Con i Piedi per Terra | 22. AREA LITORANEA

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N. 22 - Maggio - Giugno 2017 - Periodico bimestrale - Poste Italiane s.p.a. - Sped. in abb. post. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, NE/PD

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arte storia e natura prodotti tipici

Magazine “Conipiediperterra”



Direttore responsabile: Mauro Gambin

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Editore: Speak Out srl

ELZEVIRO

Numero 22

di Giampaolo Venturato e Mauro Gambin Piazza della Repubblica, 17/D Cavarzere (VE) - speakout@live.it

Acqua risorsa da tutelare

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Hanno collaborato a questo numero: Silvano Bizzaro Emanuele Cenghiaro Mattia De Poli Mauro Gambin Eloisa Gobbi Michele Grassi Renato Malaman Adriano Mollica Eliano Morello Anna Maria Pellegrino Francesco Selmin Roberto Soliman Mario Stramazzo Efrem Tassinato Aldo Tonelli Martina Toso

STORIA E DINTORNI

Mais coltura e identità

26 SALUTE E BENESSERE

Il sole amico o nemico?

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Progetto Grafico:

Think! soluzioni creative

A OGNUNO IL SUO CALICE

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Vendita spazi pubblicitari: Speak Out srl speakout@live.it

Stampa: Stampe Violato snc Bagnoli di Sopra (PD) Tel 049 9535267 www.stampeviolato.com info@stampeviolato.com Giornale chiuso in redazione il 26 Maggio 2017 Tiratura: 5000 copie Diffusione: periodico bimestrale Iscrizione al Registro degli Operatori di Comunicazione (ROC) n. 23644 del 24.06.2013 Iscrizione al tribunale di Padova n. 2329 del 15.06.2013 Iscrizione del marchio presso Ufficio Italiano Brevetti e Marchi (U.I.B.M.) n. PD 2013C00744 del 27.06.2013 Tutti i diritti sono riservati. Gli articoli possono essere riprodotti solo con l’autorizzazione dell’editore e in ogni caso citando la fonte. Gli articoli firmati impegnano esclusivamente gli autori. Dati, caratteristiche e marchi sono generalmente indicati dalle case fornitrici (rispettivi proprietari)

La copertina è a cura dei laboratori della Cooperativa Sociale Giovani e Amici di Terrassa Padovana, l’autore è Augusto Stella

Cinque vini per cinque proposte venete

62 AMICI CON LE ALI

Architetti della Natura

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EDITORIALE di Mattia De Poli

Oltre i muri, oltre i confini…

Nel corso dell’esistenza ogni uomo cerca l’oltre e l’altro da sé

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epubblica federale tedesca e Repubblica democratica tedesca per i giovani di oggi sono soltanto un argomento di studio scolastico. Di certo non fanno parte del loro vissuto. Del loro orizzonte esistenziale. Molti non conoscono Bonn, se non, magari, come città natale del musicista Ludwig van Beethoven, e non sanno che per circa 40 anni, dopo la Seconda guerra mondiale, è stata la capitale della Germania Ovest, mentre la Germania Est aveva come capitale Berlino. Anzi, solo Berlino Est, perché la città era divisa in due parti e, dal 1961, da un muro, scenario di numerosi drammi familiari e molte morti. Divisioni e muri sono stati dimenticati, e con loro tutte le difficoltà e le assurdità correlate: case, famiglie, rapporti di vicinato, tutto distrutto. Ma dalla polvere di un muro abbattuto nel 1989 tanti altri muri continuano a sorgere. Quello in calcestruzzo, che divideva Berlino, era alto mediamente poco più di 3 metri e mezzo e aveva una lunghezza di 106 chilometri. Misure molto simili a quelle della barriera di filo spinato, fatta erigere dal governo ungherese circa un anno fa al confine con la Serbia: lungo oltre 170 chilometri, potrebbe essere esteso ulteriormente verso il confine con la Croazia e la Romania. Israele ha fatto di meglio, costruendo un muro tra le proprie colonie e la Cisgiordania alto fino a 8 metri. Lunghi tratti di muro esistono al confine fra gli Stati Uniti e il Messico e l’attuale presidente ha intenzione di completare l’opera. La poesia è morta, dicono, ma i poeti continuano a dire la loro. Di certo c’è un problema di comunicazione, sia muta la voce dei poeti oppure sordo l’orecchio del lettore, e tesori nascosti nei loro versi restano evidentemen-

te celati ai più. Le parole di Giorgio Caproni in “Anch’io” dicono dell’umana ricerca di senso dell’esistenza, una ricerca condotta anche dal poeta con determinazione e impegno (“è stata tutta una guerra di unghie”), ma la conclusione è amara: “nessuno potrà mai perforare il muro della terra”. Il senso profondo dell’essere è inaccessibile all’uomo. E la sua condizione rischia di risultare asfittica, come quella che Eugenio Montale descrive in “Meriggiare pallido e assorto”, dove nella calura estiva una natura arida ed aspra è circondata da “una muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia”. Ancora, è la siepe leopardiana, che “da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude”. Ovunque l’uomo si volti trova un ostacolo, ma il poeta di Recanati ha indicato un rimedio - fosse anche solo una cura palliativa - nella “finzione”, nella capacità della mente di immaginare ciò che è oltre, perché è insito nella natura umana cercare di spingersi oltre. Oltre le colonne d’Ercole, come l’Ulisse dantesco. “Oltre il confine”, come suggerisce il Salone internazionale del libro di Torino di quest’anno. Oltre le barriere naturali, come i fiumi, attraverso ponti e traghetti: lo provano i tanti paesi affacciati sulle rive, da una parte e dall’altra, in corrispondenza l’uno dell’altro. Nella vita quotidiana capita spesso di trovarsi a sbattere contro qualche muro, a cominciare da quello della burocrazia. Le persone che ci circondano sono come un muro di gomma e noi restiamo lì, disarmati di fronte alla loro indifferenza. Perché porsi di fronte agli altri come sfingi impassibili? Perché aggiungere muri reali al muro esistenziale? Perché chiudersi agli altri e precludersi diverse prospettive e nuovi orizzonti?

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messaggio pubbliredazionale

DEFICIT IDRICO, il Veneto è in stato di crisi Ridotti i prelievi a scopi irrigui del 20%

L’ordinanza n° 70 dello scorso 16 maggio del Presidente della Regione Veneto, Luca Zaia, impone a tutti gli enti competenti di risparmiare acqua Malgrado le piogge delle ultime settimane, il territorio veneto si trova ancora in una condizione di forte deficit idrico generalizzato rispetto ai valori medi stagionali, in particolar modo la situazione di carenza di disponibilità idrica nel fiume Adige mette a rischio le disponibilità di acqua destinate all’irrigazione agricola. Un’ordinanza dello scorso 16 maggio a firma del Presiedente della Regione Veneto, infatti, oltre a dichiarare lo stato di crisi ha messo sul “chi va là” tutti gli enti regionali competenti in materia per ridurre il prelievo di acqua. A preoccupare è soprattutto la situazione dell’Adige e dei suoi invasi, dove di solito viene accumulata l’acqua per essere rilasciata durante i periodi siccitosi, in virtù del fatto che le precipitazioni nevose durante l’inverno sono state molto scarse e altrettanto lo sono state quelle piovose durante la primavera. E in casi come questi, lo specifica l’ordinanza, la priorità della Regione è garantire l’approvvigionamento idropotabile, ossia gli acquedotti, soprattutto quelli che si trovano verso la fine dell’asta del grande fiume in quanto sono minacciati dalla risalita del cuneo salino. Il fenomeno si è presentato in tutta la sua gravità durante le settimane di grande magra alla metà di aprile, creando non poche preoccupazioni per l’approvvigionamento alla rete acquedottistica tra il Cavarzerano e il Polesine. Nell’occasione il regime di portata del fiume era sceso

sotto i 30 metri cubi di acqua al secondo, quando il regime medio si aggira tra i 150 e 200 metri cubi. Dunque, l’imperativo rivolto alle utenze è quello di ridurre del 20% il prelievo dall’Adige come dal Leb, e di conseguenza al Frassine, al Bisatto, al Bagnarolo, al Vigenzone/ Cagnola, che da questo dipendono per il mantenimento delle portate, perché l’obbiettivo è quello di risparmiare acqua, compatibilmente

Le scarse precipitazioni nevose e piovose non hanno caricato a sufficienza gli invasi montani dell’Adige, preoccupa la risalita del cuneo salino che minaccia gli acquedotti nella parte finale della sua asta con le quantità disponibili, per cercare di non restare senza del tutto durante i periodi siccitosi, nel caso non dovessero verificarsi precipitazioni di rilievo. L’ordinanza incarica pure i consorzi di bonifica di attivarsi presso i propri consorziati con campagne di sensibilizzazione per l’uso accorto della risorsa idrica e rendere consapevoli gli operatori agricoli del possibile rischio di aggravamento del problema nei periodi di più intensa attività irrigua, nel caso la risorsa accumulata nei serbatoi dell’area montana andassero gradualmente esaurendosi.

