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I trigger della ripresa italiana
Gli investimenti del Pnrr e i fondi strutturali sono due strumenti potentissimi, a patto che siano gestiti nell’ambito di una strategia economica intelligente e a lungo termine.
di DANIELE BERTI, Centro studi Confindustria Trento
A partire dal terzo trimestre del 2021 l’Italia avrà a disposizione due strumenti che spingeranno la nazione nella ripresa dei prossimi 7 anni: il conosciuto Piano nazionale di ripresa e resilienza e i Fondi strutturali europei 2021-2027. Partiamo dal Pnrr: il nostro Paese beneficerà della fetta più grande dei fondi previsti dal Recovery Fund europeo, per un ammontare di circa 191,5 miliardi di euro, dei quali 69,5 miliardi nella forma di trasferimenti, e i restanti 122 miliardi circa sotto forma di prestiti. In primavera il Governo Draghi ha approvato il Pnrr che traccia le linee guida per l’utilizzo di queste risorse. Come detto nello scorso numero di Trentino Industriale, il Piano è articolato in sei missioni e soddisfa i parametri fissati dai regolamenti europei: Digitalizzazione, innovazione e competitività del sistema produttivo, Rivoluzione verde e transizione ecologica, Infrastrutture per la mobilità, Istruzione, formazione, ricerca e cultura, Equità sociale, di genere e territoriale e Salute.
Il Pnrr è un piano di investimenti pubblici ben strutturato e ben comunicato ed è nell’interesse del Paese che sia stato approvato. Questo però non trasformerà un’economia ferma da quarant’anni, e non solo per colpa del ritardo del sud o della mancanza di investimenti pubblici o per la troppa burocrazia che affossa gli investimenti, ma anche a causa delle imprese private che hanno mancato la transizione da economia industriale a post-industriale e, nel nuovo secolo, alla economia della conoscenza. Probamente il vecchio paradigma economico fatto di Pmi industriali non ha prodotto quelle grandissime imprese innovative che sono i veri motori della innovazione e producono i lavori ad alto valore aggiunto ben retribuiti che creano incentivi allo studio per i giovani.
La green economy è un tema innovativo, ma produce crescita economica se lo Stato crea incentivi per le grandi imprese private. La digitalizzazione della Pa è auspicabile ma gli investimenti pubblici nel digitale trasformeranno poco il Paese se le sue imprese continueranno ad essere tra le ultime d’Europa a investire nel digitale. L’unico progetto di investimento chiaramente trasformazionale del Pnrr sono i 5 miliardi di investimento nella banda larga che però sono una piccola parte rispetto a quelli fatti da società private.
L’enorme quantità di denaro pubblico che il Pnrr riverserà sull’economia nei prossimi anni darà certamente un contributo alla ripresa nei prossimi tre-quattro anni, ma il rischio è una replica di quanto avvenuto negli anni Ottanta, quando l’aumento del debito da 25% a 100% del Pil drogò la crescita economica, nascondendo il deteriorarsi della competitività delle Pmi industriali che erano state alla base del «miracolo economico«. La «droga« durò fino al 1993 quando i nodi vennero al pettine e il Paese si trovò sull’orlo della bancarotta.
La Ue ha chiaro che non saranno i 200 miliardi di euro di investimenti pubblici a trasformare la nostra economia. Lo stato non deve limitarsi agli investimenti pubblici e, peggio, diventare anche «imprenditore«. Deve invece essere un magnete di talenti di un capitalismo più innovativo di quello familista che abbiamo avuto per decenni creando incentivi e policies per il capitalismo smart, fatto di fondi private equity e infrastrutture. Senza università di ricerca di eccellenza non nasce l’economia della conoscenza, ma farle nascere richiede che venga distrutto il tabù che rifiuta l’idea che gli atenei non sono tutti eguali. La meritocrazia e competizione sono fondamentali per questo processo. Come riporta Carlo Cottarelli nel suo ultimo libro “All’inferno e ritorno”, il nostro Paese dovrebbe rifondare la propria società e basarla sull’uguaglianza di possibilità come principio fondamentale. Quest’ultimo consente a cascata di operare in regime di criterio di merito come condizione di efficienza economica e di crescita. Solo in questo modo si può tornare a dare spinta all’ascensore sociale ormai fermo da anni in un circolo vizioso che amplia inesorabilmente le disuguaglianze e crea sfiducia sociale.
Il secondo strumento che il nostro Paese avrà a disposizione da qui al 2027 sono i fondi strutturali che provengono dalla programmazione europea 2021-2027. Le cifre in gioco sono ugualmente consistenti, si parla di 42 miliardi di euro di fondi Fesr e Fse più 10,7 miliardi del Feasr per lo sviluppo rurale e 1 miliardo per il Just transition found (Jtf). Considerando il cofinanziamento nazionale, si tratta di un pacchetto che sfiora i 90 miliardi di euro. Sarà necessario evitare sovrapposizione tra i fondi di coesione e il Pnrr, in modo che i due strumenti rimangano distinti e possano agire duplicando l’effetto positivo e non cannibalizzando le ricadute.
Tutte le risorse che l’Italia avrà a disposizione dovranno essere utilizzate efficientando ogni singolo centesimo in termini di ricaduta positiva. Come più volte evidenziato dagli economisti, stiamo affrontando una situazione economica estrema e quindi servono misure di supporto estreme, partendo dal presupposto che questi strumenti fungeranno solo da boost iniziale. Servirà una strategia economica a lungo termine che consenta alla nostra economia di ridurre il più possibile il gap competitivo in termini di produttività nei confronti delle altre economie mondiali avanzate. Gli ingredienti ci sono tutti, le capacità imprenditoriali e creative sono di qualità eccelsa, bisogna iniziare a viaggiare compatti verso un obiettivo comune.