peso, l’ipofisi. Nella parte superiore, l’ipofisi si collega con l’ipotalamo attraverso una sottile striscia di tessuto nervoso chiamata peduncolo ipofisario. È attraverso questa stretta lingua di carne che l’ipotalamo stimola l’ipofisi a secernere ormoni; questi hanno come cellule bersaglio le varie ghiandole endocrine dell’organismo: tiroide, surrenali, pancreas, gonadi etc. Tra gli ormoni rilasciati dalle ghiandole del corpo umano, un ruolo importante nella regolazione del comportamento aggressivo è svolto dagli ormoni sessuali, appartenenti al gruppo degli ormoni steroidei. Molti di questi ormoni vengono prodotti, a partire dal colesterolo, nelle gonadi e nella corticale del surrene. Colesterolo → Progesterone → Androgeni (androstenedione e testosterone) → Estrogeni In tutti e due i sessi la produzione e la secrezione di questi ormoni è promossa dall’ormone follicolo-stimolante (FSH) e dall’ormone luteinizzante (LH), entrambi sintetizzati nell’ipofisi anteriore a seguito della stimolazione da parte dell’ormone rilasciante le gonadotropine (GnRH) prodotto dall’ipotalamo. Gli ormoni sessuali esercitano un feedback negativo sull’ipotalamo e sull’ipofisi anteriore.

36


sull’ipofisi
anteriore.

ipotalamo GnRH

ipofisi

FSH, LH

gonadi

Ormoni sessuali

Fig.17: schematizzazione dei maccanismi che sottendono al rilascio degli ormoni sessuali

Il testosterone, prodotto e secreto dalle cellule di Leydig, è il più importante ormone sessuale maschile. Questo steroide determina, insieme agli androgeni, lo sviluppo dei caratteri sessuali primari dell’embrione, i testicoli, e la comparsa di quelli secondari nell’individuo nato. Contribuiscono anche all’accrescimento ed alla sintesi proteica. Questo ormone, inoltre, aumenta i livelli di aggressività nei maschi di molte specie animali, uomo incluso. Come tutti gli ormoni steroidei, anche il testosterone riesce a circolare nel torrente sanguineo legandosi a specifiche proteine che ne aumentano il grado di solubilità. Queste proteine, inoltre, inibiscono l’azione dell’ormone garantendo il suo arrivo alla cellula bersaglio; è solo la molecola libera, infatti, a poter svolgere la sua funzione. Il ruolo del testosterone nel comportamento aggressivo è facilmente evidenziabile in laboratorio: castrando un maschio di topo (e quindi bloccando la produzione di testosterone) si osserva immediatamente una riduzione dell’aggressività territoriale. Nonostante questo ormone caratterizzi gli individui di sesso maschile, anche 37


nelle femmine si osservano, nel corso dell’anno col progredire dei cicli mestruali, vari picchi di concentrazione del testosterone. Nei mammiferi, il ciclo è composto da due fasi, follicolare e luteinica. In quella follicolare, l’ormone FSH induce lo sviluppo dei follicoli ovarici; l’ormone LH, invece, induce la sintesi e la secrezione degli androgeni ovarici da parte della teca interna dell’ovario. L’FSH, inoltre, stimola la produzione di un enzima che converte gli androgeni ovarici in estrogeni, in questa maniera si alzano i livelli Fig.17:
schematizzazione
dei
maccanismi
che
sottendono
al
rilascio
degli
ormoni
sessuali
 di estrogeni; questi attivano un meccanismo di feedback positivo sull’ipotalamo e sull’ipofisi in maniera da avere 
 maggior rilascio di FSH (che accelera la maturazione dei follicoli) e di LH (che causerà, a maturazione, il rilascio dell’uovo). Durante la fase luteinica, diminuisce la secrezione di estrogeni l
 testosterone,
 prodotto
 e
 secreto
 dalle
 cellule
 di
 Leydig,
 è
 il
 più
 importante
 ormone
 sessuale
 maschile.
 e l’LH trasforma il follicolo rotto in corpo luteo; questo rilascia estrogeni e Questo
steroide
determina,
insieme
agli
androgeni,
lo
sviluppo
dei
caratteri
sessuali
primari
dell’embrione,
 progesterone. Questi ormoni attivano un feedback negativo sull’ipotalamo, testicoli,
e
la
comparsa
di
quelli
secondari
nell’individuo
nato.
Contribuiscono
anche
all’accrescimento
ed
 in modo da diminuire i livelli di FSH (la sua produzione viene inibita anche alla
sintesi
proteica.

 dall’inibina) ed LH. Se non avviene la fecondazione, il corpo luteo degenera, Questo
ormone,
inoltre,
aumenta
i
livelli
di
aggressività
nei
maschi
di
molte
specie
animali,
uomo
incluso.
 così diminuisce la produzione di estrogeni e progesterone e si ha la mestruaCome
tutti
gli
ormoni
steroidei,
anche
il
testosterone
riesce
a
circolare
nel
torrente
sanguineo
legandosi
a
 zione, infatti la caduta del tasso di
 di solubilità.
 questi ormoni causa lo sfaldamento della pecifiche
 proteine
 che
 ne
 aumentano
 il
 grado
 Queste
 proteine,
 inoltre,
 inibiscono
 l'azione
 mucosa dell’utero che viene espulsa all’esterno dell’organismo. A questo pundell'ormone
garantendo
il
suo
arrivo
alla
cellula
bersaglio;
è
solo
la
molecola
libera,
infatti,
a
poter
svolgere
 a
sua
funzione.
to cessano i feedback negativi sull’ipofisi, si rilasciano FSH ed LH ed inizia un nuovo ciclo. l
ruolo
del
testosterone
nel
comportamento
aggressivo
è
facilmente
evidenziabile
in
laboratorio:
castrando
 un
 maschio
 di
 topo
 (e
 quindi
 bloccando
 la
 produzione
 di
 testosterone)
 si
 osserva
 immediatamente
 una
 iduzione
dell'aggressività
territoriale.
 Ormoni

ovulazione

Estrogeni Progesterone Giorni 15 Fig.18:
variazioni
di
concentrazioni
degli
ormoni
durante
il
ciclo
mestruale
 Fig.18: variazioni di concentrazioni degli ormoni durante il ciclo mestruale

e,
 invece,
 abbiamo
 la
 fecondazione,
 la
 placenta
 che
 si
 sviluppa
 produce
 e
 rilascia
 la
 gonadotropina
 orionica,
 che
 induce
 un
 ulteriore
 accrescimento
 del
 corpo
 luteo,
 quindi
 aumenta
 la
 produzione
 di
 estrogeni
e
progesterone.
In
questo
modo
si
blocca
la
produzione
di
FSH
ed
LH
evitando
la
degenerazione
 38 del
corpo
luteo
e
una
nuova
ovulazione
(si
blocca
il
ciclo
mestruale).


Se, invece, abbiamo la fecondazione, la placenta che si sviluppa produce e rilascia la gonadotropina corionica, che induce un ulteriore accrescimento del corpo luteo, quindi aumenta la produzione di estrogeni e progesterone. In questo modo si blocca la produzione di FSH ed LH evitando la degenerazione del corpo luteo e una nuova ovulazione (si blocca il ciclo mestruale). Durante la settimana precedente all’ovulazione, nelle donne aumentano gli episodi di violenza. Inoltre sono stati riscontrati valori ematici di testosterone più elevati nelle donne caratterizzate da un comportamento aggressivo più marcato.

CH3

OH

CH3

O Fig. : molecola di testosterone

Elevati livelli di testosterone, però, risultano necessari ma non sufficienti allo sviluppo di un comportamento aggressivo offensivo, questo ormone risulta essere un potenziatore del comportamento aggressivo, ma non un generatore. Topi che non mostrano un elevato comportamento aggressivo rimangono “tranquilli” anche dopo la somministrazione di testosterone. Al contrario, topi con un comportamento aggressivo, dopo castrazione e successiva somministrazione di testosterone presentano un aumento dei livelli di aggressività. Oltre al testosterone sono stati esaminati anche gli androgeni ed altri ormoni sessuali, portando a risultati spesso contrastanti e mai definitivi, al punto da non poter affermare con sicurezza il loro coinvolgimento diretto nei meccanismi aggressivi offensivi. In realtà gli effetti degli ormoni sessuali non sono univoci e sempre uguali. Diversi studi hanno dimostrato che variano col variare dell’età dei soggetti interessati dagli studi. Dipendono anche dalla specie: salendo lungo la scala evolutiva si nota una diminuzione degli effetti di queste sostanze. A quanto detto si deve aggiungere una notazione importante: gli ormoni, viaggiando nel sangue, si disperdono su una vasta porzione di organismo, attivando molteplici organi che possono concorrere alle modificazioni comportamentali osservate in maniere non ancora chiare. In ultima analisi va ricordato anche il ruolo che svolgono determinate proteine specifiche di alcune parti dell’organismo: queste possono reagire con l’ormone modificandone la struttura e la funzione. 39


1.5 ...Concludendo Molti degli studi neurobiologici volti a chiarire i meccanismi nervosi alla base del comportamento aggressivo sono stati effettuati tramite principi farmacologicamente attivi. L’utilizzo di farmaci, però, non deve trarre a facili conclusioni sul contenimento del comportamento aggressivo e su una possibile “cura” del bullismo. Prima di tutto bisogna ricordare che, come per i farmaci antidepressivi, una terapia farmacologica non è mai la copertura del problema. Quasi sempre costituisce, grazie al rapido miglioramento che può portare, solamente il primo passo. A questo è opportuno far seguire un’adeguata psicoterapia in maniera da riuscire a sradicare completamente il problema. Il ruolo degli studi neurobiologici è stato quello di individuare una visione multifattoriale dell’origine di questo comportamento fornendo una mappa, ancora incompleta, dei territori cerebrali interessati. A questo proposito si spera che in un prossimo futuro gli studi, grazie all’utilizzo di macchinari sempre più potenti e precisi, riescano a completare la mappatura encefalica di uno tra i comportamenti più antichi ed al tempo stesso più attuali della natura umana.

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Cap. 2 Il bullismo: il punto di vista psicologico di Gessica De Cesare 2

2.1 Introduzione Il comportamento disciplinare degli alunni delle scuole italiane, da qualche anno, tiene banco sui mezzi di informazione, a causa soprattutto di alcuni gravi episodi che hanno allarmato l’opinione pubblica ed indotto il Ministero della Pubblica Istruzione ad assumere iniziative di contrasto al fenomeno, come la creazione degli Osservatori sul bullismo, l’istituzione di un numero verde antibullismo, la modifica dello Statuto delle studentesse e degli studenti di scuola secondaria. Il bullismo costituisce una violazione dei diritti umani fondamentali, come quello di essere rispettati e di crescere liberi e sicuri, ed è responsabilità morale degli adulti assicurare che questi diritti siano garantiti. Esso può essere considerato un problema di salute pubblica a livello internazionale, che richiede interventi efficaci fondati sulle conoscenze scientifiche più aggiornate, sia per la rilevante incidenza del fenomeno, sia per le numerose conseguenze negative, a breve e lungo termine, per il benessere e l’adattamento personale e sociale dei bambini e dei ragazzi coinvolti. Una importante caratteristica di questo fenomeno sociale è la sua dimensione relazionale, piuttosto che comportamentale di un singolo individuo; ciò giustifica l’esistenza di numerosi progetti di intervento antibullismo che seguono un approccio ecologico e sistemico, in grado di promuovere cambiamenti nel clima generale della scuola, nelle norme e nei valori del gruppo, invece di focalizzarsi esclusivamente sugli studenti bulli e vittime.

2.2 Cos’è il bullismo? Aspetti psicologici ed educativi Da quando, nel 1995, Ada Fonzi in un articolo denunciò la forte presenza in Italia del fenomeno del bullismo, la tematica ha avuto grande risonanza: in pochi anni è stata condotta una ricerca3 che ha permesso di conoscere l’entità del fenomeno in modo più accurato, oltre che progettare e perfezionare interventi a scopo preventivo o diretti ai soggetti coinvolti. 2

Gessica De Cesare è Psicoterapeuta, Psiconcologa, Coordinatore Psicologo presso Croce Rossa Italiana. 3

Fonzi, A., Il bullismo in Italia. Il fenomeno delle prepotenze a scuola dal Piemonte alla Sicilia. Ricerche e prospettive d’intervento, Giunti, Firenze, 1997

43


I mass media hanno dato più risalto a tale fenomeno portando alla luce fatti spesso sottovalutati o non presi in considerazione per omertà; insegnanti e genitori hanno chiesto maggiori informazioni e strumenti per intervenire e sono stati organizzati diversi momenti formativi riguardanti tale tematica. Questa mobilitazione, oltre ad aver sensibilizzato la popolazione nei confronti del bullismo, ha portato, in alcuni casi, ad una reazione di allarmismo. Sono iniziati interventi a volte “selvaggi”, non legati alle esigenze reali, ma decisi a priori dai responsabili e condotti senza una progettualità ed una metodologia opportuni. Tale modalità d’intervento è stata la reazione ad un atteggiamento caratterizzato spesso da indifferenza, posizioni non prese, soccorsi non dati e sottovalutazione del fenomeno. Se l’indifferenza ha permesso all’aggressore di perpetuare il suo comportamento che, anche se non condiviso, trovava nel silenzio un tacito assenso, un intervento non pianificato, casuale ed incostante, può solo aumentare il disorientamento dei ragazzi coinvolti, di quelli spettatori e degli adulti, radicando nella loro mente il messaggio di impossibilità di poter cambiare le cose. Il problema delle prepotenze è sicuramente di origine antica, ma solo recentemente ha ricevuto una particolare attenzione, diventando oggetto di studio. L’autore, in ambito internazionale, che più a lungo ha studiato il bullismo è il norvegese Dan Olweus, il quale fin dalle sue prime ricerche, condotte negli anni settanta in Norvegia, ha iniziato a delineare il fenomeno, giungendo all’attuale definizione: “uno studente è oggetto di azioni di bullismo, ovvero è prevaricato o vittimizzato, quando viene esposto, ripetutamente nel corso del tempo, alle azioni offensive messe in atto da parte di uno o più compagni”. Un’azione si definisce offensiva quando una persona infligge intenzionalmente o arreca un danno attraverso ripetuti e frequenti comportamenti negativi. Tra le parti coinvolte nel fenomeno esiste uno squilibrio di tipo fisico o numerico, in modo tale che la vittima risulti sempre svantaggiata rispetto al suo carnefice. Il bambino/ragazzo prevaricato, infatti, è generalmente contraddistinto da una maggiore vulnerabilità, in quanto, ma non sempre, è fisicamente più debole rispetto al bullo, è più timido e meno capace di difendersi efficacemente dagli attacchi e dalle molestie del bullo ed è usualmente isolato e poco considerato dai compagni di classe. Nel complesso il bullismo rappresenta un abuso sistematico di potere da parte del ragazzo che si rende autore di prepotenze ai danni di uno o più compagni di scuola. È possibile riconoscere come “prepotenza” qualunque aggressione, esplicita o nascosta, qualunque umiliazione od intimidazione perpetrata da uno o più bambini/ragazzi ai danni di uno o più compagni. 44


Le prepotenze possono essere poste in essere da singoli alunni, ma generalmente vedono il coinvolgimento del gruppo dei compagni, che operano a sostegno del bullo, o partecipando attivamente alla prevaricazione o isolando la vittima e mostrandosi indifferenti nei suoi confronti. Talvolta il gruppo viene manipolato dal prepotente affinché più compagni partecipino alle prepotenze o molestino la vittima al posto del bullo (bullismo relazionale). Gli atti di bullismo avvengono prevalentemente entro o nei dintorni del contesto scolastico, tuttavia in misura crescente le prepotenze vengono riportate nel contesto virtuale di internet (ad esempio attraverso la pubblicazione in rete di filmati che riprendono le prevaricazioni) o vengono messe in atto per mezzo delle tecnologie (uso di sms, chat-line, e-mail).In queste situazioni si parla di cyberbullying. Il bullo tipo può essere tanto di sesso maschile che femminile e alla distinzione sessuale si associa la differenza tra bullismo verbale o fisico e tra bullismo mentale o psicologico. Il primo è più frequente nei gruppi maschili, il secondo in quelli femminili. Il bullismo può essere individuale o di gruppo cioè agito da due o più prevaricatori oppure relazionale ovvero che utilizza il gruppo come strumento di attacco. Le prepotenze possono essere di tre tipologie: - dirette, agite mediante molestie esplicite: spintoni, calci, schiaffi, pestaggi,furti, danneggiamento di beni personali,offese, prese in giro, denigrazioni (anche a connotazione sessuale o connesse all’appartenenza a minoranze etniche o religiose o alla presenza di handicap),minacce, estorsioni; - indirette, agite mediante molestie nascoste: diffusione di storie non vere ai danni di un/a compagno/a;esclusione di un/a compagno/a da attività comuni (scolastiche o extrascolastiche) -Cyberbullying, molestie attuate attraverso strumenti tecnologici: invio di sms, mms, e-mail offensivi/e o di minaccia,diffusione di messaggi offensivi ai danni della vittima, attraverso la divulgazione di sms o e-mail nelle mailing-list o nelle chat-line,pubblicazione nel cyberspazio di foto o filmati che ritraggono prepotenze o in cui la vittima viene denigrata. Anche una sola prepotenza costituisce un indicatore di disagio entro il gruppo classe, disagio che si configura esplicitamente come bullismo al ripresentarsi delle molestie (già due prevaricazioni, anche di diverso tipo, denotano la presenza di bullismo nel gruppo-classe). Riassumendo, possono essere individuati quali elementi qualificanti l’azione di bullismo: o intenzionalità (intenzione di arrecare un danno all’altro); o persistenza (carattere di continuità nel tempo); 45


o disequilibrio (relazione di tipo asimmetrico tra i partner; la vittima è in una situazione di impotenza). Alla fine degli anni Ottanta, il fenomeno è stato preso in considerazione dall’opinione pubblica e dagli studiosi di diverse Paesi, tra cui Giappone, Gran Bretagna, Paesi Bassi, Australia, Canada, Stati Uniti, Italia. Dalle ricerche svolte4 si possono trarre alcune conclusioni generali: o fanno e subiscono prepotenze più i maschi che le femmine; o sono le femmine ad agire modalità di prevaricazione più sottili, “raffinate” ed indirette; o il bullo tende ad essere più grande della vittima; o i modelli comportamentali della relazione bullo-vittima sono stabili nel tempo (avviene una sorta di presa di ruolo all’interno delle relazioni che permette all’individuo stesso il riconoscimento della propria identità). In Italia la presenza di questo fenomeno risulta essere molto più marcata rispetto ad altri Paesi: le caratteristiche culturali possono probabilmente essere una risposta alla domanda dell’elevata incidenza di questo fenomeno5. Il maggior numero di prepotenze denunciate o riconosciute da chi le compie, potrebbe essere legato al fatto che nel nostro Paese il conflitto è più tollerato perché conduce meno facilmente alla rottura dei rapporti tra le parti in causa. Sarebbe proprio la ridotta rilevanza data al dissidio a renderlo più facilmente denunciabile. I bambini italiani risultano essere più flessibili nel gestire la risoluzione dei conflitti, tollerando maggiormente le manchevolezze degli amici. Inoltre, forme di violenza più ricorrenti, come quelle verbali, sono considerate meno invasive e negative , facendo parte delle forme di umorismo molto diffuse in alcune regioni. Il numero delle aggressioni di tipo fisico diminuisce in modo sensibile con il passaggio alla scuola media, mentre rimangono elevate quelle verbali ed aumentano quelle indirette (come calunniare l’altro). Questo fa comprendere come al crescere dell’età non si ha l’estinzione del fenomeno, ma un suo cambiamento qualitativo: da forme di prevaricazione più visibili e plateali ad altre più sottili e raffinate. Tale sensibile riduzione del fenomeno nel passaggio dalla scuola elementare alla media è dovuta al fatto che il bullismo si presenta generalizzato durante la fanciullezza , ma perde questa caratteristica nel periodo della pubertà, in cui i ruoli di bullo e vittima

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Olweus, D., Bullying at school: long-term outcomes for the victims and an effective school based intevention program, in Huesmann, L. R., Aggressive behaviour: current perspectives, Plenum, New Yoork, 1994. 5

Fonzi, A., Il gioco crudele. Studi e ricerche sui correlati psicologici del bullismo,

Giunti, Firenze, 1999.

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si consolidano nel tempo.

2.3 Cosa non è bullismo? Prepotenza e reato. Una categoria di comportamenti non classificabili come bullismo (pur avendo con questo in comune le motivazioni iniziali, i destinatari, le condizioni in cui si manifestano) è quella degli atti particolarmente gravi, che si configurano come veri e propri reati. Aggressioni fisiche violente, utilizzo di armi o oggetti pericolosi, minacce gravi, molestie o abusi sessuali sono condotte che rientrano nella categoria dei comportamenti antisociali e devianti e non sono definibili come “bullismo”. In questi casi la scuola non può agire da sola ma deve appoggiarsi alle istituzioni del territorio. Prepotenza e scherzo. Il limite tra prepotenza e scherzo è poco definito, tuttavia un punto di riferimento chiaro per discernere tra prepotenza e gioco è costituito dal disagio della vittima. Ricordando che per meccanismi psicologici di giustificazione ed auto-giustificazione spesso il bullismo viene presentato dai prepotenti e dai loro compagni come azione scherzosa, ogni qual volta il bambino/ragazzo che subisce la situazione esprime con parole o atteggiamenti di essere in difficoltà è possibile ravvisare l’evento come un episodio di prepotenza. A tale riguardo, è utile ricordare che bambini e ragazzi valutano come prepotenti od umilianti condizioni ed atti che non sempre vengono percepiti come gravi da parte degli adulti. I vissuti dei ragazzi coinvolti, pertanto, costituiscono i principali indicatori per l’individuazione di singole prepotenze e di situazioni di bullismo.

2.4 Caratteristiche del bullo Il tratto distintivo è l’aggressività, abitualmente verso i coetanei e, occasionalmente e in condizioni di presunta impunità, anche verso gli adulti. Il bullo crede di poter dimostrare non solo superiorità fisica, ma intelligenza, furbizia, capacità di dominare le persone e le situazioni. L’aggressività viene utilizzata da questi soggetti per soddisfare il proprio bisogno di dominio sugli altri ed è aggravata da un atteggiamento positivo nei confronti della violenza nelle sue diverse forme. I bulli, infatti, manifestano un’opinione positiva verso di sé, non percepiscono la connotazione negativa delle loro azioni. Inoltre, appaiono indifferenti alle condizioni di sofferenza in cui pongono le loro vittime manifestando scarsa empatia nei loro confronti6. Contrariamente a quanto si crede, il bambino prepotente ha un livello di ansia e insicurezza particolarmente basso, generalmente non presenta problemi di 6

Olweus, D., Aggression in the school: bullies and whipping boys, Wiley, New York, 1978.

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autostima e ha un temperamento attivo-impulsivo, spesso abbinato a fattori di educazione familiare che rimandano in prevalenza all’anaffettività, al permissivismo, all’autoritarismo e alle punizioni fisiche. I bulli, nelle relazioni con i coetanei, risultano avere una popolarità nella media; quest’ultima, però, tende a ridursi con l’età, nel passaggio dalla scuola elementare alla media: una possibile spiegazione di tale cambiamento può essere legata all’acquisizione delle capacità di valutare negativamente il comportamento prevaricatore. Alcuni studiosi hanno riscontrato che ragazzi di scuola media dichiarano la sgradevolezza di tali comportamenti, più dei bambini di scuola elementare. I dati italiani non concordano con quelli europei, a proposito della contenuta popolarità dei prevaricatori; è emerso, infatti, che i bulli godono di una buona reputazione e di un ampio sostegno da parte degli altri. L’azione prevaricatrice di tali soggetti tende a perpetrarsi grazie all’ottenimento di benefici concreti, come sigarette, denaro ed altri oggetti ricevuti dalle stesse vittime, ed, infine, di prestigio agli occhi dei complici spettatori. Il bullo è caratterizzato da un modello reattivo aggressivo, associato alla forza fisica�. Indicatori del bullo: • Ha preso in giro pesantemente i compagni e/o li ha ridicolizzati • Ha intimidito, minacciato uno o più compagni • Ha umiliato e/o comandato a bacchetta uno o più compagni • Ha picchiato, spinto, aggredito fisicamente i compagni non per gioco • È coinvolto in liti e scontri • Ha danneggiato, rubato, sparso in giro o nascosto oggetti di altri studenti • Se la è presa con uno o più compagni più deboli o indifesi • Durante i momenti di interazione libera tra pari (intervallo, mensa), ha isolato uno o più compagni • Ha diffuso voci non vere sul conto di uno o più compagni • Ha provocato o si è contrapposto esplicitamente al personale docente o non docente della scuola L’elevata frequenza di comparsa di due o più indicatori segnala una situazione di più forte rischio di bullismo reiterato. La presenza di un solo indicatore e con bassa frequenza di comparsa denota il rischio potenziale che l’alunno sia un prevaricatore occasionale.

2.5 Caratteristiche della vittima Olweus distingue due tipi di vittime: la vittima passiva, o sottomessa, e 48


la vittima provocatrice. Nella vittima passiva sono presenti una forte ansia e sentimenti di insicurezza che portano la vittima stessa, se attaccata, a reazioni di pianto e di chiusura. Sono persone timide, sensibili e calme, con una negativa opinione di sé e della propria situazione, tanto da considerarsi dei falliti con un alto rischio di depressione. Nella relazione con gli altri tendono ad isolarsi, vivendo condizioni di solitudine e di abbandono e conseguente difficoltà ad interagire nel gruppo dei coetanei. L’insieme di queste caratteristiche personologiche, se da un lato sono indice di insicurezza ed incapacità a reagire a possibili attacchi, dall’altra sono accresciute dalle continue provocazioni dei bulli. La vittima passiva è, quindi, caratterizzata da un modello reattivo ansioso o sottomesso, associato, nel caso dei maschi, a forza fisica7. Nella vittima provocatrice vi è la combinazione del modello ansioso con quello aggressivo. Si tratta di soggetti con problemi di concentrazione, iperattività, spesso fautori di irritazioni e tensioni in chi li circonda, provocatori di azioni negative. Gli oltraggi ricevuti fanno insorgere nella vittima il desiderio di non andare più a scuola, fanno perdere sicurezza e stima in se stessi, influendo in questo modo anche sull’apprendimento. Possono così subentrare meccanismi di difesa, quali mal di stomaco, mal di testa, attacchi di panico ed altri sintomi da stress. Indicatori primari della vittima: 1. 2. 3. 4.

È stato preso in giro pesantemente dai compagni e/o ridicolizzato È stato intimidito, minacciato È stato umiliato È stato picchiato, spinto, aggredito fisicamente e non è riuscito a difendersi 5. È stato coinvolto in liti e scontri senza essersi difeso adeguatamente 6. Oggetti di sua proprietà sono stati danneggiati, rubati, sparsi in giro o nascosti 7. Presenta lividi, tagli, graffi, vestiti rovinati e non sa dare spiegazione di come si siano prodotti

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Olweus, D., Bullismo a scuola. Ragazzi oppressi, ragazzi che opprimono, Giunti, Firenze, 1996.

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Indicatori secondari della vittima: 1. Durante i momenti di interazione libera tra pari (intervallo, mensa) è restato da solo, è stato isolato dai compagni 2. È stato scelto per ultimo nei giochi di squadra 3. Durante i momenti di sospensione delle lezioni (intervallo, mensa) ha evitato di interagire con i compagni ed è rimasto nelle vicinanze di un adulto (insegnante,personale non docente) 4. Sembra depresso, giù di morale 5. Piagnucola 6. Sembra ansioso, insicuro (ad esempio trova difficile parlare in classe) 7. Registra un immotivato calo del rendimento, improvviso o graduale Gli indicatori primari rappresentano indici più marcati di rischio per la condizione di vittima. L’elevata frequenza di comparsa di due o più indicatori primari segnala una situazione di più elevato rischio di bullismo reiterato. La presenza di un solo indicatore primario o di soli indicatori secondari e con bassa frequenza di comparsa denotano un potenziale rischio di vittimizzazione occasionale. Dagli studi8 condotti longitudinalmente sui bulli e sulle vittime sono emersi scenari di sviluppo disadattivi. Nei bulli, essendoci un’incapacità a rispettare le regole, si può rilevare il loro incorrere più facilmente in comportamenti problematici, quali abuso di alcool o di altre sostanze, e compiere azioni criminali. Le vittime, invece, durante la loro crescita manifestano un maggior numero di episodi depressivi, una stima di sé bassa, un’elevata percentuale di abbandoni scolastici, problemi nel realizzarsi in ambito professionale ed un maggior numero di suicidi. Sia il bullo che la vittima sono da considerarsi individui a rischio psicosociale. Questa situazione di rischio è di tipo multifattoriale e probabilistico e si pone l’accento sui processi e sui meccanismi che conducono a sviluppare esiti non adattivi. Altri autori9, hanno individuato altri ruoli, oltre al bullo ed alla vittima, che 8

Olweus, D., Bullying at school: long-term outcomes for the victims and an effective school based intevention program, in Huesmann, L. R., Aggressive behaviour: current perspectives, Plenum, New Yoork, 1994.

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Menesini, E., Fonzi, A., Sanchez, V., Attribuzioni di emozioni di responsabilità e

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possono partecipare alle prepotenze, anche se in modo indiretto: • aiutanti del bullo, contribuiscono attivamente alla messa in atto delle prevaricazioni intraprese dal bullo; • sostenitori del bullo, pur non partecipando attivamente alle prepotenze, le sostengono manifestando approvazione; • osservatori, pur limitandosi alla sola osservazione delle prevaricazioni, con la loro azione omissiva rinforzano la prepotenza (indifferente o outsider); • difensori delle vittime, aiutano attivamente la vittima (anche solo rivolgendosi agli adulti), o la consolano e confortano. Il ruolo di coloro che circondano il bullo è determinante nell’accrescere o diminuire il suo potere: esso, infatti, risulta rafforzato dall’attenzione dei sostenitori e non indebolito dalla mancanza di opposizione della maggioranza silenziosa. La collusione con il bullo o l’isolamento della vittima, dovute ad un altro presente sulla scena di questo dramma, permettono la cristallizzazione della relazione di prepotenza. Qualunque tipo di intervento non può prescindere dal considerare anche queste figure contestuali. È importante evidenziare che anche il bullo può essere esso stesso vittima di sopraffazioni (bullo-vittima) e che il comportamento prepotente può essere l’espressione di carenze nell’elaborazione delle esperienze affettive, nelle competenze sociali e nelle abilità di gestione del conflitto. Oltre alla diade bullo-vittima ed ai coetanei, che a vario titolo e grado possono essere coinvolti, in questa problematica sociale è presente un altro attore: l’adulto. Questi costituisce l’anello cruciale sia per individuare il fenomeno, che per intervenire ed estinguerlo. Gli studi di Olweus hanno fatto emergere un quadro desolante riguardante l’attenzione data dagli adulti a tali eventi: i genitori di entrambi gli attori considerati non conoscono il problema e tantomeno ne parlano con i figli, mentre gli insegnanti non sembrano mettere in atto strategie di intervento dirette a contrastare tale fenomeno. Le prepotenze dei ragazzi sono frequentemente sottovalutate dagli adulti per diverse motivazioni: • spesso si svolgono in luoghi nascosti dagli occhi degli adulti e nessuno, vittima compresa, denuncia l’accaduto; • gli adulti tendono a valutare gli episodi alla stregua di “ragazzate”, disimpegno morale in una storia di bullismo. Differenze tra bulli, vittime, esterni e difensori, in Età evolutiva, 71, pp. 76-83, 2002.

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scherzi, giochi, sui quali è lecito soprassedere o addirittura non intromettersi; • il senso comune le considera “una scuola di vita”, cui è sbagliato sottrarre il ragazzo. • I bambini elaborano determinate aspettative in risposta a questi atteggiamenti degli adulti: le vittime si aspettano indifferenza nei loro confronti, mentre i bulli ritengono di meritare approvazioni e rinforzi10. Proprio per questa scarsa fiducia nei confronti degli adulti, ben il 50% delle vittime non parla dell’accaduto con familiari o insegnanti; la percentuale aumenta con il passaggio alle scuole medie e soprattutto tra i maschi. I ragazzi spesso ritengono che denunciare i fatti all’adulto sia un’azione negativa, peggiore rispetto alla stesa azione prevaricatrice e giustamente punibile con l’isolamento da parte degli altri.

2.6 Il contesto familiare La famiglia rappresenta l’istituzione sociale a cui viene demandato il compito di insegnare i principi e le norme necessari a vivere a contatto con gli altri. Il suo dovere, in altre parole, è quello di dare il via alla prima socializzazione, educando i più piccoli a vivere nella società, nel pieno rispetto di sé stessi e degli altri. Poiché i bambini hanno, spesso, grandi difficoltà a raccontare ai genitori il proprio coinvolgimento nei fenomeni di bullismo, gli adulti devono possedere una adeguata informazione in merito, per poterne cogliere i segnali. Il ruolo degli adulti è fondamentale, in quanto sta a loro riuscire a mediare tra le richieste dei singoli e le aspettative della società. Tutto questo deve avvenire nel pieno rispetto delle diverse fasi di sviluppo dei ragazzi. Trasmettere le regole e i limiti ai propri figli significa, per i genitori, fornire loro degli schemi che li aiutino ad affrontare al meglio gli impegni della vita. Al contrario, la mancanza di punti di riferimento può produrre nel singolo un profondo senso di disorientamento che si manifesta con la messa in atto di comportamenti aggressivi. Grazie alla più ricca quantità di stimoli presenti nella società di oggi gli adolescenti ricercano maggiore libertà, senza che ciò si traduca, necessariamente, in una maggiore assunzione di responsabilità. Spesso, i ragazzi dimostrano di non essere capaci di fare fronte alle tante offerte che la società propone e per

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Fonzi, A., Il bullismo in Italia, Giunti, Firenze, 1997.