Consorzio di Bonifica Adige Euganeo www.adigeuganeo.it ESTE Via Augustea, 25 - Tel. 0429 601563 Fax 0429 50054


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Conduttura parallela al Fiume Fratta

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Superficie irrigabile con derivazioni dall'Adige

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Sources: Esri, HERE, DeLorme, Intermap, increment P Corp., GEBCO, USGS, FAO, NPS, NRCAN, GeoBase, IGN, Kadaster NL, Ordnance Survey, Esri Japan, METI, Esri China (Hong Kong), swisstopo, MapmyIndia, © OpenStreetMap contributors, and the GIS User Community

Nella cartina è evidenziato in rosso il tratto lungo il quale si vorrebbe estendere il Leb: dalla zona di Baldaria, nei pressi di Cologna Veneta, fino a Merlara. Verrebbe presa l’acqua dell’Adige dal canale LEB e immessa nella rete di canali (in azzurro) attraverso prese e sifoni, approvvigionando l’intera area di acqua sicura per le colture

LA BUONA NOTIZIA Progetto anti Pfas allo stadio preliminare e via libera dal Ministero per i progetti di interconnesione idrica Il progetto che riguarda il potenziamento della rete idrica, nella zona di Competenza del Consorzio di bonifica Adige Euganeo, che metterebbe al sicuro l’irrigazione dall’uso di acqua inquinata da Pfas verrà presto redatto in forma preliminare. L’idea dell’intervento, nata dal confronto tra i Comuni, la Regione, la Sanità, le associazioni agricole e ovviamente messa a punto dal Consorzio di Bonifica, prevede che canali e canaline destinate a portare l’acqua in campagna vengano alimentate esclusivamente con l’acqua dell’Adige grazie all’estensione del Leb, attraverso un canale sotterraneo da Cologna Veneta a Merlara, e a Sud con la realizzazione di punto di prelievo dall’Adige. Ad occuparsi della redazione della prima fase progettuale sarà uno studio che lo curerà gratuitamente, una volta che il Consorzio avrà trasmesso tutti i dati necessari. Il che permetterà all’ente di iniziare a cercare quei 20-25 milioni di euro necessari per la realizzazione dell’intervento con il quale potrà essere interamente bypassato il Fratta/Gorzone, fortemente compromesso per la presenza di Pfas, e distribuita in modo migliore l’acqua alla campagna, garantendo il doppio della superficie irrigata con lo stesso consumo di risorsa. È in una fase di attesa, invece, i progetti inerenti a due interconnessioni idrauliche che permetterebbero di scaricare le acque piovane in Adige. I due interventi, infatti, già inseriti nel Repertorio Nazionale per la Difesa del Suolo RENDIS e nel

progetto Italia Sicura, stanno per essere inseriti nella graduatoria che il Ministero sta compilando per assegnarne la priorità. “La realizzazione di questi due interventi sarebbe di fondamentale importanza per il territorio - ha spiegato il presidente del Consorzio, Michele Zanato - in quanto consentirebbe la messa in sicurezza dagli allagamenti un’area vasta 26 mila ettari che comprende i comuni di Ponso, Carceri, Vighizzolo, Piacenza D’Adige, Sant’Urbano, Boara Pisani e Anguillara Veneta”. Attraverso la realizzazione di questi due interventi, le cui immissioni attraverso pompe di sollevamento idrovore verrebbero collocate a Sant’Urbano ed Anguillara Veneta, gli eccessi delle acque piovane che interessano questo territorio verrebbero convogliate direttamente in Adige, senza appesantire, come avviene ora, il corso del Fratta/Gorzone.

LA COMUNICAZIONE Stanno per essere emessi i ruoli per quanto riguarda l’anno 2017, la prima rata scadrà il 9 di giugno, mentre la seconda dovrà essere saldata entro il 31 di luglio.

La realizzazione dei due progetti di interconnesione idrica consentirà di mettere in sicurezza dagli allagamenti un territorio vasto 26 mila ettari che comprende i comuni di Ponso, Carceri, Vighizzolo, Piacenza D’Adige, Sant’Urbano, Boara Pisani e Anguillara Veneta Per tenerti informato sull’operatività del Consorzio di Bonifica Adige Euganeo e sui progetti che riguardano il territorio, iscriviti alla newsletter settimanale, basta entrare nel sito www.adigeuganeo.it, cliccare sul tasto “Contatti” e registrarsi


L’ELZEVIRO di Eliano Morello

L ’acqua, UNA RICCHEZZA CHE SCOMPARE

È bastato un inverno con poche precipitazioni per mettere in secca i corsi d’acqua e portare a concentrazioni altissime l’inquinamento nei fiumi, l’acqua inizia a scarseggiare anche in una terra dove storicamente ve n’è stata troppa

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entre scrivo, nonostante qualche precipitazione qua e là, l’Italia sta attraversando un momento di deficit idrico molto preoccupante, specialmente per l’agricoltura. Il nostro Paese in generale, e le regioni del Nord in particolare, non ha mai accusato gravi carenze del prezioso liquido. Le nostre montagne e i nostri ghiacciai hanno sempre conservato con cura l’acqua che ci sarebbe servita durante i mesi caldi sotto forma di neve e ghiaccio. Ora, per vari motivi, queste riserve naturali si sono ridotte e ciò comporta una considerevole riduzione della disponibilità di acqua dolce. Anche se l’acqua occupa il 70% circa della superficie terrestre, di questo solo il 2,5 - 3% è acqua dolce, mentre il resto è acqua salata, inutilizzabile per scopi umani, industriali e agricoli. Inoltre, solo l’1% circa dell’acqua dolce è raggiungibile e disponibile per scopi umani; la restante è intrappolata in ghiacciai e nel sottosuolo. Per molto tempo questo 1% è stato sufficiente. Ma l’assalto alle zone umide, la crescita demografica, l’aumento dei consumi pro-capite e l’inquinamento hanno fatto saltare in molte aree del mondo un equilibrio già fragile. E ora il cambiamento climatico minaccia di assestare il colpo finale. Così, mentre l’acqua diventa sempre più preziosa, l’Italia si trova esposta al terzo debito idrico del pianeta. Tanto per ricordare qualche dato: il fabbisogno minimo biologico pro-capite per la sopravvivenza umana è di 5 litri di acqua nelle 24 ore; per parlare di condizioni di vita accettabili occorrono non meno di 50 litri di acqua al giorno per ogni es-

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sere umano. Per molti abitanti della Terra tale cifra è un miraggio, un’utopia. Senza cibo si può vivere un mese, senza acqua non si supera una settimana. Il problema dell’acqua, o dell’oro blu, è che questa molecola non è equamente distribuita nei Paesi del mondo, tanto che la sua scarsità o assenza causa conflitti tribali e guerre locali (si veda ad esempio quello che sta succedendo in Africa, Siria, ecc.). Lo sviluppo economico e sociale, l’aumento della popolazione e delle sue esigenze sia alimentari che igieniche richiedono sempre più acqua dolce (potabile), ma essa tende a scarseggiare e una parte notevole risulta anche inquinata: secondo lo scienziato Louis CONSUMO GIORNALIERO PRO CAPITE DI ACQUA POTABILE


L’ELZEVIRO Pasteur, attraverso l’acqua beviamo circa il 90% delle malattie. L’opinione pubblica tende ad additare l’agricoltura come la maggior responsabile del consumo (io preferisco usare il termine impiego) idrico in Italia e nel mondo. Ora, che l’agricoltura moderna impieghi una grande quantità di acqua per le coltivazioni e per l’allevamento, è innegabile. Tale impiego si aggira intorno al 60-70% dell’uso totale di acqua dolce, mentre il 22-25% è impiegato dall’industria e il restante 8-15% destinato all’uso domestico. Sono convinto che nessun imprenditore (agricoltore, industriale) che si rispetti consumi acqua a dispetto del buon senso (visto e considerato che tale bene viene erogato a pagamento!): probabilmente esistono altri motivi per cui questo bene viene sprecato. Apro una parentesi: l’agricoltura (ricordo che in economia è definito settore primario) produce beni destinati all’alimentazione (umana e animale) e credo che tutti questi prodotti contengano molta acqua (par tale motivo sono definiti deperibili). A metà del 1700 la popolazione contadina e rurale rappresentava l’80% della popolazione totale e questa doveva provvedere alla produzione di beni per se stessa e per il restante 20% della popolazione residente nelle città. In circa 300 anni (tre secoli) i parametri si sono rovesciati: nel 2010 il 20% della popolazione produce beni alimentari per il restante 80% della popolazione che vive nelle città. Nel frattempo, tuttavia, la popolazione mondiale è passata da poche centinaia di milioni a oltre 7 miliardi. Tutte queste persone devono essere sfamate e consumano direttamente e indirettamente molta acqua, anche grazie alle loro scelte alimentari.

Anche se l’acqua occupa il 70% circa della superficie terrestre, di questo solo il 2,5 - 3% è acqua dolce L’impronta idrica misura il consumo diretto e indiretto di acqua per la produzione di beni e servizi e nel 1900 ammontava a 600 km3 di acqua con 2 miliardi di persone circa, ma nel 2025 si stima serviranno 6.000 km3 di acqua per circa 8 miliardi di persone. Traduzione: mentre la popolazione mondiale, in 125 anni, è quadruplicata, il consumo di acqua è decuplicato. Che fare allora? Agire sui cambiamenti climatici può non essere una soluzione rapida e sicura (se in montagna cade meno neve noi possiamo fare ben poco): di certo possiamo fare altro usando il buon senso. Possiamo eliminare gli sprechi. Posso suggerire di partire dall’agricoltura? In questo settore le perdite di acqua (canali rotti, condutture inefficienti) possono

GLI ITALIANI CONSUMANO TROPPA ACQUA

raggiungere il 30-40%, quasi la metà di tutta l’acqua impiegata nell’attività. Si potrebbe incentivare il settore nella raccolta dell’acqua piovana e in aggiunta fornire agli imprenditori finanziamenti per efficentare i sistemi idrici (impianti a goccia, impianti pivot, centraline per irrigazione dedicata e personalizzata per coltura, per tipo di terreno e per fase fenologica, durante i trattamenti fitosanitari - quando possibile - distribuire le miscele a concentrazione, impiegando la metà o un terzo dell’acqua distribuita a volume normale). L’industria potrebbe essere sensibilizzata maggiormente nel trattamento e recupero delle acque reflue. Ma anche il cittadino comune può metterci del suo. In Italia il consumo medio di acqua per abitante è di 175 litri al giorno (dato Istat del 2011), inferiore comunque ai 206 litri/giorno registrati nel 2002, ma comunque perfezionabili. L’uso domestico dell’acqua dolce è così suddiviso: 35% per igiene personale, 30% per servizi igienici (W.C.), 20% destinato al lavaggio di indumenti, 10% impiegato per cucinare, 5% utilizzato per la pulizia della casa. In questo conto manca, per esempio l’acqua consumata nell’irrigazione dei giardini, nel lavaggio di macchine e l’acqua che si beve (estratta da fonti e imbottigliata). Anche i cittadini comuni possono fare la loro parte: per esempio irrigare i giardini verso il mattino e limitare l’evaporazione dell’acqua distribuita altrimenti di giorno, oppure preferire la doccia rispetto al bagno in comode vasche (con l’equivalente di acqua di una vasca si fanno comodamente 3 docce!), altrimenti dotare gli scarichi w.c. di doppio pulsante (tasto normale e tasto economico), o dotare le nuove abitazioni di circuiti di recupero e stoccaggio dell’acqua piovana. Occorre sempre ricordare che l’acqua è un bene prezioso e il fatto di vivere in un Paese che non ha mai sofferto di vera siccità o di disponibilità di acqua non deve essere un alibi per non cominciare a risparmiarla e trattarla bene. Molte civiltà del passato sono scomparse perché non hanno saputo gestire proprio l’acqua.