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questo diviene di primaria importanza la figura dell’adulto, che deve essere pronto ad affiancare il figlio. È, quindi, evidente come il ruolo dei genitori sia fondamentale: eventuali errori di valutazione si ripercuoteranno sugli stessi figli. Diventa, allora, importante la scelta dello stile educativo da adottare per trasmettere i principi e le regole in cui si crede. Gli stili tra cui scegliere sono: - autoritario o coercitivo, basato su regole e norme, considerate immodificabili, stabilite a priori dai genitori e a cui il bambino deve attenersi strettamente. Questo tipo di educazione genera nel bambino una condizione di frustrazione, poiché la soddisfazione dei suoi bisogni si scontra con la proibizione e le punizioni dell’adulto. La frustrazione può essere all’origine di comportamenti aggressivi; - permissivo o tollerante, in cui si evita al bambino qualsiasi occasione di frustrazione, come incontrare ostacoli o insuccessi, cercando di soddisfare il più possibile tutte le sue richieste. Tale stile educativo produce, nel bambino, l’impossibilità di misurarsi con le proprie forze reali e la convinzione di poter superare tutti gli ostacoli con le proprie capacità. In questo modo si genera una grande insicurezza che può sfociare in aggressività; - autorevole o democratico, che si caratterizza per la presenza di poche regole fondate su valori stabili. Queste regole tengono conto dei bisogni del bambino e, soprattutto, mirano a dargli sicurezza. Tale modello permette, al bambino, di affermare il proprio sé in un clima che facilita l’elaborazione di modalità cognitivamente più evolute di risoluzione dei conflitti e di superamento delle frustrazioni. Si può ipotizzare che, generando maggiore sicurezza, si ostacoli l’aggressività soprattutto tenendo conto che viene appreso con questo stile , la capacità di risolvere i conflitti; - incoerente, nel quale si oscilla, a seconda del momento e dell’umore, tra autoritarismo e permissivismo. L’incoerenza priva il bambino dei necessari punti di riferimento, genera ansia e disorientamento, ed è perciò fonte di grande insicurezza emotiva, che può mobilitare a sua volta l’aggressività più violenta. Le ricerche condotte sul fenomeno del bullismo evidenziano come il comportamento dei figli venga influenzato sia dal contesto sociale sia dallo stile educativo usato dai genitori. Nelle famiglie in cui si adotta uno stile autoritario o coercitivo, i genitori sono soliti urlare o imporre regole da rispettare, senza che sia richiesta la partecipazione dei figli. Il mancato rispetto delle regole e degli ordini porta a punizioni alle quali i bambini non possono sottrarsi. I figli bulli, risultato di questa realtà familiare, non riescono a gestire la situazione creatasi nell’ambito domestico e sfogano il proprio senso di frustrazione a scuola, individuando la vittima su cui esercitare il proprio potere. Uno stile coercitivo annulla ogni possibile confronto tra le generazioni, in quanto la paura di sbagliare rende i bambini incapaci di fare qualunque cosa, 53


di assumersi delle responsabilità per il terrore di essere picchiati o puniti. Questi figli saranno destinati a sviluppare una scarsa autostima e una modesta empatia verso gli altri. Lo stile educativo che favorisce la corretta formazione di un individuo è quello autorevole, in quanto il genitore interagisce concretamente con il figlio, trattandolo come un individuo dotato delle proprie opinioni. Per favorirlo nel processo di formazione della propria identità gli fornisce il sostegno necessario, lo incoraggia nei momenti di difficoltà e lo loda quando riesce a superare degli ostacoli. Questo atteggiamento permetterà, al bambino, di sviluppare un adeguato senso di fiducia verso i genitori e di apprendere uno stile relazionale positivo verso i pari. Infine, il permissivismo, non ponendo limiti o regole, lascia il bambino libero di autogestirsi. L’assenza di un qualunque controllo da parte degli adulti facilita nel bambino il comportamento aggressivo, come conseguenza dell’idea distorta di poter fare tutto ciò che si vuole. Uno stile educativo di questo tipo, contrariamente a quanto potrebbe sembrare, denota una noncuranza da parte dei genitori. Essere permissivi, infatti, non significa dare al bambino molte opportunità, ma, al contrario, non fornirgli le indicazioni di cui ha bisogno per compiere le sue scelte. Inoltre, permissivismo è sinonimo di trascuratezza verso i figli, dovuta ad incapacità, mancanza di volontà o convinzione di poter delegare le proprie responsabilità agli altri. Genitori molto tolleranti verso i figli, permettono comportamenti trasgressivi verso i quali si preferisce fare finta di niente o a cui fanno seguito rimproveri molto leggeri, che non portano ad alcun risultato. Un atteggiamento simile è frequente in quei genitori che avvertono un senso di colpa nei confronti dei propri figli perché sono spesso lontani o perché non riescono a stargli vicino come vorrebbero. I figli che provengono da famiglie di questo tipo si dimostrano profondamente intolleranti nei confronti di chi è diverso a causa di handicap, della religione, del colore della pelle e non mostrano rispetto né delle regole né delle cose altrui. Sintetizzando, infine, si può sostenere che un atteggiamento emotivo, di chi si occupa maggiormente del bambino nei primi anni di vita, caratterizzato da mancanza di calore e di coinvolgimento affettivo, aumenta il rischio di ostilità verso il mondo circostante durante la crescita. Una famiglia in cui regna la violenza e la sopraffazione, in cui il controllo è condotto utilizzando la forza fisica ed esplosioni emotive violente, propone al bambino schemi di comportamento disadattivo, che ripresenterà in tutti gli ambienti in cui vive. Uno stile educativo permissivo e tollerante, incapace di porre limiti al comportamento aggressivo, non permette al bambino di acquisire capacità di autocontrollo. Anche la mancanza di informazioni riguardanti le occupazioni del figlio durante la giornata non consente di intervenire nel momento in cui si 54


presentino condotte inadeguate. Il genitore della vittima, invece, tende ad impostare uno stile educativo improntato su rapporti molto forti con il figlio, di tipo iperprotettivo e, così facendo, non gli permette un graduale distacco dalle figure genitoriali, né la costruzione di una identità indipendente.

2.7 Il contesto scolastico Come detto in precedenza, il bullismo rappresenta una forma di violenza con molteplici dimensioni che non si limita a comportamenti individuali perché coinvolge l’intera classe. La scuola ha tra i suoi obiettivi quello di fornire gli strumenti necessari alla crescita culturale, psicologica e sociale del bambino, di fargli acquisire un senso di responsabilità e di autonomia e di prepararlo alla convivenza civile. La scuola presenta un’organizzazione tale per cui bambini di età diversa hanno la possibilità di entrare in contatto tra loro e di creare delle gerarchie di potere. I bambini più grandi si sentono più forti, meritevoli di rispetto, poiché ritengono di occupare una posizione di prestigio nella scuola. I bambini piccoli, crescendo, fanno propria questa mentalità e la manifestano, a loro volta, nei confronti dei bambini più piccoli. Prevenire e affrontare il bullismo, dunque, significa non solo identificare vittime e prepotenti, ma affrontare e intervenire sul gruppo dei pari nel suo insieme. La classe è, nello specifico, il luogo privilegiato in cui, dopo il verificarsi di un caso di bullismo ma anche nell’intento di prevenire il dilagare di certi fenomeni, si deve svolgere l’irrinunciabile azione educativa a favore di tutti gli studenti, coinvolgendo i genitori degli allievi e delle allieve e tutti i docenti. Il lavoro di prevenzione del bullismo dovrebbe iniziare già dalla scuola materna, anche se, in questo contesto, il fenomeno viene spesso sottovalutato, perché ci sono già avvisaglie su certi comportamenti anche se sono ancora alla stato embrionale. Nella scuola materna non si deve prestare attenzione solo allo sviluppo delle capacità motorie e cognitive, ma ci si deve impegnare per favorire, anche, l’apprendimento delle abilità socio-relazionali. Frequentare la scuola materna è un’esperienza che deve risultare positiva, poiché in questa fase il bambino viene a contatto, per la prima volta, con persone estranee al proprio ambiente familiare, imparando, così, a rispettare le esigenze altrui e a circondarsi di amici grazie ai quali crescere meglio. Se già in questa prima tappa del lungo percorso scolastico si verificano episodi di bullismo è importante parlarne con la maestra e, nel passaggio alla scuola elementare, cercare di ri55


solvere la situazione, evitando di mandare i figli allo stesso istituto o cercando di favorire nuove amicizie che aiutino il bambino in caso di difficoltà. La scuola elementare risulta essere il luogo in cui si verificano con maggiore frequenza i fenomeni di bullismo. Durante questa fase i bambini cominciano a scontrarsi per dominare gli altri e danno il via alla formazione di gerarchie nelle quali chi ha una posizione inferiore non ha vita facile. Ricoprire una posizione elevata da il diritto di dimostrare il proprio potere per mezzo di comportamenti aggressivi di tipo fisico, verbale o indiretto. A quest’età i bambini imparano, anche, a non confessare le proprie azioni e a non farsi scoprire dagli adulti per non subire punizioni. Il passaggio dalla scuola elementare alla media porta con se la riduzione degli atti di bullismo, probabilmente a causa della crescita dei soggetti che prevaricano in modo “positivo” perché apprendono le abilità socio-cognitive necessarie a relazionarsi con gli altri senza, per questo, sopraffarli. Nelle scuole superiori il fenomeno del bullismo, seppure presente, si manifesta in una percentuale minore rispetto a quella che si osserva nelle scuole dell’obbligo e con una modalità diversa. Infatti, se, da un lato, diminuiscono le aggressioni fisiche tipiche del bullismo diretto, dall’altro, aumentano le violenze sessuali e le sopraffazioni psicologiche del bullismo indiretto, come l’esclusione dal gruppo e l’isolamento sociale. Gli attori che devono attuare strategie di prevenzione e di gestione di fenomeni di bullismo sono i Dirigenti scolastici, gli insegnanti, il Consiglio di Classe, il Collegio docenti, i genitori, i collaboratori scolastici e gli stessi alunni. Questo ci fa capire come all’interno delle scuole occorra definire e promuovere una Politica Scolastica Antibullismo che faccia parte del Piano Formativo. Sia in funzione preventiva, quando siano presenti comportamenti di tipo conflittuale o un clima relazionale che possono favorire il sorgere di fenomeni di bullismo, o comunque appena si è accertato il verificarsi di alcuni degli indicatori, è necessario attuare interventi mirati sul gruppo classe, gestiti in collaborazione con il corpo docente e d’intesa con le famiglie - ad esempio percorsi di “peer education” o di mediazione volta alla gestione del conflitto, gruppo di discussione, rappresentazioni e attività di role-play sull’argomento del bullismo. La conoscenza del fenomeno e l’attenta osservazione delle dinamiche comportamentali all’interno delle classi sono alla base dell’attivazione di strategie educative volte ad arginare il fenomeno allo stadio iniziale. E’ molto importante la valorizzazione e il coinvolgimento delle risorse umane già presenti nella scuola e, in casi particolari, occorre l’intervento di specialisti del settore quali psicologi o assistenti sociali. La complessità del bullismo ci fa comprendere come esso non sia ancorato solo a specifiche caratteristiche individuali, ma ad un sistema di relazioni che 56


possono sia amplificare che ridimensionare singole azioni. Per tale ragione gli interventi dovrebbero essere globali, sistematici ed ecologici. Potrebbe essere produttivo a tal fine creare un ambiente scolastico caratterizzato da affetto, coinvolgimento emotivo degli adulti ed interessi positivi, stabilire confini ben delineati rispetto a comportamenti inaccettabili, stabilire punizioni adeguate per ogni violazione delle regole, pretendere dagli adulti un comportamento autorevole. Ciò sia a livello di intera scuola che di singolo gruppo classe e di singolo individuo nello specifico. Quanto detto permette di dedurre che il bullismo non è un problema che si può “scaricare” su un singolo individuo o su una singola istituzione, ma l’intera società deve cominciare a sviluppare atteggiamenti di rifiuto verso queste forme di violenza e di oppressione, affinché non ci siano solo isolate azioni di intervento, ma si sviluppi una generale “mentalità antibullismo”.

2.8 Bullismo e Disturbi della Condotta Il bullismo si configura all’interno della nosografia psichiatrica dei Disturbi della Condotta, caratterizzati dal fatto che, pur non comportando alcuna insufficienza nella sfera intellettiva, sono caratterizzati da comportamenti patologici che investono il piano della condotta11. Lo stesso Olweus ha considerato il bullismo un aspetto di un più generale comportamento antisociale, inquadrabile nosograficamente nel Disturbo della Condotta12. Il DSM IV-TR12 individua la categoria dei Disturbi da deficit di attenzione e da comportamento dirompente, che comprende:  disturbo da deficit di attenzione/iperattività, tipo combinato;  disturbo da deficit di attenzione/iperattività, tipo disattenzione predominante;  disturbo da deficit di attenzione/iperattività, tipo con iperattività-impulsività predominante;  disturbo da deficit di attenzione/iperattività non altrimenti specificato;  disturbo della condotta;  disturbo oppositivo provocatorio;  disturbo da comportamento dirompente non altrimenti specificato. 11 12

Guarino, A., Lancellotti, R., Serantoni, G., Bullismo, Franco Angeli, Milano, 2011.

Andreoli, V., Cassano, G. B., Rossi, R., American Psychiatric Association, DSM IV-TR. Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, IV ed. italiana, Masson, Milano, 2002.

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Bambini ed adolescenti affetti da questi disturbi, che sono caratteristici dell’età evolutiva, insieme agli autistici, che hanno un disturbo pervasivo dello sviluppo, ed agli psicotici, che presentano una destrutturazione dell’Io, sono quelli che creano più problemi di disciplina a scuola, cosa ovvia, esprimendosi la loro patologia proprio nella sfera della condotta. Un soggetto con disturbo da deficit di attenzione/iperattività tende a porre in atto comportamenti non conformi alle regole familiari o scolastiche, perché non riesce a fissare l’attenzione se non per brevi periodi ed è iperattivo, cioè ha bisogno di muoversi frequentemente. L’alunno con disturbo della condotta, invece, tende a negare i diritti fondamentali degli altri e a violare le norme e le regole. Egli può rendersi autore di aggressioni, distruzione di oggetti, furti, frodi, gravi violazioni di regole. Tale disturbo, soprattutto se insorge in età precoce, prima dei 10 anni di età, può esitare, raggiunta l’età adulta, nel Disturbo Antisociale di Personalità. Il soggetto con disturbo oppositivo provocatorio spesso va in collera, litiga con gli adulti, li sfida, si rifiuta di rispettare le loro richieste o le regole da essi imposte, irrita deliberatamente le persone, accusa gli altri dei propri errori o del proprio cattivo comportamento, è suscettibile ed irritabile, vendicativo. Diversi autori, più che considerarlo un disturbo, lo ritengono una dimensione di temperamento, in quanto compare precocemente nella vita del bambino ed ha un alto indice di ereditarietà. Il disturbo da comportamento dirompente non altrimenti specificato inquadra, infine, i soggetti con sintomi che non consentono di soddisfare i criteri del disturbo della condotta o del disturbo oppositivo provocatorio. Un’altra tipologia di disturbo strettamente connessa con le problematiche che stiamo trattando è il Disturbo Antisociale di Personalità, definito da Fornari “un quadro pervasivo di inosservanza e di violazione dei diritti degli altri (incapacità di conformarsi alle norme sociali per ciò che concerne il comportamento legale, disonestà, truffe, inosservanza abituale della sicurezza propria e degli altri, irresponsabilità, mancanza di rimorso)”13. L’intolleranza alle regole e la continua violazione dei diritti degli altri avvicina fortemente il Disturbo Antisociale di Personalità al Disturbo della Condotta, che ne è spesso il precursore. L’adolescenza di questi soggetti spesso è caratterizzata da situazioni di abuso di alcol o di droghe, aggressività verso persone o animali, violenza, incapacità di conformarsi alle norme sociali per ciò che riguarda il comportamento legale, menzogne, truffe, impulsività, irritabilità, aggressività ed irresponsabilità. Questi soggetti di solito hanno una storia personale segnata da esperienze di 13

Fornari, U., Trattato di Psichiatria Forense, Utet, Torino, 2008

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privazioni o abusi da parte dei genitori, che vengono percepiti come estranei e cattivi, da deprivazione affettiva, che conduce da un lato al rifiuto dei legami, e dall’altro alla scelta della modalità aggressiva e distruttiva come unico modo di rapportarsi agli altri�. Il soggetto con Disturbo Antisociale non ha introiettato una figura materna positiva, capace di contenere i suoi vissuti cattivi, e questa esiste solo come introietto aggressivo, da cui difendersi perché ostile. Ne consegue che l’unica difesa per questi individui è il distacco dalle relazioni e l’instaurarsi di legami in cui gli altri sono vittime, ripetizione del legame avuto con i genitori. L’adolescente antisociale è stato un bambino che aveva difficoltà ad internalizzare i controlli, con conseguente scarsa capacità di elaborare gli impulsi e di pensare alle conseguenze delle proprie azioni14. Infine, in questi soggetti si osserva un Super Io debole che comporta l’assenza di sensi di colpa e di rimorso per le proprie cattive azioni, instabilità relazionale, proiettività, difficoltà nello stabilire e mantenere legami emozionali, narcisismo aggressivo e distruttivo e difficoltà a regolare la propria condotta, con episodi di impulsività ed esplosività. Il Disturbo antisociale di personalità è molto grave, e di interesse criminologico, in quanto chi ne è affetto può commettere anche gravi reati. Non necessariamente un bullo è affetto da un disturbo del comportamento, psicopatologicamente connotato: è indispensabile tener conto dell’esistenza di una diagnosi psicologica o psichiatrica prima di procedere disciplinarmente. Ciò non significa che un soggetto affetto da un disturbo del comportamento non debba essere punito per un’infrazione disciplinare commessa a scuola, ma solo che è necessario valutare il suo grado di responsabilità. In questi casi una sanzione dovrebbe avere una valenza terapeutica e rientrare in un progetto educativo più ampio, visto che agli alunni con diagnosi psicologica o psichiatrica deve essere garantito un progetto individualizzato di apprendimento e di socializzazione.

2.9 Modelli e tecniche di intervento Il bullismo è un problema così complesso che necessita di un approccio multidimensionale, sia in termini di analisi, che di intervento. Le dimensioni direttamente connesse a tale problematica sociale sono quattro:  la comunità; 14

Sabatello, U., Lo sviluppo antisociale: dal bambino al giovane adulto, Cortina, Milano, 2010.

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 la scuola;  la famiglia;  il singolo individuo.

LA COMUNITÀ Gli elementi di una comunità che possono essere coinvolti in una situazione di bullismo sono: il quartiere, la città, le istituzioni, i servizi sociosanitari, ricreativi e culturali, le associazioni sportive e religiose. I principi fondamentali dell’approccio di comunità sono i seguenti: - l’utilizzo di una metafora ecologica, che consiste nel capire il comportamento e l’adattamento dell’individuo attraverso le relazioni che intrattiene all’interno del proprio ecosistema; - l’adozione di un’ottica proattiva per la prevenzione del disagio e la promozione del benessere, mirata alla costruzione di condizioni ambientali e competenze individuali che favoriscano lo sviluppo positivo e l’adattamento degli individui; - il lavoro di empowerment, rivolto al rafforzamento del senso di controllo che gli individui hanno sugli eventi della propria vita, che li rende più consapevoli e più attivi nella soluzione dei problemi che incontrano. L’approccio di comunità alla prevenzione del bullismo prevede l’implementazione di strategie d’intervento che tengano conto dell’interdipendenza tra le componenti contestuali e quelle individuali. Inoltre, esso può essere particolarmente utile per facilitare la collaborazione tra scuola e famiglie, per poter portare a termine un lavoro a più livelli, dove i criteri di integrazione e di potenziamento delle risorse esistenti possono essere considerate le linee guida da seguire nella progettazione ed implementazione degli interventi. Elementi indispensabili a questo approccio sono l’informazione, ossia l’aggiornamento periodico sulla tematica del bullismo, la partecipazione a progetti di intervento antibullismo, la collaborazione, che prevede la condivisione di alcuni compiti e responsabilità, da parte di scuola e famiglia, la partnership, ossia l’instaurare rapporti di collaborazione formalizzati con le istituzioni che possono essere coinvolte negli stessi progetti, come servizi sociali e forze dell’ordine ed, infine, un lavoro di rete che può essere svolto creando collegamenti tra le diverse istituzioni, che acquisendo una conoscenza più ampia del problema, potrebbero essere facilitate nell’affrontare questa problematica sociale. A tal proposito, la direttiva ministeriale del 5 Febbraio 2007 ha istituito in ogni regione un osservatorio permanente sul bullismo, un servizio di consulenza telefonica, tramite l’attivazione di un numero verde ed infine uno sportello di ascolto, regionale o provinciale, per la prevenzione del bullismo e del disagio 60


scolastico e giovanile.

LA SCUOLA La diffusione dei fenomeni di bullismo ha stimolato la produzione di un documento internazionale, la Dichiarazione di Kandersteg contro il bullismo nei bambini e negli adolescenti, del 2007, nella quale si legge: “tutti i bambini ed i giovani hanno il diritto al rispetto e ad un’esistenza in condizioni di sicurezza. Il bullismo è una violazione di questo fondamentale diritto. E’ responsabilità morale degli adulti assicurare che questo diritto sia rispettato”. Tale Dichiarazione prescrive una serie di azioni: prevenzione, formazione degli adulti, politiche sociali e programmi di intervento, monitoraggio e valutazione. In Italia le iniziative intraprese dal Governo in merito hanno portato all’emanazione di una Direttiva da parte del Ministero della Pubblica Istruzione per la prevenzione e la lotta al bullismo15, alla costituzione di Osservatori regionali permanenti sul bullismo, presso ogni Ufficio scolastico regionale del Ministero della Pubblica Istruzione, alla revisione dello statuto delle studentesse e degli studenti per le sanzioni disciplinari16 ed alla promozione di progetti di educazione alla legalità e di prevenzione del bullismo e di sperimentazioni sul tema. Per prevenire e gestire i problemi di comportamento a scuola è utile l’attivazione di progetti che impegnino uno psicologo esperto, che possa aiutare i docenti a gestire i conflitti e a riflettere sulle proprie modalità di reazione agli eventi che si verificano nel rapporto con gli alunni, compiere osservazioni nelle classi ed attivare tecniche relazionali di gestione dei gruppi, attivare uno sportello di ascolto al quale gli alunni, garantiti dal segreto professionale dello psicologo, possano ricorrere per parlare dei loro problemi e trovare un aiuto qualificato. I docenti, con l’aiuto dello psicologo, devono quindi lavorare sulle competenze sociali ed emotive degli alunni. In particolare, risultano essere molto utili una serie di attività: - sviluppare l’alfabetizzazione emotiva, di alunni e di insegnanti, affinchè si possano riconoscere le emozioni dalla mimica facciale e prevenire manifestazioni di aggressività, oltre che migliorare la comunicazione tra gli alunni; - interventi di educazione alla convivenza civile ed alla legalità; - individuare precocemente gli alunni che nel gruppo classe sono isolati, o per il loro carattere, o per l’emarginazione da parte dei compagni.

15

Direttiva n° 16 del 5 Febbraio 2007: Linee di indirizzo generali e azioni a livello nazionale per la prevenzione e la lotta al bullismo. 16

DPR 21 Novembre 2007, n° 235.

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Inoltre, è importante che i docenti a scuola mettano in atto dei comportamenti adeguati alla situazione, come evitare l’etichettamento di un alunno come soggetto negativo, favorire il confronto bullo-vittima, affinché ci sia un’assunzione di responsabilità, ed, infine, non interrompere i processi educativi in atto, ed eventualmente prevedere un allontanamento dell’alunno dalla scuola solo se necessario, e comunque temporaneo. Uno strumento che potrebbe essere utilizzato in situazioni di bullismo è il Sociodramma di Moreno, ossia un test che consente di scoprire i poli di attrazione, di repulsione e di reciprocità all’interno del gruppo-classe e che svolge una duplice funzione:  conoscitiva, in quanto serve a conoscere le dinamiche presenti in una classe e ad individuare gli alunni isolati, che possono essere potenziali vittime di bullismo;  costruttiva, in quanto consente ai docenti di agire per far sì che le dinamiche all’interno della classe migliorino e gli alunni emarginati vengano integrati nel gruppo17. Occorre precisare che, intervenire quando si presentano episodi di bullismo, significa già che famiglia e scuola hanno fallito nella loro azione educativa e preventiva, nè risulta utile impostare programmi di prevenzione su uno specifico problema, se poi i destinatari non posseggono le competenze psicosociali di base, necessarie per l’adozione di comportamenti prosalute e prosociali. Si sono rivelati più efficaci i programmi volti a sviluppare le competenze psicosociali, perché essi costituiscono i fattori protettivi nei confronti dei comportamenti a rischio, sia nell’ambito della salute che in quello della convivenza civile17. In letteratura è fortemente condiviso il principio che la prevenzione del disagio passa attraverso il precoce intervento sui fattori di rischio, che risulta essere molto più efficace dei tentativi di rimediare ad una situazione negativa già in essere. Nel 1993, infatti, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha messo a punto un progetto denominato “Skills for life” (abilità per la vita), che ha i seguenti obiettivi, che costituiscono la base per il benessere psicofisico dell’individuo, per la sua salute e per il suo adattamento:  autoconsapevolezza: capacità di conoscere se stessi, i propri bisogni e desideri, i propri punti deboli ed i propri punti di forza;  competenza emotiva e responsabilità empatica: capacità di riconoscere le proprie emozioni e quelle degli altri, di saperle gestire ed esprimere in maniera adeguata, di empatizzare con gli altri;  gestione dello stress: capacità di governare le tensioni; 17

Guarino, A., Lancellotti, R., Serantoni, G., Bullismo, Franco Angeli, Milano, 2011.

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 senso critico: capacità di analizzare le informazioni, valutandone vantaggi e svantaggi, al fine di arrivare ad una decisione consapevole;  decision making: capacità di prendere decisioni in modo consapevole e costruttivo nelle diverse situazioni di vita, gestendo attivamente il processo decisionale, attraverso una valutazione delle diverse opzioni e delle conseguenze che esse implicano;  problem solving: capacità di affrontare e risolvere in modo costruttivo i diversi problemi personali e relazionali;  creatività: la capacità di affrontare in modo flessibile le situazioni della vita, trovando soluzioni innovative rispetto a quelle adottate nel passato;  comunicazione efficace: capacità di comunicare, come parlante e come ascoltatore, in ogni situazione e di esprimere adeguatamente opinioni, bisogni ed emozioni. Esistono anche altri interventi di educazione alla salute che possono essere attivati nelle scuole, soprattutto in età adolescenziale; questi ultimi possono essere divisi in due categorie: diretti ed indiretti. Gli interventi diretti sono quelli che promuovono l’acquisizione di informazioni, la riflessione sulle stesse e la ricerca di nuove strategie volte al conseguimento degli scopi prefissati. Costituisce un esempio di intervento diretto l’ Information living model, ossia una tecnica di tipo informativo, che vede i destinatari sostanzialmente passivi ed in posizione asimmetrica rispetto al conduttore che trasmette le conoscenze (fornire informazioni aumento/miglioramento delle conoscenze modificazione degli atteggiamenti modificazione del comportamento miglioramento della salute)18. Gli interventi indiretti sono, invece, quelli che si basano sul coinvolgimento e sul rafforzamento dei fattori di protezione, attraverso tecniche che promuovono la valorizzazione delle risorse personali, cognitive, affettive e relazionali, e di gruppo. Essi si prefiggono lo scopo di sviluppare le abilità di base necessarie per consentire ai soggetti di acquisire le competenze psicosociali che favoriscano l’adozione di comportamenti protettivi e l’evitamento di comportamenti a rischio. Costituisce un esempio di intervento indiretto la Life Skills Education, ossia un metodo strutturato, ma flessibile allo stesso tempo, che permette un lavoro efficace di progettazione e di intervento nell’ambito del benessere emotivo, psicologico e sociale dei giovani, all’interno del loro contesto scolastico.

18

Guarino, A., Fondamenti di educazione alla salute, Franco Angeli, Milano, 2008.

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LA CLASSE Un programma anti-bullismo difficilmente risulta efficace senza il coinvolgimento diretto e la partecipazione attiva degli studenti; qualsiasi progetto di prevenzione del disagio e di promozione del benessere degli studenti è tanto più efficace, e più facilmente realizzabile, quanto più diventa il loro progetto, vedendoli coinvolti in tutte le fasi, dalla programmazione alla valutazione delle diverse iniziative. Ciò vuol dire che è importante stabilire un equilibrio tra coinvolgimento e partecipazione degli alunni e funzione-guida dell’ adulto. Il lavoro nelle singole classi può prevedere diversi percorsi e diverse strategie, finalizzati ai seguenti obiettivi:  coinvolgere attivamente gli alunni nelle attività del progettoanti-bullismo, aumentando la loro consapevolezza circa il problema, il loro ruolo come spettatori ed il senso di responsabilità personale;  consentire loro di acquisire competenze socio emotive utili per difendersi e per aiutare gli altri compagni in situazioni di prepotenza;  migliorare le relazioni tra compagni e tra studenti ed insegnanti, favorendo la comunicazione efficace, il rispetto delle regole, la cooperazione;  promuovere comportamenti pro sociali;  favorire lo sviluppo personale ed il benessere degli studenti19. Coinvolgere l’intero gruppo classe vuol dire assumere una visione relazionale del problema, cercando di modificarne il clima, le norme e la rete relazionale delle loro dinamiche: le attività a livello di classe mirano a modificare gli atteggiamenti ed i comportamenti negativi di alcuni studenti, facendo leva sulla pressione positiva che può venire dal gruppo dei compagni e dal più ampio contesto di classe. Inoltre, lavorare a livello di classe significa tenere in considerazione tre differenti livelli di azione:  livello personale: riguarda come ogni studente ed ogni insegnante vivono la loro esperienza in classe (vissuti, aspettative, autostima, soddisfazione, livello di appartenenza, valori);  livello interpersonale: riguarda le relazioni tra i membri della classe (rispetto reciproco, comunicazione interpersonale, sostegno, norme del gruppo, diversi ruoli presenti);  livello sistemico: riguarda le caratteristiche più “istituzionali” della classe (ambiente fisico, orari, regole, attività) che possono avere 19

Gini, G., Pozzoli, T., Gli interventi antibullismo, Carocci, Roma, 2011.

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un’influenza sui due livelli precedenti. Il coinvolgimento degli studenti a questi livelli implica l’esistenza di una discussione costruttiva con l’adulto, per ottenere la quale bisogna osservare alcune cautele, soprattutto per evitare contrasti nel gruppo ed opposizioni al lavoro da svolgere:  evitare di porre il problema del bullismo come un problema di mera infrazione di regole o di ingiustizia e, soprattutto, evitare un approccio moralistico che sottintenda la volontà di distinguere tra buoni e cattivi, o un giudizio sulle persone, anziché sui loro comportamenti. Ciò avrebbe la probabile conseguenza di mettere i bulli ed i loro sostenitori sulla difensiva, rendendoli poco partecipativi e collaborativi nelle attività, o ancor peggio di motivarli al contrattacco, spingendoli ad assumere comportamenti oppositivi e distruttivi nei confronti delle attività proposte e del lavoro di gruppo;  evitare di introdurre il tema facendo esplicito riferimento ad un episodio specifico accaduto nella classe ed identificando gli studenti coinvolti come bulli e vittime. Ciò facilmente produrrebbe un antagonismo tra le parti coinvolte ed una focalizzazione di tutti sull’episodio specifico, senza che questo possa essere di beneficio alla situazione generale ed alla libera riflessione di ciascuno sul problema;  evitare di iniziare una discussione in una classe in cui molti studenti sono agitati o non hanno voglia di prestare attenzione: non ogni momento è adatto ad affrontare il tema del bullismo;  evitare di presentare il bullismo in maniera estrema, banalizzandolo troppo o scherzandoci sopra, o, viceversa, esagerandone la gravità. Un approccio realistico, in cui siano gli studenti stessi a decidere quanto è grave il problema, è il migliore. Esistono dei percorsi e delle attività che permettono di affrontare la tematica del bullismo. Di seguito sono riportate le principali20. L’approccio curricolare. Le attività curricolari che quotidianamente tutti gli insegnanti di un consiglio di classe svolgono in classe relativamente alla disciplina da loro insegnata possono costituire un utile strumento per affrontare il tema del bullismo con gli alunni, più di interventi sporadici nel corso dell’anno. Si cerca di trarre vantaggio da materiali e spunti provenienti dalle diverse discipline scolastiche per favorire il perseguimento di uno scopo comune e trasversale quale quello del-

20

Gini, G., Pozzoli, T., Gli interventi antibullismo, Carocci, Roma, 2011.

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la prevenzione del bullismo ed il miglioramento delle relazioni e del clima di classe. Ciò che più conta, inoltre, non è tanto l’esercizio in sé che il docente propone agli alunni, quanto le modalità di presentazione e di gestione delle attività, che dovrebbero seguire gli stessi principi che si vogliono trasmettere, ossia cooperazione, responsabilità personale, empatia, ed il momento di riflessione discussione successivo, che consente di interiorizzare e di generalizzare alla vita quotidiana quanto emerge dal lavoro in classe. L’alfabetizzazione emotiva. Così come è possibile educare all’apprendimento cognitivo attraverso l’esercizio, allo stesso modo si può educare la competenza emotiva (intelligenza emotiva) degli individui mediante un vero e proprio percorso di apprendimento del linguaggio e dell’espressione delle emozioni, che prevede la capacità di riconoscere e nominare adeguatamente le emozioni proprie ed altrui, di esprimerle in maniera corretta, di controllarne la manifestazione, fino al livello più evoluto di competenza emotiva, identificabile con l’empatia21. Il lavoro cooperativo. I bambini cooperativi sono meno aggressivi degli altri e più propensi a mettere in atto comportamenti pro sociali. A livello di classe, l’approccio cooperativo all’apprendimento, il cooperative learning, risulta essere positivamente associato non solo ai risultati scolastici, ma ad un clima più collaborativo e meno conflittuale nel gruppo, alla motivazione ed all’impegno personale degli alunni, nonché alla responsabilità individuale. Esso è costituito da un insieme di metodologie didattiche che prevedono il lavoro di gruppo come momento centrale sia dell’attività di apprendimento che della valutazione, connesso alle seguenti caratteristiche:  l’interdipendenza positiva che si stabilisce tra i membri del gruppo, cioè il fatto che ogni membro è responsabile e si preoccupa non solo del proprio lavoro, ma anche di quello degli altri componenti del gruppo;  l’interazione faccia a faccia;  l’insegnamento e l’uso di competenze sociali nel lavoro di gruppo;  la presenza di una leadership distribuita, cioè il fatto che nel gruppo cooperativo la responsabilità è condivisa tra tutti i membri, pur avendo ruoli precisi da svolgere;  la revisione ed il controllo costante dell’attività svolta; 21

Zanetti, M. A., L’alfabeto dei bulli. Prevenire relazioni aggressive a scuola. Erickson, Trento, 2007.

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 la valutazione individuale e di gruppo. Il supporto tra pari. Si tratta di un approccio alla prevenzione del bullismo basato sulle naturali potenzialità dei ragazzi di aiutare, consolare e dare sostegno ai propri compagni. Inoltre, tale approccio si basa sul fatto che la grande maggioranza degli studenti manifesta atteggiamenti negativi verso il bullismo, anche se tale numero tende a diminuire con il crescere dell’età. L’obiettivo è quello di modificare le norme ed i modelli comportamentali nella classe, facendo in modo che la vittima si senta meno sola, sia più propensa a parlare di ciò che le succede, invece di soffrire in silenzio e che i compagni intervengano in suo aiuto. Un progetto di supporto tra pari può essere utile sia per i singoli studenti che per l’intera scuola, in quanto le vittime identificano qualcuno a cui rivolgersi, si sentono più protette dalla scuola e più motivate ad affrontare la situazione, gli alunni che vengono formati per svolgere un ruolo di sostegno acquisiscono importanti competenze socio emotive, senso di autoefficacia e di responsabilità, l’intera scuola viene percepita come una comunità che si prende cura dei suoi membri. Potrebbero presentarsi degli ostacoli all’attuazione di questo approccio, come riluttanza degli adulti a condividere potere con alcuni alunni, ambienti scolastici particolarmente aggressivi, alcuni helper potrebbero essere intimoriti da possibili ripercussioni dei bulli verso di loro o non accettare di buon grado di ricoprire questa figura, in quanto soprattutto in adolescenza potrebbe contrastare con l’ideale più tipico del “macho”. Il circolo di qualità. Un piccolo gruppo, composto da un numero di membri variabile da cinque a dodici, si riunisce a cadenza regolare con lo scopo di identificare le strategie più idonee a migliorare l’organizzazione di cui fanno parte. Nello specifico, questo gruppo può assumersi il compito di elaborare e proporre soluzioni a problemi inerenti l’organizzazione stessa e le relazioni interpersonali. La stessa partecipazione al gruppo rappresenta un’importante esperienza di crescita personale, che consente l’acquisizione di alcune competenze di base, come la capacità di lavorare in gruppo, di esprimere con chiarezza e sostenere la propria opinione, di ascoltare gli altri, di negoziare, di raccogliere informazioni sul problema e di formulare soluzioni, valutandone vantaggi e svantaggi.

LA FAMIGLIA Il coinvolgimento delle famiglie durante l’implementazione di programmi 67


di intervento anti-bullismo costituisce uno degli aspetti più complessi, pur rappresentando un elemento fondamentale. L’ambiente familiare, infatti, rappresenta il primo luogo in cui è possibile prevenire l’attuazione di comportamenti prevaricanti da parte dei bambini. Inoltre, i genitori sono le figure adulte che hanno una maggiore possibilità di interagire con i figli faccia a faccia e che instaurano con essi una relazione affettiva profonda. I genitori possono aiutare i bambini a conoscere, apprendere ed interiorizzare abilità e comportamenti sociali che possono poi mettere in atto anche in altri contesti, come la scuola. Il loro coinvolgimento risulta particolarmente importante quando gli interventi riguardano studenti delle prime fasce scolastiche. Il ruolo svolto dalla famiglia cambia nei differenti periodi di sviluppo ed i livelli di presenza ed influenza dei genitori sui comportamenti sono maggiori quando i bambini sono più piccoli e vanno riducendosi durante l’adolescenza: è, quindi, proprio nei primi anni di scuola che gli interventi possono beneficiare maggiormente della presenza, del sostegno e della partecipazione attiva della famiglia. Gli interventi possono coinvolgere o tutti i genitori di una classe, di una scuola o di una comunità, oppure concentrarsi su singole coppie di genitori di studenti coinvolti in prima persona nel fare o nel subire prepotenze. Al di là degli interventi, ci sono degli elementi basilari da tenere in considerazione, che anche se non garantiscono la sicura efficacia dell’intervento, ne rappresentano sicuramente punti nodali: 1. informare e formare sul fenomeno: informare i genitori su quali sono i comportamenti e le dinamiche del bullismo e cosa lo differenzia da altri tipi di condotte. Possono essere utilizzati volantini, rappresentazioni teatrali, conferenze o cicli di incontri, a seconda delle risorse disponibili, in termini di tempi, luoghi, risorse umane ed economiche; 2. promuovere la partecipazione attiva dei genitori: gli interventi in questi ambito dovrebbero incoraggiare i genitori a ricerca degli spazi adeguati per comunicare con i figli riguardo alla loro vita, alle loro amicizie ed al tempo che passano fuori casa, enfatizzare l’ascolto come aspetto fondamentale della comunicazione, evidenziare l’importanza che i genitori siano coesi per quanto riguarda le regole e le eventuali punizioni rivolte ai figli, sottolineare la necessità di fornire ai figli modelli di comportamento pro sociali ed adattivi, rimarcare le risorse, piuttosto che le difficoltà di una famiglia. Nel caso in cui i genitori si confrontano con un figlio che subisce prepotenze, questi ultimi dovrebbero essere indirizzati a far sentire al 68


proprio figlio la loro presenza, rispettando i tempi di cui egli ha bisogno per parlare con loro dell’accaduto, a dargli comprensione, a spiegargli che non è né giusto, né accettabile subire prepotenze, a suggerirgli strategie di coping tese all’ironia, all’indifferenza, all’assertività, piuttosto che a risposte aggressive, ed, infine, a fargli capire l’importanza di denunciare alla scuola quanto accade. Nel caso in cui i genitori si confrontano con un figlio che fa prepotenze o supporta chi le fa, questi ultimi, solitamente, reagiscono o leggendo i comportamenti aggressivi dei figli come un loro parziale fallimento come educatori, o negando o minimizzando l’accaduto per proteggere il figlio: entrambe queste reazioni non sono né costruttive, né tantomeno efficaci nel modificare l’adozione di comportamenti aggressivi da parte del figlio. Questi ultimi dovrebbero ricevere indicazioni per mettersi in una posizione di ascolto verso il figlio, al fine di capire le motivazioni che lo spingono ad agire in un certo modo, esprimere il loro “no” deciso verso i comportamenti aggressivi, discutere con lui dell’importanza del rispetto e delle differenze individuali, aiutarlo a sviluppare la sua intelligenza emotiva, la sua empatia, affinchè possa comprendere le sofferenze della vittima. 3. cooperazione scuola-famiglia: è un aspetto fondamentale, visto che scuola e famiglia rappresentano i due principali contesti educativi per le famiglie. Una relazione conflittuale o una cattiva comunicazione a livello mesosistemico, probabilmente, avrà un effetto negativo sulla qualità delle relazioni tra gli studenti, mentre la capacità di dialogare e di cooperare, anche di fronte a situazioni problematiche, rappresenterà un modello positivo per i ragazzi. Una componente chiave per la riduzione del bullismo a scuola è la tempestività e la chiarezza con cui le informazioni passano tra i diversi enti coinvolti: se, da una parte, è cruciale che gli insegnati mettano i genitori al corrente delle dinamiche che avvengono in ambito scolastico, dall’altra è necessario che i genitori informino immediatamente la scuola quando vengono a conoscenza di episodi di bullismo subiti, perpetrati dai figli o osservati. Piuttosto che attribuirsi responsabilità vicendevolmente, scuola e famiglia dovrebbero lavorare insieme per il benessere dei ragazzi, mostrando coerenza rispetto ai comportamenti ritenuti adeguati ed auspicati e a quelli considerati inaccettabili. 4. interventi rivolti ai nuclei familiari: spesso dietro a comportamenti aggressivi del figlio vi è una famiglia che presenta conflitti genitoriali, per i quali 69


occorre trovare una strategia di problem solving, affinchè diminuisca lo stress familiare e ci si possa dedicare all’educazione del figlio. Inoltre, le terapie familiari si sono mostrate particolarmente efficaci nel diminuire comportamenti di bullismo, sia nei maschi che nelle femmine.

IL SINGOLO INDIVIDUO Frequentemente, gli studenti che assumo il ruolo di bullo o di vittima necessitano di un’attenzione particolare e di un aiuto mirato per poter apprendere strategie comportamentali non aggressive o per acquisire abilità che permettano loro di gestire le relazioni conflittuali e migliorare le modalità di interazione con i pari. Tali interventi possono basarsi su tre elementi differenti:  la punizione;  la riparazione del danno provocato;  il supporto. L’approccio disciplinare, che non risulta molto efficace né per la modifica del comportamento del bullo, né per il miglioramento del clima relazionale, consiste nell’identificare un colpevole e nel ricorrere a punizioni, che possono variare a seconda della gravità del comportamento. Ricorrendo a questo approccio, solitamente la scuola si aspetta di scoraggiare il ricorso a comportamenti aggressivi, far capire le differenze tra un comportamento adeguato ed uno sanzionabile, dimostrare che le regole della scuola devono essere rispettate, in quanto la scuola è una comunità sicura che si prende cura dei suoi alunni. Secondo Rigby22, l’approccio disciplinare può essere esercitato in modo cieco ed autoritario, o in modo fermo ed autorevole; quest’ultimo consente, pur insistendo sull’importanza dell’osservanza delle regole, di mantenere il rispetto per lo studente. L’utilizzo di strategie disciplinari risulta più efficace quando le norme legate al loro uso sono chiare, accettate dalla comunità scolastica e non percepite come arbitrarie. L’utilizzo rigido di sanzioni quasi fossero uno strumento magico in grado di cambiare atteggiamenti e comportamenti dei bulli e, allo stesso tempo, migliorare lo stato di benessere delle vittime appare alquanto illusorio. Inoltre, la punizione usata come “strumento educativo” può essere pericolosa o controproducente, in quanto implica una gerarchia di gravità dei comportamenti aggressivi, che si sbilancia a favore dell’aggressività fisica, rispetto a quella morale e non sempre la punizione è strettamente connessa con il comportamento che si vuole punire, cosicchè essa sembra un mero atto di forza dell’autorità che incre-

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Rigby, K., Bullying Intervention: six basic approaches, Acer Press, Camberwell, 2010.

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menta l’ostilità verso la scuola. Infine, questo approccio si concentra sull’attore delle prepotenze, mettendo ai margini sia il gruppo che le responsabilità di ogni singolo studente nelle dinamiche relazionali della classe. Tale approccio non dovrebbe mai essere l’unica strategia utilizzata da una scuola per fronteggiare il fenomeno del bullismo ed, inoltre, dovrebbero essere conosciute da tutto lo staff le punizioni previste in caso di infrangi mento di regole, cosi come le punizioni stesse dovrebbero essere appropriate e tempestive in modo che il bullo tenga bene a mente per cosa è punito. Fondamentale è evitare ingiustizie o arbitrarietà di comportamento, in quanto porterebbero gli studenti a nutrire minore rispetto verso la scuola, a considerare le punizioni meno seriamente e, di conseguenza, ad una minore efficacia dell’intervento stesso. L’approccio di riparazione mira a ripristinare le relazioni attraverso il coinvolgimento degli studenti protagonisti di episodi di bullismo, soprattutto bulli e vittime. Il focus è costituito dalle interpretazioni della situazione da parte dei soggetti coinvolti e dalla riflessione sui motivi e sulle possibili soluzioni, che consentano di imparare dall’esperienza. Utilizzando questo approccio si attribuisce molta importanza alla responsabilità personale, sia per quanto riguarda le conseguenze delle proprie azioni, sia per quanto riguarda le azioni volte a rimediare a comportamenti che hanno provocato danno o malessere negli altri. L’accento è posto sulla riparazione del danno e sulla ricostruzione delle relazioni. I punti chiave di questa tipologia di interventi sono: - la condivisione dei diversi punti di vista su cosa è successo; - la condivisione di opinioni, pensieri ed emozioni che gli studenti hanno sperimentato durante gli episodi di bullismo; - l’identificazione delle vittime come coloro che hanno subito un danno o un’ingiustizia e che si trovano ad esperire uno stato emotivo negativo; - l’identificazione delle esigenze di tutti gli studenti coinvolti; - la negoziazione sul modo per soddisfare le esigenze di tutti, la definizione chiara dell’accordo tra le parti e la previsione di una revisione per valutare il successo dell’intervento. La rimozione della minaccia del castigo e dell’attribuzione di colpa aprono la strada ad un processo di discussione che aumenta la consapevolezza emotiva e richiede la comprensione delle emozioni delle altre persone. Quando la situazione a scuola non è particolarmente grave, è possibile coinvolgere solo gli studenti, mentre in condizioni di maggiore gravità è necessario ampliare l’intervento ai genitori. L’approccio supportivo è costituito da interventi per aiutare e supportare le vittime di bullismo, che possono essere incentrati su diversi aspetti, come il potenziamento dell’autostima, la gestione dello stress, e possono essere utilizzati sia in piccoli gruppi, sia con i singoli studenti. Occorre evidenziare che particolar71


mente produttivi risultano essere i gruppi con le vittime di bullismo, in quanto è possibile mettere in atto dinamiche di confronto e di condivisione che con più facilità permettono di rimettersi in discussione e di sperimentare nuove modalità relazionali. Durante queste sessioni, le vittime sono invitate a riconoscere i propri aspetti e caratteristiche positivi, sperimentare, attraverso giochi di ruolo, modi efficaci per fronteggiare i bulli, interagire con gli altri membri del gruppo , anche allo scopo di stringere amicizie, parlare delle loro difficoltà nelle relazioni con i pari e pensare e condividere con il gruppo possibili soluzioni alle relazioni problematiche. Molto costruttivo per le vittime è lo sviluppo della resilienza, ossia la capacità di gestire i momenti di difficoltà senza perdersi d’animo e, pur nell’inevitabile disagio, trovare risorse per fronteggiare i problemi. A tal fine potrebbe essere utile fornire supporto, sia emotivo che operativo, in modo da consentire agli alunni di sentirsi meno stressati, meno vittimizzati e capaci di fronteggiare situazioni di disagio grazie alle proprie potenzialità. Tipiche strategie possono essere l’insegnare agli studenti a rispondere in modo calmo, chiaro e diretto al bullo, a prescindere dai tentativi di quest’ultimo di intimidire o di minacciare, o ad applicare tecniche di gestione dello stress, come il rilassamento fisico, il controllo del respiro, la visualizzazione. Tali strategie, se offerte attraverso un intervento continuativo e soprattutto se pienamente contestualizzate rispetto alle problematiche delle vittime, solitamente permettono di aumentare l’autostima e l’autoefficacia percepita delle vittime stesse.

2.10 Conclusioni La maggior parte dei programmi di intervento anti-bullismo esistenti in letteratura prevede una serie di caratteristiche comuni, che sono diventate condizioni indispensabili affinchè si possa fronteggiare il bullismo: l’ approccio ecologicosociale, la formazione adeguata e continuamente aggiornata del personale della scuola, il ruolo attivo degli studenti, che devono essere supportati nel dare il giusto valore alla loro autostima ed alla loro autoefficacia, il coinvolgimento dei genitori, adulti significativi, insieme agli insegnanti, di questa problematica socio-relazionale. Oltre a considerare l’adattamento necessario di ciascun modello d’intervento alla realtà in cui il fenomeno si verifica, un altro aspetto rilevante è costituito dalla valutazione dei programmi anti-bullismo, che permette di avere un feedback sia sui punti di forza che sui punti di debolezza del lavoro svolto, e di dare un’interpretazione completa di quanto è accaduto, in modo da far prendere le decisioni più opportune da parte di chi è coinvolto nel programma d’intervento stesso. 72


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York, 1978. - Peci, M., Cuzzocrea, V., La cultura della legalità. Riflessioni, percorsi e prospettive, URS Lazio, Osservatorio Regionale Permanente sul Bullismo, Roma, 2010. - Rigby, K., Bullying Intervention: six basic approaches, Acer Press, Camberwell, 2010. - Sabatello, Lo sviluppo antisociale: dal bambino al giovane adulto. Una ��������� prospettiva evolutiva e psichiatrico-forense, Cortina, Milano, 2010. - Ttofi, M. M., Farrington, D. P., What works in preventing bulluing?, in Journal of Aggression, Conflict and Peace Research, n° 1, pp.13-24. - Zanetti, M. A., L’alfabeto dei bulli. Prevenire relazioni aggressive a scuola. Erickson ,Trento, 2007.

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Cap. 3 Questioni e prospettive educative del bullismo di Riccardo Mancini23

3.1 Il bullismo: origini ed orientamenti educativi Nel corso del XXI secolo il clima di crescente preoccupazione per la salvaguardia dei diritti e delle identità individuali e comunitarie ha visto imporsi l’attenzione su tutti quegli abusi di razza, sesso, cultura, disabilità o religione. Una deferenza capillare di ogni singolarità, soprattutto in contesti formativi ed educativi, ha evidenziato la necessità di occuparsi e riflettere circa i fenomeni di devianza, in modo particolare quelli riferibili ad una condotta sociale deficitaria. Sono queste le ragioni che spingono a mettere luce su una particolare discrasia educativa e cioè quella del fenomeno bullismo. Molti autori, infatti, hanno dissertato sul bullismo, giungendo alla conclusione che non solo rappresenta una sfaccettatura e problematica educativa, ma si presenta anche piaga sempre più presente in ogni società e scuola di ordine e grado. A partire dalle prime ricerche sul bullismo, effettuate e riassunte da Dan Olweus sul finire degli anni Settanta, si ha più di un trentennio di indagini e ricerche, anche se è solo dagli anni Novanta che l’attenzione internazionale pone risalto a tale questione, da quando, cioè, Stavanger, Bergen e Sheffield presentano i risultati delle loro osservazioni e sperimentazioni. Da un punto di vista storico e cronachistico il bullismo ha subito nel corso del tempo notevoli trasformazioni, sia per quello che riguarda una sua definizione e determinazione epistemologica, sia per quello che concerne l’azione contestuale. Nel 1980, ad esempio, il bullismo era scandito come una diretta azione denigratoria/violenta di natura fisica/verbale compiuta da parte di un soggetto, mentre negli anni Novanta, per mezzo delle indagini compiute da Bjorkqvist, Crick ed Underwood, il campo di applicazione e di studio si è notevolmente allargato andando a sfociare nelle manifestazioni indirette di aggressione, aggressività relazionale e aggressività sociale24. 23

Riccardo Mancini è ricercatore di Pedagogia generale e sociale, Filosofia dell’educazione e didattica e pedagogia speciale presso l’Università degli Studi e-Campus. 24

A tal proposito, tra i più rilevanti contributi nazionali ed internazionali è possibile ricordare:i De Rosier e Marcus del 2005, Hanish e Guerra del 2004 e di Espelage e Swearer sempre del 2004.

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La semantica della parola bullismo deriva dal verbo inglese “to bully” che, anche se non trova una esatta corrispondenza nella lingua italiana, esprime un comportamento volto ad angariare/perseguitare, mentre “bullying”, secondo Mesini 2000, ha una accezione di un’azione prepotente compiuta tra pari25. Come evidenziato da Parke e Slaby26 il bullismo rappresenta una determinata forma dialogica e relazionale dell’aggressività proattiva o passiva, racchiudendo in sé comportamenti violenti e/o inattivi di una o più persone. Scrutando nella letteratura pedagogica è possibile definire il bullismo come una sorta di sottocategoria del comportamento aggressivo, “di un tipo particolarmente malvagio, poiché è diretto in modo ripetuto verso una vittima che non è in grado di difendersi, schiacciata dalla forza del numero, o più giovane, meno forte o semplicemente meno sicura di sé. Il ragazzo o i ragazzi che agiscono in maniera prepotente possono approfittare di questa opportunità per acquisire gratificazioni personali, uno status di prestigio nel gruppo o in alcune occasioni di guadagni materiali”27. Per mezzo delle riflessioni espresse da Olweus et al. è possibile distinguere diverse tipologie di bullismo: - interiore, manifestazioni di rifiuto o protesta che derivano da uno stato di alterazione dell’Io intrinseco; - esteriore, scaturito da un Io sociale compromesso nelle relazioni che il soggetto rinnova con i propri simili; - diretto, comportamenti di prevaricazione visibili ed espliciti da parte del bullo. Solitamente tali condotte vengono usate dai maschi quali forme di prevaricazione fisica, di leadership e di status all’interno del gruppo; - indiretto, di difficile circoscrizione in quanto azioni poco rintracciabili ed esplicite. Come asserisce Fonzi nel 1997, questi gesti generano allontanamento ed isolamento della vittima dal gruppo, in quanto mirano alla rottura delle relazioni sociali, al danneggiamento dell’immagine ed all’impossibilità di creare nuove Oltre all’aspetto epistemologico, a conferma della diffusione del bullismo è possibile menzionare la ricerca condotta in America da Nansel et al. del 2001, nella quale si evidenzia che su un gruppo di 15.000 studenti, compresi tra la prima media e la seconda superiore, circa il 30% è vittima o artefice di atti bulli. 25

Di qui la coniazione del termine bullismo volto ad esprime una condotta prolungata e/o occasionale di coercizione e/o sopraffazione verbale e/o fisica da parte del bullo e/o della vittima. 26

Parke R.D., Slaby, R.G., The development of aggression, in Mussen P. H., Handbook of Child Psychology, Wiley,New York 1983 27

Smith P. K., Morita Y., Olweus D., Catalano R., Slee P., a cura di, The nature of school bullyng: a cross national perspective, Routledge, London 1999

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amicizie da parte della vittima. Genericamente appartengono ad un bullismo di tipo femminile. Sebbene ancora non menzionato nella bibliografia di settore quali disturbi specifici dell’apprendimento, di certo il bullismo rappresenta una delle più marcate e presenti forme di “problema di comportamento” all’interno delle scuole. Queste condotte “tendono ad assumere diverse configurazioni in base a una serie di variabili demografiche, a cominciare dall’età. Infatti, alcuni atteggiamenti oppositivi tipici della prima infanzia possono evolvere verso comportamenti palesemente aggressivi in adolescenza e nella prima età adulta”28. D’accordo con quanto espresso da Fedeli, il bullismo investe molte variabili educative, comportamentali ed apprenditive, sia per i singoli soggetti, sia del gruppo in cui essi si trovano inseriti. Di qui una percezione del bullismo non più circoscritta all’interno di semplicistiche categorie o tassonomie volte a sedare o ad allontanare eventi di colluttazioni fisica o manifestazioni esplicite di tentativi di sottomissione, ma considerante molte più interpretazioni. Se fino non molto tempo fa il bullismo, infatti, era considerato come un “deficit socio-cognitivo”, cioè uno stile comportamentale avente dei deficit nell’apprendere competenze prosociali e nell’elaborazioni delle informazioni provenienti dall’ambiente circostante, a partire dalle ricerche di Sutton, Smith e Swettenham29, tenutesi alla fine dello scorso secolo,il bullo è considerato come un soggetto con elevate capacità socio-cognitive e di controllo del pensiero altrui al fine di ottenere un vantaggio personale. Non a caso Smith e Sharp definisco il bullismo come un “abuso tra pari”, sottolineando un aspetto specifico della condotta violenta o aggressiva in un contesto paritario. Di qui il ruolo giocato dall’educazione, la quale si pone come garante di un’evoluzione armonica,individuale e comunitaria, in modo particolare mallevadrice di qualità delle relazioni sociali all’interno dei vari contesti socio-affettivi. Su tali aspetti Rigby30 connota il bullismo come un abuso regolare di potere. L’obiettivo principale dell’azione bulla, infatti, non è solo di natura materiale o di appropriazione di qualcosa, piuttosto di dominare la relazione, determinando le 28

Fedeli D., I problemi di comportamento, in Cottini L., Rosati L., Per una didattica speciale di qualità. Dalla conoscenza del deficit all’intervento inclusivo, Morlacchi Editore, Perugia 2008 29

Sutton J., Smith P. K., Swettenham J.,Social cognition and bullying: Social inadequacy or skilled manipulation?, in British Journal of Developmental Psychology, n° 17, 1999 30

Rigby K., New perspectives on bullying, Kingsley, London 2002

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modalità, le prospettive, gli obiettivi e le gerarchie della relazione tra i soggetti31. Di qui lo stretto legame che unisce l’aggressività al bullismo, spesso in rapporto di causa ed effetto. L’aggressività è un carattere specifico del comportamento umano, la quale tende ad attivare condotte violente e/o ostili nei confronti degli altri, dell’ambiente o di se stessi. Per Hobbes l’aggressività è una tendenza innata dell’uomo in quanto appartenente alla sua natura, mentre per Jung trova i suoi natali nella compensazione psicologica. All’origine dei problemi di aggressività individuale o di gruppo risiedono due fattori: 1. elementi neurobiologici, cioè le inclinazioni genetiche, le alterazioni strutturali e funzionali dei neurotrasmettitori ed il livello intellettivo; 2. variabili contestuali e sociali, quali la frustrazione, i processi di apprendimento, la carenza di abilità specifiche ed le condizioni educative. Di qui è possibile evidenziare tre aspetti della condotta bulla: - il comportamento aggressivo si manifesta per mezzo di azioni motorie e/o verbali; - l’intenzionalità nei gesti e nelle azioni esclude che questa derivi da altre patologie di comportamenti impulsivi ed incontrollati; - la condotta aggressiva è attuata, nella maggior parte delle volte, al fine di arrecare un danno, fisico o psicologico, nei confronti della vittima. La complessità del fenomeno riguardante i comportamenti aggressivi, tra cui spicca il fenomeno del bullismo, viene ampliata dalle forme con cui esso si realizza. Abbondanti sono stati i tentativi di classificazione del comportamento aggressivo, anche se si è costretti a rilevare che altrettanti sono stati i risultati parziali a cui si è giunti. Tra le tante tassonomie espresse a riguardo è possibile sottolineare: - L’Approccio descrittivo, nel quale vengono messe in luce le variabili di direzionalità e topografia dell’azione. Come evidenzia Fedeli32 è possibile circoscrivere tre criteri tra cui: iniziativa dei comportamenti (attivi e passivi), mediazione dei comportamenti (diretti-indiretti) e direzione dei comportamenti (autodiretti-eterodiretti). Il comportamento aggressivo può presentarsi in tutte le combinazioni possibili di queste variabili; - L’Approccio funzionale, in cui si tende a rilevare le motivazioni sottostanti 31

Un’azione aggressiva, quindi, che è possibile delineare come “un qualsiasi atto osservabile emesso intenzionalmente per arrecare danno a persone, animali o cose” (Moffit e Lyanam 1994). 32

Fedeli D., Il bullismo. Oltre. Vannini, Brescia 2007

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l’azione. Si distinguono, così, azioni aggressive strumentali - volte ad avere un vantaggio -, comportamenti irritanti o di disturbo fine a se stesso, aggressività di tipo emozionale in cui si evidenziano malfunzionamenti nella relazioni e nella gestione dei propri sentimenti, comportamenti di tipo difensivo e comportamento antisociale in cui il soggetto non rispetta le norme che vigilano in un dato contesto; - L’Approccio psicopatologico, quale analisi di atti aggressivi visti secondo una dicotomia precisa: aggressività manifesta (attacchi di tipo fisico e verbale) ed aggressività nascosta (non palese). Vengono evidenziati, inoltre, fattori ereditari, neurobiologici, familiari-educativi, socio-ambientali e di cronicità contestuale; - L’Approccio evolutivo, in cui vengono presi in considerazione la genesi e lo sviluppo dei comportamenti aggressivi. Il bullismo rappresenta una specifica forma di comportamento deficitario, la maggior parte delle volte di tipo aggressivo, che si innesca qualora il soggetto non si trovi in totale armonia con se stesso o con l’ambiente che lo circonda. Come evidenziato, il bullismo assume diverse forme e sfaccettature, le quali possono essere riassunte per mezzo di determinati elementi: - il contesto di riferimento: tipo di società, fattore economico, grado culturale, nucleo famigliare di provenienza, valori culturali, etc.; - la natura espressiva dell’atto: verbale, indiretto o fisico; - la collocazione temporale: il suo variare cronologico-evolutivo. È significativo notare che all’interno degli atti “bulli” non intervengono solo gli attori direttamente interessati, ma una pluralità di soggetti e di dinamiche, anche se esso si presenta costante nelle sue caratteristiche generali: - l’intenzionalità: l’atto risulta essere volontario e cosciente; - la ripetitività: l’azione è ripetuta più volte durante il corso del tempo e nei luoghi; - l’asimmetria nella relazione: un soggetto prevarica un altro per mezzo di azioni verbali, indirette o fisiche; - totalità partecipativa: l’atto non investe solo colui che compie l’azione (il bullo), ma anche la vittima,il gruppo di appartenenza e l’adulto; - distinzione di ruoli precisi: il persecutore (chi compie l’azione), l’aiutante (seguace e/o partecipatore), fiancheggiatore (sostiene e rinforza senza intervenire direttamente), difensore (colui che si schiera da parte della vittima) e soggetti esterni (non si interessano della situazione, ma cono-

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scono la situazione). Come evidenzia Smorti33, per parlare di bullismo occorre che siano presenti contemporaneamente tali elementi. Se, infatti, mancasse una sola variabile sarebbe più giusto parlare semplicemente di aggressività, conflitti o sopraffazione. La variabilità dei ruoli spesso è determinata dai fattori famigliari. Ci sono alcune prove che, ad esempio, associano il ruolo di vittima a contesti famigliari iper-protettivi o, viceversa, quello di bullo ad ambienti lascivi e poco predisposti al contatto umano. Secondo ricerche condotte da Hanish e Guerra le figure principiali del bullismo, quali il bullo e la vittima, rientrano in determinati stili di condotta. I bulli, ad esempio, sono solitamente ragazzi che hanno voti bassi, fumano, bevono e conducono una vita al di sopra delle regole e delle norme di comportamento, mentre le vittime demarcano una elevata difficoltà a crearsi una vita sociale soddisfacente, sono generalmente introversi e tendenti all’isolamento e al nichilismo. Rubin Bukowski e Parker 34evidenziano che queste caratteristiche della vittima facilitano l’azione bulla, in quanto mette al riparo il bullo da minacce,vedette e ripercussioni. Un elevato numero di ricerche, tra cui quella di Duncan del 1999, sottolineano un possibile “mutamento” dei ruoli, cioè il passaggio da bullo a vittima o viceversa, da parte di uno stesso soggetto e che quest’ultimi risultino più a rischio di devianza di chi invece è per così dire “puro”. Il ruolo assunto può modificarsi allorquando i vari contesti entro cui un soggetto è inserito e le variabili di riferimento si modificano e si trasformano. Un’altra area di controversia speculativa risiede sulla considerazione se i bulli possiedono una bassa autostima o meno. Alcuni scienziati, tra cui O’Moore35, osservano che i bulli possono segnare un valore medio sui test di autostima, ma che in realtà hanno un elevato egoismo e sono guidati da un pensiero altamente narcisistico e molto sensibile a qualsiasi critica. Oltre allo spiccato senso dell’Io individuale, consistenti studi comprovano che il fenomeno del bullismo sia legato ad altri disturbi di ordine psicologico, che non il solo il fattore aggressivo. In particolare è possibile rilevare che nel bul33

Smorti A., Lo sviluppo sociale, in Fonzi A., a cura di, Manuale di psicologia dello sviluppo, Giunti, Firenze2001, p. 301 34

Rubin K.H., Bukowski W., Parker J. Peer interactions, relationships, and groups, in Eisenberg N., Handbook of Child Psychology: Social, emotional, and personality development, Wiley, New York2006 35

O’Moore M., Critical issues for teacher training to counter bullying and victimisation in schools. Aggressive Behavior, 2000

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lo sono presenti elementi psicologici quali: iperattività, scarso autocontrollo, problemi di condotta, poca responsabilità ed irritabilità (esternalizzati); mentre per le vittime si registrano problemi di fobia, insicurezza, passività nei rapporti, disturbi psicosomatici e comportamenti auto-lesivi (interiorizzati). Anche se come accennato si è convinti che i ruoli possano modificarsi nel tempo e nei luoghi, generalmente questi rimangono invariati non solo nello stesso periodo o anno scolastico, ma si estendono anche al di fuori dei contesti formativi. A tal proposito è possibile rintracciare il profilo del bullo: - possiede un carattere impulsivo, aggressivo e prepotente sia nei confronti dei coetanei, sia degli adulti; - tende a dominare ed ha una bassa tolleranza al sacrificio e alle frustrazioni; - vede la violenza come “arma” per il raggiungimento dei propri obiettivi; - mostra una forte autostima ed ostenta la sua superiorità; - trasgredisce le regole e le norme appartenenti ad un dato contesto e non rispetta idee, giudizi, critiche ed opinioni altrui; - solitamente i risultati scolastici sono altalenanti e tendenti verso la mediocrità; - possiede poca empatia, sia nei confronti della vittima, che delle istituzioni educative; - non è dotato di coscienza civile e morale; - nasconde i problemi che generano l’azione ed il comportamento “bullo”. Per mezzo di queste caratteristiche è possibile evincere altre due tipologie di bullo: - bullo ansioso, colui che, oltre ad avere qualche somiglianza caratteriale con la vittima, in quanto soggetto ansioso, insicuro e poco socievole, possiede caratteri di alta litigiosità; - bullo passivo, un soggetto che diventa bullo indiretto in quanto non partecipe all’azione bulla, ma appartiene allo status del gruppo del bullo. Il bullo passivo, a differenza di quello aggressivo, non soffre di alessitimia e possiede un senso di responsabilità dell’azione. Nello stesso modo è possibile stilare il profilo della vittima: - ansioso, chiuso, riservato e poco incline ad atteggiamenti pro-sociali; - bassa autostima, immagine negativa di sé e sensazione di inadeguatezza sociale; - poca abilità nel relazionarsi con le emozioni e cattiva gestione della prevaricazione subita. Appare quanto mai evidente il fatto che una articolazione ed una classificazione così complessa ed articolata rende estremamente difficoltoso l’intervento 81


pedagogico ed educativo. Di qui la certezza che l’azione formativa richieda una sinergia pluridisciplinare e metadimensionale, nella quale sia possibile un’analisi ed una sintesi olistica. Infatti, è solo considerando tutti gli aspetti trascendentali e spirituali della persona che è possibile leggere in modo integrale il comportamento giovanile e, quindi, fronteggiare, o quanto meno lenire, il dilagare di queste forme di disagio o devianza. Certo è che il bullismo è un problema da affrontare secondo le sue molteplici sfaccettature e peculiarità, in quanto investe paradigmi e categorie di ordine psicologico, sociale, biologico, educativo ed antropologico. Oltre alla presa in carico del valore soggettivo, la sua equa espressione ed un’analisi multidisciplinare, non possiamo prescindere da una comunione di intenti dei vari luoghi e contesti educativi. Per “combattere” il bullismo occorre chiamare in causa non solo l’istituzione scolastica, ma anche la famiglia, il gruppo dei pari, etc.. A tal proposito Triani asserisce che:“anche in riferimento al dibattito odierno sul complesso fenomeno del disagio scolastico – che si può esprimere come bullismo, aggressività, difficoltà e demotivazione nello studio così come nelle dinamiche relazionali, nonché situazioni di noia e profonda apatia – risulta opportuna una lettura pluridisciplinare”36 capace di considerarne le molteplici dimensioni. Di qui la possibilità di schematizzare il problema del bullismo secondo le quattro vie enucleate da Connor37: - analisi sociologica, la quale schematizza il comportamento aggressivo come l’esito di variabili sociali inadeguate, cioè come la difficoltà del soggetto ad instaurare un rapporto proficuo con la società stessa; - educazione famigliare, quale fonte di ansie e stress riversati nel comportamento al di fuori delle mura domestiche; - dinamiche della classe, variabili che ampliano il profilo psicologico; - rete amicale, il gruppo dei pari; - studi legislativi, aventi il valore di richiamare il fatto che la devianza comportamentale sia una infrazione a leggi e norme sociali; - prospettiva medica, nella quale vengono presi in considerazione elementi eziopatogenetici di natura neurobiologica; - valenza psico-educativa, secondo la quale il comportamento aggressivo è la conseguenza di una carenza ad apprendere competenze ed abilità prosociali. Il bullismo è un poliedro da mille sfaccettature, le quali assumono una rilevanza più o meno marcata in base dalla prospettiva di analisi da cui le si osserva. 36 37

Triani P., Leggere il disagio scolastico, Carocci, Roma 2006, p. 16

Connor D. F., Aggression and antisocial behavior in children and adolescent, Guilford, New York 2002

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Una multidimensionalità che garantisce una difficoltà epistemologica e di ricerca. Di qui la necessità di una trattazione pedagogica, o meglio secondo quel modello di antropologia pedagogica capace di riflettere su un problema che, se analizzato con altre modellistiche, raramente trova soluzioni pertinenti all’interno delle agenzie educative o nei vari contesti sociali entro cui opera. Prevenire o per lo meno contrastare l’insorgere di azioni “bulle” è un imperativo educativo di fondamentale importanza, soprattutto oggi che la società richiede persone autonome, aperte e capaci di esprimere collettivamente se stessi. Un problema di viva attualità, quindi, che gli ultimi dati confermano quale una delle principali piaghe scolastiche. Gli studi riferiti all’anno scolastico 2009/2010, infatti, denotano situazioni di particolare difficoltà in cui riversano le scuole. Le statistiche, inoltre, rilevano che la forma più diffusa tra i comportamenti per così dire anti-sociali è rappresentata da vere e proprie azioni bulle. Oltre a ciò, a confermare la pericolosa tendenza che si sta generando all’interno delle istituzioni educative, recenti indagini38 riportano, nel 10° Rapporto Nazionale sulla Condotta dell’Infanzia e dell’Adolescenza, il fatto che i fenomeni di bullismo sono decisamente diffusi in tutto il territorio nazionale e sono in pericolosa crescita. Minacce o atti di prepotenza, continue violenze, discriminazioni razziali e colluttazioni, anche se con le dovute distinzioni geografiche, oscillano tra il 10% e il 45%. Agli stessi risultati è giunto il questionario abbinato alle prove OCSE-PISA (Programme for International Student assessment). In questa circostanza sono state chieste informazioni sullo stato generale di eventi o atti bulli in conformità alle esigenze disciplinari. Da tali studi si è potuto constatare che l’indice Clima disciplinare (derivante da indicatori di benessere scolastico e di rapporti tra gli studenti), posto in correlazione con i risultati ottenuti nella lettura, rileva una forte sinergia tra il comportamento “bullo” e risultati scolastici scadenti. Tutto ciò indica che il bullismo, oltre ad essere una piaga sociale, rappresenta anche un pericoloso “killer educativo”. Secondo Chon e Canter al fine di eliminare o per lo meno limitare il bullismo all’interno delle scuole occorre: - responsabilizzare maggiormente i “ragazzi più grandi” circa l’andamento comportamentale all’interno della scuola; - stabilire univocamente delle regole e delle sanzioni; - formare dei gruppi di supporto, solitamente di studenti più grandi, per 38

fonte: Ministero della Pubblica Istruzione, Euripes e Telefono Azzurro

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le vittime; pubblicizzare le sanzioni delle azioni bulle; rafforzare il comportamento delle vittime e del ruolo dei genitori; organizzare piani di recupero sociale e psicologico sia per i bulli, sia per le vittime; - creare ambienti sfavorevoli al sorgere di azioni bulle. Un’ulteriore strada da percorrere per la risoluzione di tale piaga sociale risiede nella “cultura del benessere” (nella sua duplice veste di interiorità e dialogicità) e nella transizione ed interiorizzazione di norme sociali, morali, etiche e civiche. Il bullismo, infatti, può essere descritto come assenza di benessere interiore, e perciò bisognoso di interventi volti a ristabilire l’equilibrio di quello che Solms e Turnbull39 avrebbero descritto come mondo interno. Siamo convinti che ogni tipo di devianza sociale derivi dall’impossibilità di trovare il senso del proprio esistere, dando ragione a molti autori quando sottolineano il fatto che oggi lo spirito giovanile, che ha da sempre trasformato intere società in quanto forza propulsiva di avanzamento comunitario, si stia lentamente spegnendo e trasformando in una “una forza di inerzia, una specie di sonno” (Jedlowski, 2008). Nel “deserto emotivo”, creato dal nichilismo e dall’individualismo sfrenato, prosperano e dilagano i fenomeni di devianza giovanile, dichiara Galimberti. Il disagio giovanile può esprimersi, infatti, “in modi differenti: bullismo, dispersione scolastica, abuso di droghe e alcool, comportamenti anomali caratterizzati da dipendenza e compulsività, azioni esprimenti distruttività e violenza”40. Il disagio è difficile da descrivere sia per i bambini che per gli adolescenti in quanto molti tendono a nasconderlo, aspettando che passi. “Nel caso di bambini e ragazzi, le difficoltà di comunicazione di questo male sono maggiori rispetto al soggetto adulto; può accadere che un genitore o un insegnante non si accorgano di nulla finché non compaiono comportamenti preoccupanti[…] preceduti da sintomi come: • Enuresi • Timori e paure eccessivi o inadeguati per l’età • Mania d’ordine e controllo, associati a idee ossessive e comparsa di rituali ripetuti quotidianamente • Eccessiva ansia e persistente preoccupazione • Espressione triste, tendenza all’isolamento, difficoltà nel sentirsi a proprio agio con i compagni, facile comparsa di sensi di colpa o inferiorità, vergogna patologica - - -