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FEASR

Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale: l’Europa investe nelle zone rurali

RADICCHIO DI CHIOGGIA IGP

il buono che fa bene a noi e alla Natura Nell’ambito del progetto regionale sulla “Caratterizzazione della qualità dell’ortofrutta veneta e dell’ambiente di produzione”, l’Università degli Studi di Padova è stata coinvolta come partner esterno per la caratterizzazione qualitativa e salutistico-nutrizionale dei principali prodotti orticoli tipici della regione Veneto

LA BIODIVERSITÀ E IL RADICCHIO DI CHIOGGIA IGP Nello stesso progetto è stato condotto anche uno studio a cura dell’associazione WBA (World Biodiversity Association) inerente al protocollo Biodiversity Friend, che considera gli impatti amPaolo Fontana bientali delle attività agricole sulla qualità degli ecosistemi e sulla biodiversità. Biodiversity Friend, infatti, ha avuto come obiettivo la definizione di un quadro completo delle interazioni della produzione di Radicchio di Chioggia Igp con la diversità biologica del territorio. «La diversità della vita intorno a noi - ha spiegato Paolo Fontana, ricercatore della Fondazione Edmund Mach - è una

delle risorse fondamentali per l’Uomo in quanto alla qualità dell’ambiente corrisponde la qualità delle produzioni. E proprio nell’ambito del nostro studio sulla qualità degli ambienti di produzione, abbiamo potuto analizzare la qualità biologica di suolo, acqua e aria di molte aziende che compongono il territorio di produzione del Radicchio di Chioggia IGP, riscontrando che, nel complesso, anche i territori agricoli che presentano una tessitura data prevalentemente da sabbia presentano valori mediamente sufficienti o buoni. Abbiamo riscontrato che aziende che garantiscono al proprio interno delle aree di rifugio (come capezzagne e fossi) e applicano pratiche agricole rispettose (come le rotazioni o il ridotto uso di agrofarmaci) sono molto frequenti e fungono da vere e proprie “isole ecologiche”».


Il Radicchio di Chioggia IGP è un ortaggio che si distingue per l’elevato contenuto di antiossidanti legati alla tipica colorazione rossa delle foglie e al caratteristico gusto leggermente amaro. La capacità antiossidante totale fornita da una porzione di radicchio di Chioggia IGP risulta mediamente superiore del 65% e del 60% rispetto ai contenuti medi di pomodoro e lattuga. Sono inoltre presenti composti che mi-

Il gruppo di ricerca è stato coordinato dal prof. Paolo Sambo del dipartimento DAFNAE (Department of Agriculture, Food, Natural resources, Animals and Environment), Università di Padova gliorano ulteriormente le potenzialità salutistiche del Radicchio di Chioggia IGP rappresentati dall’acido clorogenico che presenta importante azione antibatterica, antiossidante e dell’acido cicorico che ha funzione anti-tumorale, riduce l’insorgenza di obesità e diabete e possiede proprietà antivirali. Molto interessante anche il contenuto di composti amari di questo prodotto. Tali sostanze infatti oltre a contribuire alla formazione del gusto particolare del

Radicchio esplicano una funzione antinfiammatoria, vaso protettiva e coleretica (con stimolo delle secrezioni biliari), con i conseguenti effetti depurativi ed epatoprotettivi, infine presenta anche effetti positivi per la memoria. La caratterizzazione qualitativa del Radicchio di Chioggia IGP precoce ha messo in evidenza il buon contenuto di minerali e la maggiore presenza di potassio (+8%) e vitamina C (+46%) rispetto ai valori presenti nei database nazionali (INRAN). Tra gli altri aspetti è importante mettere in evidenza come, sempre rispetto ai valori nazionali di riferimento precedentemente citati, il Radicchio di Chioggia IGP precoce presenti un tenore di zuccheri disponibile superiore (maggiore dolcezza) e valori di fibra inferiori del 50% a giustificazione della particolare croccantezza di questo prodotto. Nei confronti degli altri radicchi IGP campionati (Treviso Tardivo, Verona tardivo e Variegato di Castelfranco) quelli di Chioggia si caratterizzano per la minore fibrosità e il gusto più marcato, cui sono associate molte delle caratteristiche salutistiche.

CARATERISTICHE NUTRIZIONALI DEL RADICCHIO ROSSO (Da Tabelle composizione alimenti INRAN) Acqua

94 %

Potassio

240 mg

Caloria

13 Kcal Calcio

36 mg

Proteine

1,4 g

Ferro

0,3 mg

Lipidi

0,1 g

Tiamina

0,07 mg

Glucidi

1,6 g

Riboflavina

0,05 mg

Fibra alimentare 3,0 g

Niacina

0,3 mg

Fosforo

30 g

Vitamina C

10 mg

Sodio

10 mg

Vitamina A

Tracce

Come vediamo il radicchio è un alimento poco calorico, ricco di acqua, con una discreta quantità di fibre e buona fonte di sali minerali. Il radicchio per il suo contenuto in acqua e sali ha proprietà diuretiche e la

presenza di fibre ne fa un buon regolatore intestinale e delle funzioni epatiche. Elevato il contenuto di vitamina C, indispensabile per lo sviluppo e il mantenimento della struttura ossea, dei denti e dei vasi sanguigni e necessaria per favorire l’assorbimento del ferro da parte dell’organismo. Le vitamine del complesso B contenute nel radicchio garantiscono un corretto funzionamento dell’apparato nervoso e, tramite l’acido folico, un’importante azione sulla sintesi del DNA. Le antocianine e gli acidi fenolici contenuti nel radicchio forniscono un valido contributo all’assunzione giornaliera di antiossidanti (1g), prevenendo l’invecchiamento cellulare e alcune patologie ad esso collegate.

Partecipano al progetto aggregato: Materiale informativo finanziato dal Programma di Sviluppo Rurale per il Veneto 2014-2020 Organismo responsabile dell’informazione: Consorzio di Tutela dell’insalata di Lusia IGP Autorità di Gestione: Regione Veneto - Direzione AdG FEASR Parchi e Foreste


STORIA E DINTORNI di Mauro Gambin

STORIA DI UNA COLTURA E DI UNA IDENTITÀ

Il Veneto polentone

Dalla metà del VXI secolo il mais è una delle immagini agrarie della nostra pianura. La polenta è il simbolo di una stagione di miseria e povertà dalla quale è derivato anche il suo successo

L

a comparsa del mais ha rappresentato una vera e propria rivoluzione per la campagna veneta, tanto da diventare una forma di identità. Polentoni è l’appellativo che identifica tutto il nord Italia e il Veneto nella fattispecie. Un titolo un po’ dispregiativo e in effetti ricorda una storia di miseria e povertà che va stretta al Veneto moderno. La polenta, infatti, è il simbolo della ruralità ma ancora di più della miseria, i popoli più avanzati avevano il pane, non la polenta. E nel successo che il mais ebbe nella nostra regione la povertà centra, perché la polenta si mangiava ancora prima che arrivasse il mais dalle Americhe. Era di melica. Di sorgo, per la precisione, impastata con la farina di altre granaglie, come il miglio, ma preponderante era questa farina che gli uomini del tempo condividevano malvolentieri con il maiale e con gli altri animali di bassa corte, tanto per farne capire la qualità. Perché nell’alimentazione dei secoli passati

La polenta esiste da prima che il mais arrivasse dalle Americhe, era fatta con la melica una farina che gli uomini del tempo condividevano malvolentieri con il maiale e con gli altri animali di bassa corte 10

sono da sfatare molti miti, come ad esempio che alla base dell’alimentazione vi fossero i cereali. Non è così, il pane era raro, era più frequente la carne, vista la disponibilità di selvaggina e di pesce che boschi e fiumi erano in grado di offrire. Certo non in tutte le stagioni. E poi le società del passato era costituita da braccianti, pastori, taglialegna categorie di lavoratori molto misere ma soprattutto caratterizzate dalla residenza in ricoveri precari, continuamente mutevoli e comunque non idonei alla più complessa attività di panificazione. La polenta era dunque, in primo luogo, un sistema molto semplice e rapido di preparazione di cereali per l’alimentazione. E quella di mais si diffuse mol-


STORIA E DINTORNI

La fonte più antica che parla del mais e delle sue zone di produzione è un trattato geografico, “Delle navigationi et viaggi” l’opera più importante dell’umanista e cancelliere della Repubblica veneziana Giovanni Battista Ramusio

to rapidamente. Secondo l’agronomo padovano del XVII secolo, Giorgio Dalla Torre, la polenta di miglio non era più usata come un tempo dai contadini padovani, che ora preferivano il mais per confezionare una polenta “che con pochissimo lavoro e breve tempo faceva egregiamente le veci del pane”. La fortuna del mais fu istantanea e non solo per la polenta. Erano passati solo pochi decenni dalle prime coltivazioni ed era già entrata nelle abitudini alimentari. Ma quale erano stati i motivi di un successo così fulmineo? Certo per quanto riguarda le scelte agricole, il mais aveva trovato nell’abbondanza di acqua, nel caldo afoso della Pianura Padana e nei suoi suoli paludosi e torbosi il luogo perfetto dove prosperare. Le sementi introdotte a Venezia dalle Americhe dai mercanti e presto coltivate in forma sperimentale da qualche possidente della Terraferma o da qualche esponente dell’oligarchia veneziana nelle sue tenute agricole appena bonificate, deve aver rappresentato un’opportunità imperdibile. Le informazioni a riguardo dei luoghi in cui si trovavano queste coltivazioni pioniere sono addirittura contenute in un trattato geografico, “Delle navigationi et viaggi”, il primo dell’età moderna, a firma di Giovanni Battista Ramusio. Era il 1554 quando il celebre umanista e cancelliere della Repubblica veneziana annotava che “... il mahiz delle Indie occidentali, che i portoghesi chiamano miglio zaburro, da qualche anno è venuto già in Italia di colore bianco e rosso, et sopra il Polesine de Rhoigo et Villa Bona seminano i campi intieri de ambedue i colori”. Dunque la Piccola Villa D’Adige, un tempo Villa

Bona, ai piedi del grande fiume tra il Polesine e la Bassa veronese, è stato il centro per la sperimentazione, ma l’espansione deve essere stata rapidissima: fin dal 1581 sono documentate semine a Vighizzolo d’Este, nei possedimenti di Pier Maria Contarini, nobile veneziano, nello stesso anno vengono registrate colture anche nell’isola di Torcello, nel 1585 la presenza del mais è accertata a Piove di Sacco e nel 1588 a S. Apollinare, altro comune in provincia di Rovigo.

Le società del passato era costituita da braccianti, pastori, taglialegna categorie di lavoratori molto misere ma soprattutto caratterizzate dalla residenza in ricoveri precari, continuamente mutevoli e comunque non idonei alla più complessa attività di panificazione Un’espansione che presto avrebbe travalicato anche i confini veneti e della Pianura Padana. Nel 1860 il nobile cremonese Giovanni Lammo offrì al Granduca di Toscana una partita di semi di mais affinché si potesse intraprendere la coltivazione nei territori medicei. Scriveva: “Questo grano è molto migliore et più nutritivo che non è i miglio, et rende più farina che non fa il fromento. Et è buono e saporoso pane, o semplice, o misturato, et composto con fromento fa perfetto biscotto, fa bonissima polenta”. Insomma il successo del mais si deve anche al fatto che la polenta che

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STORIA E DINTORNI se ne otteneva era migliore di quella di miglio o di melica, miscelato con altri cereali si poteva ottenere anche un pane, non certo buono come quello di frumento, ma sempre meglio del “mapazone” che veniva condiviso con gli animali. Soprattutto per le classi meno abbienti il mais rappresenta un passo in avanti mica da poco nei valori alimentari, ma anche in quelli economici: la fortuna del mais, infatti, sta nell’essere stato una sorta di moneta. Utile certo per quella miriade di contadini veneti che per un fazzoletto di terra dovevano pagare un affitto o un livello stabilito in natura al proprietario della terra, cioè essenzialmente una quantità di frumento, e che per sopravvivere e portare sul mercato urbano quel poco di vino o grano che restavasi adattarono cibandosi della melica nuova, così produttiva e nemmeno tanto gradevole in forma di polenta, per ricavare qualche utile dalle produzioni più pregiate. Più o meno la stessa cosa accadeva per chi non aveva la possibilità nemmeno di condurre un campo a livello e prestava la sua opera come bracciante per i lavori stagionali in campagna, il loro reddito o il salario era totalmente in natura e pagato quasi esclusivamente con il mais, lasciando il frumento e gli altri prodotti al mercato. Il mais nel 1600 è il salario del “boaro”, del castaldo, del bracciante avventizio e di qualsiasi lavoratore subordinato cioè della maggior parte del popolo veneto e per questo che il mais e la polenta ne divennero la bandiera: un grande sole giallo campeggiante al

Il mais nel 1600 è il salario del “boaro”, del castaldo, del lavoratore avventizio e di qualsiasi lavoratore subordinato cioè della maggior parte del popolo veneto e per questo che il mais e la polenta ne divennero la bandiera

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La polenta, Pietro Longhi (1740 ca) Ca’ Rezzonico, Venezia

centro del “panaro”, segno di una vita parsimoniosa e scarna che è andata via via sedimentandosi insieme all’idea che il passato di questa terra fosse una sorta di arcadia felix in cui l’uomo viveva in simbiosi con la natura. Ma chissà ancora per quanto il mais continuerà ad essere una coltura delle “basse”, il clima che cambia e le estati sempre più siccitose insieme ad un mercato che certo non premia le colture di poco pregio, stanno rendendo la sua coltivazione sempre più incerta. Con la scomparsa della Pac, forse scomparirà anche questa cultura archeologica e forse anche l’immagine stereotipa del Veneto polentone. Forse a prendere il posto del mais saranno altre colture del centro America, forse saranno la quinoa o l’amaranto, questi due pseudocereali sono sempre più richiesti dai mercati internazionali nel settore dell’industria alimentare, soprattutto grazie allo loro totale assenza di glutine, di quella cosmetica e, non ultimo, anche di quella farmaceutica. Tutto questo anche se il loro prezzo internazionale è decisamente maggiore rispetto ai cereali più comuni, cioè frumento, mais, riso, orzo e avena. La quinoa per esempio, ha raggiunto la quotazione di 360 dollari al quintale mentre per il frumento ci aggiriamo intorno ai 19. Diventeremo i veneti quinotoni? Intanto abbiamo il prosecco…


IL BIO di VASCO perché non tutti gli asparagi sono uguali…

Sulle sabbie portate da antiche rotte dell’Adige crescono i nostri asparagi: bianchi, verdi e viola. Da un ettaro produciamo quantitativi limitati, perché puntiamo sulla qualità organolettica. Tutti i lavori vengono condotti manualmente, nella rigida ortodossia del nostro nuovo metodo di produzione biologica

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LA MEMORIA DI CARTA di Roberto Soliman

Il “pane quotidiano” Il pane è sempre stato il re della tavola, ma come è stata la sua evoluzione nei secoli? Com’era il pane contadino delle contrade di ieri? E quanta nostalgia per la “ciòpa de pan con la ùa”, merenda divorata durante la ricreazione da noi “antichi” studenti!

“I

l 29 giugno, quando matura il grano...”, cantavano alpini e contadini lombardi e veneti negli anni ‘30, felici per il primo vero raccolto annuale che riempiva granai e pance; pance stanche di accogliere la misera polenta intinta nell’olio del “sardelòn”, asciugato dai ripetuti assalti dei numerosi abitanti di ogni famiglia patriarcale! Il frumento arrivava a proposito per riprendere un’alimentazione più equilibrata, dopo un inverno e una primavera passate a “polenta e pòcio”, Durante il Medioevo, “polenta e sardelòn”, l’abilità dei fornai “polenta infasolà”, romani si perse “polenta e baccalà”, “polenta e grassiòle”, con le invasioni infine polenta calda barbariche, e solo e zucchero per noi i monaci mantennero bambini come desforni per il pane sert! La storia dice

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che il pane di frumento (esiste anche il pane di Sorgo, di Segale etc..) è il più diffuso nell’area temperata e che la sua origine avvenne tra il Paleolitico e il Neolitico (tra il 10.000 e l’8.000 a.C.), al termine dell’ultima Grande Glaciazione quando la temperatura si innalzò e l’uomo incominciò a coltivare i cereali. Era un impasto di chicchi schiacciati con pietre e uniti all’acqua. Per caso questo impasto di cui si cibavano gli antichi finì vicino al fuoco, così si formò la prima focaccia ancora non lievitata (azzima). Gli archeologi sono concordi nel dire che furono gli Egizi a ottenere la prima lievitazione del pane, popolo che, se-


LA MEMORIA DI CARTA condo Erodoto: “… fece ogni cosa in modo diverso dai comuni mortali”. Inventarono la lievitazione naturale, intorno al 3.500 a.C., conservando una parte dell’impasto per il pane, da unire all’impasto successivo dopo che l’aria e l’umidità lo avevano leggermente acidificato. Ripetendo il procedimento, ritenuto soprannaturale e mantenuto segreto, ottenevano pagnotte gonfie e appetitose, inventando il “Lievito Madre”. Gli Egizi divennero così maestri indiscussi nella panificazione e, nell’oltretomba, si portavano come vivande almeno 15 tipi di pane. Quest’arte passò anche agli Ebrei che mangiavano pane azzimo in occasione della commemorazione dell’esodo dall’Egitto, il pane non lievitato è simbolo dell’accingersi a intraprendere un viaggio, data la rapidità di preparazione e la lunga conservazione. Nell’Ultima Cena, Gesù Cristo spezzò l’Ostia di pane azzimo. Dall’Egitto l’arte della panificazione passò anche in Grecia. I greci divennero ottimi panificatori, aggiungendo alla ricetta base ingredienti come latte, olio, formaggio, erbe aromatiche e miele. Anche a Roma l’arte della panificazione arrivò, però il pane entrò nell’uso quotidiano, secondo Plinio, nel 168 a.C., ad opera di alcuni schiavi catturati in Macedonia. All’epoca dell’Impero Romano il pane era l’alimento base per gran parte della popolazione e bisognava assicurarlo a tutti. Per questo vigeva una specifica legislazione ed era consentito acquistare frumento in pubblici granai ad un prezzo inferiore a quello di mercato. È giusto ricordare che in omaggio alla demagogica promessa di dargli “Panem et Circenses”, veniva distribuito al popolo il pane gradilis (sui gradini), durante i giochi negli anfiteatri. Durante il Medioevo, l’abilità dei fornai romani si perse con le invasioni barbariche, e solo i monaci mantennero forni per il pane. Con le signorie il pane fu sottoposto a diversi balzelli per la produzione. Dante, ospite alla Corte Scaligera scrive nel canto XVII del Paradiso: “Tu proverai si come sa di sale lo pane altrui, ...” intendendo la difficoltà di mettersi a servizio dei potenti. Il pane quindi come “status”, un paragone sociale, ma anche un bene da gestire e da far pesare come quando il Signore caccia Adamo dall’Eden dicendoli: “Ti guadagnerai il pane col sudore della fronte!” Nel Rinascimento ogni categoria sociale aveva il “suo” pane, come pure esisteva il pane del boia che veniva accantonato dai fornai rovesciato, in segno di disprezzo. Ancor oggi mettere in tavola il pane capovolto è segno di disprezzo e foriero di sfortune!