39

Solms M., Turnbull O., Il cervello e il mondo interno, Raffaello Cortina Editore, Milano 2004 40

Di Blasio C., Psicologo a scuola, UNI Service, Trento 2009, p. 9

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• Disattenzione, irrequietezza, nervosismo • Comportamento aggressivo, impulsivo incontrollato, associato ad attacchi d’ira improvvisi • Precoce assunzione di alcool, uso di droghe, tabagismo, disturbi dell’alimentazione • Somatizzazione sotto forma di dolore e malessere come mal di testa e mal di pancia • Improvviso calo di rendimento scolastico, tendenza a esigere troppo da se stessi e perenne insoddisfazione”41. Bethel42, assieme al filosofo nordamericano Norton, ravvisa che nei paesi occidentali ed industrializzati la moralità pubblica e privata è sempre più in evidente stato di crisi, tanto da portare alcuni ricercatori a parlare di “crisi di carattere morale”. Sostanzialmente questa situazione è attribuita al fatto che l’integrità e la moralità raramente sono date come una peculiarità personale a-priori e nemmeno viene ad essere educata e stimolata. In tal senso il “valore esistenziale” assunto da ognuno dovrebbe essere la prospettiva teorica di riferimento, al fine di far rimanere viva la possibilità di pensare il processo formativo come un’azione costruttiva e di sviluppo individuale e collettivo, lontana, quindi, dalle intemperie delle disfunzioni sociali. Una possibile strategia è data dall’educazione olistica, la quale affronta e dirime le diverse dimensioni umane nel loro complesso e approda ai valori (culturali, civici, etc.) quali garanti di una vita ricca e soddisfacente. Forbes43 rileva che la crisi dell’educazione risiede nei “paradigmi materialistici”, i quali dimenticano che le persone possiedano connotazioni ben oltre la sfera biologica e fisiologica; elementi che si estendono oltre il soggetto stesso e che gli olistici descrivono come “ordine universale” o semplicemente “spirito”. Dello stesso parere sono le parole espresse da Aldous Huxley nel tratteggiare tali peculiarità. L’umanista e pacifista americano, infatti, descrive questo ordine di idee con la semantica di “filosofia perenne”; verità costanti alle quali ogni soggetto deve rifarsi e dalle quali non è possibile prescindere. A partire da questi principi generali, Forbes44 circoscrive quattro paradigmi attraverso i quali è possibile una educazione ai valori in modo olistico, i quali collimano con i pilastri dell’educazione indicati tre anni più tardi da Jacques Delors nel celebre lavoro “Nell’educazione un tesoro. Rapporto all’UNESCO della Commissione Internazionale sull’educazione per il Ventunesimo Secolo” del 1999: 41 42

Di Blasio C., Psicologo a scuola, UNI Service, Trento 2009, p. 10

Bethel D. M., The role of work in personality development and holistic learning, Encounter, n°11, 1998 43 44

Forbes S., Values in Holistic education, Roehampton Istitute London, London 1996

Forbes S., Values in holistic education, Third Annual Conference on Education, Spirituality and the whole child, Roehamton Intitute London 1996

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1 - Imparare a vivere insieme. I rapporti basati su strutture di significato, piuttosto che su ordini di tradizione è stato uno dei motivi per cui l’educazione olistica ha dato un valore centrale alle competenze relazionali. Uno dei paradigmi risolutori dell’educazione olistica è, infatti, la percezione di ciò che serve per imparare a vivere meglio insieme: competenze per la costruzione di comunità armoniche. Una educazione integrale definisce un ambiente educativo in cui le relazioni, l’apertura, l’onestà e la comunicazione risultino simmetrici, le differenze siano valutate in maniera positiva in quanto portatrici di evoluzioni, il benessere comune sia responsabilità individuale e i processi decisionali siano sottoscritti ed accettati da tutti i membri; 2 - Imparare a collaborare. L’enfasi da porre sullo spirito di cooperazione e cooptazione, piuttosto che sulla concorrenza e competizione, appare essere una strategia vincente di ogni società. Non focalizzare più la formazione all’insegna della classificazione e della ricompensa stimola motivazioni intrinseche, le quali risultano di gran lunga più efficaci che quelle imposte dall’esterno. Un dialogo che stimola la parte più profonda del nostro essere e che reclama continui orientamenti, sollecitazioni e riflessioni; 3 - Imparare la democrazia. Si è sempre ritenuto che i programmi gestiti dal Governo siano meno importanti che le reali esigenze e bisogni educativi. A ragione di ciò Freire afferma che abbiamo bisogno di un cambiamento radicale nella struttura tradizionale di autorità che determinano l’organizzazione formativa ed educativa. L’unica soluzione che si scorge all’orizzonte, palesa Forbes, è rappresentata dalla concezione romantica del soggetto, dove la persona non è vista semplicemente come parte di un sistema sociale o economico, ma insieme di spirito, trascendenza e umanità. L’uomo, così, viene ad essere salvaguardato in quanto espressione o entità contenente il “sacro ed il profano”; 4 - Imparare dalla diversità. Se si è concordi che all’interno di ogni uomo sia presente del sacro, allora l’espressione di questa venerabilità è da salvaguardare e rispettare. L’educazione ha bisogno di essere principalmente un processo di sviluppo espressivo e ricerca di se stessi per e negli altri; se mal gestita, può annientare ed annichilire, ma soprattutto può dare origine a forme comportamentali antisociali e di rifiuto. La vicinanza tra soggetto docente e discente, ad esempio, ha l’obbligatorietà di orientare ed indirizzarsi verso un percorso di miglioramento continuo e biunivoco, una strada da percorrere insieme secondo canoni e sostegni sempre presenti. Non basta, quindi, la simultanea presenza di più soggetti per rendere un rapporto una “relazione educativa”, così come non soddisfa la contemporanea presenza di più individui per formare una società (modello multiculturale). Occorre, piuttosto, che si instaurino delle congetture basate sulla fiducia e sul rispetto reciproco, le qua86


li autorizzano un avanzamento permanente individuale e collettivo secondo quel modello “amore con amore, fiducia con fiducia”(modello interculturale). Di qui la certezza che l’atto educativo non risieda solo nella conoscenza di una determinata area disciplinare o dei sui gangli più oscuri, ma in una formae mentis capace di maturare e progredire in comunione con lo sviluppo fisico e trascendentale appartenente alla persona umana. Dare primaria importanza allo sviluppo del carattere individuale, secondo Norton, significa dare importanza alla produttività oltre la mera ricezione, o, in altre parole, la responsabilità ha una priorità logica rispetto ai diritti. Ogni persona, infatti, ha diritto a che cosa gli è necessario per raggiungere la felicità, che lo stesso Aristotele definì “attività in base alla virtù”, ma questo deve essere sorretto da un pensiero responsabile ed equilibrato, quale fondamento della vita morale. La necessità di una educazione all’intelligenza prosociale è quanto mai evidente, in quanto predisposizione o naturale inclinazione da parte del soggetto a confrontarsi con l’altro per mezzo di una “comunicazione interpersonale”45. Detto in maniera più fruibile, infatti, l’intelligenza prosociale o sociale, esprimendoci alla golemaniana maniera46, è quella intelligenza che identifica tutte le forme di socializzazione47 e di abilità e/o competenze sociali appartenenti ad una determinata cultura. Di qui l’importanza della comunicazione sociale “come comportamento di apertura, che fa perno tuttavia su un raggiunto stato di sicurezza, ancora da consolidare ma tuttavia emergente. Persone adulte egoiste, chiuse in se stesse, insicure e nutrite di pregiudizi non sono capaci di socializzare, né tanto meno di progettare e realizzare un lavoro comune”48. Come sottolinea Roche Olivar, nel promuovere la prosocialità occorre che sia sradicata ogni forma di violenza o di conflitto, aumentando la stima reciproca tra le utenze e cercando modalità di contatto e comunicazione dirette. In tale prospettiva diventano fondamentali “il ruolo che i comportamenti prosociali possono avere nel rendere più intelligenti le emozioni e mostrando come la promozione della prosocialità possa divenire un percorso preferenziale per l’educazione e la maturazione di tale intelligenza”49. 45 46 47 48 49

Zani B., Selleri P., David D., La comunicazione, Carocci, Roma 2002 Goleman D., Intelligenza sociale, Rizzoli, Milano 2006 Cfr. Trentini G., Oltre il potere. Discorso sulla leadership, FrancoAngeli, Milano 1997 Rosati L., Parole e significati, Morlacchi, Perugia 1999, p. 85

Roche Olivar R., L’intelligenza prosociale. Imparare a comprendere e comunicare i sentimenti e le emozioni, Erikson, Trento 2002, p. 13

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Per rendere quanto appena espresso funzionale e fruibile occorre che ogni soggetto sia in possesso di competenze specifiche, riassumibili nella “cultura dell’empatia”, quale valore e direttivache dona significato a tutti quegli aspetti dialogici appartenenti all’uomo. Confermate in pieno le parole spese da Olga Bombardelli50, la quale richiama, già dai primi anni Novanta, la necessità di una educazione civica all’interno dei curricula scolastici51.

3.2 REGOLE PER CRESCERE di Agnese Rosati52 Il fiorire di studi, esperienze e progetti educativi che riguardano il bullismo, attestano l’attenzione che negli ultimi venti anni in particolare questo fenomeno ha richiamato, suscitando non solo attenzione e preoccupazione in ambito educativo o prettamente scolastico, ma nella stessa opinione pubblica che dimostra sensibilità di fronte all’emergere di un problema che chiede interventi specifici e mirati. I bulli non sono più i preadolescenti delle grandi periferie urbane, ma sono indistintamente ragazzi di “buona famiglia”, ovvero coloro che popolano quartieri benestanti e non certo dimenticati dalle autorità e dalle istituzioni. Il fenomeno, inoltre, non pare trovare una ben precisa collocazione spazio-temporale, se è vero che anche i paesi di provincia sono luogo ripetuto di eventi spiacevoli che portano alle cronache cittadine atti di vandalismo e di illegalità. L’apparente quiete delle piccole città viene spesso scossa da episodi spiacevoli, dei quali i protagonisti sono proprio loro, i giovanissimi, figli di genitori che a livello locale svolgono incarichi importanti ed hanno funzioni di tutto rispetto. Questo fa supporre che marginalità e devianza minorile non sono aspetti associati o unicamente dipendenti. Atti vandalici, episodi di intolleranza, sfregi, forme di diffusa e generalizzata violenza fisica, non sono dunque elementi che connotano il comportamento sociale di quei preadolescenti che la vita e le condizioni materiali hanno fatto 50

Bombardelli O., Educazione civico-politica nella scuola di una società democratica, La Scuola, Brescia 1993 51

Cfr. Mancini R., Segmenti sulla pedagogia della cultura, Margiacchi-Galeno, Perugia 2012 52

Agnese Rosati è ricercatrice di Pedagogia generale e sociale presso l’Università degli Studi di Perugia

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crescere troppo in fretta. I membri delle note e temute baby gang, difatti, sono sempre più spesso figli “insospettabili”, quelli di “buona famiglia” come si è soliti dire, come se genitori occupati professionalmente e con un elevato tenore socio-culturale fossero garanzia per la corretta crescita e lo sviluppo evolutivo dei figli. Forse è giunto il momento di riflettere proprio su questo; è vero, infatti, che “dietro” ai figli ci sono genitori, ma viene da chiedersi quanto siano davvero presenti, se li conoscono e se parlano con loro, dimostrandogli sensibilità e la disponibilità che soltanto il dialogo e l’ascolto possono mantenere vivi nel tempo. Ecco che l’attenzione di chi si occupa di educazione, in ambito familiare e sociale, si sposta sul genitore, il quale dovrà essere consapevole del proprio ruolo, per una genitorialità che si “acquisisce” col tempo, perché conseguita con lo sforzo, l’attenzione, la sensibilità e l’impegno progettuale. Il genitore dovrà anche saper aspettare, mettersi in discussione, riflettere sul potere del suo ruolo che esercita con maggiore o minore coscienza nel contesto familiare. Interrogarsi sulle attese, sulle scelte, sulle decisioni, sugli atteggiamenti ed i comportamenti da assumere vuol dire crescere come genitori insieme ai propri figli. Stesse competenze autoriflessive spettano agli educatori, non certamente rinchiusi ad operare nell’aula scolastica, ma attivi, impegnati, disponibili e pronti nell’offrire il loro contributo esperienziale e le competenze professionali agli allievi e ai loro genitori. Sicuramente un chiaro rapporto fra genitori, figli e insegnanti contribuisce a orientare i più giovani nelle scelte della vita, nell’assunzione di responsabilità e doveri che contribuiscono ad evidenziare anche la dimensione etica dell’educazione, per promuovere un cambiamento, descritto da Maria Montessori nei termini di una “conversione”, autopoietico, pertanto in atto da sé, anche se abbisogna di una guida53. Il bullismo, come dichiarano le ricerche e gli studi, non riguarda soltanto il contesto scolastico, ma pure il mondo professionale, così che possiamo con una certa sicurezza affermare che non esiste un’età cronologica capace di mettere al sicuro e al riparo dalla rabbia e dall’aggressività altrui, né a controllare la propria emotività. Si parla di mobbing nel mondo professionale, e questa non è che una forma differente, per tempi e modalità, del bullismo che siamo soliti circoscrivere all’età più giovane. Rabbia, violenza e soprattutto aggressività sono gli elementi di cui il bullismo si nutre, coinvolgendo la personalità dei più piccoli, la scuola, la famiglia e l’intera società civile. Tenendo conto di questi elementi il presente contributo 53

Cfr. Duccio Demetrio, Educatori di professione. Pedagogia e didattiche del cambiamento nei servizi extra-scolastici, La Nuova Italia, Firenze 1999, p.117.

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propone una riflessione su alcuni aspetti che permettono di comprendere il fenomeno: 1. caratteri ed espressioni del bullismo; 2. aggressività e violenza; 3. ruolo della scuola e della famiglia; 4. educazione (alla legalità e dei sentimenti) e progetti formativi. Si tratta di questioni problematiche che meritano attenzione, poiché fondamentali, a parere di chi scrive, per promuovere una maggiore consapevolezza che le dinamiche conflittuali di relazione richiedono. Inoltre trascurare questi nodi significa ignorare i problemi reali, derivanti dalla quotidianità e dai complessi meccanismi sociali, nella constatazione che i piccoli bulli di oggi sono gli adulti del domani.

1. Caratteri ed espressioni Il termine bullismo trae la sua origine dalla parola inglese bullyng con la quale si descrive un rapporto di prepotenza tra pari. Si tratta, difatti, di un comportamento aggressivo che secondo gli studiosi nasconde, rivelandola allo stesso tempo, una situazione o una condizione di disagio che perpetua nel tempo e che finisce per animare un comportamento delinquenziale predatorio. Per noia o insoddisfazione spesso i giovani diventano teppisti, con una irrefrenabile voglia di protagonismo che tende a sconfinare nell’illegalità, come se tutto, o quasi, fosse a loro consentito. In risposta e reazione ad un no, o in alternativa alla routine, vengono compiuti atti vandalici, si distrugge e si arreca danno non casualmente, bensì volutamente. È proprio l’intenzionalità, il voler danneggiare, distruggere o rovinare indistintamente cose, animali e/o persone, con l’intento di ferire e far soffrire gli altri, l’elemento dominante. Accanto a questa evidente intenzionalità si possono individuare ulteriori costanti del fenomeno: persistenza nel tempo e instaurazione di una relazione asimmetrica. Gli atti di sopruso e di violenza, con minacce e ingiurie, si protraggono nel tempo, diventando elementi costanti di una sorta di persecuzione. La relazione asimmetrica evidenzia la presunta forza, nutrita di aggressività e rabbia, della parte dominante che finisce per esercitare condizionamento nei soggetti più deboli, dei quali accentua la fragilità. Volontà di dominio e resa di sottomissione esprimono l’asimmetria di un rapporto “malato”, tale da generare squilibrio e indurre sofferenza. Il più debole pare arrendersi e soccombere al più forte che, spesso anche in virtù della sua forza fisica e psicologica, esercita un ruolo di potere. In queste circostanze vige la “legge della jungla”, come se fosse un fatto naturale assoggettare e controllare i più deboli da parte dei più forti che si affermano con il linguaggio della violenza. Anche 90


se in natura esistono forza e volontà di affermazione per perpetuare la specie, il gene della violenza sembra appartenere soltanto all’uomo. Negli animali, sostengono gli etologi, non c’è violenza e l’aggressività finisce per assumere una funzione prettamente strumentale. Desiderio da affermazione, volontà di sottomissione e intenzione di ferire, associati ad una forte componente di aggressività, sono i connotati del bullismo che si esprime in forme differenti. Nelle sue varianti, che sono quella diretta ed indiretta, il bullismo trova nei corridoi degli istituti scolastici, nelle palestre e nei luoghi meno frequentati e dunque più riparati dallo sguardo degli estranei spazi e luoghi migliori; stessa cosa può essere osservata negli atti di vandalismo, generalmente commessi di notte, come a voler lasciare un segno a cui è più difficile attribuire la responsabilità. Pugni, prese in giro, sbeffeggi e danneggiamento sono le modalità più usuali del bullismo diretto, mirato ad una vittima che può anche essere oggetto di minacce, maldicenze e pettegolezzi, talmente forti e incisivi sulla psiche umana tanto da provocare emarginazione ed isolamento. Minacce e dicerie, segno di bullismo indiretto, sono forme non meno violente ed aggressive per la personalità umana che le avverte e le vive con estremo disagio, alterando così le risposte comportamentali che rendono la vittima insicura, con una bassa stima personale che può emergere e rivelarsi con fastidiosi e prolungati disturbi psicosomatici, quali possono essere neuresi notturna, mal di pancia, di stomaco e di testa, ansia ed incubi. Tutto ciò, naturalmente, si ripercuote sull’apprendimento e sulla volontà di allontanarsi dalla scuola e dai luoghi solitamente frequentati dai coetanei. Il contributo fornito da psicoanalisti, sociologi, psicologi, antropologi e pedagogisti, consente di tracciare una sorta di identikit del bullo e della vittima, definendone i tratti del carattere e del comportamento. A scuola i bulli, forti della loro strafottenza e indifferenza, non godono di larga popolarità, anzi sono spesso evitati dall’intero gruppo-classe, pur se possono trovare supporto e sostegno in un ristretto numero di compagni. L’aggressività che impronta le azioni dei bulli, si manifesta con comportamenti violenti dal punto di vista fisico, come pugni e calci, o con atteggiamenti più indiretti, volti a far isolare ed emarginare i soggetti fragili. Maldicenze, sguardi minacciosi e gesti provocano nella vittima paura ed esclusione. Il bullo è sicuro che la forza e l’aggressività di cui non sa fare a meno rendano giustizia, lo onorino, permettendo il conseguimento dei risultati ambiti che raggiunge non curante degli stati d’animo e del dolore che provoca negli altri, accecato dalla indifferenza e dalla insensibilità, privo di limiti e di regole. Al contrario, la vittima, anche se “provocatoria” come potrebbe risultare perché incapace di reazioni di ira e di collera, mostra vulnerabilità in quanto ferita 91


negli affetti e nella personalità, violata nella stima di sé e, proprio per ciò, incapace di reagire e rassegnata a subire. Bassa autostima, carente sicurezza personale e difficoltà ad inserirsi nel gruppo, sono individuabili nella vittima dei bulli, segnata nel corpo e nella mente. Spesso, inoltre, lo studente-vittima è un bambino o un preadolescente che ha una storia di sofferenza in famiglia, ha vissuto esperienze traumatiche, è tendenzialmente depresso, prova ansia ed ha paura, segno abbastanza chiaro di brutti ricordi, di lutti, abbandoni, di un distacco o di una ferita affettiva non sanata. Accanto alla fragilità emotiva può esserci anche una carenza fisica, tale da alimentare il senso percepito e rivelato di goffaggine che ostacola nelle reazioni. Anche un difetto fisico, come ad esempio l’obesità o una difficoltà cognitiva, può essere l’elemento che attira l’attenzione dei bulli e che allo stesso tempo impedisce alla vittima di rispondere con sicurezza alle minacce e ai soprusi. Crescere in un contesto difficile, subire ingiurie e torti segna l’esperienza di ogni essere umano che ha bisogno di sentirsi accettato, accolto, curato. Inoltre, ricorda lo studioso polacco Kurt Lewin54, i bisogni sono in grado di condizionare la struttura cognitiva del presente psicologico, del futuro e del passato. I bambini, indipendentemente dal livello di sviluppo psico-fisico, risentono del contesto sociale e familiare nel quale vivono, dell’educazione e degli stimoli ricevuti che possono inibire e ostacolare l’autonomo percorso di crescita, come anche incentivarlo. Una madre fin troppo protettiva, ad esempio, pur dimostrando cure ed attenzioni per il proprio figlio, potrebbe inconsapevolmente creare in lui una situazione di forte dipendenza che se conferisce sicurezza nelle mura domestiche, potrebbe altresì creare insicurezza nell’ambiente esterno, ovvero nelle situazioni nelle quali si avverte l’assenza della figura di riferimento. Il soggetto vittima del bullismo abbastanza spesso è incline a chiudersi in sé e con restia svela le proprie paure e debolezze all’adulto; infatti, piuttosto che parlarne con lui preferisce custodire gelosamente i segreti, anche se avvertiti come pesanti e pressanti, cos da generare uno stato costante di sofferenza e di ansia. È un soffrire in silenzio e in solitudine quello delle vittime che spesso non trovano il coraggio di denunciare quanto avviene neppure con i compagni, di cui temono reazioni e giudizi. Paura e vergogna creano senso di inferiorità e di disagio, per rendere sempre più introversi quei bambini e quei giovani che non trovano la forza e il coraggio di dichiarare quanto vissuto, a volte per un avvertito senso di vergogna e di imbarazzo, oltre alla paura di ulteriori mi54

Cfr. K. Lewin, Il bambino nell’ambiente sociale, La Nuova Italia, Firenze 1963.

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nacce e ritorsioni. “Il guaio è che i grandi si illudono di sapere che cosa succede dentro la testa di un bambino di dieci anni. Ed è impossibile sapere di una persona che cosa pensa, se quella persona non lo dice”55. Le parole di Ian McEwan contengono una grande verità, spesso difficile da accettare da parte degli adulti, siano essi genitori e insegnanti che pensano di comprendere sempre, senza incognite e dubbi, quello che i più piccoli pensano. A volte, in ragione di ciò, assumono comportamenti superficiali, poiché minimizzando o tendono a non accorgersi nella speranza che con il tempo ogni problema si risolverà. Dialogo, apertura e ascolto attivo, invece, devono improntare ogni relazione umana, fra pari e fra adulti, sin dalla più tenera età. Tuttavia spesso, per l’educazione ricevuta dai propri padri o, ancora, per il carattere tendenzialmente schivo e riservato, i genitori non sono capaci di dialogare con i figli, e neppure gli insegnanti sempre ci riescono, perché “non bastano cultura e abilità tecniche a fare di un insegnante un «buon insegnante»”56, impegnato a crescere sotto il profilo professionale ed umano. La scuola, allora, dovrà rendersi spazio d’incontro, luogo di educazione all’ascolto e all’ esercizio di Sé, inteso come opportunità di crescita, di “ripensamento”e di riflessione sulle proprie capacità e attitudini. A fonte di ciò vi è un impegno che costringe a fare i conti con la realtà, per misurare le capacità comunicative e relazionali che si costruiscono e si perfezionano nel tempo, nella ferma intenzione di crescere in senso propriamente umano, nella condivisione di valori e di grandi idee nelle quali si può conciliare e ritrovare l’intera umanità57. Questo impegno che invita i docenti ad appropriarsi di una deontologia professionale seria e responsabile, potrà fare della scuola l’ambiente idoneo per la crescita degli allievi e dei loro genitori. Un fitto dialogo fra genitori-figli-maestri consente a tutti, indistintamente dall’età e dal ruolo sociale, di affrontare la vita con maggiore equilibrio anche qualora fossero presenti quei fattori di rischio di cui avvertono studi e ricerche, che potrebbero compromettere naturali relazioni sociali. A questo proposito alcuni studiosi evidenziano responsabilità di alterazioni comportamentali nella iperattività (ADHD, disfunzione di iperattività e di deficit di attenzione) e nella disfunzione nello sviluppo della coordinazione motoria 55

I.McEwan, L’inventore dei sogni, Einaudi, Torino 2002, in F. Cambi, C.Di Bari, D. Sarsini, Il mondo dell’infanzia. Dalla scoperta al mito alla relazione di cura. Autori e testi, Apogeo, Milano 2012, p. 10. 56 57

S. Angori, Insegnare. Un mestiere difficile, Bulzoni, Roma 2003, p. 29.

Cfr. M. Mencarelli (a cura di), La sfida dell’educazione, Lisciani &Giunti, Teramo 1981, p. 8.

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(DCD)58. Accanto ai fattori di rischio di cui la letteratura pedagogica e psicologica avverte, ci sono elementi che per la loro efficacia possono essere dichiarati fattori positivi, classificabili in tre gruppi: “1) le caratteristiche individuali della persona, quali le abilità cognitive e sociocognitive, temperamentali e affettive; 2) la qualità delle interazioni bambino-ambiente, che possiamo cogliere nella relazione di attaccamento verso l’adulto e verso i pari; 3) la qualità del contesto sociale più ampio quale si esprime nelle relazioni a scuola e nei rapporti scuola-famiglia”59. Tuttavia tali fattori non sono identificabili e certi a priori, poiché in base alle circostanze e alle diverse situazioni potranno rivelarsi efficaci o inutili per la risoluzione del problema. La incisività di questi elementi è attestata dal cambiamento comportamentale del singolo individuo. Fungono da elementi protettivi stili educativi coerenti, autorevoli e fermi, capaci di indicare e far rispettare le regole indispensabili per la convivenza sociale.

2. Aggressività e violenza Fattori biologici ed ereditari, esperienze sociali e culturali paiono custodire l’origine dell’aggressività, oggetto di attenta analisi in un quadro antropologico capace di fornire molteplici spiegazioni. Per comprendere le ragioni che spingono ad assumere un comportamento umano aggressivo si considera il contributo di molte scienze, fra le quali l’etologia, la psicoanalisi, la psicologia, la pedagogia, la sociologia e, non per ultima, la neurologia, dimostrando che vari sono i fattori che scatenano l’aggressività. Una risposta al comportamento aggressivo, difatti, può essere ricercata nelle modalità attraverso le quali avviene il medesimo sviluppo umano. Un contributo importante viene fornito dagli studi genetici compiuti prevalentemente sui gemelli monozigoti, come se i fattori genetici possano in qualche modo favorire l’assunzione di un comportamento aggressivo. In base alle ricerche effettuate in questo ambito, pare che il 40% dei comportamenti aggressivi siano imputabili a fattori genetici. Fattori ereditari e biologici, dunque, influi-

58

A.F.Kalverboer, Bambini iperattivi e con difficoltà motorie: vittime, bulli o entrambi?, in M.L. Genta, Il bullismo. Bambini aggressivi a scuola, Carocci, Roma 2002, p. 53. 59

E. Menesini, Bullismo. Che fare? Prevenzione e strategie d’intervento nella scuola, Giunti, Firenze 2000, p. 13.

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scono sul comportamento aggressivo che attualmente viene esaminato anche con tecniche di neuroimaging, tramite le quali si visualizza il funzionamento cerebrale, più precisamente il sistema limbico, l’amigdala e l’ippocampo, aree cerebrali “deputate all’espressività delle emozioni e delle pulsioni”60. Difatti esiste uno stretto legame fra il cervello e il comportamento aggressivo che si esprime rivelando una forte componente di impulsività, una scarsa opera di interiorizzazione di regole, associata ad un basso senso di responsabilità e consapevolezza delle proprie azioni. Sono proprio questi gli elementi che attestano il funzionamento del cervello, in particolare delle regioni corticali orbitofrontali che influiscono sulla possibilità e sulla capacità di inibire risposte aggressive. Le aree cerebrali del lobo frontale, difatti, determinano le funzioni esecutive, le quali permettono di pianificare e monitorare le proprie azioni, favorendo inoltre un uso efficace della memoria. Le aree prefrontali, dunque, sono direttamente responsabili delle funzioni esecutive che se alterate rivelano difficoltà nel risolvere i problemi e nel dare risposte di comprensione degli stimoli, come nel caso di iperattività e di deficit di attenzione. Queste osservazioni sono testimoniate da esperimenti di risonanza magnetica che permettono realmente di vedere come il nostro cervello si attiva rispondendo con processi fisiologici alle circostanze, rivelando inoltre l’importanza del contesto sociale e familiare particolarmente incisivo nell’offerta di sollecitazioni e stimoli sensoriali. L’individuo che ha vissuto personalmente una storia di abuso e di violenza, dinnanzi a certi stimoli tende ad usare prevalentemente l’emisfero destro. Come dire, dunque, che i due emisferi cerebrali che funzionano in modo integrato fra loro, sono “incisi” da eventi neutrali (uso dell’emisfero sinistro) e da quelli spiacevoli che in qualche modo provocano disturbo (uso dell’emisfero destro). Aree e regioni cerebrali sono direttamente coinvolte nelle relazioni sociali, comunicative ed affettive, ed assicurano all’individuo lo sviluppo di funzioni mentali evolute, le quali coinvolgono risonanza interiore e riflessività nel processo di validazione delle esperienze personali, per una “sintonizzazione” con se stessi. Sarà proprio questa consapevolezza il presupposto per il prendersi cura degli altri, cuore di ogni relazione educativa61 che assume le iniziali sembianze nel contesto familiare, ambito nel quale il bambino riceve le prime sollecitazioni che contribuiranno a renderlo non un essere vivente qualsiasi, bensì un “animale di cultura” perchè capace di conoscere, esplorare, crescere e formarsi mentalmente, nella consapevolezza di delineare l’ “impegno con 60

F. Muratori, Ragazzi violenti. Da dove vengono, cosa c’è dietro la loro maschera, come aiutarli, Il Mulino, Bologna 2005, p. 28. 61

Cfr. D. J. Siegel, Mindfuldness e cervello, Raffaello Cortina, Milano 2009.

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sé” di cui parla Daniel J. Siegel. L’impegno con se stessi non trascura dunque le relazioni interpersonali e intrapersonali, le quali svelano l’esistenza del “cervello sociale”, sottolineandone piuttosto l’importanza per la vita e il benessere personale e collettivo. L’aggressività, responsabile di disturbi comportamentali che possono essere esternalizzati o internalizzati62, rivela dunque la presenza di difficoltà sociocognitive che attestano anche un’alterata funzione esecutiva; infatti chi è aggressivo non è capace di pianificare, organizzare e modulare il proprio comportamento diretto all’aggressione, di cui risulta evidente “l’intento di distruggere, offendere, degradare, coartare o asservire una persona (compreso se stesso), un gruppo di persone, o un oggetto materiale”63. La persona aggressiva percepisce nell’ambiente in cui vive un sentimento di ostilità, che nel bambino, ad esempio, può essere interiorizzato attraverso il comportamento dei propri compagni di scuola, dei fratelli o dei genitori. Il contributo delle scienze antropologiche permette di interpretare il comportamento aggressivo in diversi modi; secondo una lettura sociologica la causa va individuata in complesse dinamiche relazionali. La neurofisiologia, d’altra parte, attribuisce la responsabilità dell’aggressività alla eccessiva stimolazione di alcune aree cerebrali che mettono in circolo elevati livelli di testosterone: anche una diminuita concentrazione a livello centrale di dopamina e serotonina può scatenare un comportamento aggressivo. In questo caso si dà dell’aggressività una spiegazione biochimica che concorre ad analizzare un fattore comportamentale di cui si possono essere distinte diverse forme primariamente impulsive o legate a callosità e bassa inibizione comportamentale. La psicologia tradizionale definisce l’aggressività una sorta di “qualità psichica” se stimola all’azione, in stretta relazione tuttavia a frustrazioni, stress e possibili anomalie. Anche un “inguaribile narcisismo”, per Lancan, può provocare una innata tendenza all’aggressività. Le prospettive richiamate, in realtà evidenziano la difficoltà di elaborare una spiegazione univoca ad un “fenomeno” che si manifesta in modi e situazioni differenti, capace di conciliare visioni, concezioni e interpretazioni di diversa matrice culturale (antropologia, psicologia, biologia, neurobiologia, sociolo-

62

Si definiscono disturbi esternalizzati quelli che esprimono esteriormente quell’aggressività prodotta da una forte conflittualità interna, mentre sono internalizzati quei disturbi che originano ansia, depressione e nevrosi nel soggetto. 63

G.Lindzey, C.S.Hall, R.F. Thompson, Psicologia, Zanichelli, Bologna 1977, p. 246.

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gia, etologia).64 Nelle molteplici forme che le appartengono (impulsiva, programmata, strumentale, reattiva, di banda o solitaria), l’aggressività non va confusa con la violenza che pur deriva dall’interazione di più variabili; fattori endogeni ed esogeni, infatti, finiscono per contribuire in modo differente all’adozione del comportamento violento. Se l’aggressività può assumere i tratti di un “impulso spontaneo, una manifestazione della forza vitale” (nelle sfumature sane, di creatività e passione), la violenza si differenzia per la volontà di compiere “un atto contro l’altro con l’intenzione di provocare una sofferenza e/o una ferita”65. La violenza, molto probabilmente, possiede un proprio potere attrattivo in quanto “espressione di impulsi che ognuno ha dentro di sé e perché è all’origine di iniziative coinvolgenti. La violenza attiva l’organismo modificandone l’intera fisiologia, sia dal punto di vista centrale (il cervello) sia dal punto di vista periferico (il sistema endocrino, circolatorio, muscolare) e come tutti i comportamenti istintivi è associata ad una compartecipazione emotiva. Anche i bambini, come può accadere per gli adulti, avvertono “interesse” per l’animazione che la violenza produce e ogni volta che c’è una zuffa nella realtà o in una scena sullo schermo televisivo corrono a vedere. Si rivelano incuriositi ed attratti da quell’energia primordiale che, manifestandosi, travolge le regole, se ne infischia della legge”.66 Se dunque la violenza possiede questo potere, tanto più forte tanto si è fragili e con una personalità ancora in fase di formazione, è necessario operare in ambito educativo con l’educazione di forme di pensiero riflessivo e intenzionale che rendono possibile il rispetto per la vita e la dignità di ogni essere vivente, regole fondamentali di una pacifica convivenza. Diviene dunque necessario “coltivare” e curare l’affettività sin da piccoli, guidare bambini e giovani alla scoperta della propria dimensione emotiva, in un percorso di crescita di sé che si consolida anche con il rispetto degli altri e la condivisione di regole, criteri, valori e principi comuni.

3. Scuola e famiglia per l’educazione La famiglia, nido degli affetti nella descrizione del poeta, “primo e più sempli64 65

G. Mastroeni, Aggressività e homo sociologicus, Armando, Roma 1997, p. 34.

A.Oliverio-Ferraris, Piccoli bulli crescono. Come impedire che la violenza rovini la vita ai nostri figli, Rizzoli, Milano 2007, p. 41. 66

Ibidem, p.24.

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ce nucleo del consorzio umano”per Herbart, ha l’arduo compito, descritto dal pedagogista, di “coltivare e rinvigorire” le virtù interiori dell’uomo, contando sulle capacità e potenzialità educative dei genitori per promuovere la crescita e lo sviluppo dei figli, senza per questo sacrificarne la personalità che dovrà emergere liberamente grazie alla fiducia reciproca e all’amore, vincolo di forza e unità. Carenze affettive in tenera età, ricorda Makarenko, sono responsabili di una mutilazione della personalità, poiché l’assenza di fiducia e di sicurezza emotiva condizionerà negativamente lo sviluppo integrale della persona. Nel nucleo familiare, inoltre, avviene il primo processo di distinzione e divisione sociale. Queste osservazioni di natura sociologica consentono di cogliere il legame interdipendente anche tra famiglia e identità infantile, unite nel valorizzare e distinguere i propri “ruoli”e le stesse funzioni. La sociologa Chiara Saraceno sottolinea questa valenza affermando che “non si dà infanzia (cioè riconoscimento della specificità infantile) fuori dalla famiglia e non si dà famiglia senza cura dell’infanzia”67. L’ambiente familiare fa vivere nel bambino le iniziali esperienze di cura e di definizione della propria identità sociale. Sempre la famiglia, aggiunge Calò, “tocca e costruisce quanto nell’uomo vi è di più intimo” e profondo, fulcro di una pienezza vitale che troppo spesso viene mortificata e sacrificata quando manca l’atmosfera del “focolare”, struttura /istituzione che consente di rafforzare il carattere permettendo la completa valorizzazione personale. Comunità educativa nella visione di Comenio, Locke e Pestalozzi, la famiglia è non solo oggetto di analisi e di discussione in sede sociale e pedagogica68, ma anche luogo di grandi cambiamenti di natura storica, economica e sociale che, avverte Norberto Galli, ne minacciano l’integrità, denunciandone una profonda “patologia”69. Essere genitori non è facile, ma è un dovere ed una responsabilità che si assumono nel momento in cui i figli ci sono, richiamando attenzioni e bisogni che non sono soltanto di natura primaria ma pure affettiva. È proprio la famiglia, del resto, a fornire al bambino i primi modelli educativi, creando un contesto umano fiducioso capace di conquistare e di rafforzare la propria autostima. La carenza di amore o la scarsa sensibilità che il genitore può prestare al figlio non cadono nel vuoto, piuttosto ne segnano irreparabil-

67

C. Saraceno, La socializzazione infantile come definizione dell’infanzia. La famiglia, in E. Becchi (a cura di), Il bambino sociale, Feltrinelli, Milano 1979, pp. 114-146. 68

Cfr. A. Bartolini, La famiglia: una cultura delle relazioni. Riflessioni pedagogiche e percorsi educativi, Morlacchi, Perugia 2012. 69

Cfr. N.Galli, Educazione familiare e società complessa, Ed. Vita e Pensiero, Milano 1990.

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mente l’anima e la persona. Una famiglia attenta, ovvero capace di recepire bisogni e necessità dei figli, sarà invece sicuramente unita e fornirà stimoli positivi che fungeranno da fattori protettivi e di supporto anche nella crescita e nell’adozione di certi comportamenti. L’atteggiamento dei genitori, infatti, incide fortemente sull’emancipazione personale dei bambini. Ciò non si traduce nell’invito ad assumere un atteggiamento lassista o eccessivamente permissivo, ma invita a prendere certamente coscienza di “essere genitori”, responsabili e consapevoli del ruolo posseduto. L’assenza di regole e di solidi punti di riferimento, quali lo sono le figure parentali, crea nel bambino disorientamento e senso di abbandono che può trovare rinforzo negativo anche nel caso di incoerenza delle scelte e dei comportamenti familiari. Spesso molti genitori continuano a ripetere lo stesso comportamento genitoriale che hanno appreso dai propri, oppure, insoddisfatti, si comportano in maniera completamente diversa, come se volessero rimediare agli errori compiuti da altri adulti. In effetti per essere un “buon” genitore occorrono molte doti, anche se sembra essere quasi spontaneo, per una innata legge, accogliere e crescere i propri figli. Freddezza e distacco emotivo, spesso rimproverati agli stessi genitori dai figli ormai cresciuti, non uniscono, bensì allontanano, come pure un atteggiamento eccessivamente duro e punitivo che può indurre scarsa autostima poiché minaccia la sicurezza personale, in quanto ipercritico e distante. Se, però, risulta discutibile questo approccio genitoriale, non si deve credere che il lassismo educativo possa risolvere conflitti e problemi. L’autorevolezza in ogni circostanza pare essere la misura migliore, associata alla capacità di facilitare la lettura degli stati d’animo altrui, all’empatia e all’apertura. Si tratta, dunque, di riservare attenzione al rapporto comunicativo, insistendo sulla responsabilità, per favorire all’interno della famiglia di un clima sereno e di reciproca fiducia, ricordando che in ogni caso sarà buona norma stabilire delle regole che andranno rispettate senza equivoci e fraintendimenti, la cui validità dovrà essere stabile. Ecco dunque la necessità di individuare delle regole che anche i bambini in famiglia saranno invitati a rispettare, per assumere un atteggiamento responsabile e responsabilizzante, capace di coordinare quelle azioni che verranno compiute in vista del perseguimento di un fine comune. Ciò significa dare al bambino la possibilità di scoprire una nuova realtà, che è quella esterna, che lo porta ad aprirsi agli altri, relazionandosi con i pari e gli adulti, affinando quelle competenze sociali che consentiranno nella vita di stabilire rapporti umani equilibrati. Il rispetto delle regole, di cui lo stesso bambino avverte il bisogno, rappresenta dunque il primo passo in quel percorso che lui compirà dapprima con le sue figure di riferimento (genitori e fratelli), poi con il mondo esterno, imparando a rispettare i pari nel gioco ad esempio, e l’ambiente, di cui fanno parte la scuola, la casa e gli oggetti propri e/o altrui. Non è quindi un 99


luogo comune quello che porta a confidare nell’importanza di un sereno contesto familiare, anzi ricerche condotte in questa direzione dimostrano che “il sistema nervoso dei bambini che crescono tra forti tensioni (…) è alterato: i circuiti cerebrali che comandano l’angoscia e la paura sono attivati in permanenza, mentre le zone da cui dipendono pensiero ed empatia non vengono stimolate”70. Queste riflessioni evidenziano una verità: l’azione educativa svolta dalla famiglia nei primi anni di vita risulta determinante, per essere poi affiancata dalla scuola che, con la collaborazione della famiglia, guiderà il bambino nel suo affacciarsi al mondo. Scuola e famiglia, difatti, operano sinergicamente perchè ogni persona possa essere realmente ciò che compiutamente è, con quella ricchezza che custodisce e possiede nel proprio Io, tesoro di motivazioni, potenzialità, forze e ricchezze che ognuno ha in sé e che attende di far emergere liberamente grazie all’educazione. Genitori e maestri hanno d’altra parte un comune impegno, un progetto responsabilizzante le cui finalità si determinano nella conoscenza, comprensione e sostegno del soggetto. Soltanto un impegno di questa valenza potrà essere dichiarato educativo, volto come è ad intraprendere un percorso di crescita che onora il rispetto e la libertà della persona. Genitori consapevoli e docenti competenti si renderanno costantemente disponibili all’ascolto attivo71, per favorire momenti di incontro e per costruire spazi di educazione alla convivenza democratica. I piccoli bulli che hanno una percezione distorta della realtà e che non conoscono altra espressione se non quella dell’aggressività, hanno bisogno di un aiuto concreto, devono avvertire sostegno e guida, fasi e momenti di un processo di “cura” di vita. La scuola, intesa come “prima” istituzione educativa, dovrà adoperarsi per promuovere il superamento dell’indifferenza e dell’apatia al senso comune, barriere che divengono labirinto di aridità d’animo e solitudine. Nello spazio vitale che l’aula scolastica rappresenta, ciascun allievo dovrà potersi affermare, con la sua forza e debolezza, con il sapere e la conoscenza, una conoscenza che non è diretta alla mera assunzione di nozioni, ma che apre al mondo dell’intimità e dell’alterità. Questo nella convinzione, che anche Aristotele ha riconosciuto, che nessuno basta a sé e che è un bisogno connaturato alla natura umana quello di aprirsi agli altri ed entrare in relazione con loro. La consapevolezza di Sé deriva dalla consapevolezza degli altri e con loro della stessa dimensione 70

M.L. Genta (a cura di), Il bullismo. Bambini aggressivi a scuola, Carocci, Roma 2002, p. 105. 71

Cfr A. Rosati, Ri-scoprire l’ascolto, in QTimes WebMagazine, Luglio 2012 - Cfr. L.Clarizia, Psicopedagogia dello sviluppo umano. Una prospettiva relazionale, Edisud, Salerno 2005, p. 150.

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affettiva. Gli adulti, sia che si tratti di genitori o insegnanti, esercitano sul bambino un forte potere, dimostrato, ad esempio, dallo spirito di emulazione che induce ad assumere i medesimi atteggiamenti e i comportamenti. Emulare i comportamenti dei fratelli maggiori o degli adulti per il bambino vuol dire accostarsi ad un modello prescelto, da imitare appunto nei gesti, nelle espressioni, nelle posizioni e nel linguaggio. Questa tendenza negli anni della pubertà e dell’adolescenza avvicinerà il soggetto al gruppo dei pari, ossia ai coetanei con i quali si condividono esperienze, situazioni, momenti e, talvolta, sogni e progetti di vita adulta. Da ciò emerge la responsabilità che gli adulti hanno nei confronti dei bambini, “cuccioli d’uomo” sicuramente, ma non “uomini in miniatura” come a lungo sono stati considerati. Sapere di essere un punto di riferimento se non addirittura un modello per i bambini, significa per l’adulto assumersi numerose responsabilità che non possono essere attribuite solo ai genitori o agli insegnanti, bensì a tutti quegli adulti che sono vicini ai più giovani. Non è facile, pur se necessario, riflettere sul proprio comportamento e sulla miriade di messaggi che consapevolmente o inconsciamente inviamo ai bambini, molto attenti nel percepire minimi particolari e dettagli. Un esempio molto evidente in cui ciò si manifesta è il gioco: osservare i bambini mentre giocano liberamente ci dice molto di noi. Proprio il gioco, difatti, consente di capire e scoprire un po’di più dei bambini che nel gioco di finzione, ad esempio, si appropriano di una identità che appartiene al mondo adulto (figura genitoriale o compito sociale, esempio giocare a fare la maestra). Il gioco di finzione in particolare, infatti, risulta essenziale per la promozione dello sviluppo delle capacità empatiche ed emozionali, favorendo inoltre lo sviluppo del linguaggio e l’acquisizione di un adeguato test di realtà. La decisa tensione motivazionale appartenente al gioco, ne esprime la “carica vitale”, mentre l’aspetto educativo emerge nel processo di socializzazione che invita a cogliere in questo l’impegno costruttivo, le esperienze cognitive descritte da Jean Piaget, quelle linguistiche evidenziate da Jerome S.Bruner e quelle spirituali indicate da Froebel. Il gioco non è unicamente espressione di libera attività disinteressata, ma anche occasione per un precoce apprendimento delle regole sociali”. Il gioco, allora, diviene un interessante momento-metodo-modalità per apprendere e conoscere le regole, per educare al rispetto degli altri nello sviluppo della dimensione relazionale. Con il gioco il bambino esce dal “guscio” dell’egocentrismo nella scoperta della condivisione di spazi, tempi e oggetti. Proprio queste sono alcune delle finalità educative dei giochi di cooperazione, corrispondenti al desiderio di dare espressione ad impulsi e fantasie che ognuno ha dentro di sé. Giocando, allora, si possono fare molte scoperte e ci si può allo stesso tempo avvicinare a quel mondo non astratto di regole che guidano e orientano la vita umana. 101


4. Educazione dei sentimenti L’educazione è un elemento dell’esperienza umana vissuta a cui conferisce valore e significato, nel rispetto dei desideri, dei bisogni, delle attese e delle credenze che vengono avvertite come esigenze esistenziali dai soggetti. Ma nell’educazione c’è anche una prepotente “radice affettiva” che le neuroscienze individuano nella regione limbica; infatti “i principi e le norme di educazione decadono a semplici «segni» nel momento in cui sono privati dei connotati che ne segnano l’accadere reale nell’esperienza di soggetti. Allora ci appaiono concetti vuoti, superstizioni vane, istituzioni sorpassate, abitudini cristallizzate, che mai potrebbero dare un volto alla nostra esperienza, un senso alla nostra vita, una norma alla nostra azione”.72 C’è, dunque, un legame forte fra educazione ed affetti, poiché se non ci sono sentimento e coinvolgimento affettivo, non ci sarà alcun apprendimento e quindi educazione. Conoscere significa divenire consapevoli, assumere coscienza di sé e delle proprie capacità cognitive ed emotive le quali permettono di aprirsi agli altri nel rispetto delle differenze. Ciò, in altre parole, vuol dire anche riuscire a dilatare il proprio campo visivo, ampliando gli orizzonti di movimento dell’interiorità che ha nell’esperienza personale un tassello dell’Io più maturo, perchè possiede spirito critico e capacità di rielaborazione personale73. Educare è dunque un atto di amore volto alla crescita umana totale, la quale rende le persone forti e libere, consapevoli e salde su sé. Vuol dire scommettere nella “fede creativa dello spirito” di cui parla Maria Montessori, valorizzando le forze propositive dell’infanzia, nel riconoscimento che la persona non è un semplice fenomeno naturale del quale risulta facile l’attenta descrizione, ma è una realtà cangiante e poliedrica. “La connotazione primaria dell’essere umano è data dalla compresenza vitale simultanea di una pluralità irriducibile di aspetti, componenti e dimensioni”, ricorda Aldous Huxley74, per cui l’educazione assume i tratti di un deliberato intervento intenzionale che confida nella educabilità del soggettopersona che, scrive Giuseppe Acone, “implica che esso sia strutturato quale essere (dimensione onto-metafisica), valore (dimensione etica) e senso (dimensione ermeneutica)”.75 Il “nucleo metafisico”della persona, esaltato da Luigi Stefanini, contribuisce a ren72

E. Colicchi, Affettività e teoria dell’educazione, in F. Cambi (a cura di), Nel conflitto delle emozioni. Prospettive pedagogiche, Armando 1998, pp. 94, 95. 73 74 75

Cfr. A. Rosati, Per una Filosofia dell’educazione, Anicia, Roma 2010 C.Scurati (a cura di), Aldous Huxley. Saggi sull’educazione, Armando, Roma 1974, p. 11.

G.Acone, L’orizzonte teorico della pedagogia contemporanea. Fondamenti e prospettive, Edisud, Salerno 2005, p. 29.

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derla complessa, se non addirittura misteriosa, ma proprio per questo “centro invisibile a cui tutto si riporta”, come precisa Emanuel Mounier, capace di intessere relazioni, per soddisfare la naturale “vocazione” agli altri, verso i quale per natura è protesa e dei quali dovrà avere rispetto. Ogni uomo adulto dovrebbe possedere coscienza delle proprie azioni, ma l’avere coscienza vuol dire saper rielaborare criticamente il vissuto, trasferire conoscenze nella quotidianità, percepire e risolvere i problemi, capacità che richiedono tempo e volontà. Ciò, d’altra parte, equivale ad un percorso di crescita e di maturazione individuale improntato alla consapevolezza di se stessi e del proprio posto nel mondo. Si tratta di acquisire uno “stile d’essere”76 che “rappresenta” la propria persona, ne diviene il segno identificativo che connota apprendimento e vita sociale, con la complessità delle dinamiche che derivano dall’essere al mondo, fra e con quanto altro da sè. Di qui l’importanza dell’educazione dei sentimenti che permette al bambino e allo stesso adulto, ad esempio, di sfogarsi quando ne sente il bisogno, con le parole e non certamente con gesta inconsuete o reazioni spropositate, quali lo sono quelle di ira e collera. Questa forma di educazione esalta il vissuto, vera “radice emotiva della vita” nella descrizione di Raffaele Laporta, che si integra, si articola e si arricchisce trovando la sua espressione in quel vissuto che finirà per essere ancora “più ricco di sentimento più fini e complessi”.77 È proprio nell’educazione dei sentimenti, ovvero in quel coacervo di forze ed emozioni che si radica l’educazione morale e che si realizza la alfabetizzazione delle emozioni, basata su una comunicazione sensibile e creativa che pone in relazione gli esseri umani. L’educazione dei sentimenti, che coniuga affettività ed emotività, può allora rappresentare un efficace “antidoto” all’intolleranza, all’indifferenza, all’aggressività e alla violenza, perché promuovo capacità di immedesimazione, empatia e condivisione. Il “linguaggio delle emozioni”, tuttavia, si apprende sin da piccoli, ecco perché occorre sviluppare queste qualità a partire dalle prime esperienze scolastiche, che sono sicuramente le più incisive e formative sullo sviluppo umano, essendo prime esperienze ed occasioni di vita sociale. In tal modo si potrà conquistare e sviluppare la consapevolezza che, scrive Hessen, non viene assorbita passivamente, emergendo piuttosto “dal fondo della propria anima”.78 L’educazione, “arte di ciò che sembra impossibile” nella definizione di W. K. Rich-

76

Cfr. A. Rosati, C.Morozzi, M. Pattoia, Pedagogia, didattica e apprendimento consapevole, Aracne, Roma 2010. 77 78

R.Laporta, Educazione e sentimenti, in F.Cambi, op.cit.,p.106. S. Hessen, Difesa della pedagogia, Avio, Roma 1950, p.19.

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mond79, chiede di rimettere costantemente in discussione conoscenze, informazioni e nozioni acquisite, in un allenamento volto a far guadagnare elasticità e plasticità cognitiva che consente di affrontare le nuove situazioni con determinazione e capacità, poiché stimolando la mente nella ricerca di soluzioni nuove e creative si compie una lotta ai pregiudizi e all’ignoranza che impoveriscono umanamente la persona. L’educazione dei sentimenti esalta la dimensione dinamica dello spirito, dalla quale assumono rinnovata forma libertà e pensiero individuale. Difatti, aggiunge G. Calò, dobbiamo prendere atto di “un farsi e un crescere continuo nella coscienza e nella sua realizzazione indefinita di valori, di fini validi di cui nel suo essere è posta soltanto la possibilità e l’impulso iniziale”80. Partendo da una visione unitaria, totale e integrale della persona, espressione di cuore, ragione e intelletto, si può comprendere l’incisività della forza del cuore, quella che spesso è offuscata dal prevalere di una ragione dominante che inibisce le manifestazioni più dirette e spontanee, quelle del cuore appunto, come se queste non avessero comunque una loro “ragione”. Se l’educazione è una “questione” che riguarda, intrinsecamente e ineluttabilmente, gli scopi e i valori dell’uomo81, non può essere trascurata la dimensione dell’interiorità, che attinge alla profondità del cuore. Cuore, ragione e intelletto, realtà squisitamente umane, sono interamente e attivamente coinvolte nell’educazione, per esprimere le “modalità intellettive” globali, come le definisce Howard Gardner, tale da testimoniare un modo di essere e di pensare personale, poiché riguardano la conoscenza e le azioni umane, nella convinzione che l’autenticità umana è in ogni tempo un ideale valido, necessario, per Charles Taylor, per superare il “disagio della modernità”, derivato dal senso/ sentimento di perdita, di smarrimento e quindi di sofferenza che il prevalere della ragione strumentale ha inevitabilmente prodotto.82 Di qui il dovere di attingere alle radici della nostra civiltà per formare un uomo nuovo, consapevole della coscienza comune, fedele a se stesso ed ogni giorno costruttore di nuova e migliore umanità. Gli affetti, dunque, non possono essere esclusi ed ignorati dall’educazione, anzi, aggiunge Bruno Rossi, nelle esperienze emotive della prima infanzia vanno ricercate le radici dell’identità di quella coscienza che se “coltivata” diverrà “presenza 79

W. K.Richmnond, La Rivoluzione nell’insegnamento. Dall’impulsi tecnologico a una nuova pedagogia, Armando Armando, Roma 1969, p. 65. 80 81 82

AA.VV., La mia pedagogia, Liviana, Padova 1972, p. 13. Cfr. H. Gardner, Cinque chiavi per il futuro, Feltrinelli, Milano 2007. Cfr. C. Taylor, Il disagio della modernità, Sagittari Laterza, Bari 1994.

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vigile”, nonché fondamento della moralità e della capacità cognitive. “Una affettività piena, autentica, sicura finisce con l’esercitare inevitabilmente una positiva influenza sulle altre dimensioni della personalità: da quella intellettuale a quella corporea, sociale, estetica, religiosa, morale”83. Il valore e le finalità dell’educazione degli affetti non va ricercato né confuso con il sentimentalismo, in quanti trattasi di una modalità di conoscenza che permette di interpretare e sentire la realtà, per dare un senso al proprio vissuto. Inoltre, se è vero che il sentire è anche forma e modalità di comunicazione e di legame, esso determina la possibilità di stabilire rapporti interpersonali, ed essendo inscindibile dal pensiero, come dalle esperienze e dai ricordi, rende vivo, vitale ed efficace ogni apprendimento. Facendo leva sulle radici della propria intimità, quali sono gli affetti appunto, si può guidare la persona nel viverli positivamente, dominandoli se necessario, attraverso metodologie narrative ed autobiografiche. Con “la parola e i linguaggi non verbali, la voce e la mimica, i gesti e il corpo, la solitudine e il silenzio, le immagini e la parola scritta”84, si accede ai mondi dell’intimità (il proprio vissuto) e dell’alterità (i vissuti-altri). L’educazione degli affetti rende potere di espressione ai sentimenti agli stati d’animo che, ricorda Daniel Goleman85, talvolta sono negativi. Sentimenti educati permettono di incanalare positivamente l’aggressività e di superare stati di anaffettività e insensibilità che arrecano impoverimento immaginativo e incompetenza empatica. Riscoprire e accettare la capacità di emozionarsi, anche nella semplice e ovvia quotidianità può servire per mantenere vivi curiosità, stupore e meraviglia che fanno vedere con nuovi occhi, ricorda Aristotele, il mondo circostante. Un’educazione tesa a recuperare i sentimenti per esaltarli, permetterà di definire il carattere personale, assicurando autonomia, capacità di giudizio personale, sicurezza ed autostima, nella formazione del sentimento del proprio io, del tu e della vita.86 Saranno positive per il bambino esperienze e attività di alfabetizzazione emotiva, per una cultura che onora e valorizza sensibilità e intelligenza, nella consapevolezza che “si è uomini e ci si fa uomini (…) disponendosi all’incontro con l’altro e alla cura di lui, praticando accoglienza e stima, promuovendo e potenziando in lui fiducia e speranza, interagendo da essere a essere, essendo qualcuno per lui, adoperandosi a dare soluzioni ai suoi problemi, aiutandone la crescita come persona singolare, sostenendolo nella pratica quotidiana della propria libertà di essere e di 83 84 85 86

B. Rossi, Pedagogia degli affetti, Laterza, Roma-Bari 2002, p. 10. Ibidem, p. 12. D. Goleman, Intelligenza emotiva, Fabbri, Milano 2007. Cfr. ibidem, p. 36.

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rivelarsi secondo la sua originalità”87. Come si può fare tutto questo? Attraverso il ricorso a quelle metodologie educative che soddisfano i bisogni interiori e culturali dei bambini, privilegiando sicuramente il gioco, l’ascolto attivo e il dialogo. Ciò, infatti, permetterà al bambino di condividere importanti esperienze, confrontandosi con i compagni di cui parteciperà alla rielaborazione del vissuto con la drammatizzazione, con la narrazione, il disegno, la fiaba, i racconti, la ricostruzione di storie e quando possibile l’autobiografia, metodologie didattiche che permettono di parlare, condividere e confrontarsi per accedere al mondi-altri. L’ascolto, che per l’adulto diviene quasi una capacità naturale, in realtà testimonia il conseguimento di un obiettivo significativo, importante dal punto di vista educativo, poiché è un processo che esercita attenzione, concentrazione e memoria. Ascoltare, comprendere, condividere permette di liberarsi da forme di ansia e depressione di cui anche i bambini sono sempre più spesso vittime, per fermare tendenze aggressive che costituiscono “il segnale di un cambiamento dell’atmosfera, di un nuovo tipo di tossicità che si infiltra ed avvelena l’esperienza stessa dell’infanzia e dell’adolescenza, rivelando impressionanti lacune di competenza emozionale”88.

5. Educazione alla legalità L’educazione degli affetti, per le ragioni di cui si è detto, rappresenta il primo passo per la crescita umana, consentendo di affinare capacità emotive, cognitive e intellettuali, in grado di promuovere a loro volta ulteriori processi educativi. Questo non perché l’educazione proceda per step ignorando elementi di continuità, bensì per rispondere e rispettare le fasi di crescita e di maturazione della persona, spesso rese critiche da fasi di stasi, alternate a momenti di rapido cambiamento. Parlare di educazione alla legalità, al rispetto, alla pace e alla democrazia ad esempio, non è possibile se prima il bambino non possiede quella alfabetizzazione emozionale che consente di relazionarsi con gli altri. Bambini aggressivi, ribelli e violenti, rivelano con il loro comportamento una carenza di affetto, legame ed attenzione da parte degli adulti e con il loro modo di fare fin troppo aggressivo e violento sembrano voler ricordare di “esserci”. Manifestazioni inconsuete e reazioni di collera e rabbia spropositate, come anche scenate di gelosia e capricci, divengono dunque un esplicito richiamo di attenzione per gli adulti, spesso disattenti e poco sensibili a captare questi messaggi non sempre espliciti. 87 88

B. Rossi Avere cura del cuore. L’educazione del sentire, Carocci, Roma 2006, p. 223. D. Goleman, op. cit.,p. 273.

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Si ripetono così tristemente episodi di violenze fisiche e psicologiche, oltre ad abusi e manifestazione di indomabile aggressività e ferocia, che divengono i tratti più marcati della perdita di solidi punti di riferimento di una società, qual è la nostra, che non si ritrova più nei valori fondamentali della vita e della persona. Ogni giorno, in tutto il mondo, si compiono atti di barbarie, volti a cancellare le tracce di quell’umanità che sembra non riconoscersi nella condivisione e nella tolleranza. Gesti violenti e dissacranti vengono compiuti nei confronti di persone di ogni età, razza e sesso, come se la Persona umana fosse null’altro che un semplice fenomeno naturale da distruggere impietosamente, da piegare al proprio istinto indipendentemente dal suo essere al mondo. Purtroppo questi atti non sono commessi soltanto da adulti, se è vero che le statistiche annoverano nella loro cronaca anche preadolescenti e giovanissimi. Odio, gelosia, invidia e competizione sono le ragioni (ingiustificabili) della violenza. Giovani quattordicenni si organizzano per uccidere, premeditano omicidi per i rivali, scatenano risse per far prevalere le proprie ragioni. Ma “ragioni” in tal caso non esistono, essendo invece espressione incontrollata di rabbia, risentimento, frustrazioni e delusioni amaramente vissute. Se ciò da una parte lascia trapelare sensazioni di disagio e di squilibrio interiore, dall’altra fa capire che gli adulti non possono restare nell’indifferenza, anzi spetta proprio a loro assumere un ruolo ben preciso, capace di orientare nella vita le nuove generazioni. Di qui, dunque, l’urgenza di educare al rispetto, alla convivenza e alla tolleranza, nella convinzione che il tutto trovi il suo humus naturale nell’educazione alla legalità. Ecco perché sembra doveroso richiamare l’attenzione su questa forma di educazione che in sé ne associa e ne comprende altre, anch’esse non meno significative. Educazione alla legalità, allora, vuol dire orientare nell’apprendimento di quello che Talcott Parsons ha definito il proprio ruolo, il che implica l’aver interiorizzato, perchè riconosciuti, i valori comuni, quelli che vanno condivisi per assicurare unità e coesione sociale. Se è vero che l’educazione consente all’uomo di “acquistare le attitudini di persona civile, di buon cittadino e di individuo fornito di speciali abilità utili, decorose, nobilitanti”89, educare alla legalità vorrà dire far capire al bambino che la libertà vera è quella che si conquista e si mantiene nel tempo; non è libertà fare tutto quello che desidera per capriccio al momento, poiché questa si nutre di regole, di attimi, di convivialità. Essere liberi, difatti, è un traguardo che rende padroni di sé, consapevoli delle proprie azioni, per attribuire un significato profondo agli altri, alla natura ed anche alle semplici cose; vuol dire capire che questo è “il senso

89

R. Ardigò, La scienza dell’educazione, Fratelli Druker, Padova 1916, 4 ed., p. 13.

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ultimo dell’uomo”.90 Si tratta di promuovere l’ intelligenza rispettosa, nella definizione di Gardner, che non ignora le differenze né le annulla, bensì le esalta e nella loro valorizzazione le accetta pienamente, senza riserve e contraddizioni. Verso i 3-4 anni, il bambino percepisce chiaramente le prime differenze individuali, nota il diverso colore della pelle, il modo di vestirsi e di mangiare che rappresenta una prima forma di conoscenza di un mondo-altro di cui comunque pure lui fa parte, condividendone i caratteri e le difficoltà, attraverso il primo approccio a quell’universo simbolico significante che è la cultura. L’intelligenza rispettosa, che Gardner annovera tra le “cinque chiavi”91 per il futuro, è presente in forma epigenica, ossia embrionale, il che significa che attende di essere sviluppata per poter emergere. Scuola, famiglia, Chiesa, associazioni e mondo del lavoro e della politica dovranno impegnarsi in questo collaborando ed operando su più fronti, per un progetto educativo di spessore valoriale. Dovranno essere promosse tutte le espressioni di intelligenza, a partire da quella disciplinare di cui parla Gardner, volta a forgiare il modo di pensare, connotata com’è da agilità concettuale e pensiero unito all’azione, che non è presente nel bambino di due anni, poiché si sviluppa nella prima pubertà, rispondendo a capacità logico-cognitivo-concettuali, per perfezionarsi nell’arco della vita umana. L’intelligenza sintetica, invece, va stimolata sin dall’infanzia affinché possa crescere in intenzionalità negli anni successivi. Questo esempio, suggerito da Gardner, consente di capire che comunque nello sviluppo e nella formazione personale ci sono delle tappe, caratterizzate da momenti di rapida crescita alternati a fasi di rallentamento e difficoltà, tuttavia ciò non significa che il bambino, ad esempio, non debba sentir parlare di certi argomenti e problemi sin da piccolo, semmai dovranno essere differenti le modalità di conoscenza e percezione della realtà. I bambini, in quanto dotati di sorprendenti capacità, in virtù di quella “mente assorbente” di chiaro eco montessoriano, sin da piccoli dovranno essere coinvolti nel processo di acquisizione di conoscenze e contenuti che con il tempo e lo sviluppo psicologico verranno perfezionati, ma il primo apprendimento inizia con la più tenera età. Ogni azione educativa, infatti, “necessita del tirocinio della conoscenza e dell’intuito, del pensiero e degli affetti, della ragione e del sentimento” e, come osserva Norberto Galli, “il rispetto per la vita del corpo, propria e altrui, ha da essere insegnato e vissuto come dovere di tutti; esso sta ancora prima dell’impegno morale per la salute, giacché questo presuppone l’esistere di quella. Essen90 91

Cfr. I. Berlin, Libertà, Feltrinelli, Milano 2005.

Cfr. H. Gardner, Cinque chiavi per il futuro, Feltrinelli, Milano 2007. Nell’opera l’Autore indica cinque tipi di intelligenza, corrispondenti a delle “modalità intellettive”, che sono: intelligenza disciplinare, sintetica, creativa, rispettosa ed etica.