Il Doge Andrea Vendramin, nel 1477 scriveva: “… gran parte d’omeni del terren padoan dorme suso la paglia, gran parte vive de herbe senza pan e quelli che stan meglio vive de pan de sorgo et de semoloti…”

La gramola

Nell’Italia del ‘600 la miseria dilagava, assieme alle pestilenze di manzoniana memoria, così i monaci costruirono le “Graniche” o “Grance”, da cui il vulgo Granze, toponimo presente in ogni nostro paese, luoghi per immagazzinare il grano prodotto nelle loro vaste proprietà per poi rivenderlo al popolino affamato, in cambio di lavoro o altre prestazioni d’opera, mentre per la macina del grano si posizionarono mulini ad acqua nei fiumi più importanti del territorio, come l’Adige e il Fratta-Gorzone, mulini che resistettero fino all’arrivo della corrente elettrica della prima metà del ‘900, quando in ogni paese e frazione se ne costruirono di moderni dove ognuno macinava il proprio grano o frumentone. Un’importante rivoluzione nel campo della panificazione fu l’introduzione (secoli fa) del lievito di birra al posto della lievitazione naturale, così nel settecento i fornai riscoprirono i vari tipi di pane ideati dai greci, per accontentare i gusti raffinati delle classi più agiate, mentre il popolino doveva accontentarsi di avere il pane in tavola saltuariamente, cuocendolo nei loro casoni di canne, paglia e fango, tra il fumo del camino posizionato al centro del casone. Lo stesso Doge Andrea Vendramin, nel 1477 scriveva: “... gran parte d’omeni del terren padoan dorme suso la paglia,

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LA MEMORIA DI CARTA Con nostalgia penso al pane comune, al pane con l’olio della festa, al pane biscotto inzuppato nel brodo di cappone e cannella, dei giorni della trebbiatura, ma in particolare al pane con l’uvetta gran parte vive de herbe senza pan e quelli che stan meglio vive de pan de sorgo et de semoloti…” Per arrivare al buon pane fatto in casa, tradizione durata fino alle soglie della Seconda guerra mondiale nelle case contadine, bisogna attendere ancora fino al ‘800, quando si costruiscono grandi corti con forno per il pane che serviva per tutta la contrada. La sera la massaia preparava nella mèsa (contenitore in legno a sezione di trapezio rovescio) l’impasto di farina bianca, sale, acqua e lievito madre. Lo amalgamava con la gramòla azionato da due robusti ragazzotti della famiglia, per riporlo, coperto da un panno, nella mèsa e portato a lievitare nella camera della sposa, simbolo di fertilità. Di buon’ora, il mattino dopo, si riprendeva l’impasto lievitato, lo si amalgamava nuovamente nella gramòla, lo si divideva in piccole dosi per formare le pagnotte, si incideva un segno di croce in ognuna e infarinandole le si riponeva nella mèsa per portarle a cuocere nel forno a legna già acceso da ore. Una volta cotte le si spolverava dalla cenere e rimettendole nella mèsa le si portava a casa, riponendole in ceste che venivano attaccate alle travi della cucina. Non si mangiava fuori dall’orario prestabilito per tutta la famiglia! Il pane prodotto con le farine di un tempo era più consistente di quello odierno, di una fragranza dimenticata e poteva conservarsi per più giorni senza indurire troppo, così il pane in casa lo si faceva di regola ogni settimana. Poi i fornai si sono attrezzati con impastatrici meccaniche, spezzatrici, formatrici e con forni moderni, le farine sempre più raffinate e bianche, anonime. I garzoni dei fornai, nel secondo dopoguerra, incominciarono a portare il pane nelle famiglie, anche di campagna, con enormi ceste montate sulle biciclette, e il pane fatto in casa è scomparso, ed è un vero peccato, soprattutto per la poesia del mistero che accompagnava la formazione del Lievito Madre. Sembra che fosse indispensabile unire alla farina, all’olio e al miele la ru-

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Per produrre il lievito Madre, sembra che fosse indispensabile unire alla farina, all’olio e al miele la rugiada raccolta sfiorando con un piatto l’erba alta e il trifoglio, formata nella magica notte di San Giovanni (23 giugno, solstizio d’estate), rugiada che la leggenda vuole fossero le lacrime di Erodiade, pentita per aver comandato la morte di San Giovanni Battista

giada raccolta sfiorando con un piatto l’erba alta e il trifoglio, formata nella magica notte di San Giovanni (23 giugno, solstizio d’estate), rugiada che la leggenda vuole fossero le lacrime di Erodiade, pentita per aver comandato la morte di San Giovanni Battista. È anche un peccato non avere il pane fatto con la propria farina, del proprio grano, prodotto seminando il grano dell’anno prima, quasi un’eredità famigliare. Ora è tutto anonimo e impersonale, salvo i nomi di fantasia che spiccano nelle colorate confezioni di ogni prodotto alimentare industriale. Con nostalgia penso al pane comune, non proprio bianco, che mi ha fatto crescere, al pane con l’olio della festa, al pane biscotto inzuppato nel brodo di cappone e cannella, dei giorni della trebbiatura, ma in particolare al pane con l’uvetta che comperavo al forno da “Arturo”, prima di andare a scuola, con le 15 Lire della mancia di mia nonna. Al momento della ricreazione liberavo dalla carta da pane la “ciopa”, confrontandola con quella dei miei compagni per vedere quale era più grande e quale avesse più chicchi di uva passa! Ma il confronto durava poco, il tempo di pochi morsi e poi via nel cortile con nuova energia a rincorrere qualche stupita lucertola o a giocare a “saltamussa” o a nascondino con gli amici, interrotti poi dal richiamo della maestra per riprendere i nostri sudati apprendimenti!


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STORIA E DINTORNI di Francesco Selmin

“L a scoperta dei Colli Euganei ”

ATTRAVERSO GLI OCCHI DI ADOLFO CALLEGARI Un padovano alla scoperta dei Colli Euganei

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Laureato in legge, Callegari era un intellettuale poliedrico nel quale la passione per la pittura si sposava con l’amore per l’archeologia e la storia dell’arte. Inoltre non disdegnò l’impegno politico-amministrativo: prima come sindaco di Arquà, poi come segretario del Fascio estense. Visse immerso nei colli per almeno un trentennio, facendo del mondo euganeo, con i suoi problemi e le sue meraviglie, il centro della sua riflessione e del suo lavoro culturale

Un libro, ma anche un viaggio nel paesaggio, nella storia e nell’archeologia del territorio e anche nella consapevolezza di quanto poco lo conosciamo nel suo reale valore

“L

a scoperta dei Colli Euganei” è un titolo che può suonare strano: i colli sono sempre lì da migliaia di anni con le loro forme peculiari, con i coni dalle linee purissime, vere isole nella pianura, senza alcuna barriera che li mascheri. Eppure se si riflette sul rapporto tra i colli e la pianura circostante quell’espressione appare pienamente giustificata. Basti considerare che per la città e per i paesi limitrofi i colli sono stati fino all’età moderna una specie di confine, un luogo selvatico, rifugio di eremiti e uomini pii. Tra Sette e Ottocento diventano campo di esplorazione per botanici e geologi, ma solo tra Otto e Novecento diventano meta del cittadino che ama passeggiare o cerca un luogo di villeggiatura. È l’epoca in cui i colli sono oggetto di studi sempre più frequenti e approfonditi che ne affrontano i più vari aspetti: geologia, botanica, storia, arte, paesaggio, società. Il contributo più significativo alla conoscenza e alla

sensibilizzazione sui problemi degli Euganei fu offerto da Adolfo Callegari, un borghese padovano che, ripercorrendo a sei secoli di distanza lo stesso itinerario di Francesco Petrarca, lasciò la città del Santo per fissare la sua dimora ad Arquà. Molti ricordano ancora la sua fortunata Guida uscita nel 1931 e più volte ristampata, pochi conoscono gli scritti raccolti ne “La scoperta dei Colli”, usciti tra il 1923 e il 1943 su

Adolfo Callegari, Autoritratto, 1933, olio su tela, Padova, Musei Civici (su gentile concessione del Comune di Padova).

I colli sono stati fino all’età moderna una specie di confine, un luogo selvatico, rifugio di eremiti e uomini pii. Tra Sette e Ottocento diventano campo di esplorazione per botanici e geologi, ma solo tra Otto e Novecento diventano meta del cittadino che ama passeggiare o cerca un luogo di villeggiatura

In alto: “La scoperta dei Colli Euganei”, a cura di Francesco Selmin - Cierre Edizioni

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La scoperta dei Colli Euganei

La Rocca di Monselice

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STORIA E DINTORNI

La scoperta dei Colli Euganei

Prima immagine a sinistra: Monselice, colle della Rocca. Una torre varie riviste, tra cui alcune prestigiose come “Dedalo” della cinta muraria ormai prossima alla completa distruzione. e “L’illustrazione italiana”. L’enormità delle devastazioni subite dal colle richiamò nel 1909 un Monselice, collearticoli della Rocca. Una torre della cinta muraria ormai pros- Si vedano ad esempio Sono ancora attuali. sopralluogo del Consiglio Superiore di Belle Arti. Ne scaturì una sima alla completa distruzione. L’enormità delle devastazioni subite Il colle della Rocca di Monselice tra fine Ottocento e primi Novecento. dal colle richiamò nel 1909 un sopralluogo del Consiglio Superiore quello sul Cataio, per il quale oggi finalmente semmisura di protezione solo per il mastio. Furono le cave di trachite a devastare torri, chiese e interi tratti di mura. di Belle Arti. Ne scaturì una misura di protezione solo per il mastio. In centro: Il colle della Rocca di Monselice tra fine Ottocento e primi bra profilarsi un progetto di rinascita da seguire con Novecento. Furono le cave di trachite a devastare torri, chiese e attenzione e da incoraggiare, o quello sul colle della interi tratti di mura. Rocca, che ancor oggi è minacciato da idee bislacUltima immagine a destra: Monselice. Il colle della Rocca devastato dalle cave. che, foriere di ulteriori irreparabili guasti. Il profilo stoartistico e naturalistico. Aspri furono i rimbrotti indirico del bene culturale preso in esame da Callegari Monselice. Ilproposito colle della Rocca devastato dalle cave. rizzati a questo ai monselicensi. Accusati di nei suoi scritti non si esaurisce mai in mera erudiziotrattare il loro colle più prezioso, quello della Rocca, ne. Si intreccia sempre con considerazioni che attencome un intrigo, un impiccio di cui era meglio fare a gono alla sua conservazione. Si aggiunga inoltre che meno: «Monselice possiede cose bellissime, e non lo quasi tutti gli articoli si leggono con gusto anche oggi sa. O non se ne cura. È doloroso: ma se una mattina, in ragione di una scrittura briosa che in qualche caso aprendo la finestra, i monselicensi sentissero in facattinge pregevoli qualità letterarie. cia il primo sole senza l’uggia della Rocca, direbbero: Laureato in legge, Callegari era un intellettuale polie“Benon, un intrigo de manco”». drico nel quale la passione per la pittura si sposava Il colle era “mutilato, irriconoscibile”, perché porte, con l’amore per l’archeologia e la storia dell’arte. Inolchiese, torri, cortine, negli ultimi quarant’anni “cedettre non disdegnò l’impegno politico-amministrativo: tero al piccone”. I monselicensi, rincarava la dose Calprima come sindaco di Arquà, poi come segretario legari, non guardano in alto e dunque non vedono la del Fascio estense. Visse immerso nei colli per almedevastazione in atto. no un trentennio, facendo del mondo euganeo, con i Non meno severe erano le critiche rivolte ai padovasuoi problemi e le sue meraviglie, il centro della sua ni. Non hanno saputo scoprire i tesori dei colli, argoriflessione e del suo lavoro culturale. Non frequentò mentava il nostro, perché sono abituati a fermarsi ai solo i luoghi in cui viveva e lavorava. Esplorò tutti i bordi del versante settentrionale, quello più vicino a rilievi con curiosità e metodo tanto che poteva afferPadova. Sostano alle prime trattorie che incontrano, mare di “conoscerli in ogni angolo”. Se ne innamorò quelle di Teolo o di Torreglia. Oltre non si spingono e al punto che diventarono, è lo stesso Callegari a dirlo, hanno torto, insisteva Callegari: non si rendono conto parte della sua anima. del patrimonio di arte e storia che hanno a portata Callegari riconobbe i progressi fatti negli ultimi dedi mano. Se penetrassero nel cuore dei colli, se si cenni, ma individuò lucidamente i ritardi accumulati addentrassero anche nei più piccoli villaggi, si accornella conoscenza del mondo euganeo e intuì i gravi gerebbero che dovunque si incontra un monumento rischi che i colli e il loro patrimonio storico-artistico pregevole: una villa, un castello, una chiesa. e paesaggistico stavano correndo a causa della deMa lo sguardo non doveva limitarsi alle emergenze vastazione prodotta dall’attività estrattiva con i nuovi storico-artistiche. Ad Arquà, ad esempio, la visita non mezzi meccanici e a causa dell’incuria in cui versadoveva avere come meta solo i monumenti petrarvano troppi monumenti. Era profondamente convincheschi: la fontana, la tomba, la casa del poeta. La to che gli abitanti dei colli, come quelli della provinmemoria Petrarca non andava cercata solo nei monucia, ben poco sapevano del gruppo collinare e non menti, ma anche nel paesaggio. avevano consapevolezza del valore del patrimonio

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·La nostra storia dal 1947 ad oggi ·

Le nostre Specialita'

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PANORAMA GASTRONOMICO di Martina Toso

Ciliegie:

UNA TIRA L’ALTRA E POI? Da secoli coltivate sui Colli Euganei, rosse belle polpose sono un toccasana per la salute e praticamente non hanno controindicazioni

L

a vendemmia sta all’autunno come la mietitura sta all’estate. Giugno e luglio dai tempi più antichi rappresentano il primo periodo della raccolta: cereali soprattutto, come il frumento o la segale, sempre entrambi ricercati insieme ai piselli e ai primi prodotti dell’orto e degli alberi da frutto, come la ciliegia. Coltivata da secoli sulle pendici dei Colli Euganei, a lei erano dedicati un tempo due mercati nel comune di Vò Euganeo. Durone e marasca sono le due varietà ottenute dalla combinazione di altrettante spontanee della zona combinate a bigarreau, bigarreau moreau, durona classica e precoce, durone di vignola. Il durone è dolce, più scuro e grande mentre le marasche hanno un gusto più acidulo e vengono usate per preparare sciroppi, marmellate e il maraschino. Pianta sacra a Venere nella mitologia greca, portafortuna per innamorati in Sicilia e fiore simbolo

Per depurare e disintossicare al meglio l’organismo si consiglia di mangiare 25 ciliegie al giorno meglio se al mattino accompagnandole bevendo molta acqua nazionale in Giappone, la ciliegia è anche un’alleata della salute. Ma quali sono i benefici di una bella scorpacciata di ciliegie? Le ciliegie sono un frutto ricco di vitamine. Contengono vitamina A, vitamina C e vitamine del gruppo B. Sono inoltre una fonte da non sottovalutare di sali minerali, come ferro, calcio, magnesio, potassio e zolfo. Presentano inoltre oligoelementi importanti, con particolare riferimento a rame, zinco, manganese e cobalto.

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PANORAMA GASTRONOMICO Le ciliegie contengono melatonina naturale, una sostanza che favorisce il sonno, e sono una fonte di antiossidanti, che aiutano il nostro organismo a contrastare l’invecchiamento. Hanno inoltre importanti proprietà depurative, remineralizzanti ed energetiche. Aiutano a depurare il fegato e a regolare la sua attività. Infatti sono un frutto diuretico e leggermente lassativo. Il consumo di ciliegie è considerato particolarmente utile in caso di stipsi. Il loro contenuto equilibrato di sali minerali e vitamine aiuta a ricaricare l’organismo di energia e di sostanze nutritive utili. Il loro consumo è dunque particolarmente indicato in caso di stress e spossatezza. Secondo gli studi più recenti, le ciliegie sono un alimento particolarmente adatto per chi pratica sport. E, soprattutto per chi è sempre in movimento, il succo di ciliegia sarebbe davvero un toccasana. Si tratta infatti di una bevanda energetica, utile contro le infiammazioni e per mantenere il cuore in salute, soprattutto grazie alla ricchezza di antiossidanti del frutto e del suo succo. Infine, ciliegie, in quanto fonte eccellente di potassio, aiutano ad abbassare la pressione del sangue contribuendo a bilanciare l’eccesso di sodio nell’organismo.

Contengono vitamina A, vitamina C e vitamine del gruppo B. Sono inoltre una fonte da non sottovalutare di sali minerali, come ferro, calcio, magnesio, potassio e zolfo UTILIZZI Le ciliegie di norma si raccolgono tra maggio e giugno. I loro utilizzi alimentari più comuni riguardano la preparazione di composte, conserve, sciroppi, liquori, frutta sciroppata, gelati, yogurt e dolci di vario genere. Naturalmente, sono ottime anche gustate da sole o nelle macedonie. Gli utilizzi delle ciliegie vanno oltre l’alimentazione. La polpa di questi frutti, infatti, viene talvolta impiegata per la preparazione di maschere di bellezza dall’azione astringente e rinfrescante.

Le ciliegie sono un frutto di per sé poco calorico. 100 grammi di ciliegie fresche forniscono al nostro organismo circa 40 calorie. Si tratta di un apporto calorico paragonabile a quello di una mela o di una pesca

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CONTROINDICAZIONI Il consumo di ciliegie non presenta controindicazioni particolari. A lungo andare può avere un leggero effetto lassativo, che comunque non dovrebbe essere troppo problematico. Deve stare lontano dalle ciliegie soltanto chi soffre di allergia a questi frutti. Le ciliegie contengono levulosio, uno zucchero ammesso anche ai diabetici. In caso di dubbio però, sulla base del tipo di diabete e del proprio stato di salute, il consiglio è sempre di consultare il proprio medico.