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do la vita un valore, occorre educare i giovani e gli adulti a desiderarla, a proteggerla sin dal suo primo inizio, a curarla nelle varie fasi del cammino evolutivo”92. Ciò significa, ad esempio, che i bambini, indipendentemente dall’età posseduta, dovranno essere coinvolti in numerose attività di apprendimento, attraverso forme ludiche, volte alla promozione del rispetto e della legalità, per acquisire negli anni un solido senso civico. Le istituzioni educative, grazie alla competenza professionale degli educatori, dovranno individuare le strategie didattiche e le modalità di’intervento più opportuno, nel rispetto dei tempi di crescita, di sviluppo e di apprendimento individuale, per accostare i bambini ai problemi, facendo capire con il linguaggio che più gli è familiare i problemi reali. Le iniziali forme di educazione alla legalità avverranno con la conoscenza ed il rispetto delle regole, per promuovere nel tempo il consolidamento dell’intelligenza etica. L’intelligenza etica, ad esempio, consente di comprendere la responsabilità che deriva dall’essere cittadini, rispettosi dei principi e dei valori, leali e onesti. Questa modalità intellettiva, descritta da Gardner, si traduce nella capacità di rispettare e di tollerare le altre persone, con la consapevolezza che nasce dall’impegno sociale. Al rispetto e alla tolleranza si educa sin da piccoli; infatti le prime esperienze avvengono in famiglia, poi a scuola, nel gruppo dei pari e, da adulti, nel mondo del lavoro, dove ognuno potrà radicare il proprio senso etico. Perché partire proprio dalle regole? Il primo passo, come ricordato, invita ad osservare i bambini nel loro comportamento: sanno giocare insieme? Si rispettano? Si prendono cura dei propri giocattoli? Se giocare corrisponde ad un bisogno non ne potranno fare a meno, anzi, “l’uomo si forma e si educa giocando e se dimentica, trascura o rimuove il gioco e i giochi cesserà di formarsi”, poiché “quel giocare che è formarsi in se stessi, abitando gli arcipelaghi lontani dell’immaginazione e della fantasia”93, è un crescere continuo. Tuttavia lo stesso giocare che può sembrare un’attività tanto spontanea quanto ovvia, permette di prendere familiarità con le regole da rispettare (es. ogni bambino aspetta il proprio turno). È chiaro, ovviamente, che quello che i bambini apprendono a scuola dovrà trovare continuità nell’ambiente familiare; infatti, se mancherà la collaborazione fra scuola e famiglia, potrà nascere nel bambino destabilizzazione. Genitori e maestri, dunque, si dovranno alleare nell’educazione delle giovani generazioni, creando opportunità di incontro e di dialogo. I comportamenti dovranno adeguarsi alle circostanze, alle relazioni, ai contesti e le regole permettono di far capire al bambino tutto questo, ridimensionando il suo senso di 92

B. Rossi, Educare i sentimenti. Per una cultura della vita e dell’amore, in L. Pati, (a cura di), Ricerca pedagogica ed educazione familiare. Studi in onore di Norberto Galli, Ed. Vita e Pensiero, Milano-2003, p. 487. 93

M. Gennari, Trattato di Pedagogia generale, Bompiani, Milano 2006, p. 331.

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onnipotenza, che suscita aggressività e indifferenza ai bisogni degli altri.94 “Il rapporto con la regola in ambito educativo, pertanto, deve essere pensato in una dimensione di complessità in cui è in gioco l’individuo in tutti i suoi aspetti, cognitivi e affettivi, consapevoli e inconsapevoli”95. Regola e comportamento vanno di pari passo, poiché la loro conoscenza ed interiorizzazione (questo è del resto il significato dell’apprendimento) procede con la stessa applicazione nel fare quotidiano. In altre parole, ciò significa che la comprensione della regola trova la sua efficace realizzazione nel saper guidare il comportamento, motivato da istinto, sentimenti, azioni e bisogni da soddisfare. Gli adulti, in tal senso, devono dare il proprio esempio, rispettando loro stessi per primi le regole stabilite, fornendo così ai bambini esempio concreti del rapporto con le norme. L’interiorizzazione delle regole permette di contrastare comportamenti scorretti, come lo sono quelli di marcata prepotenza che esitano in forme di bullismo. Vari studi, condotti da Turiel e dai suoi collaboratori, “hanno dimostrato che già prima dei tre anni i bambini distinguono tra norme morali, inerenti i diritti e il benessere altrui, e regole basate esclusivamente sul consenso sociale. Secondo Turiel la precoce capacità di differenziare tra i due tipi di regole presentati è strettamente connessa alla possibilità di interagire in contesti sociali diversi, come la scuola e la famiglia”96. Scuola e famiglia, pertanto, attraverso l’educazione alla legalità, dovranno promuovere nel bambino il primo approccio al senso della reciprocità e della responsabilità, improntando all’insegna di un nuovo “stile d’essere” i rapporti individuali, nella convinzione che la libertà “esiga una cura costante, complessa e differenziata, che non la sopprima con il pretesto di garantirla meglio, o di svilupparla maggiormente, ma che neppure la abbandoni a se stessa, col motivo che questa si afferma da sé”97. Trattandosi di un valore che accomuna e unisce tutti gli uomini, la libertà deve essere conquistata per essere pienamente goduta, ma il raggiungimento del traguardo finale, che si esprime con piena comprensione e valorizzazione, chiede conoscenza ed impegno, coinvolgendo il bambino in prima persona, con i genitori e gli educatori. Il rispetto delle regole, pertanto, fa assaporare le prime forme di libertà, segno di 94

F. Confessore, Bullismo: strategie d’intervento, in Scuola Italiana Moderna, La Scuola, Brescia, n. 10, 1 febbraio 2006, anno 113, p. 91. 95

S. Caravita, A. Bartolomeo, E. Rivolta, Bulli e regole a scuola, in Scuola Italiana Moderna, La Scuola, Brescia, n. 10, 1 febbraio 2005, p. 15. 96 97

Ivi, p. 16. AA.VV., Quale educazione ai valori nella scuola d’oggi, La Scuola, Brescia 1978, p. 15.

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una matura consapevolezza che si concretizza e si consegue nel tempo e nella vita. Libertà, reciprocità e senso di responsabilità si costruiscono a partire dalla prima infanzia, quando il bambino si accosta per la prima volta alla verità, alla libertà e alla democrazia, nel rispetto di se stesso e degli altri, per agire in conformità con le sue convinzioni, rivelando così il diritto ad essere completamente se stesso. Le osservazioni fin qui maturate consentono di sostenere la validità di progetti educativi volti alla formazione di senso civico, nel rispetto di una legalità che si concretizza con l’assunzione di comportamenti ispirati al rispetto, alla tolleranza e alla condivisione. Si tratta di promuovere una alfabetizzazione dei sentimenti che educa allo scambio, alla reciprocità e alla tolleranza, per una alfabetizzazione civica dalla quale prenderanno forma responsabilità e impegno civile98. Partecipazione attiva alla vita sociale, godimento di diritti ed esercizio responsabile dei doveri, lasciano sperare nella formazione di una umanità migliore, espressione di una volontà collettiva99 diretta al conseguimento del bene comune, motivata nel superamento delle eclissi di legalità, che rivelano la perdita del senso della legge che impedisce di riconoscere beni e valori sociali. Educare alla legalità, dunque, diviene anche forma di opposizione all’affermazione di nuovi egoismi ed individualismi che marcano la società, per riscoprire in questa il senso dell’onestà, il dialogo, la tolleranza e la libertà che rendono possibile alla persona umana di autenticarsi, per riscoprirsi impegnata moralmente e dunque in grado di assumersi i diritti e i doveri che nascono da una compartecipazione responsabile100.

3.3 Dal bullismo al mobbing : quale modalità d’intervento? di Daniela Bosetto101 Nel presente intervento intendiamo soffermare la nostra attenzione sulla relazione tra bullismo e mobbing, fenomeni che possono presentare caratteristiche di tipo speculare. In modo particolare privilegiamo concentrarci sul disagio psicologico manifestato 98 99

Cfr. S. Gandolfi, Educazione e conflitti sociali, La Scuola, Brescia 2002.

Cfr. E. Morin, I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Raffaello Cortina, Milano 2001. 100

Cfr. AA.VV., L’educazione alla legalità. XXXII Convegno di Scholé, La Scuola, Brescia 1994.

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Daniela Bosetto è Professore straordinario di psicologia del lavoro presso Università degli Studi e- Campus

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dal bullo e dal mobber in quanto, rispetto al disagio della vittima, la letteratura è ormai ricca di validi contributi in relazione anche alle possibili modalità d’intervento. La nostra ipotesi evidenzia che alla base della messa in atto del comportamento da bullo o da mobber vi sia una matrice comune, riferibile ad un comportamento di tipo aggressivo che matura a partire dall’infanzia. L’intervento di prevenzione e anche di cura all’interno dei contesti comunitari quali la scuola per il bullo o l’azienda per il mobber, risulta essere auspicabile ma ancora di difficile attuazione. Nei contesti ove ci si è occupati del problema , si è dato maggior spazio, a ragion veduta, a supportare la vittima del bullismo o del mobbing. Il nostro modello di prevenzione e cura prevede invece un orientamento a focalizzare l’attenzione primariamente sul bullo e sul mobber non trascurando naturalmente la vittima e gli spettatori, inizialmente all’interno del sistema in cui si verifica il fenomeno. Una volta evidenziata la problematica si procederà ad offrire un sostegno di tipo psicologico o psicoterapeutico a seconda dei casi. La presenza di uno psicologo consulente esterno all’interno del contesto scolastico o aziendale, che si ponga come osservatore per chi è a rischio di sviluppare comportamenti da bullo, da mobber e da vittima e la possibilità di poter seguire un percorso di supporto psicologico o di psicoterapia in un contesto esterno al luogo in cui si è consumata l’azione mobbizzante, sono da ritenersi una delle possibili modalità per arginare il dilagare di questo fenomeno. Riteniamo inoltre che l’intervento sul gruppo classe, attraverso momenti di sensibilizzazione sul problema del bullismo, possa essere privilegiato in tutti quei contesti educativi ove si sia o non si sia manifestato il problema. Molto utile potrebbe essere inoltre un programma mirato di educazione all’empatia, attraverso momenti formativi, rivolto a quei soggetti protagonisti di episodi di bullismo e mobbing. Qualora nella scuola la rilevanza del problema sia elevata, sarebbe opportuno istituire uno sportello psicologico che si occupi di dare sostegno sia il bullo , sia alla vittima, sia agli spettatori. Per quanto riguarda invece il mobbing che si verifica nei contesti lavorativi intendiamo privilegiare interventi di tipo individuale , cioè mirati sulla persona , sia essa mobber , vittima o spettatore.

1. Comportamento aggressivo e disturbi di personalità nel bullo e nel mobber Il bullismo e il mobbing sono da ritenersi fenomeni che si generano da una matrice comune cioè il desiderio di danneggiare fisicamente e /o psicologicamente una persona mettendo in atto un comportamento aggressivo. 112


Baron e Richardson vedono nel comportamento aggressivo la finalizzazione a fare del male ad un altro essere umano, sia fisicamente che psicologicamente, con l’intento immediato di arrecare un danno, privilegiando pertanto l’intenzionalità de comportamento aggressivo (Baron e Richardson , 1994) In quest’ottica il bullo e il mobber affermano attraverso la messa in atto del comportamento aggressivo i propri interessi e mirano a dominare un soggetto con caratteristiche di debolezza. Ci possiamo comunque chiedere se il desiderio di danneggiare qualcuno sia realmente intenzionale o no. Sia che agiscano intenzionalmente che non, il bullo e il mobber sono comunque da ritenersi, a nostro avviso, portatori di un disturbo di personalità. Tradizionalmente quando si affronta la tematica del bullismo e del mobbing si è orientati ad occuparsi prevalentemente del danno subito dalla vittima offrendole un supporto psicologico o psicoterapeutico, a seconda della gravità del problema, per gestire la situazione di sofferenza. La cura a nostro parere deve coinvolgere anche i persecutori, in quanto vittime di un disagio psicologico spesso grave e non risolto. Occupandoci della patologia manifestata dal bullo e dal mobber, non possiamo prescindere dall’analizzare l’aspetto speculare che li accomuna e che è caratterizzato dall’aggressività. Nella classificazione delle tipologie di aggressività, selezioniamo a proposito del bullo e del mobber quella ostile, consistente nell’ esplicito desiderio di provocare del male ad un soggetto attraverso l’espressione di sentimenti caratterizzati da negatività e quella strumentale che è invece rappresentata da un’azione aggressiva intenzionale finalizzata al raggiungimento di uno scopo preciso. Alcuni studi ipotizzano che i fenomeni di bullismo e di mobbing possano essere affrontati facendo riferimento alle cosiddette ipotesi disposizionali. Tale corrente teorica evidenzia che sussistono tratti della personalità, tali da incidere nel determinare se una persona possa essere predisposta a sviluppare comportamenti mobizzanti (Field, 1996 , Hirigoyen, 2000; Coyne et al., 2000). I ricercatori facenti riferimento alla corrente sopracitata si sono occupati di studiare i comportamenti di tipo aggressivo negli adulti e li hanno interpretati come modalità di un apprendimento avvenuto nell’infanzia e nell’adolescenza. Osservando il bullo e il mobber possiamo notare come essi presentino caratteristiche nevrotiche. La descrizione fatta nel Temperamento nervoso (Adler ,1912) appare oggi attuale . Così si esprime l’autore : “Parlerò, innanzitutto, dei tratti del carattere che si osservano con una certa regolarità in tutti i nervosi e che si estrinsecano nel comportamento seguente: consciamente o inconsciamente , direttamente o per vie traverse , pensando e agendo razionalmente o con l’aiuto di una certa combinazione 113


di sintomi, il paziente persegue appassionatamente uno scopo che lo assorbe e lo ossessiona e che consiste nell’accrescere il suo patrimonio, nell’aumentare la sua potenza e la sua influenza, nell’umiliare e svalutare gli altri”(Adler 1912, p.97 ). Tali caratteristiche, a nostro parere, sicuramente si addicono alla personalità del bullo e del mobber. Autori più recenti riferiscono che il mobber può essere portatore di un disturbo narcisistico, in quanto si presenta con una personalità impermeabile all’esistenza degli altri., sopraffatto dalla paranoia del successo. (Antonuccio e Vissicchio 2010) Possiamo osservare come il disturbo narcisistico di personalità sia caratterizzato da senso grandioso di importanza, fantasie illimitate di potere, convinzione di essere speciali ed unici, tendenza ad approfittarsi degli altri per scopi personali,incapacità di riconoscere i sentimenti e le necessità delle altre persone, tendenza a compiacersi di mostrare comportamenti arroganti, invidia verso gli altri e convinzione di essere oggetto di invidia da parte delle persone. Nel libro Potere, coraggio e narcisismo, analizzando i disturbi narcisistici della personalità, Kohut ha osservato ripetutamente una specifica e ben circoscritta catena di eventi psicologici. Egli evidenzia “un movimento regressivo dell’aggressività da livelli più elevati di aggressività controllata, che sono mobilitati a sostegno delle ambizioni e del desiderio di approvazione e di successo, a quella specifica forma di aggressività, sperimentata all’interno di una percezione particolarmente regressiva dell’ambiente, che ho denominato rabbia narcisistica”( Kohut 1986, p.83). Secondo l’autore “questa regressione , soprattutto se prolungata, porta a una varietà di conseguenze negative e potenzialmente pericolose nella vita dell’individuo. Sembra che sia anche un fattore che produce effetti molto gravi quando ha luogo all’interno di un gruppo…Il difetto di cui soffre la persona che vive questo tipo di rabbia è del tutto interno. L’aggressore è percepito come un corpo estraneo in un mondo arcaico che deve essere popolato esclusivamente da obbedienti oggettiSé.. il soggetto considera già la sola alterità dell’altro come un’interferenza nel suo controllo onnipotente di un mondo vissuto narcisisticamente. ..Lo scopo resta quello dell’estinzione totale del nemico…Nessun richiamo alla ragione o alla pietà può interferire con questo obiettivo, perché manca la capacità di avere un atteggiamento empatico verso il nemico, di vedere in lui un proprio simile”. (op. cit., p.84). Alla luce di queste ultime considerazioni possiamo notare come nel bullo e nel mobber manchi la capacità empatica. Secondo Kohut “La premessa di base della psicologia psicoanalitica del Sé è la posizione precisa che essa assegna all’empatia e all’introspezione…i principali ostacoli che interferiscono con l’uso dell’empatia (specialmente per periodi prolungati) sono quelli derivanti dai conflitti relativi a una modalità narcisistica di entrare in rapporto con l’altra persona”. (op. cit., p.93). 114


Il Bullo e il mobber sviluppano comportamenti aggressivi che si manifestano attraverso atteggiamenti di collera e di distruttività. Per Kohut “La rabbia narcisistica è chiaramente una manifestazione della predisposizione dell’uomo a reagire in modo aggressivo…la rabbia narcisistica si presenta sotto molte forme..se la rabbia non diminuisce ….assistiamo al costituirsi graduale di una rabbia narcisistica cronica, che è una delle afflizioni più perniciose della psiche umana- sia nella sua forma ancora prodromica ed endogena, come rancore e risentimento, sia nella forma esteriorizzata e agita attraverso atti vendicativi disorganizzati o attraverso una vendetta accuratamente programmata” (op. cit., p.157 ) Secondo il DSM IV gli individui con Disturbo Narcisistico di Personalità generalmente mancano di empatia, e hanno difficoltà a riconoscere i desideri, le esperienze soggettive e i sentimenti degli altri. Questi individui sono spesso incuranti del dolore che possono infliggere le loro osservazioni, in queste caratteristiche possiamo dunque riconoscere l’atteggiamento del mobber. Anche nei disturbi di controllo degli impulsi è possibile riscontrare aspetti che potrebbero caratterizzare alcuni comportamenti del mobber. Secondo il DSM IV soggetti con tratti narcisistici, ossessivi, paranoici o schizoidi possono essere particolarmente inclini ad avere scoppi esplosivi di rabbia, specie sotto stress. Nel disturbo antisociale di personalità secondo il DSM IV assistiamo invece a un quadro pervasivo di inosservanza e di violazione dei diritti degli altri, che si manifesta nella fanciullezza o nella prima adolescenza, e continua nell’età adulta .Per porre questa diagnosi, l’individuo deve avere almeno 18 anni, e deve avere in anamnesi alcuni sintomi del Disturbo della condotta prima dell’età di 15 anni. Il disturbo della condotta comporta un quadro ripetitivo e persistente di comportamenti che violano i diritti basilari degli altri e le norme o regole sociali appropriate per l’età. Ci riferiamo in modo particolare alla “condotta aggressiva che causa o minaccia danni fisici ad altre persone o animali. I bambini o gli adolescenti con questo disturbo spesso innescano comportamento aggressivo e reagiscono aggressivamente contro gli altri. Essi possono mostrare un comportamento prepotente, minaccioso o intimidatorio , essere fisicamente crudeli con le persone o con gli animali. I soggetti con disturbo della condotta possono avere scarsa empatia e scarsa attenzione per i sentimenti, i desideri, il benessere degli altri; essi possono essere insensibili e mancare di adeguati sentimenti di colpa o di rimorso. Soprattutto nel comportamento legato al “molestare gli altri” possiamo ritrovare atteggiamenti caratteristici del bullo e del mobber.

2. Il recupero del bullo e del mobber attraverso l’empatia. La parola empatia deriva da einfublung, termine tedesco che sta ad indicare il 115


“sentire dentro” . Il poter “sentire dentro” fa riferimento ad una struttura di personalità socialmente integrata . Rollo May, descrivendo la personalità la definisce come il realizzarsi di un processo della vita di un individuo libero, socialmente integrato e psicologicamente consapevole (May, 1989 ). Il bullo e il mobber tendono a sviluppare la loro libertà -come direbbe Alfred Ader- sul lato inutile della vita. L’essere libero di danneggiare l’altro e di poter gioire nel vederlo soffrire possono essere intesi come segni evidenti di incapacità ad integrarsi socialmente. La difficoltà a provare empatia verso le vittime , il forte distacco emozionale dalla loro sofferenza, è parte di un ciclo emozionale che favorisce il comportamento violento dei soggetti prepotenti, i quali tendono a giustificare la propria aggressività con affermazioni tipo: “alcune persone meritano di essere trattate come animali” (Menesini, Fonzi e Vannucci, 1997). L’empatia , diviene dunque il mezzo in grado di inibire il comportamento aggressivo, in questo senso, il bullo e il mobber dovranno sviluppare capacità tali da poter essere in grado di riconoscere i sentimenti e i bisogni altrui . In modo particolare sarà opportuno favorire nel bullo e nel mobber l ‘ esternarsi della componente affettiva dell’empatia. Il processo empatico deve infatti privilegiare lo sviluppo di aspetti non solo cognitivi ma anche affettivi tra loro interdipendenti (Bonino, Lo Coco, Tani, 1998). Le persone competenti sul piano emozionale hanno maggiori probabilità di essere contente ed efficaci sia nelle relazioni intime che negli aspetti pratici della vita (Goleman, 1995). Il programma di recupero dell’ empatia, da parte del bullo e del mobber , prevede la messa in atto, da parte dello psicologo consulente esterno, di interventi mirati. Illustreremo in modo sintetico la nostra metodologia d’intervento. Prima fase: segnalazione della presenza di un problema di bullismo o di mobbing allo psicologo esterno Seconda fase: osservazione sul campo delle dinamiche di gruppo dei lavoratori o degli allievi ( per almeno due settimane) da parte dello psicologo esterno, relativamente al problema emerso. Terza fase: lettura ed interpretazione delle dinamiche di gruppo osservate rispetto alle problematiche di mobbing e di bullismo da parte dello psicologo esterno. Quarta fase: progettazione dell’intervento di rieducazione all’empatia per il bullo e per il mobber. Tale fase prevede un percorso di colloqui psicologici iniziali mirati alla presa d’atto da parte del soggetto di essere portatore di un probabile disturbo del comportamento. In seguito, se il soggetto sarà disponibile, lo si indirizzerà ad un percorso di psico116


terapia breve finalizzato al recupero delle capacità empatiche. La tecnica di psicoterapia breve ad orientamento adleriano, prevede un percorso mirato ad analizzare lo stile di vita del paziente aiutandolo a soffermarsi in modo particolare sul ruolo delle emozioni . Il paziente dovrà essere in grado di valutare la sua modalità di espressione delle emozioni in relazione ai tre compiti vitali individuati da Alfred Adler : amore, relazioni amicali, lavoro . Nei soggetti che hanno intrapreso il percorso di “recupero delle capacità empatiche”si è potuto notare come spesso la modalità di relazionarsi non empatica sia comune ai tre ambiti della vita sopracitati. Il lavoro del terapeuta si rivolgerà dapprima ad analizzare le radici del disagio fin dai primi anni di vita del soggetto utilizzando il metodo adleriano che prevede durante il percorso di psicoterapia breve : l’ analisi dei tre compiti vitali, l’analisi ed interpretazione dei primi ricordi, l’analisi ed interpretazione dei sogni. Obiettivo iniziale di questa prima fase sarà quello di supportare il paziente bullo o mobber a comprendere il suo stile di vita e la gestione delle sue emozioni fino ad oggi. La seconda fase del percorso di psicoterapia breve comprenderà , una volta acquisita la consapevolezza del proprio stile di vita e della modalità di gestione delle proprie emozioni, un intervento “autocorettivo” rispetto alle modalità utilizzate fino ad ora . Il paziente sarà orientato a lavorare sulla propria aggressività e a rimodularla gradualmente per creare o recuperare le capacità empatiche. Il paziente necessiterà di essere monitorato costantemente in questo percorso di recupero dell’empatia e della modulazione della propria aggressività. Si impegnerà ad autosservarsi nella quotidianità lavorativa e a riportare verbalizzandole nella seduta di psicoterapia le sue dinamiche comportamentali quotidiane. Utile sarà la registrazione di un diario in cui si evidenzieranno i cosiddetti comportamenti empatici che il soggetto è riuscito a mettere in atto nell’ambito lavorativo. La terza fase prevede l’osservazione da parte del paziente di eventuali cambiamenti da parte dei colleghi di lavoro e della vittima nei suoi confronti. I possibili cambiamenti dei compagni di scuola o dei colleghi di lavoro e della vittima saranno oggetto di riflessione da parte del bullo e del mobber che si confronterà con lo psicoterapeuta. La quarta fase mira a far acquisire la consapevolezza da parte del bullo o del mobber di potersi rapportare ai compagni di scuola e ai colleghi di lavoro con modalità non più aggressive ma bensì empatiche. Alla fine della psicoterapia breve , il bullo e il mobber dovranno rafforzare le capacità empatiche attraverso una fase formativa di “educazione alla comunicazione empatica”. Si prevede in questo caso un percorso formativo di 10 incontri avente come oggetto l’apprendimento della modalità di comunicare in modo empatico. Tale percorso formativo avrà un risvolto pratico e privilegerà la messa in atto di tecniche di simu117


lazione. Riteniamo fondamentale alla fine del percorso di prevenzione e cura dei fenomeni di bullismo e mobbing , mantenere, da parte dello psicologo esterno, un monitoraggio mensile con osservazione sul campo per almeno sei mesi. Essendo il bullismo e il mobbing patologie che colpiscono sempre più la realtà scolastica e quella aziendale, risulta altresì opportuno promuovere la formazione di psicologi clinici e psicoterapeuti interessati ad approfondire anche tematiche di psicologia del lavoro .

3.4 BULLISMO FEMMINILE: ANALISI DEL FENOMENO SOCIALE di Riccardo Sebastiani102 Quando si sente parlare di bullismo nell’immaginario collettivo, si pensa sempre che sia riservato al mondo dei ragazzi. Purtroppo, alla luce di dati sempre più evidenti, il fenomeno del bullismo si sta propagando anche tra le ragazze. Sono sempre di più, infatti, le notizie di cronaca che descrivono episodi di violenza tra gruppi di adolescenti donne. L’analisi del fenomeno necessita di un approfondimento per cercare di capire sia le ragioni che stanno dietro a queste manifestazioni sia il modo di adoperare la “violenza”. Mentre nei ragazzi, infatti, predomina una componente, se vogliamo, istintiva e animalesca che si traduce nelle percosse e in atti intimidatori violenti, le ragazze non si basano sullo scontro fisico ma in maniera più subdola cercano, con dinamiche di predominanza , di prevaricare sull’altra. Queste dinamiche includono lo stalking , minacce, sia verbali che telefoniche, diffusione di pettegolezzi infondati con conseguente derisione pubblica, si cerca in altre parole di colpire la vittima sul piano psicologico, tanto da debilitarne la personalità. Di norma, si cerca di colpire il punto più debole della malcapitata per togliersi di torno una potenziale rivale all’interno di un gruppo o per dinamiche di tipo affettivo. Generalmente il bullismo femminile spicca all’interno di gruppi ben consolidati dove l’esponente di “spicco” , il così detto capo, riesce a prevaricare e a sotto intendere la propria dominanza. Le vittime preferite sono generalmente soggetti femminili magari caratterizzati da una personalità poco brillante incline alla timidezza, con disagi fisici o al contrario soggetti particolarmente belli e quindi una possibili rivali. In ogni caso, il soggetto che viene preso di mira, presenta la mancanza del coraggio di reagire e subisce in 102

Riccardo Sebastiani è Dottore in Scienze umane e dell’educazione presso l’Università degli Studi di Perugia

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maniera passiva i soprusi. Questi soprusi non lasciano indifferente la vittima sul piano psicologico che si sentirà ancora più insicura fino ad arrivare a percepire un immagine di sé distorta che la condizionerà a livello comportamentale e sociale fino ad arrivare ad autoescludersi per la paura di non essere accettata, per la vergogna o per timore di altri atti intimidatori. Uno degli allarmi maggiori è un crescente aumento di casi di anoressia tra adolescenti causata da una forte depressione o dalla non accettazione di sé. Non è un caso che l’aspetto fisico è uno dei bersagli di scherno preferiti tra le ragazze bulle che condizionano il pensiero del gruppo. Spesso si è portati a pensare che questi episodi riguardino soprattutto ceti sociali bassi o che stanno ai margini della società, invece da una analisi del fenomeno è risultato che la differenza principale è quella geografica, infatti, “le bulle meridionali tipicamente respirano violenza in casa e vengono da famiglie povere e disagiate, spesso hanno fratelli o padri con precedenti penali. Di solito incassano l’appoggio genitoriale quando gli insegnanti tentano di porre un freno al loro comportamento. Inoltre al Sud le “ragazze terribili” sembrano covare odio sociale nei confronti delle loro coetanee acqua e sapone. Al nord invece molti casi di bullismo hanno come protagonista ragazze “bene”, con genitori istruiti e una posizione sociale medio-alta. Le bulle sono per lo più ragazze con una famiglia “normale”, che non hanno vissuto esperienze dolorose tra le pareti domestiche e che si nascondono dietro ad un impeccabile look da “collegiale”103. Altra caratteristica del bullismo femminile è il fatto che si maschera facilmente perché indiretto e prettamente psicologico. Non è semplice per gli insegnanti e gli educatori accorgersi del fenomeno e quindi combatterlo. Porre rimedio ad un caso di bullismo femminile conclamato, a livello educativo, non è facile ma esistono comunque diverse ipotesi di intervento. La sanzione punitiva non deve essere “esemplare” ma deve portare a far capire l’errore e a correggere quello stato di inquietudine che sta dietro a tutti gli atti di violenza. Elargire delle sanzioni costruttive ed è già un buon inizio. Un esempio calzante sono i lavori socialmente utili o impegni nel volontariato che permetto di entrare in contatto empaticamente con chi ha bisogno di aiuto, facendo vedere il mondo con gli occhi di chi è “vittima”. Quello che si cerca di fare è toccare le emozioni e di rendere più empatici questi ragazzi che probabilmente non hanno sperimentato nelle relazioni primarie emozioni positive e legami efficaci e significativi. Cercare di spiegare la genesi di questo fenomeno e come si sia passati al dilagare dello stesso in così poco tempo di è di certo semplice. Le cause dirette ed indirette sono molteplici e vanno da quelle a carattere socio-antropologico a quelle a carattere psicologico. 103

http://www.cafepsicologico.it/pupe-allatacco-il-bullismo-femminile

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Di fondo vi è un allontanamento da quelle logiche platoniche di bene comune che dovevano assicurare benessere e giustizie dell’intera comunità a favore di una apatia sentimentale che prende a modello figure evanescenti e prive di un qualsiasi spessore umano e sociale. I modelli di riferimento rappresentano sempre di più l’apparenza mettendola sul piedistallo e facendola risplendere di un bagliore così accecante tale da impedire qualsiasi forma di riflessione. Per un certo verso è come se si stia assistendo ad una forma di regressione emotiva tale da vivere la socialità come rivela e non come parte integrante. Gli interventi educativi, volti a contenere il fenomeno, dovrebbero partire in primis dalla famiglia ma, il più delle volte, è la famiglia stessa l’origine del problema. Recuperare questi ragazzi è difficile ma possibile. Lo sforzo delle istituzioni, a partire dalla scuola, deve essere notevole e ben mirato a riportare a galla quell’emotività, quell’empatia, quella socialità che contrapposta alla violenza dia la vera essenza del vivere civile. Vivere con la violenza come amica non fa star bene nessuno perché crea un inquietudine sempre crescente e una rabbia che non rende lucidi e non permette di capire quello che di più banale c’è: aprirsi alla serenità e all’armonia è la chiave di volta del benessere interiore.

3.5 CyberBullismo: Disagio e vetrinizzazione sociale nell’era digitale di Alessandro Mazzeo104 Il medium è il messaggio,annuncia il vaticinio espresso da McLuhan, inteso non soltanto come semplice intermediario, ma bensì in maniera più completa e complessa, metafora attiva, che traduce un’esperienza reale, dall’immaginario ideale, in un processo destinato a tra–s–formare e tra–s–portare l’attore sociale (secondo l’assunto che un emittente ed un ricevente105abbiano un 104

Alessandro Mazzeo è Dottore di Ricerca in Didattica e Tecnologie dell’Istruzione presso l’Università degli studi di Messina 105

Si rilevano in questa direzione, sei elementi che il linguista e sociologo russo Roman Jakobson distingue in: mittente, destinatario, messaggio, contesto, canale (o contatto) e codice. Il mittente e il destinatario (o ricevente) sono ovviamente i due protagonisti della comunicazione. Tuttavia, affinché essa risulti efficace e in grado di raggiungere il destinatario, occorre che siano rispettate, secondo Jakobson, le seguenti condizioni: che il messaggio cha fa riferimento al contesto di appartenenza del mittente venga veicolato da un canale fisico (contatto) per essere trasmesso, appunto, dal mittente al ricevente. È altresì evidente che il messaggio presuppone l’utilizzo di un codice neces-

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canale di comunicazione e d’interpretazione comune) in un universo virtuale ( a cui si sarebbe giunti secondo il paradigma del concetto di Rete sociale – e digitale come Web). In merito al dicotomico aspetto tra effetto – forma e contenuto, McLuhan, in maniera assai suggestiva, precisa:«La nostra reazione convenzionale a tutti i media, secondo la quale ciò che conta è il modo in cui vengono usati, è l’opaca posizione dell’idiota tecnologico. Perché il contenuto di un medium è paragonabile ad un succoso pezzo di carne con il quale un ladro cerchi di distrarre il cane da guardia dello spirito. (…) Il contenuto di un film è un romanzo, una commedia o un’opera. Ma l’effetto della forma cinematografica non ha nulla a che fare con il suo contenuto programmatico. (…) Quando non riusciamo a tradurre qualche esperienza o evento naturale in atto consapevole, noi lo reprimiamo. È questo il meccanismo che ci intorpidisce di fronte a quelle estensioni di noi stessi che sono i media, i quali, come metafore trasformano – trasmettono esperienza»�. Estensioni dei loro mediaed inconsapevoli detentori delle loro frustrazionitecnologiche, secondo uno svuotamento ed uno svilimento dei punti di riferimento, da un lato, dettato da un riproporsi agli schemi noti di un disagio sociale e ad una insofferenza sempre più presente ed attuale come crisi nichilistica106 generazionale; dall’altro, parimenti il bisogno esistenziale di emancipazione attraverso le naturali aspirazioni di integrazione e di riconoscimento sociale, tiene a galla i nuovi, giovanissimi, attori globali, i cosiddetti nativi digitali, affinché non neghino – e – anneghino nella propria realtà, (effetto) Narcosi di un Mito – Narciso107– collettivo, oltre sariamente conosciuto sia dal mittente che dal destinatario. Non può esistere comunicazione che non abbia un mittente o un destinatario, o che non abbia un messaggio inserito in un contesto, un codice comune e un canale dove far passare il messaggio. Cfr. Jakobson R, Essais de Linguistique générale, Éditions de Minuti, Paris, 1963, (trad. it.) Saggi di linguistica generale, Feltrinelli,Milano, 1966; in Epasto A.A, Processi Cognitivi e Nuove Tecnologie dell’Apprendimento,Samperi, Messina, 2004, pagg 72-74. 106 Cfr. Galimberti U, L’ospite inquietante, Il nichilismo ed i giovani, Feltrinelli, Milano, 2007/08. 107

«Proprio come Narciso, che si innamorò di un’esteriorizzazione (proiezione, estensione) di se stesso, l’uomo sembra innamorarsi invariabilmente dell’ultimo aggeggio o congegno, che in realtà non è altro, che un’estensione del suo stesso corpo. Quando guidiamo la macchina o guardiamo la televisione, tendiamo a dimenticare che ciò con cui abbiamo a che fare è soltanto una parte di noi stessi messa là fuori. In questo modo, diventiamo servomeccanismi delle nostre stesse creazioni e rispondiamo ad esse nel modo immediato e meccanico che esse richiedono. Il punto centrale del mito di Narciso, non è che gli individui tendono ad innamorarsi della propria immagine, ma che si innamorano delle proprie estensioni, convinti che non siano loro estensioni».Cfr. McLuhan M, The Agentbite of Outwit, Location, Vol.1 n.1, Spring-1963,pagg. 41-44, McLuhan Studies, Issue, 2; (trad. it) Rimorso di incoscienza, in Lettera Internazionale 98, Rivista Internazionale Europea, 4 trimestre 2008, Roma, pag. 29.

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lo schermo.Incastrati tra un meta – ego e una metà della realtà circostante, tutta da carpire,tutta da capire ancora compiutamente.108 Non abbiamo occhi, non abbiamo schemi di lettura, per capire qualcosa di molti ragazzi tra i quindici ed i venticinque anni, nonostante questa generazione sia stata studiata, classificata, vivisezionata da istituti di ricerca come mai era capitato ad altre generazioni di giovani, rileva il Prof. Umberto Galimberti: «Di loro si parla come del pianeta degli svuotati o come della generazione degli sprecati, indecifrabili come una X ignota. I loro progetti hanno il respiro di un giorno, l’interesse la durata di un emozione, il gesto non diventa stile di vita e l’azione si esaurisce nel gesto. La passione imprecisa non sa se avere legami con il cuore o con il sesso e non riesce a decidere con chi dei due entrare in intensa relazione. L’aggressività non sa scatenarsi su di sé o su gli altri, e l’ira di un giorno è subito cancellata da una notte, nella cui vigilia si celebra l’eccesso della vita oltre la misura concessa, in quella gioiosa confusione dei codici, fino al limite dov’è il codice della vita a confondersi con quello della morte. (...) Che si tratti dei ragazzi che per festeggiare la fine degli esami di maturità, impediscono ad un extracomunitario di risalire l’argine del fiume, che si tratti dei ragazzi del cavalcavia che non per volontà omicida, ma così, scaraventano pietre sull’autostrada, che si tratti di studenti universitari che, non per ragioni premeditate, ma così, traforano il cranio ad una studentessa, sono questi i rappresentanti di quella “generazione Q”, come la chiama il sociologo tedesco Falco Blask, dove “Q” sta per quoziente intellettivo ed emotivo non particolarmente elevato. (...) Dalla perdita di identità, che si costruisce solo con la consequenzialità delle proprie azioni e con l’irrevocabilità delle proprie scelte, nasce quel frazionamento psichico dove l’identità vive nel gesto misurato non sulla scala del bene e del male, di cui non si distingue più il confine, ma sulla scala della noia e dell’eccitazione, della ripetizione e della novità»109. L’uomo è per definizione come (ci) ricorda Aristotele, un animale politico, traducendo dal patto Hobbesiano come principio di natura, in un modus operandi, orientato successivamente alla cultura a cui appartiene, un animale culturale. La natura, riflette ancora U. Galimberti, ci fornisce gli impulsi (quello che si intende 108

Cfr. Mazzeo A., Il Tessuto Connettivo Digitale: reale continuum tra ideale e virtuale; Articolo su Rivista Telematica – Vega – Periodico di Cultura, Didattica e Formazione Universitaria. ISSN 1826 – 0128; Anno VI – Numero 3, Dicembre 2010. e anche Cfr. Mazzeo A., Le Dinamiche di Relazione Sociale nel Tessuto Connettivo Digitale;Articolo su Rivista Telematica – Vega – Periodico di Cultura, Didattica e Formazione Universitaria. ISSN 1826 – 0128; Anno VI – Numero 2, Agosto 2010. 109

Cfr. Galimberti U, L’ospite inquietante, Il nichilismo ed i giovani, Feltrinelli, Milano, 2007/08, pagg. 127-134.