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IL MIGLIOR PESCE preparato secondo tradizione

VERDURE DI STAGIONE direttamente dagli orti di Chioggia

PIZZERIA, il nostro segreto è la pasta

tradizione e sapore a due passi dal mare Il servizio estivo prevede che il ristorante si affacci direttamente sulla spiaggia e la consegna della pizza arrivi fin sotto l’ombrellone

La cucina e la sala sono attrezzate per banchetti e cerimonie. I tavoli affacciano direttamente sul mare. Il ristorante è aperto tutti i giorni dalle 12.00 alle 14.30 e dalle 18.30 alle 24.00. Il lunedì i mestoli riposano

La cucina chioggiotta ha mille anni di storia, ingredienti che per metà vengono dal mare e per metà dalla terra. Una cucina, che come tutte le tradizionali, è totalmente autentica a patto però che segua la stagionalità e difatti non è un caso che il tempo in cui le sarde sono più grasse coincida con la perfetta maturazione della cipolla bianca chioggiotta. Da questa puntualità nasce uno dei piatti immagine di Chioggia, le sarde in saor, e da altrettante corrispondenze, tra mare e orti, si originano piatti e preparazioni che da secoli costituiscono l’identità di questa parte dell’Adriatico. Un’identità che è custodita con cura dallo chef Armido Boscolo e la sua famiglia, ristoratori di conclamata esperienza, maturata in molti anni di lavoro, nella quale la stretta ortodossia alla tradizione è uno dei valori più assoluti. Per questo al Ristorante Minerva di Sottomarina in questa stagione gli asparagi incontrano i fasolari, ma si badi: non sono prodotti generici, gli asparagi sono quelli della vicina Conche e i fasolari quelli pescati al largo dalla Cooperativa locale. E così sono le seppie, le triglie, il branzini, rombi chiodati, le immancabili cozze e vongole, le “schie”, le “moleche” approvvigionati sempre dai pescatori o dal locale mercato ittico e preparati assecondandone i valori nutrizionali e i sapori con gusto e creatività. Per questo è bene fidarsi dell’estro di chef Armido e una volta seduti a tavola lasciargli facoltà di iniziativa. Il ristorante tra l’altro in questa stagione offre un’altra particolarità: la possibilità di cenare direttamente affacciati sul mare a due passi dalla spiaggia. Dal menù non mancano le specialità di carne e per chi avesse meno esigenze la carta delle pizze, grazie a Fabrizio, pizzaiolo e socio del Minerva, è in grado di assecondare qualsiasi gusto, trovando anch’essa intelligenti sinergie con i prodotti locali e un servizio che arriva fin sotto l’ombrellone. Un ruolo importante nell’offerta del celebrato ristorante hanno i vini: veneti, friulani e trentini e ovviamente lo spiccato senso, anch’esso nostrano, per l’ospitalità.

Lungomare Adriatico - Lato Nord, 30015 - Sottomarina Mob. 339 6684500 - Tel. 041 4965367 ristorante.minerva@libero.it - www.ristorantepizzeriaminerva.it - Seguici su Facebbok e Twitter


Il sole,

ALIMENTAZIONE, SALUTE E TRADIZIONE del Prof. Adriano Mollica

AMICO O NEMICO?

La luce solare è la più grande fonte di energia sulla terra. La luce visibile, l’ultravioletto e l’infrarosso sono necessarie per sostenere la vita sul nostro pianeta. Nonostante i numerosi effetti positivi, come la fotosintesi nelle piante, il riscaldamento, la vista, e la sintesi di vitamina D, la luce solare può anche essere responsabile di alcuni effetti biologici negativi, come le ustioni solari, la formazione di eritemi solari e la carcinogenesi

I

raggi ultravioletti sono il maggior pericolo ambientale di rischio fisico per la pelle umana, i danni provati dall’esposizione del corpo alla loro azione tuttavia varia in ragione di molti fattori: la localizzazione geografica, l’altitudine, la stagione dell’anno, i riflettenti naturali, come la neve, l’acqua, la sabbia oppure i vestiti, il tempo passato all’aperto, e la professione. Approssimativamente il 60% dell’esposizione ai raggi UV si riceve durante le 4 ore intorno a mezzogiorno o nei giorni estivi fino al 30% della radiazione totale annua si riceve nelle 2 settimane di vacanze estive. In un tempo piuttosto concentrato dunque, ma l’assorbimento non è uguale per tutti. La suscettibilità

Approssimativamente il 60% dell’esposizione ai raggi UV si riceve durante le 4 ore intorno a mezzogiorno o nei giorni estivi fino al 30% della radiazione totale annua si riceve nelle 2 settimane di vacanze estive 26

individuale ai raggi UV può essere prevista attraverso la misura della dose minima in grado di produrre eritema solare (MED) o indirettamente attraverso la determinazione del tipo di pelle secondo la classificazione di Fitzpatrick, essa si basa sul colore cutaneo e sulla risposta della cute alle radiazioni UV, va dal tipo I che non si abbronza mai (ma si brucia solo), al tipo VI, che comprende persone con una pigmentazione scura della pelle, che si abbronzano molto facilmente e non si bruciano mai. MA CHE COS’È CHE VERAMENTE FA MALE ALLA NOSTRA PELLE? La luce UV costituisce solo approssimativamente il 5% dell’intero spettro di radiazioni elettromagnetiche emesse dal sole che raggiungono la superficie terrestre. La radiazione UV è divisa in 3 ranges, UVA (300400nm), UVB (290-320nm) e UVC (200-290nm). La radiazione che raggiunge la nostra pelle consiste in maggior parte di UVA (95%), e solo il 5% da UVB + UVC. Lo strato di ozono che avvolge la stratosfera filtra la maggioranza di UVC, ma con l’inquinamento


ALIMENTAZIONE, SALUTE E TRADIZIONE degli ultimi anni questa protezione si è assottigliata ed è proprio l’UVC l’elemento che fa soffrire la nostra pelle. La penetrazione degli ultra violetti, infatti, dipende dalla loro lunghezza d’onda. L’UVC ha una lunghezza d’onda più corta, al quale corrisponde una maggiore energia, e irradia la pelle e la cornea con effetti potenzialmente mutagenici. La banda degli UVB, (responsabile dell’abbronzatura e delle reazioni alle ustioni solari), raggiunge solo l’epidermide, poiché è ben assorbita dallo strato esterno corneo della pelle, e colpisce maggiormente i cheratinociti, le cellule di Langerhans e i melanociti. Gli UVA, a più lunga lunghezza d’onda sono i più deboli e meno pericolosi. Gli UVA non sono filtrati dai vetri delle finestre o i finestrini della macchina, possono penetrare a fondo nel derma fino a raggiungere le cellule di matrice endoteliali, si pensa che siano responsabili per l’invecchiamento della pelle e l’induzione di fotosensibilizzazione. Rughe profonde, secchezza, atrofia, ipercheratosi e ipopigmentazione, e abbassamento dell’elasticità sono causate dagli UVB e UVA, agiscono insieme come cofattori, in particolare gli UVA vanno a distruggere le fibre connettive. Inoltre provocano la formazione di ROS, specie reattive dell’ossigeno che aumentano i processi di ossidazione dei lipidi, delle proteine e del DNA. DUNQUE L’ABBRONZATURA NON FA BENE? L’abbronzatura è una forma di difesa del corpo dalle radiazioni solari, del resto sono molteplici e gravi i problemi che possono essere creati dalla luce solare, i più gravi sono rappresentati dal cancro alla pelle, come detto, l’invecchiamento della cute. Ma il sole ha anche effetti positivi sul corpo, come la produzione di vitamina D. La discriminante è il modo e la durata dell’esposizione al sole. Ad esempio l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha definito i lettini a lam-

La classificazione di Fitzpatrick si basa sul colore cutaneo e sulla risposta della cute alle radiazioni UV , va dal tipo I che non si abbronza mai, ma si brucia solo, al tipo VI, che comprende persone con una pigmentazione scura della pelle, che si abbronzano molto facilmente pade abbronzanti come cancerogeni. I bagni solari generano entrambe le bande UVA e UVB che sono responsabili dell’abbronzatura e delle ustioni, comunque la radiazione predominante in questi sistemi è UVA che causa iperpigmentazione rapidamente. In ogni caso i danni al DNA precedono sempre la produzione di melanina. La quantità di radiazioni UV emesse da un lettino abbronzante è maggiore della dose di radiazioni che si riceverebbero in un giorno d’ estate a mezzogiorno. È stata dimostrata una forte correlazione con alcuni tipi di tumore alla pelle. COME SI PROTEGGE DAL SOLE? Per proteggersi dal sole, innanzitutto bisogna adottare un comportamento responsabile, evitare l’esposizione diretta ai raggi solari nelle ore centrali del giorno, vestire appropriatamente, cappelli a larga falda, indumenti a manica lunga, e inoltre utilizzare filtri solari ad alta protezione. ESISTONO FILTRI NATURALI? Esistono numerose sostanze naturali in grado di proteggere parzialmente e con meccanismi diversi la pelle dalle radiazioni solari. Ad esempio un alto livello di squalano derivato dallo squalene presente nell'olio di oliva è presente in molti prodotti cosmetici foto protettori, poiché lo squalene, l’analogo presente nelle cellule animali, è uno dei lipidi protettivi naturali della pelle. L’allantoina è un prodotto nucleotidico naturale presente nella Consolida maggiore (nome scientifico Symphytum officinale) è usato come agente anti irritante. Questo estratto può essere trovato in alcuni prodotti antiacne, doposole e lozioni per il corpo, poiché produce la guarigione di piccole ferite cutanee. I ROS (specie reattive dell’ossigeno), meglio conosciuti come radicali liberi sono le sostanze derivate dall’ossigeno, provocano l’invecchiamento della pelle. Molte sostanze naturali sono antiossidanti e radical scavengers, ad esempio sostanze contenute