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ed interpreta impianto pulsionale, con evidente riferimento Freudiano)che hanno come loro espressione non la parola, ma i gesti. L’ emozione è già un evento psichico, che segnala la risonanza emotiva che gli eventi del nostro mondo e le risposte che noi diamo ad essi, producono in noi. Dall’ emozione si passa al sentimento, che non è un tratto naturale, ma culturale. A differenza dell’emozione, il sentimento è un elemento cognitivo110. Il bullismo, ad esempio, non è un fenomeno di mancata educazione, ma un vero e proprio arresto psichico di chi non si è evoluto dall’impulso per pervenire all’emozione: «I ragazzi, quando massima è la forza biologica, emotiva ed intellettuale, per tutta l’ adolescenza e la prima giovinezza, vivono parcheggiati in quella terra di nessuno dove la famiglia non svolge più alcuna funzione, la scuola non desta alcun interesse, la società alcun richiamo, dove il tempo è vuoto, l’identità non trova alcun riscontro, il senso di sé si smarrisce, l’autostima deperisce. Hanno smesso di dire “noi” come lo si diceva nel sessantotto, l’hanno detto sempre meno dopo il crollo delle ideologie, si sono rifugiati in quello pseudonimo di se stessi che ripete ossessivamente “io” dalle pareti strette come quelle di un ascensore. E di quella dimensione sociale che non ha più trovato dove esprimersi: né in chiesa, né a scuola, né nelle sezioni di partito, né sul posto di lavoro, è rimasto solo quel tratto primitivo o quel cascame che è la banda. Solo con gli amici della banda oggi molti dei nostri ragazzi hanno l’impressione di poter dire davvero “noi”, e di riconfermarlo in quelle pratiche di bullismo che sempre più caratterizzano i loro comportamenti a scuola. Lo sfondo è quello della violenza sui più deboli e la pratica della sessualità precoce ed esibita sui telefonini e su internet dove, compiaciuti, fanno circolare le immagini delle loro imprese»�. La pericolosità del fenomeno bullistico, specialmente quando si manifesta nell’ambito scolastico e durante le fasi della cosiddetta età evolutiva, considera ed analizza la Prof.ssa Concetta Epasto, studiosa Pedagogista e profonda conoscitrice del fenomeno (Università di Messina), ha determinato nell’ambito nazionale ed internazionale un interesse notevole e conseguentemente una molteplicità di ricerche. Esplorato da diverse angolazioni che hanno posto in evidenza la complessità del fenomeno, certamente non riconducibile in modo univoco a cause sociologiche, psicologiche, familiari o, addirittura, psichiatriche: «Per definire cosa si intenda per bullismo, la maggior parte degli studiosi, specialmente quelli italiani (in particolare Ada Fonzi - Ada Fonzi, Il bullismo in Italia, Giunti, Firenze, 1997.) fanno riferimento a D. Olweusper quanto riguarda la caratterizzazione della “vittima”; e a S. Sharp e P.K. Smith per quanto concerne la definizione del comportamento da “bullo”. Secondo Olweus, appunto, “uno 110

Galimberti U., Il Segreto della domanda; Intorno alle cose umane e divine, Apogeo,2008; e anche Cfr. Idem, Gli equivoci dell’Anima, Feltrinelli, Milano, 1987/2006.

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studente è oggetto di azioni di bullismo, ovvero è prevaricato o vittimizzato, quando viene esposto, ripetutamente nel corso del tempo, alle azioni offensive messe in atto da parte di uno o più compagni”. Per Sharp e Smith “un comportamento da bullo, è un tipo di azione che mira deliberatamente a fare del male o a danneggiare; spesso è persistente ed è difficile difendersi per coloro che ne sono vittime. Alla base della maggior parte dei comportamenti sopraffattori c’è un abuso di potere e un desiderio di intimidire e dominare”. Ada Fonzi, che è stata la prima studiosa ad interessarsi del fenomeno e a coordinare ricerche in molte regioni italiane, ha inteso trovare il termine più adatto nella lingua italiana che concettualmente corrispondesse al termine inglese di bullyng, una parola che, sempre secondo la Fonzi, interpreta assai bene, con la felice condensazione della lingua inglese, la situazione in cui c’è contemporaneamente qualcuno che prevarica e qualcun altro che è prevaricato»111. Sulla base di tali assunti, si intende proporre una riflessione che consenta, delineate le ragioni e le radici che hanno indagato il fenomeno del bullismo nella sua globalità, di individuare ed interpretare, altresì, l’insorgenza di quei tratti peculiari - tipici del nostro tempo - circa un disagio generazionale, soprattutto nel periodo pre/post adolescenziale. Nella disamina delle dinamiche di relazione sociale, molto spesso distorte, è possibile, così, rintracciare e riconoscere, attraverso il medium - nel passaggio dal principio cogito ergo sum al postulato appaio dunque esisto - una vetrinizzazione sociale nell’era digitale, rispetto alla quale gli attori coinvolti, partecipi ma sempre meno artefici del proprio destino, condividono una condizione, il cui protagonismo - nei suoi riflessi più eclatanti e talora devianti - denuncia una dimensione che apre ad un vuoto pneumatico, colmato all’occorrenza da una, apparentemente virtuale, perniciosa gratuità, se non fosse al contempo, trasfigurazione di una reale accidiosa aggressione per se stessi e per gli altri. A dispetto del conflitto generazionale di un tempo che aveva principalmente nelle ideologie di pensiero dominante (Marxismo/Leninismo - Muro di Berlino - Capitalismo liberista) un catalizzatore come elemento di contenimento e deflagrazione rispetto ad una testimonianza sociale, l’attuale generazione digitale, (r)innova un disagio neoesistenziale,incontrandosi e scontrandosi con un desiderio d’attestazione identitaria, secondo mera gratificazione narcisistica, riflesso di un collasso emozionale - relazionale, rintracciato ed al contempo misconosciuto dalla comunità globale come pure dalle istituzioni ufficiali (Scuola - Famiglia); verticalizzando, nella sua ragion d’essere,con possibili spinte e spunti di manifesta attitudine 111

Cfr. Epasto C., Le dinamiche relazionali distorte, il Bullismo, Samperi, Messina, 2004. pagg. 15-17.

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ad un comportamento deviante nella realtà circostante, una spettacolarizzazione e messa in scena di un modus operandi declinato come cyber-bullismo/ bullismo-elettronico.

3.6 Bullying: Policy makers e strategie nazionali e internazionali di Maurizio Pattoia112 “Il bullismo è un abuso di potere”113 Il bullismo è un fenomeno diffuso in tutto il mondo e molto elevate sono oggi le possibilità che un bambino o un adolescente possano esserne coinvolti. Fortunatamente ormai si è diffusa e capillarizzata praticamente dovunque anche una sensibilità specifica e dati statistici inerenti il bullismo vengono raccolti all’interno delle scuole e online nel cyber-spazio. L’idea molto diffusa, e non senza riscontri, è che tale tipo di fenomeno sia praticamente sempre avvenuto anche con livelli di estensione molto alti ma che, in passato, non sia stato sufficientemente evidenziato anche a causa della riluttanza a riferire da parte dei soggetti vittime. Spesso, infatti, il risultare soggetti deboli e vittime è deprimente dal punto di vista personale e sociale e lascia segni non facilmente cancellabili sia dal punto di vista strettamente psicologico che da quello relazionale. Anche i persecutori hanno ricadute pesanti e circa il 30% di coloro che perpetrano atti di bullismo in età giovanile risultano poi avere problemi con la giustizia inerenti reati contro la persona. Quando si parla di bullismo, comunque, le statistiche mostrano chiaramente come ci siano due forti evidenze, una positiva ed una negativa: - La positiva è che il fenomeno del bullismo in generale, ed in particolare quello in stile classico faccia a faccia, non sembra essere in aumento, anzi; anche se c’è un nuovo sbilanciamento verso il cosiddetto cyber-bullismo. - La negativa è che il fenomeno del bullismo ha un tasso di diffusione altissimoe le sue ricadute in termini di danni fisici, psicologici e sociali sono enormi. Nel 2007 erano stimati in circa 200 milioni i giovani vittime di bullismo nel mondo114. 112

Maurizio Pattoia è ricercatore di Didattica e pedagogia speciale, esperto in tecnologie dell’istruzione presso l’Università degli Studi di Perugia 113 114

Buccoliero E., Maggi M., Bullismo, bullismi, Franco Angeli, Milano, 2005

Come risulta dalla Kandersteg Declaration Against Bullying in Children and Youth, documento prodotto dai partecipanti alla Joint Efforts Against Victimization Conferen-

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In Italia, in una ricerca condotta nel 2006115, circa 1 scolaro su 3 riferiva di essere stato vittima di atti di bullismo e la ricerca condotta dall’OMS nel 2001/2002116 ha evidenziato che nel nostro paese le vittime sono per l’11% circa femmine e per il 13,9% maschi mentre i persecutori sono per il 20% circa maschi e per l’8,1% femmine. Anche se ormai,almeno in Europa, praticamente in tutte le scuole di ogni ordine e grado sono organizzate iniziative di divulgazione e lotta al bullismo non è comunque così recente l’evidenza di strategie più ampie e vaste, di carattere nazionale e internazionale, orientate a combattere questo fenomeno. Negli ultimi tempi gli interventi volti a studiare, chiarire e combattere il fenomeno del bullismo si sono particolarmente intensificati, probabilmente anche grazie ad una rinnovata sensibilità dell’opinione pubblica e dei grandi operatori pubblici nei confronti di una manifestazione di violenza che colpisce i bambini e gli adolescenti principalmente negli ambiti, come quello scolastico, deputati ad essere luoghi educativi e formativi. I grandi attori internazionali oggi si stanno dando da fare per promuovere iniziative ampiamente diffuse e coordinate, e creare così network specifici che possano fornire immediato supporto nel combattere questo fenomeno; anche se l’orientamento più frequente è quello di porre attenzione specifica, e risorse, al cyberbullismo e ciò potrebbe, in un prossimo futuro, riportare in crescita il più violento fenomeno del bullismo tradizionale. Il riferimento principale presso le Nazioni Unite è sicuramente l’United Nations Interregional Crime and Justice Research Institute (UNICRI), che spesso interviene sul tema del bullismo e più in generale sul tema della cd. “devianza giovanile” come problema di sicurezza sociale, mentre l’aspetto delle ricadute in termini di salute è monitorato e strategicamente guidato dall’OMS. In particolare l’OMS ha promosso e sostiene, dal 1982117, un network noto Health ce tenutasi a Kandersteg in Svizzera nel giugno 2007 115 116

Quando il bullismo entra in classe-Indagine Manners. Casa editrice D’Anna

Craig WM, Harel Y. Bullying, physical fighting and victimization. In: Currie C, Roberts C, Morgan A, Smith R, Settertobulte W, Samdal O, Rasmussen V Barnekow, editors. Young People’s Health in Context: International report from the HBSC 2001/02 survey. WHO Policy Series: Health policy for children and adolescents Issue 4, WHO Regional Office for Europe; Copenhagen: 2004 117

Fu proprio nel 1982 che grande risonanza ebbe il suicidio, in Norvegia, tre ragazzi di età compresa tra i 10 e i 14 anni, perché vittime di bullismo da parte di loro coetanei. A seguito di questo triste episodio scaturirono, in Europa e non solo, numerose iniziative tese all’individuazione di strategie volte alla comprensione e al contenimento del fenomeno.

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Behaviour in School-aged Children(HBSC), particolarmente attivo in Europa, il cui scopo è raccogliere ed elaborare ogni quattro anni informazioni sulla salute e i comportamenti ad essa relati, dei giovani di 11, 13 e 15 anni. Il capitolo “Risk Behaviours” del report HBSC118 è uno dei massimi riferimenti statistici e figurativi per ciò che concerne il fenomeno del bullismo nelle età prese in considerazione. Anche l’Organizzazione internazionale per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE)si occupa dello studio del fenomeno del bullismo nella prospettiva economica. Prevalentemente consiste in una rielaborazione ragionata in senso economico dei dati provenienti dai report HBSC. La pubblicazione di riferimento in questo caso è Society at a Glance119 ed ha cadenza biennale. I dati inerenti il bullismo sono, però, riportati nelle cadenze concomitanti all’uscita dei report HBSC e sono normalmente riportati all’interno della trattazione dei cd. “indicatori di coesione sociale” (Social Cohesion Indicators). L’OCSE ha anche promosso, nel 2004, la costituzione dell’“International Network on School Bullying and Violence” (OECD-SBV); una rete tematica specifica che è parte del Programme of Work 2007-2011 dell’OSCE. Fondata a seguire dalla conferenza internazionale “Taking Fear out of Schools”120, ha visto l’adesione di 21 paesi121. L’OECD-SBV è stata particolarmente attiva nel promuovere strategie ed analizzare e diffondere buone pratiche tra i paesi coinvolti; ed importante è il contributo scaturito dai “meeting for National coordinators within the OECD Network on School 118

Il Rapporto internazionale (HBSC International report), che è prodotto come parte dellaHealth Policy for Children and Adolescents’ (HEPCA) dell’OMS, istituita nel 1999, viene preparato alla fine di ogni ciclo di studio quadriennale e mette a confronto i paesi partecipanti rispetto ad indicatori inerenti la salute e il benessere. L’ultimo report pubblicato è del 2009/10. Rif. Currie C et al. eds. Social determinants of health and well-being among young people. Health Behaviour in School-aged Children (HBSC) study: international report from the 2009/2010 survey. Copenhagen, WHO Regional Office for Europe, 2012 (Health Policy for Children and Adolescents, N. 6). 119

Society at a Glance offre una sintesi quantitativa delle tendenze sociali e politiche in tutta l’OCSE. Attualmente l’ultima pubblicazione con dati inerenti il bullismo è: Society at a Glance 2009: OECD Social Indicators, Parigi, OECD Publishing, 2009. 120

La conferenza “Taking Fear out of Schools. International Policy and Research Conference on School Bullying and Violence” si è tenuta a Stavanger in Norvegia nel settembre 2004. 121

Australia, Austria, Belgio, Canada, Corea del sud,Francia, Germania, Giappone,Irlanda, Israele, Messico, Norvegia, Nuova Zelanda,Polonia,Regno Unito, Slovacchia, Slovenia, Svezia, Svizzera, Turchia e Ungheria.

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bullying and Violence” tenutisi a Budapest nel 2005 e a Londra nel 2008. Di particolare rilevanza è il documento “Policy overview of school bullying and violence among 8 members of the SBV network”122 che racchiude una disamina profonda ed un confronto tra le politiche di 8123 tra i più rappresentativi paesi che fanno parte dell’OCSE-SBV tra il 2004 e il 2008. Da notare, però, è un netto calo di attività dalla fine del 2009. In Eurolandia molte delle iniziative internazionali sono organizzate in collaborazione con i soggetti già citati ma nelle forme di progetti finanziati dai differenti programmi europei. La ricaduta scientifica ed applicativa di tali innumerevoli progetti non sempre va aldilà del periodo di finanziamento e spesso capita di vedere buone pratiche perdersi nel tempo perché non più sostenibili finanziariamente o perché non più rientranti nelle mutate attenzioni della Commissione europea. Come già accennato, l’attuale attenzione ai fenomeni di cyber-bullismo e altri comportamenti devianti in rete ha portato il fiorire di numerosi progetti europei finanziati con il programma “Safer Internet” nelle sue varie dimensioni. Importante è notare in questo caso come sia previsto il finanziamento prioritario a soggetti qualificati, i cd. Safer Internet Centres, tra i quali è annoverato anche il Telefono Azzurro, diffusi in tutta Europa e che si pongono anche come interlocutori privilegiati per l’organizzazione di attività divulgative ed educative. In Italia,“è del 1997 la prima indagine nazionale su questo tema curata dalla docente Ada Fonzi, da cui emergeva che mediamente un alunno ogni tre dichiarava di subire prepotenze con continuità (con variazioni legate a specificità territoriali). Vale la pena di ricordare che si deve al gruppo di ricerca coordinato dalla Fonzi l’introduzione del vocabolo ‘bullismo’ nella lingua italiana, come trasposizione letterale del termine inglese ‘bullying’.”124 In realtà la Fonzi e il suo gruppo di ricerca avevano già attirato l’attenzione dell’opinione pubblica con la pubblicazione nel 1995 dei risultati di una ricerca limitata alle scuole di Firenze e Cosenza, i cui risultati già indicavano il bullismo come un fenomeno estremamente diffuso. “Mi occupo di questi problemi da una decina d’anni, con indagini e interventi nelle scuole e nelle classi e, pur con tutti i limiti di ogni esperienza personale necessariamente limitata e parziale, non mi sentirei di affermare che ci sia stato un improvviso 122

Henning Plischewski, Kirsti Tveitereid (Eds.),Policy overview of school bullying and violenceamong 8 members of the SBV network, 2008 123 124

Australia, Belgio, Giappone, Nuova Zelanda, Norvegia, Slovacchia, Slovenia, Svezia

Mario Caroli (a cura di), “BULLISMO E DINTORNI” Contributi e dati sulle forme di disagio nella scuola, in Didascalie Informa. Rivista della Scuola in Trentino, Trento, Provincia Autonoma di Trento, 2007, n. 2 febbraio, p. 24

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peggioramento delle relazioni tra alunni nelle scuole. Anche le recenti indagini effettuate a livello nazionale riportano dati sostanzialmente simili a quelle di dieci anni fa. Ora che il fenomeno è emerso e che per una serie di eventi si è deciso di parlarne e di occuparsi del problema, conviene sforzarsi di farlo nel modo migliore, facendo tesoro delle esperienze passate e riducendo i rischi di sprecare risorse e occasioni.”125 Il Ministro della Pubblica Istruzione nel 2007 emanò una direttiva allo scopo di definire le “Linee di indirizzo generali ed azioni a livello nazionale per la prevenzione e la lotta al bullismo” (direttiva prot. 16 del 05/02/2007). L’allora Ministro Fioroni nel comunicare l’emanazione della direttiva ebbe a dire: “Presentiamo questo Piano mentre sono in corso i funerali di Filippo Raciti. [omiss.] Prima di fermare il campionato dobbiamo fermare una mentalità, la stessa che entra e devasta gli stadi come le scuole. E questa mentalità dobbiamo fermarla subito”. È evidente dalle sue parole che la direttiva fosse stata concepita come risposta ferma e segnale forte di attenzione, tesa ad arginare un fenomeno che sembrò essere dilagante. Tale norma, a tutt’oggi punto di riferimento nazionale in materia, nelle sue 13 pagine contemplava alcune iniziative importanti tra le quali: - “Una campagna di comunicazione diversificata, rivolta non solo agli studenti ma anche ai dirigenti scolastici, ai docenti, al personale ATA e alle famiglie. In questo ambito è prevista l’implementazione di azioni mirate per ogni ordine e grado di scuola, con il coinvolgimento dei mezzi di comunicazione di massa e soprattutto degli studenti che saranno non solo i destinatari ma anche i creatori della campagna informativa. - Osservatori regionali permanenti sul bullismo, istituiti presso ciascun ufficio scolastico regionale e che avranno il compito di: o prevenire e combattere il bullismo o promuovere le attività formative dedicate all’educazione alla legalità o monitorare e verificare i risultati delle attività svolte dalle singole scuole o monitorare il fenomeno del bullismo - Numero verde nazionale, l’800 66 96 96, attivo dal lunedì al venerdì dalle 10 alle 13 e dalle 14 alle 19, a cui poter segnalare casi, chiedere informazioni generali sul bullismo e su come comportarsi in situazioni difficili e quindi ricevere sostegno. A disposizione di tutti gli utenti ci saranno psicologi e professori esperti nel settore. - Sito web, www.smontailbullo.it che sarà un luogo virtuale di raccordo per tutte

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Mario Caroli (a cura di), op. cit., p. 24

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le iniziative poste in essere e dove poter trovare informazioni utili.”126 In particolare, per ciò che concerne il cyber-bullismo, Fioroni scrisse:”E’ il ‘cyberbullying’ la nuova forma di prevaricazione, che non consente a chi la subisce di sfuggire o nascondersi e coinvolge un numero sempre più ampio di vittime, è in costante aumento e non ha ancora un contesto definito. Ciò che appare rilevante è che oggi non è più sufficiente educare a decodificare l’immagine perché i nuovi mezzi hanno dato la possibilità a chiunque non solo di registrare immagini ma anche di divulgarle. Di conseguenza la prevenzione ed il contrasto al bullismo sono azioni ‘di sistema’ da ricondurre nell’ambito del quadro complessivo di interventi e di attività generali. Uno strumento insostituibile e centrale per affrontare questi fenomeni è lo studio delle materie curricolari che fornisce agli studenti le capacità per una decodifica approfondita della realtà insieme alla proposta di attività strutturate e coerenti con il percorso di formazione. Il valore educativo dell’esperienza scolastica, infatti, comprende e supera la sola acquisizione di conoscenze e competenze”. Viene comunque ribadito nella Direttiva che rimane alla singola scuola il compito di proporre ed attuare la strategia più idonea ed efficace, da esprimere nel POF secondo i dettami dell’autonomia scolastica, per l’azione di educazione alla cittadinanza e prevenzione del disagio. Non c’è dubbio che parte della risposta al fenomeno del bullismo debba essere impostata e calata sulle specifiche realtà locali. Resta la perplessità su quante e quali risorse, specialmente in questi periodi di crisi, possano far conto le singole scuole per poter pensare ed attuare strategie più generali di educazione alla cittadinanza e, in particolare, per fronteggiare questa piaga giovanile che, come le altre tristi vicende, viene riconsiderata solamente quando esplode in eventi tali da attirare le attenzioni dei media. Per il resto è, normalmente, storia di dolore e solitudine. Bibliografia essenziale AA.VV., L’educazione alla legalità. XXXII Convegno di Scholé, Brescia, La Scuola, 1994. AA.VV., La mia pedagogia, Padova, Liviana, 1972. AA.VV., Quale educazione ai valori nella scuola d’oggi, Brescia, La Scuola, 1978. Acone G., L’orizzonte teorico della pedagogia contemporanea, Salerno, Edisud, 2005. Ahlfors R. Many sources, one theme: analysis of cyberbullying prevention and intervention websites. Journal of Social Sciences,2010, 6(4), pp. 515–522. Angori S., Insegnare. Un mestiere difficile, Roma, Bulzoni, 2003. 126

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Cap. 4 Il fenomeno del bullismo alla luce della normativa civile e penale italiana Di: Prof. Avv. Damiano Marinelli127*; Dott.sa Barbara Baccarini128**

4.1 Definizione di bullismo e normativa di riferimento Da un punto di vista giuridico129, non è definita una definizione unitaria del termine bullismo. Si può osservare come, con questo vocabolo, si voglia identificare un comportamento invadente ed insidioso, tenuto da uno o più soggetti (spesso molto) giovani, nei confronti di altri individui ritenuti, per qualche ragione, più deboli. L’elemento peculiare risiede nella continuità ed ha come scopo ultimo quello di affermare il potere e la superiorità del bullo sui soggetti più deboli130. L’origine del termine italiano deriva da una traduzione letterale del termine inglese “bullying” con il quale si evidenziano comportamenti prepotenti nei confronti di soggetti facenti parte della stessa comunità sociale. Per identificare meglio questo tipo di atteggiamento, è necessario porre l’accento su come il comportamento del bullo abbia sempre caratteristiche omogenee quali l’intenzionalità dell’azione, la ripetitività nei confronti dello stesso soggetto, l’asimmetria di potere e la differente estrazione sociale. Spesso l’azione viene compiuta a danno di soggetti conosciuti131. Il fenomeno del bullismo generalmente si sviluppa in ambienti quali ad esempio la scuola, i campi sportivi o i mezzi di trasporto pubblico, dove è forzata la convivenza, per diverse ore, di soggetti della stessa età o di età similari. Si può comunque 127 *

Docente di diritto privato e di diritto della mediazione e dell’arbitrato, Direttore scientifico del Master “Alternative Dispute Resolution” presso l’Università E Campus, Avvocato, Presidente dell’Associazione Legali Italiani (www.associazionelegaliitaliani.it). 128

** Cultrice della materia di diritto privato e di diritto della mediazione e dell’arbitrato, Tutor del Master “Alternative Dispute Resolution” presso l’Università E Campus, Mediatrice civile accreditata. 129

Per un’analisi esaustiva sul tema del bullismo dal punto di vista giuridico, si rinvia a ASCIONE, “Bullismo, tutela giuridica aggiornato alla Direttiva Ministeriale n. 16/2007”, Matelica, 2007. 130 131

Menesini, “Il bullismo a scuola: sviluppi recenti”, in Ragionamenti, 2007, p. 52. Così Olweus, 1999 e Menesini, 2000.

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affermare con certezza però che il luogo nel quale si sviluppa maggiormente il fenomeno del bullismo è la scuola. Nello specifico, si manifesta in aule durante il cambio d’ora, nei bagni, nei corridoi. Il bullismo può manifestarsi in diversi atteggiamenti quali violenze verbali (prese in giro, minacce) violenze psicologiche (esclusione dal gruppo), violenze fisiche (percosse) o violenze reali (furti). Con l’avvento della tecnologia, è nata anche un’altra tipologia di bullismo che viene chiamata “cyberbullismo” e s’identifica con atteggiamenti molesti attraverso l’invio di sms132/mail, pubblicazioni di fotografie rubate, furti di identità in social network, violenze “telematiche” su social network. Da un punto di vista giuridico, non si annoverano particolari differenze tra il bullismo ed il cyberbullismo che sono disciplinati dalla stessa normativa. L’elemento peculiare di differenza risiede infatti solo negli strumenti utilizzati. Un fenomeno molto simile al bullismo è il mobbing. In giurisprudenza si è spesso identificato il bullismo come un fenomeno di “mobbing in età evolutiva”. Sostanzialmente le due fattispecie hanno in comune la posizione di svantaggio della vittima, il dolo e la continuità dell’atto. Si manifesta generalmente nei luoghi di lavoro e può essere di tipo verticale: ovvero imposto da un superiore nei confronti di un collega subordinato o in alternativa, orizzontale posto in essere da colleghi di paro grado. La parte attiva viene identificata con il termine “mobber” mentre la parte passiva con il termine “mobbizzato”. La mancanza di una disciplina giuridica di riferimento, lascia ampi margini interpretativi di tipo psicologico e sociologico. Così come il bullismo, anche il mobbing viene perseguito attraverso i singoli comportamenti vessatori posti in essere, ricon132

La Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione (Sent. n. 26680/2004) ha stabilito che la molestia, prevista e punita dall’art. 660 c.p., non è solo quella commessa con qualsiasi mezzo in luogo pubblico o aperto al pubblico o quella commessa con mezzo del telefono, ma anche quella che avviene mediante gli Short Messages System (SMS): tali messaggi “vengono trasmessi attraverso sistemi telefonici, che collegano tra loro apparecchi telefonici cellulari e/o apparecchi telefonici fissi” e che “quanto al risultato, e più esattamente alla capacità offensiva del messaggio in danno della tranquillità privata del destinatario, è notorio che (a differenza di quel che in genere succede per lo strumento epistolare) il destinatario è costretto a leggerne il contenuto prima di poter identificare il mittente; sicché il mittente del messaggio, attraverso questo strumento, raggiunge lo scopo, dolosamente perseguito, di turbare la quiete e la tranquillità psichica del destinatario, ne più ne meno di come lo raggiunge quando usa lo strumento della comunicazione telefonica tradizionale” (…) “quello che l’art. 660 c.p. ha voluto incriminare non è tanto il messaggio molesto che il destinatario è costretto ad ascoltare (per telefono), quanto ogni messaggio che il destinatario è costretto a percepire, sia de auditu che de visu, prima di poterne individuare il mittente, perché entrambi i tipi di messaggi mettono a repentaglio la libertà e tranquillità psichica del ricevente”.

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ducendoli alla disciplina giuridica esistente133. Un ulteriore altro fenomeno con caratteristiche similari al bullismo è lo stalking. Il tratto comune è individuato nelle dinamiche comportamentali che possono arrivare a distruggere la qualità di vita della vittima. La differenza essenziale risiede, anche il questo caso, nell’età degli autori della fattispecie incriminata: anche il bullismo, infatti, viene identificato come uno stalking adolescenziale. Lo stalking è entrato a far parte del nostro ordinamento con il decreto legge 23 febbraio 2009, n. 11, introducendo l’art. 612 bis c.p. relativo agli “atti persecutori”. La caratteristica tipica di questo fenomeno è la reiterazione ovvero la continuità dell’azione molesta e minacciosa: viene pertanto identificato come un reato abituale. Perché sussista la fattispecie di reato, è necessario che il comportamento posto in essere, provochi alla vittima uno stato di ansia e paura costante tale da modificare anche le abitudini di vita. Prima di iniziare a fare un approfondimento della normativa sul bullismo, bisogna evidenziare come questo fenomeno spesso venga definito “metagiuridico” ovvero un fenomeno privo di un riconoscimento normativo. Come vedremo, vengono riconosciuti come reati i singoli atti (ad esempio, la violenza, la minaccia, etc.) non il bullismo come fattispecie criminosa. Entrando dunque più nello specifico, nell’ordinamento giuridico italiano, la normativa di riferimento per la tutela degli individui da fenomeni di bullismo, trova i suoi primi fondamenti in alcuni articoli della Costituzione Italiana, nella quale viene garantita la tutela degli interessi socioculturali. Gli articoli di maggiore interesse sono: - l’art. 3 nel quale il legislatore pone l’accento sull’importanza di tutelare e di garantire un’uguaglianza formale e sostanziale134 di tutti i cittadini italiani. Lo Stato ha altresì il compito di eliminare gli ostacoli che limitano, di fatto, la libertà dell’individuo135; - l’art. 30 che garantisce la salvaguardia dell’educazione e della crescita dei 133

Caccamo, “La definizione della fattispecie giuridica: gli atti e comportamenti giuridicamente rilevanti e qualificabili come condotta di mobbing”, in www.guidaallavoro.it/ lavoro/ redazione/mobbing/Caccamo_Relazione.html; in tale ambito v. anche Bussotti. 134

L’uguaglianza di tutti i cittadini italiani non è assoluta ma sostanziale: si garantisce pertanto parità di trattamento nei confronti di soggetti uguali garantendo le differenze. 135

Art. 3 Cost. “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

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bambini. Si sottolinea il principio di corresponsabilità, ove i genitori siano incapaci di provvedere alla crescita della prole, subentrerà lo Stato a tutela della garanzia del diritto di educazione e crescita di ogni bambino136; - l’art.33 che introduce l’istituzione di scuole statali e private oltre ad istituire il principio della libertà d’insegnamento137; - l’art. 34 che garantisce il libero accesso all’istruzione scolastica, all’obbligatorietà della frequenza alle scuole dell’obbligo e il principio del diritto allo studio138. La tutela della persona e la prevenzione del disagio socioculturale, vengono anche individuati nel Decreto del Presidente della Repubblica del 24 giugno 1998 n. 249 enunciante lo Statuto per gli allievi della scuola secondaria. In particolar modo l’art. 1 recante disposizioni sulla vita della comunità scolastica, l’art. 2 relativo ai diritti di tutti i soggetti facenti parte dell’istituto scolastico, l’art. 3 relativo ai doveri di studenti, insegnanti e tutto il personale scolastico. Nel 2007 tale Decreto fu modificato ed integrato con l’emanazione di un nuovo Decreto del Presidente della Repubblica, il numero 237, nel quale vennero anche specificate le responsabilità dello studente rispetto alle azioni compiute. Venne anche affermato il ruolo fondamentale che attribuito alla scuola nel percorso di crescita degli individui che saranno i futuri cittadini italiani e che dovranno avere un senso di appartenenza, civiltà e responsabilità. 136

Art. 30 Cost. “E’ dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio. Nei casi di incapacità dei genitori, la legge provvede a che siano assolti i loro compiti. La legge assicura ai figli nati fuori del matrimonio ogni tutela giuridica e sociale, compatibile con i diritti dei membri della famiglia legittima. La legge detta le norme e i limiti per la ricerca della paternità”. 137

Art. 33 Cost. “L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento. La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi. Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato. La legge, nel fissare i diritti e gli obblighi delle scuole non statali che chiedono la parità, deve assicurare ad esse piena libertà e ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni di scuole statali. E’ prescritto un esame di Stato per l’ammissione ai vari ordini e gradi di scuole o per la conclusione di essi e per l’abilitazione all’esercizio professionale. Le istituzioni di alta cultura, università ed accademie, hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato”. 138

Art. 34 Cost. “La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi pi`u alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso”.

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Come vedremo più avanti, i genitori possono rispondere in prima persona per gli atti di bullismo compiuti dai propri figli. A tal proposito di seguito vengono elencati alcuni articoli del nostro Codice Civile che evidenziano i diritti ed i doveri dei genitori nei confronti dei loro figli: - l’art 147 c.c. che evidenzia come sia un diritto e dovere di entrambe i genitori educare e mantenere i figli139; - l’art. 155 c.c. che sancisce l’obbligo dei genitori, anche in caso di separazione, di mantenere la prole e regola i doveri degli ex coniugi, con lo scopo di tutelare il pieno interesse dei bambini. Il coniuge al quale saranno affidati i bambini avrà la piena potestà su di essi. Il diritto di potestà potrà essere valutato su richiesta degli ex coniugi così come la suddivisione dei compiti di entrambe i genitori140; 139

Art. 147 c.c. “Il matrimonio impone ad ambedue i coniugi l’obbligo di mantenere, istruire ed educare la prole tenendo conto delle capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli”. 140

Art. 155 c.c. “Anche in caso di separazione personale dei genitori il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno di essi, di ricevere cura, educazione e istruzione da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale. Per realizzare la finalità indicata dal primo comma, il giudice che pronuncia la separazione personale dei coniugi adotta i provvedimenti relativi alla prole con esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale di essa. Valuta prioritariamente la possibilità che i figli minori restino affidati a entrambi i genitori oppure stabilisce a quale di essi i figli sono affidati, determina i tempi e le modalità della loro presenza presso ciascun genitore, fissando altresì la misura e il modo con cui ciascuno di essi deve contribuire al mantenimento, alla cura, all’istruzione e all’educazione dei figli. Prende atto, se non contrari all’interesse dei figli, degli accordi intervenuti tra i genitori. Adotta ogni altro provvedimento relativo alla prole. La potestà genitoriale è esercitata da entrambi i genitori. Le decisioni di maggiore interesse per i figli relative all’istruzione, all’educazione e alla salute sono assunte di comune accordo tenendo conto delle capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli. In caso di disaccordo la decisione è rimessa al giudice. Limitatamente alle decisioni su questioni di ordinaria amministrazione, il giudice può stabilire che i genitori esercitino la potestà separatamente. Salvo accordi diversi liberamente sottoscritti dalle parti, ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito; il giudice stabilisce, ove necessario, la corresponsione di un assegno periodico al fine di realizzare il principio di proporzionalità, da determinare considerando: 1) le attuali esigenze del figlio; 2) il tenore di vita goduto dal figlio in costanza di convivenza con entrambi i genitori; 3) i tempi di permanenza presso ciascun genitore; 4) le risorse economiche di entrambi i genitori;

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- l’art. 316 c.c. che sottolinea come la patria potestà dei genitori sulla prole ci sia fino al raggiungimento della maggior età dei figli. In caso di necessità, i genitori possono richiedere provvedimenti d’urgenza ai giudici141; - l’art. 317 bis c.c. che illustra come la patria potestà sia egualmente riconosciuta da entrambi i genitori che riconoscono i figli e vivono con essi. In caso di convivenza della prole con uno solo dei genitori, la patria potestà sarà in capo al genitore che vive con il bambino; in caso invece di non convivenza di entrambe i genitori con la prole, la patria potestà verrà affidata al genitore che ha riconosciuto prima il bambino142; - l’art. 2047 c.c. che stabilisce a carico dei vigilanti, del risarcimento del danno cagionato da persona incapace di intendere e volere, salvo che non riesca a dimostrare di essere stato impossibilitato a compiere una corretta sorveglianza143; 5) la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore. L’assegno è automaticamente adeguato agli indici ISTAT in difetto di altro parametro indicato dalle parti o dal giudice. Ove le informazioni di carattere economico fornite dai genitori non risultino sufficientemente documentate, il giudice dispone un accertamento della polizia tributaria sui redditi e sui beni oggetto della contestazione, anche se intestati a soggetti diversi”. 141

Art. 316 c.c. “Il figlio è soggetto alla potestà dei genitori sino all’età maggiore o alla emancipazione. La potestà è esercitata di comune accordo da entrambi i genitori. In caso di contrasto su questioni di particolare importanza ciascuno dei genitori può ricorrere senza formalità al giudice indicando i provvedimenti che ritiene più idonei. Se sussiste un incombente pericolo di grave pregiudizio per il figlio, il padre può adottare i provvedimenti urgenti ed indifferibili. Il giudice, sentiti i genitori ed il figlio, se maggiore degli anni quattordici, suggerisce le determinazioni che ritiene più utili nell’interesse del figlio e dell’unità familiare. Se il contrasto permane il giudice attribuisce il potere di decisione a quello dei genitori che, nel singolo caso, ritiene il più idoneo a curare l’interesse del figlio”. 142

Art. 317 bis c.c. “Al genitore che ha riconosciuto il figlio naturale spetta la potestà su di lui. Se il riconoscimento è fatto da entrambi i genitori, I’esercizio della potestà spetta congiuntamente ad entrambi qualora siano conviventi. Si applicano le disposizioni dell’articolo 316. Se i genitori non convivono l’esercizio della potestà spetta al genitore col quale il figlio convive ovvero, se non convive con alcuno di essi, al primo che ha fatto il riconoscimento. Il giudice, nell’esclusivo interesse del figlio, può disporre diversamente; può anche escludere dall’esercizio della potestà entrambi i genitori, provvedendo alla nomina di un tutore. Il genitore che non esercita la potestà ha il potere di vigilare sull’istruzione, sull’educazione e sulle condizioni di vita del figlio minore”. 143

Art. 2047 c.c. “In caso di danno cagionato da persona incapace di intendere o di volere, il risarcimento è dovuto da chi è tenuto alla sorveglianza dell’incapace, salvo che provi di non aver potuto impedire il fatto.Nel caso in cui il danneggiato non abbia

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- l’art. 2048 c.c. che evidenzia come siano i genitori o i tutori a rispondere per i danni cagionati dai minori144. La giurisprudenza della Cassazione ha precisato che: l’art. 2048 c.c., dopo aver previsto la responsabilità di precettori e maestri d’arte per i danni cagionati dal fatto illecito dei loro allievi nel tempo in cui sono sotto la loro vigilanza, dispone che tali soggetti sono liberati dalla responsabilità soltanto se provano di non aver potuto impedire il fatto. Per vincere la presunzione di responsabilità occorre: 1) la dimostrazione di aver esercitato la vigilanza nella misura dovuta, e cioè con quel grado di sorveglianza correlato alla prevedibilità di quanto può accadere, il che presuppone anche l’adozione, in via preventiva, di misure organizzative e disciplinari idonee ad evitare una situazione di pericolo; 2) la prova della concreta imprevedibilità dell’azione dannosa (cfr. ex plurimis, Cass. 2097/84 e 318/90). Il contenuto della prova liberatoria non si esaurisce nella dimostrazione di non aver potuto impedire il fatto, ma si estende alla dimostrazione di aver adottato, in via preventiva, le misure organizzative idonee ad evitarlo, con la conseguenza che non può dirsi raggiunta la prova liberatoria in base alla dimostrazione dell’impossibilità di intervenire dopo l’inizio della serie causale sfociante nella produzione del danno, essendo a questo fine necessaria anche la dimostrazione che siano state predisposte idonee misure preventive, nonché la dimostrazione di aver esercitato la sorveglianza sugli allievi con una diligenza diretta ad impedire il fatto, per cui, ove difettino le più elementari misure organizzative per mantenere la disciplina tra gli allievi, non è lecito invocare l’imprevedibilità del fatto (ex Cass. n. 8165/02). Il bullismo può integrare fattispecie criminose, oggetto di specifiche sanzioni, regolamentate dal Codice Penale. Ricordiamo che una delle caratteristiche peculiari di questo fenomeno è l’uso della violenza ripetuta nel tempo: questa reiterazione pone in essere comportamenti riconducibili ad un dolo unitario. Entrando più nello specifico, possiamo notare che i comportamenti violenti, possono dar origine a diverse fattispecie di reato ritrovabili nell’art. 581 c.p. ripotuto ottenere il risarcimento da chi è tenuto alla sorveglianza, il giudice, in considerazione delle condizioni economiche delle parti, può condannare l’autore del danno a un’equa indennità”. 144

Art. 2048 c.c. “Il padre e la madre, o il tutore, sono responsabili del danno cagionato dal fatto illecito dei figli minori non emancipati o delle persone soggette alla tutela, che abitano con essi. La stessa disposizione si applica all’affiliante. I precettori e coloro che insegnano un mestiere o un’arte sono responsabili del danno cagionato dal fatto illecito dei loro allievi e apprendisti nel tempo in cui sono sotto la loro vigilanza. Le persone indicate dai commi precedenti sono liberate dalla responsabilità soltanto se provano di non avere potuto impedire il fatto”.

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guardante le percosse, nell’art. 582 c.p. relativo alle lesioni personali, nell’art. 594 c.p. concernente l’ingiuria, nell’art. 595 c.p. riguardante la diffamazione, nell’art. 610 c.p. relativo alla violenza privata, nell’art. 612 c.p. concernente la minaccia, nell’art. 635 c.p. riguardante il danneggiamento (v. infra). Bisogna però tener presente che non sempre sono ravvisabili queste fattispecie criminose e a volte non sono un indice attendibile della gravità del fenomeno della violenza inflitta alla persona più debole.

4.2 Responsabilità degli autori degli atti di bullismo Come abbiamo avuto modo di osservare in precedenza, il bullismo è una fattispecie criminosa che può dar origine ad un reato perseguibile sia civilmente che penalmente. Il bullo è il soggetto che compie gli atti criminosi. Da un punto di vista giuridico, però, possiamo notare che esiste una certa differenza tra il compimento di un atto criminoso compiuto da un bullo maggiorenne e un atto criminoso compiuto da un bullo minorenne. Nel caso in cui la fattispecie incriminata venga attuata da un soggetto maggiorenne, egli risponderà in prima persona per gli atti compiuti. Nel caso in cui, invece, gli atti di bullismo vengano compiuti da un soggetto minorenne145, egli né risponderà (con alcune limitazioni) insieme ai genitori o agli insegnanti. Con il compimento del diciottesimo anno di età, il bullo risponde civilmente e penalmente per gli illeciti compiuti; viene meno la presunzione di incapacità naturale e acquista la piena capacità d’agire ovvero la piena capacità di assumersi gli obblighi e di acquisire i diritti soggettivi146. Si ricorda che la capacità di agire si differenzia dalla capacità giuridica che invece il singolo soggetto acquista con la nascita147. Nel caso in cui il bullo sia minorenne, ovvero nel caso in cui il soggetto che

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Generalmente se l’atto criminoso viene posto in essere da un soggetto che ha meno di 14 anni, viene posta in essere in una pena educativa e non restrittiva. 146

Art. 2 c.c. “La maggiore età è fissata al compimento del diciottesimo anno. Con la maggiore età si acquista la capacità di compiere tutti gli atti per i quali non sia stabilita una età diversa. Sono salve le leggi speciali che stabiliscono un’età inferiore in materia di capacità a prestare il proprio lavoro. In tal caso il minore è abilitato all’esercizio dei diritti e delle azioni che dipendono dal contratto di lavoro”. 147

Art. 1 c.c. “La capacità giuridica si acquista dal momento della nascita. I diritti che la legge riconosce a favore del concepito sono subordinati all’evento della nascita”.

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compie l’atto illecito non abbia ancora compiuto il diciottesimo anno di età, risponderanno per gli atti compiuti non solo il bullo stesso, ma anche gli insegnanti che hanno il compito di sorvegliare gli alunni durante le ore scolastiche, i dirigenti scolastici che gerarchicamente sono responsabili degli insegnanti e quindi hanno il compito di controllare che venga compiuta una corretta vigilanza nei confronti dei discenti148, i genitori che, fin dalla nascita del bambino, hanno il compito di educarlo. Per comprendere meglio la disciplina che regolamenta la posizione del bullo minorenne, è necessario prendere in considerazione l’art. 2046 c.c.149 secondo il quale il soggetto è responsabile nei limiti in cui è in grado di comprendere il suo comportamento. Nella maggior parte dei casi di bullismo, i bulli sono minorenni, quindi è facile che ci sia una corresponsabilità dei soggetti “in vigilando”, “ in educando” e “in organizzando”. Come vedremo in modo più approfondito tra poco, la “culpa in vigilando” è il termine attraverso il quale s’identificano i genitori del bullo ovvero i soggetti che, da un punto di vista giuridico, hanno la piena responsabilità del minore nella cura ed educazione150. I genitori sono responsabili degli atti illeciti compiuti dai loro figli anche quando i minori, ad esempio, sono a scuola: in questo caso, viene meno solo la presunzione di culpa del vigilando ed i genitori continueranno a rispondere solo per culpa in educando. La culpa in vigilando viene imputata all’insegnante del bullo che ha compiuto gli atti illeciti nel momento in cui era sotto la sua responsabilità151. E’ molto importante specificare come pur ritenendo responsabile l’insegnante, sarà la scuola a rispondere in solido attraverso il risarcimento del danno152, dato che, nel momento in cui un ragazzo viene iscritto a scuola, acquista il diritto di ricevere un’adeguata istruzione e un adeguato controllo. 148 149

Solo nel caso in cui l’atto di bullismo venga compiuto a scuola.

Art. 2046 c.c. “Non risponde delle conseguenze del fanno dannoso chi non aveva la capacità di intendere e volere al momento in cui lo ha commesso (Cod. Pen. 85 e seguenti), a meno che lo stato d’incapacità derivi da sua colpa”. 150

Art. 2048, 1° c.c. “Il padre e la madre, o il tutore sono responsabili del danno cagionato dal fatto illecito dei figli minori non emancipati o delle persone soggette alla tutela, che abitano con essi”. 151

L’insegnante può sottrarsi a tale responsabilità soltanto se dimostra di non avere potuto impedire il fatto. 152

Art. 1218 c.c. “Il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità dalla prestazione derivante da causa a lui non imputabile”.

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Culpa in organizzando, invece, è imputata ai dirigenti scolastici che hanno il preciso compito di garantire che ci sia una corretta vigilanza degli alunni in tutto il comprensorio scolastico, anche fuori dalle classi. Nel caso in cui siano compiuti atti di bullismo da un soggetto minorenne a scuola, potrà dunque rispondere anche la dirigenza scolastica per non aver garantito una corretta vigilanza degli alunni da parte del personale scolastico.

4.3 Responsabilità dei genitori, degli insegnanti e dei dirigenti scolastici Culpa in educando dei genitori Come abbiamo appena avuto modo di accennare, i genitori sono i soggetti che hanno il compito di accudire ed educare la prole. I genitori sono chiamati quindi a rispondere per gli atti compiuti dai propri figli anche nel momento in cui essi vengano affidati ad altri soggetti che hanno invece il compito di sorvegliarli. Nel plesso scolastico persiste una responsabilità concorrente tra gli insegnanti che hanno il compito di sorvegliare gli alunni -responsabilità in vigilando- ed i genitori che hanno il compito di educare i figli153 -responsabilità in educando-. Tale responsabilità concorrente viene denominata responsabilità solidale154 e non alternativa, così come definito dalla giurisprudenza di legittimità nella sentenza della Corte di Cassazione sez. III n. 12501 del 2000 la quale ha stabilito infatti la sussistenza di una responsabilità concorrente e non alternativa tra i genitori e gli insegnanti. Nel caso in cui, pur esistendo una responsabilità concorrenziale, il danno venga risarcito da una sola delle parti concorrenti, quest’ultima potrà esercitare il proprio diritto di regresso a danno dell’altra parte per ottenere quanto non dovuto in fase risarcitoria. Occorre specificare che il genitore non risponde di culpa in vigilando nel momento in cui i minori erano stati affidati agli insegnanti: “l’affidamento del minore alla custodia di 153 154

Cass. civ., Sez. III, 26/06/2001, n.8740; Cass. civ., Sez. III, 11/08/1997, n.7459.

Art. 2055 c.c. “Se il fatto dannoso è imputabile a più persone, sono tutte obbligate in solido al risarcimento del danno. Colui che ha risarcito il danno, ha regresso contro ciascuno degli altri, nella misura determinata dalla gravità della rispettiva colpa e dall’entità delle conseguenze che ne sono derivate. Nel dubbio, le singole colpe si presumono uguali”.

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terzi (insegnanti) solleva il genitore dalla presunzione di culpa in vigilando (dal momento che dell’adeguatezza della vigilanza esercitata sul minore risponde il precettore cui lo stesso è affidato), ma non anche da quella di culpa in educando, i genitori rimanendo comunque tenuti a dimostrare, per liberarsi da responsabilità per il fatto compiuto dal minore in un momento in cui lo stesso si trovava soggetto alla vigilanza di terzi, di avere impartito al minore stesso un’educazione adeguata a prevenire comportamenti illeciti”155 . Il genitore risponderà solo di culpa in educando salvo che non riesca a dimostrare di aver impartito al figlio, una corretta educazione tale da consentirgli di vivere una vita sociale e relazionale positiva; il genitore deve altresì riuscire a dimostrare che il figlio abbia appreso le nozioni impartite e che tenga regolarmente un comportamento consono all’educazione ricevuta156. Ci troviamo di fronte ad un’imputazione di responsabilità per culpa e, perché sussista tale fattispecie illegittima è necessario che ci sia all’origine un comportamento doloso o colposo del minore. Gli atti dei figli minori possono essere trattati tutti nello stesso modo? Lo stesso atto di bullismo viene trattato nello stesso modo se commesso da un minore di dieci anni o un minore di sedici anni? L’art. 2048 non fa alcuna distinzione tra età del minore e quindi verrebbe da pensare che la pena impartita possa essere la stessa ma, l’elemento che differisce il primo caso dal secondo, è che il minore abbia la piena capacità di intendere e volere; nel caso in cui il minore venga ritenuto capace di intendere e volere, sarà il minore a dover rispondere, al posto dei genitori, ma solidalmente con gli insegnati, per gli atti illeciti compiuti, così come definito nell’art. 2047 c.c. Nel caso in cui il minore sia ritenuto anche in grado di vigilare su se stesso, potrebbe rispondere da solo degli atti illeciti. La prassi comune è quindi di rimettere al giudice un giudizio sulla capacità di intendere e volere del minore.

Culpa in vigilando degli insegnanti Nell’esercizio della loro funzione, gli insegnati hanno un compito fondamentale che, ad esempio, non hanno tutti i dipendenti pubblici, ovvero quello di vigilare su discenti minorenni. Agli insegnanti viene riconosciuta la culpa in vigilando quando, nell’esercizio delle loro funzioni, avviene un atto di bullismo 155 156

Cfr. Cassazione, Sez. III, sentenza n.12501/2000.

Tale prova è difficilmente dimostrabile poiché la mera commissione di un illecito da parte del minore, viene ritenuta una prova di culpa in educando.

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e solo nel momento in cui siamo in presenza dell’elemento di colpevolezza, ovvero di dolo o culpa157 per negligenza, imperizia o imprudenza. La responsabilità degli insegnanti può essere sia penale che civile. Risulta penale nel momento in cui l’atto di bullismo diviene un illecito perseguibile penalmente; risulta civile nel momento in cui l’atto di bullismo generi un risarcimento a terzi158. L’art. 28 della Costituzione Italiana sancisce gli obblighi e le responsabilità giuridiche degli operatori scolastici; anche lo Stato partecipa alla responsabilità dei dipendenti pubblici secondo quanto disposto dall’art. 61 l. n. 312/1990159. Nel caso in cui avvenga un atto di bullismo, per il danneggiato sarà sufficiente dimostrare che tale atto sia avvenuto durante l’orario scolastico e dunque durante la supervisione degli insegnanti che hanno l’obbligo di sorveglianza. Come abbiamo accennato in precedenza, gli insegnanti non rispondono da soli per gli atti di mancata vigilanza, ma ne rispondono insieme alla dirigenza scolastica; per questo motivo, il danneggiato dovrà citare in giudizio non 157

Art. 43 c.p. “E’ doloso, o secondo l’intenzione, quando l’evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell’azione od omissione(…) è dall’agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione”; “è colposo, o contro l’intenzione, quando l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline”. 158

In conformità della presunzione di responsabilità sancita dall’art. 2048, comma 2 c.c. a carico degli insegnanti e dei precettori, al danneggiato incombe soltanto l’onere di dimostrare che vi è stato un danno e che esso si sia verificato mentre si trovava a scuola, mentre, spetta all’Ente convenuto dimostrare la liceità del fatto o la mancanza di causalità tra fatto e danno, nonché di non aver potuto impedire l’evento (Cass. n. 8165/02). 159

Art. 61 l. n. 312/1990 “La responsabilità patrimoniale del personale direttivo, docente, educativo e non docente della scuola materna, elementare, secondaria ed artistica dello Stato e delle istituzioni educative statali per danni arrecati direttamente all’amministrazione in connessione a comportamenti degli alunni è limitata ai soli casi di dolo o colpa grave nell’esercizio della vigilanza. La limitazione di cui al comma precedente si applica anche alla responsabilità del predetto personale verso l’amministrazione che risarcisca il terzo dei danni subiti per comportamenti degli alunni sottoposti alla vigilanza. Salvo rivalsa nei casi di dolo o colpa grave, l’amministrazione si surroga al personale medesimo nelle responsabilità civili derivanti da azioni giudiziarie promosse da terzi”.

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l’insegnante ma la dirigenza scolastica. Possiamo affermare infine che gli insegnanti rispondono di culpa in vigilando, ma nei loro confronti sono escluse azioni civili; gli insegnanti, però potranno essere chiamati a rispondere davanti alla Corte dei Conti da parte della dirigenza scolastica per gli atti compiuti nell’esercizio delle loro funzioni160. Il trattamento giuridico definito “speciale” inflitto agli insegnanti, è stato più volte definito incostituzionale. I limiti di responsabilità degli insegnanti per culpa in educando riguardano un limite temporale dettato dal periodo di permanenza dell’alunno negli edifici scolastici ed un limite intrinseco dettato dall’esercizio di costante controllo e vigilanza nei confronti degli alunni. Tale responsabilità continuerà ad esistere fino al momento in cui gli insegnanti non riescano a dimostrare di aver attuato tutte le misure idonee ad evitare l’insorgere dal fatto illecito161. Nel caso in cui un insegnante tardi a dare il cambio ad un altro insegnante, la giurisprudenza afferma che se il docente che ha terminato la sua lezione ritiene che non sussistano situazioni pericolose tali per cui sia necessaria la presenza di un vigilando, può decidere in autonomia di non aspettare il collega e può lasciare quindi la classe “scoperta” fino all’arrivo del docente titolare dell’ora. Durante la ricreazione i docenti sono chiamati ad esercitare maggiore attenzione nei confronti degli alunni poiché in tale periodo, è di gran lunga più elevato il rischio che i discenti possano esercitare atti di bullismo. La giurisprudenza ritiene che la responsabilità dell’insegnante in questo frangente, sia inversamente proporzionale all’età e maturità degli alunni che ha l’obbligo di vigilare162. Anche in questo caso, l’insegnante viene ritenuto privo di responsabilità solo se riesce a dimostrare di aver posto in essere tutte le misure idonee ad escludere il compimento dell’atto e che di conseguenza tale atto illecito sarebbe comunque stato commesso a causa della sua natura repentina ed imprevedibile163. Da ultimo è interessante prendere atto della sentenza n. 34492 del 2012 della Corte di Cassazione con la quale è stata condannata a 15 giorni di carcere una insegnante di scuola media accusata di aver abusato dei mezzi di correzione e di disciplina, in danno di un alunno di 11 anni (che a sua volta si era macchiato di comportamenti da bullo verso suoi coetanei più deboli) costretto a scrivere per 100 volte sul proprio quaderno la frase “sono deficiente”, e per aver adopera160 161 162 163

Cfr. Cass. civ.,Sez. Un., n. 9346/02, Cass. civ, Sez. III, 2939/2005. Cfr. Cass. Sez. Un., n. 997/73. Cfr. Cass. Sez .III , n. 894/77, Cass. Sez. II, n. 369/80 , Cass. Sez. III, n. 6937/93. Claudio De Luca, “La responsabilità giuridica degli operatori scolastici”.

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to nei suoi confronti un comportamento palesemente vessatorio: “nel processo educativo, è essenziale la congruenza tra mezzi e fini, tra metodi e risultati, cosicché diventa contraddittoria la pretesa di contrastare il bullismo con metodi che finiscono per rafforzare il convincimento che i rapporti relazionali sono decisi dai rapporti di forza o di potere”.

Culpa in organizzando dei dirigenti scolastici I dirigenti scolastici hanno obblighi di tipo organizzativo e gestionale svolgendo attività di controllo sul corretto comportamento tenuto da tutto il personale scolastico. Come disposto dall’art. 2043 c.c.164, il dirigente scolastico risponderà degli illeciti compiuti dal proprio personale, solo nel momento in cui non abbia attuato tutte le misure idonee ad impedire che questi comportamenti avvengano. L’onere della prova è a carico del danneggiato non essendoci presunzione di colpa. I dirigenti scolastici, per evitare che possano insorgere delle situazioni pericolose, determinano circolari interne generali e particolari tali da garantire la corretta vigilanza degli alunni. Tali disposizioni, che nella maggior parte dei casi sono di tipo indefinito, hanno, infatti, lo scopo di includere la maggior parte degli alunni sotto la supervisione del docente impartendo a quest’ultimo un’ “obbligazione di risultato”165. Nell’ipotesi in cui avvenga un reato tra le mura scolastiche, il dirigente ha l’obbligo di avvisare immediatamente l’autorità giudiziaria, sia che l’atto sia compiuto o che abbia come vittime alunni minorenni o maggiorenni. Tale obbligo grava sui pubblici ufficiali e il dirigente scolastico, nella “sua” scuola, assume tale ruolo. Il personale scolastico, d’altro canto, assolverà a tutte le sue funzioni, informando tempestivamente il dirigente scolastico di eventuali illeciti commessi dagli alunni sotto la propria vigilanza.

4.4 Responsabilità civile e penale del bullo Come abbiamo avuto modo di osservare fino a questo punto, non esiste una vera e propria normativa giuridica relativa al bullismo. Il legislatore adotta misure restrittive attraverso l’applicazione di norme esistenti che abbracciano le 164

Art. 2043 c.c. “Qualunque fatto doloso o colposo , che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”. 165

Un esempio tra tutti può essere identificato nell’emanazione di circolari nelle quali è espressamente richiesto agli insegnanti di vigilare sugli alunni, nell’ora di ricreazione, sia nelle aule che nei corridoi o spazi aperti.

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singole fattispecie criminose. Ad esempio al bullo che sarà autore di percosse, verrà applicata la normativa che disciplina le pene per i soggetti che compiono percosse e così via. Bisogna ricordare che gli atti di bullismo sono spesso fenomeni che possono cambiare la qualità della vita della vittima arrivando, nei casi più gravi, a conseguenze permanenti di tipo psicologico (ed anche ad atti di autolesionismo, fino ad atti estremi). Alcuni esempi di atti di bullismo possono essere ricercati nei seguenti comportamenti: furti, minaccia, estorsione, violenza, percosse, diffamazione, insulti, etc. etc. Se gli atti di bullismo avvengono nel comprensorio scolastico, sarà responsabilità della dirigenza scolastica informare le autorità competenti e denunciare il fatto; se gli atti di bullismo invece avvengono fuori dal comprensorio scolastico, sarà cura e dovere del primo adulto che assiste o ne viene a conoscenza a denunciarne il fatto.

4.4.1 I reati penali connessi alla condotta del bullo Come avevamo accennato, attraverso gli atti di bullismo si possono configurare diversi tipi di reato penalmente rilevanti. Di seguito si prendono in considerazione le fattispecie maggiormente riscontrate (dal codice penale).  L’articolo

581 c.p.166 è relativo alle percosse: punisce colui che commette percosse nei confronti di altro soggetto. L’atto non deve necessariamente essere doloroso, ma deve avere carattere d’intenzionalità. Nel caso in cui le percosse provochino una malattia alla vittima, il bullo dovrà rispondere del reato di delitto per lesioni.  L’articolo 582 c.p.167 disciplina la fattispecie di reato riconducibile alle 166

Art. 581 c.p. “Chiunque percuote taluno, se dal fatto non deriva una malattia nel corpo o nella mente è punito, a querela della persona offesa, con la reclusione fino a sei mesi o con la multa fino a trecentonove euro. Tale disposizione non si applica quando la legge considera la violenza come elemento costitutivo o come circostanza aggravante di un altro reato”. 167

Art. 582 c.p. “Chiunque cagiona ad alcuno una lesione personale, dalla quale deriva una malattia nel corpo o nella mente, è punito con la reclusione da tre mesi a tre anni. Se la malattia ha una durata non superiore ai venti giorni e non concorre alcuna delle circostanze aggravanti previste dagli articoli 583 e 585, ad eccezione di quelle indicate nel numero 1 e nell’ultima parte dell’articolo 577, il delitto è punibile a querela della persona offesa”.

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lesioni personali. Se dalle lesioni personali deriva una malattia la cui prognosi è compresa tra i ventuno e quaranta giorni, l’illecito è perseguibile d’ufficio, se invece la prognosi è inferiore o uguale a venti giorni, viene ritenuta una lesione personale molto lieve168.  L’articolo 594 c.p.169 punisce i soggetti che offendono l’onore e il decoro di un’altra persona, si tratta pertanto della fattispecie riguardante l’ingiuria. E’ molto importante ricordare che con il termine onore si vuole far riferimento a tutte le qualità del singolo individuo che formano la sua personalità rendendola garanzia di tutela giurisdizionale. L’ingiuria può essere messa in atto non solo attraverso le parole ma anche attraverso disegni, mail e scritti di ogni genere. Il dolo è di tipo generico.  L’articolo 595 c.p.170 punisce chi offende l’onore di una persona davanti a due o più soggetti tra le quali non è presente la persona offesa.  L’art. 610 c.p.171 regolamenta la fattispecie giuridica relativa alla vio168

La Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione (Sent. 19070/2008) ha stabilito che, nel reato di concorso in lesione personale, sussiste l’aggravante dei futili motivi, il fatto di “avere il prevenuto agito, senza essere stato provocato, al solo fine divertirsi alle spalle della vittima, con ripetuti lanci di uova e, dopo l’altrui protesta, con calci e pugni, ponendo così in essere un comportamento arrogante e gratuitamente umiliante inteso ad annientare l’altrui personalità”. Inoltre “non può assumere una diversa e minore valenza in considerazione del ‘clima carnevalesco’ in cui si era inserito l’episodio di violenza”. 169

Art. 594 c.p. “Chiunque offende l’onore o il decoro di una persona presente è punito con la reclusione fino a sei mesi o con la multa fino a euro 516. Alla stessa pena soggiace chi commette il fatto mediante comunicazione telegrafica o telefonica, o con scritti o disegni, diretti alla persona offesa. La pena è della reclusione fino a un anno o della multa fino a euro 1.032 se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato. Le pene sono aumentate qualora l’offesa sia commessa in presenza di più persone”.

170

Art. 595 c.p. “Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, comunicando con più persone offende l’altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a euro 1.032. Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a euro 2.065. Se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a euro 516. Se l’offesa è recata a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario o ad una sua rappresentanza, o ad una Autorità costituita in collegio, le pene sono aumentate”.

171

Art. 610 c.p. “Chiunque, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa è punito con la reclusione fino a quattro anni. La pena è aumentata se concorrono le condizioni previste dall’articolo 339”.

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lenza privata. Viene punito il soggetto che utilizza violenza o minaccia per danneggiare volontariamente un soggetto o per modificarne la sua volontà.  L’articolo 612 c.p.172: di specifica analisi in questo articolo è la minaccia. La disciplina giuridica non identifica precisi mezzi per metterla in atto, ma pone l’accento su come essa possa manifestarsi con qualsiasi mezzo e può causare anche il condizionamento della vittima.  L’articolo 635 c.p.173 punisce il soggetto che danneggia un bene mobile o immobile altrui. Il danneggiamento può essere anche di lieve entità, purché ne alteri la struttura. Tale fattispecie può derivare da comportamenti già illeciti quali la violenza e la minaccia. Dover affrontare un procedimento penale dovrebbe essere il miglior deterrente esistente per i giovani bulli, ma purtroppo, in alcuni casi, questo deterrente non è sufficiente a disincentivare gli atti bullismo. Nel procedimento penale, le pene sono proporzionate alla gravità del fatto commesso e possono manifestarsi come lavori socialmente utili -anche nel comprensorio scolastico di appartenenza-, pene di tipo pecuniario, ovvero multe e nei casi più gravi possono arrivare anche alla reclusione del soggetto174. Nel caso in cui il bullo sia 172

Art. 612 c.p. “Chiunque minaccia ad altri un ingiusto danno è punito, a querela della persona offesa, con la multa fino a cinquantuno euro. Se la minaccia è grave, o è fatta in uno dei modi indicati nell’articolo 339, la pena è della reclusione fino a un anno e si procede d’ufficio”. 173

Art. 635 c.p. “Chiunque distrugge, disperde, deteriora o rende, in tutto o in parte, inservibili cose mobili o immobili altrui è punito, a querela della persona offesa, con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a trecentonove euro. La pena è della reclusione da sei mesi a tre anni, e si procede d’ufficio, se il fatto è commesso: 1) con violenza alla persona o con minaccia; 2) da datori di lavoro in occasione di serrate, o da lavoratori in occasione di sciopero [502-505], ovvero in occasione di alcuno dei delitti preveduti dagli articoli 330, 331 e 333; 3) su edifici pubblici o destinati a uso pubblico o all’esercizio di un culto o su cose di interesse storico o artistico ovunque siano ubicate o su immobili compresi nel perimetro dei centri storici, o su altre delle cose indicate nel numero 7 dell’articolo 625; 4) sopra opere destinate all’irrigazione; sopra piante di viti, di alberi o arbusti fruttiferi, o su boschi, selve o foreste, ovvero su vivai forestali destinati al rimboschimento; 5-bis) sopra attrezzature e impianti sportivi al fine di impedire o interrompere lo svolgimento di manifestazioni sportive”. 174

Cassazione penale , sez. II, sentenza 13.10.2010 n° 36659: “in caso di soggetti ritenuti responsabili di atti di bullismo, appare eccessiva l’applicazione della custodia

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minorenne, il procedimento avverrà presso il Tribunale per i minorenni175, nel caso in cui sia maggiorenne, avverrà presso il Tribunale normale. Come abbiamo visto in precedenza, ad ogni azione di bullismo, viene riconosciuta una responsabilità dei genitori o degli insegnanti e dell’amministrazione scolastica, quindi il procedimento si terminerà solo nel momento in cui verranno definite le responsabilità di ciascuna parte chiamata al processo.

4.4.2 Le violazioni di leggi civili nei comportamenti del bullo Nell’ambito degli illeciti civili, è necessario soffermare l’attenzione su quella che è la disciplina extracontrattuale ovvero il principio del neminem leadere, ravvisabile nell’art. 2043 c.c.176 e seguenti. Perché sussista un illecito civile, la condotta deve essere oggettivamente antigiuridica e deve essere compiuta da un soggetto ritenuto colpevole. Questi elementi, oggettivi e soggettivi, danno la possibilità di circoscrivere le situazioni illecite da quelle lecite. La violazione di un illecito civile da parte del bullo quindi deve essere di tipo volontario intenzionale o non intenzionale e provocare un danno ingiusto a terza persona. Il danno in realtà può essere anche ti tipo non patrimoniale177, secondo quanto enunciato in una sentenza del tribunale di Palermo il 27 giugno 2007 “le conseguenze per la vittima di certi atti (omissis) sono la tendenza a chiudersi in atteggiamenti ansiosi e il calo progressivo del senso di autostima suscettibile di produrre un’immagine negativa di sé in quanto persona di poco valore o inetta”. Gli atti di bullismo possono provocare tre diverse tipologie di danno: - danno biologico che viene procurato nel momento in cui viene lesa l’integrità psichica e fisica di un soggetto; - danno morale che provoca turbamenti di tipo psicologico alla persona cautelare in carcere se l’adeguatezza di ogni altra misura cautelare (quali gli arresti domiciliari o l’obbligo di dimora nel comune di residenza) è stata esclusa senza una specifica indagine sugli effetti che l’allontanamento dall’ambiente scolastico potrebbe produrre in ordine al pericolo concreto di reiterazione delle condotte criminose”. 175 176

Marinelli, Ciccarello, “Il Tribunale dei minorenni”, Rimini, 2011.

Art. 2043 c.c. “Qualunque fatto doloso o colposo , che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”. 177

Art. 2059 c.c. “Il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge”.

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come ad esempio, crisi di pianto e ansie; danno esistenziale che si manifesta con una lesione della qualità di vita del soggetto oggetto degli atti del bullismo.

Rientra in un ambito tra il danno esistenziale e quello biologico la figura del danno da rottura dell’equilibrio familiare, conseguente alle reazioni della vittima del bullismo all’interno della propria famiglia (Cass. civ., sez. III, 20320/05). Queste tre tipologie di danno, sono soggette a un risarcimento non patrimoniale. Inoltre, come abbiamo avuto già modo di osservare, la responsabilità per gli atti di bullismo riguarda anche quei soggetti che non hanno attuato tutte le misure idonee ed impedire che l’atto avvenisse.

4.5 Conclusioni Il bullismo purtroppo è un fenomeno in crescita che porterà inevitabilmente anche il legislatore a valutare l’estrema necessità di adottare una disciplina più puntuale e specifica. Allo stato attuale, l’auspicio di tutti gli operatori del diritto è che le misure preventive che vengono poste in essere, per lo più dagli istituti scolastici, siano in grado di limitare il proliferare di questa fattispecie poiché l’elemento preoccupante è che gli atti di bullismo violano anche i diritti umani delle vittime. Rimane pertanto responsabilità dei soggetti in educando (genitori o tutori) e degli insegnanti, riuscire ad spiegare ai giovani cittadini italiani come invece vivere una cittadinanza attiva, in piena aderenza alle normative civili e penali dell’ordinamento italiano. Per questo “è responsabilità morale degli adulti assicurare che questo diritto sia rispettato e che per tutti i bambini e per tutti i giovani siano effettivamente promossi un sano sviluppo e l’esercizio della cittadinanza attiva” (Dichiarazione di Kandersteg, 2007).

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Bibliografia essenziale ASCIONE, “Bullismo, tutela giuridica aggiornato alla Direttiva Ministeriale n. 16/2007”, Matelica, 2007. Menesini, “Il bullismo a scuola: sviluppi recenti”, in Ragionamenti, 2007. Marinelli, Ciccarello, “Il Tribunale dei minorenni”, Rimini, 2011.

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