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ALIMENTAZIONE, SALUTE E TRADIZIONE sono dimostrate in grado di proteggere la pelle dalle radiazioni UVA e UVB e con effetto antiinfiammatorio. UN TEMPO IMPAZZAVANO I CAROTENOIDI TRA GLI ELEMENTI NATURALI CHE ENTRAVANO NELLA COMPOSIZIONE DELLE CREME SOLARI… I carotenoidi, meritano un discorso a parte, in quanto sono comunemente assunti nella dieta, e possono accumularsi nella pelle. Rappresentano un fattore di protezione contro i raggi UV. Alcuni studi clinici hanno dimostrato benefici alla pelle in seguito ad assunzione elevata di licopene, luteina, beta-carotene, alfa-tocoferolo e selenio.

nell’olio di oliva, nei frutti rossi, e altri pigmenti naturali possono avere effetto protettivo. Le proantocianidine, lavorano come inibitori delle mutazioni del DNA, inoltre mantengono l’integrità e l’elasticità cutanea e possono lavorare sinergisticamente con le vitamine C ed E per proteggere dagli effetti dei raggi UV. Sono usate in alcune creme cutanee prima di prendere il sole e aiutano a prevenire le scottature. La quercetina, è un flavonoide che si assume con la dieta. Ha proprietà antiinfiammatorie e antiossidanti, è presente nei frutti e nei vegetali, è stato dimostrato che preparati a base di queste sostanze possono proteggere dai raggi UVA e UVB. Altre sostanze a struttura flavonoide come l’apigenina (presente in gran quantità nella calendula,) la silimarina presente nel lattice del carciofo, e altre sostanze si

L’ALOE VERA? Estratti di piante come l’estratto di Aloe vera sono stati scientificamente provati efficaci per il trattamento delle ustioni solati, e possono inoltre avere effetto protettivo se usati prima e dopo l’esposizione solare. L’estratto di foglie di noci è stato utilizzato anche come protettore solare ed autoabbronzante, poiché sono presenti grandi quantità di quercetina, e sostanze colorate come lo juglone che ha proprietà protettive verso i raggi UV. Oli di cocco, di oliva, di nocciolina americana e cotone, possono bloccare al massimo il 20% della radiazione solare, mentre oli minerali non hanno nessun fattore di protezione. L’olio di Borragine (borrago officinalis) stimola l’attività della pelle ed incoraggia la rigenerazione, contiene grandi quantità di acido gamma-linoleico. Sono inoltre noti gli effetti protettivi dell’olio di avocado, di girasole, del’olio di ricino comune.

Esistono numerose sostanze naturali in grado di proteggere parzialmente e con meccanismi diversi la pelle dalle radiazioni solari

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PISCINA COMUNALE DI CASALE DI SCODOSIA

È partita la stagione estiva

Da semplice polo natatorio a centro per il benessere e la socializzazione È partita la Stagione Estiva alla Piscina di Casale di Scodosia e le novità sono moltissime. A cominciare dalle strutture del polo natatorio che sono state rinnovate all’80% sia per migliorare la qualità dell’offerta sia per aggiornare la tipologia dei servizi. I lavori recentemente conclusi, infatti, hanno interessato la realizzazione di un collegamento in muratura degli spogliatoi, l’installazione di due unità trattamento aria, la creazione di una palestra Technogym, la sostituzione di tutto l’impianto di illuminazione esterno e la creazione di un campo da Beach Volley illuminato. Insomma: un centro sportivo moderno, pulito, efficiente. Un ambiente giovane dove allo sport e alla salute si associa il divertimento perché durante la stagione estiva gli impianti di via Ussuolo a casale saranno anche il centro della socializzazione grazie ad cartellone di eventi in via di definizione. Per rimanere aggiornati basterà seguire la pagina Facebook. “Un polo natatorio aperto a tutti i cittadini - spiega Mario Taglia, direttore di Con-

selvenuoto, gestore dei nuovi impianti è sempre stato nei nostri progetti ed è anche per questo che abbiamo deciso di dotarci di un sollevatore Mobile per disabili BLUONE, in modo che davvero tutti possano trovare qui un luogo dove svolgere sport, riabilitazione e divertimento”. Soddisfazione per il nuovo corso del polo natatorio comunale è stato espresso anche dal primo cittadino, Stefano Farinazzo, che proprio sulla qualità dell’offerta aveva riposto le sue aspettative. “Siamo contenti - ha spiegato - la piscina di Casale di Scodosia riapre, oggi è più funzionale, moderna e offre un servizio di grande qualità per l’intero territorio”.

LE VARIE ATTIVITÀ SCUOLANUOTO • Anatroccoli • Paperini • Ragazzi • Junior • Adulti

PROGRAMMI DI: • Dimagrimento • Tonificazione muscolare • Ipertrofia muscolare • Post-riabilitazione • Diabetici •P atologie vascolari/ ipertensione

ACQUAFITNESS • Acquagym • AcquaBike • Treadmill • Due Elementi • Hydromix - Idrobike • Water Body Sculpture • AquaPilates

PALESTRA • Zumba • Stc • Pilates • Mamme • Qi Gong • Fit Box • Total Bod Gag • Hip Hop bambini

TUTTO CIÒ CHE C’È DA SAPERE SULLA STRUTTURA � 1 vasca coperta � 1 vasca scoperta � 1 vasca per i bambini e il relax � 1 palestra - sala pesi - Technogym � Bar La piscina è aperta tutti i giorni dalle 7.00 alle 23.00, compresi i festivi La palestra è aperta dal lunedì al venerdì 9.00-22.00 Sabato 9.30-18.30 e Domenica 9.00-12.30 PISCINA COMUNALE DI CASALE DI SCODOSIA - Via Ussulo, 183 - Casale di Scodosia (PD) Tel. 0429 87506 - 327 6671633 - www.piscinecasale.it - info@piscinecasale.it


LA FORMA DEL LATTE di Michele Grassi

GRANDI PRATI FIORITI PER

FORMAGGI FRESCHI O STAGIONATI AROMATIZZATI Questo periodo dell’anno è ideale per la caseificazione: i prati sono pieni di infiorescenze che portano a straordinari profumi, la carica batterica del latte crudo garantisce fermentazioni ideali e anche la stagionatura, grazie alla temperatura, consente di conservare il prodotto in modo ottimale


LA FORMA DEL LATTE

C

apita spesso, in questo periodo dell’anno, d’inoltrarmi in montagne e colline dove i pastori stanno riprendendo la produzione del formaggio, in particolare ovino o caprino, che alla primavera è strettamente legata perché le lattifere producono molto latte, subito dopo il parto, in concomitanza della forte influenza della rinata vegetazione. Anche le vacche risentono del cambio di stagione e il loro latte acquisisce caratteristiche migliori. Gli animali che si nutrono di erba verde hanno la capacità di offrire al casaro un latte di estrema importanza per la trasformazione casearia, perché ricco di grasso buono, di vitamina A di caroteni e di proteine, naturalmente. Per merito delle proteine avviene infatti la fantastica trasformazione del latte in pasta caseosa, le loro caratteristiche permettono, tramite l’immissione nel latte del caglio, di trasformare una sostanza apparentemente liquida in una gelatinosa che in gergo tecnico viene definita cagliata. Si pensi che la cagliata, qualora il latte subisse variazioni di rilievo, magari determinate dalla stagione piovosa o dal sole o dalla diversa alimentazione degli animali, è sempre diversa e quindi sta al casaro decidere anche piccole variazioni di tecnica di trasformazione. Già da marzo le pecore, le capre e le vacche possono alimentarsi liberamente con le fresche essenze appenniniche o alpine ma non ancora delle erbe aromatiche che ricopriranno nei mesi più caldi i pascoli alle altitudini maggiori, oltre i 1500 metri. In alcuni territori appenninici, soprattutto del Centro Italia, fanno da guardiano ai prati, sui quali cresce un’erba bassa che si aggrappa anche alle rocce dal contenuto proteico di tutta rilevanza, le erbe odorose che genericamente definiamo speziate, come il timo serpillo che concede al latte aromi del tutto unici. O come in alcuni territori alpini, anche qui a quote superiori ai 1500 metri, dove avviene la crescita di erbe

Un’esplosione di aromi di gusti contrastanti come la dolcezza del pecorino stagionato e l’acidulo del formaggio appena fatto ma miscelato con i profumi della primavera che tendendo all’estate lascerà spazio ad aromi più intensi, a formaggi gialli, carichi di beta caroteni, di grassi insaturi di odori vegetali e animali, di sapori dolci unici

Nel frattempo, in attesa che sbocci l’estate, i formaggi vengono prodotti dai pastori con il solo intento di stagionarli a lungo, sfruttando le temperature primaverili, ne’ troppo fredde ne’ troppo calde che consentono, insieme all’umidità ancora piuttosto presente soprattutto nelle ore notturne, di conservare il prodotto derivato dal latte in modo ottimale per la sua maturazione lenta, capace di modificare la pasta in semidura o dura. Sempre in questo periodo la carica batterica del latte crudo non sarà troppo elevata e ciò determinerà, prima al latte e poi nella pasta, quelle fermentazioni indispensabili per delineare le caratteristiche organolettiche del formaggio. Un connubio di fattori intrinsechi determinati dal periodo dell’anno più fruttuoso per fare trasformare il latte. E come avviene da sempre il casaro aspetta, aspet-

È il momento di cambiare sistema di caseificazione, è il momento di sfruttare le caratteristiche tipiche del latte alte piene d’infiorescenze odorose fra le quali spesso il cuminum cyminum, detto volgarmente comino o carugo nel bellunese, capace anche, se macerato nella grappa, di stimolare la digestione e di appagare il gusto del buon bevitore. Questa magnifica essenza che fiorisce in luglio, sarà pronta, con il suo seme asciugato dal sole anche per elaborare formaggi di tutto rispetto.

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LA FORMA DEL LATTE

Sopra i 1.500 metri crescono erbe piene d’infiorescenze odorose fra le quali spesso il cuminum cyminum, detto volgarmente comino o carugo nel bellunese, capace anche, se macerato nella grappa, di stimolare la digestione e di appagare il gusto del buon bevitore

ta che anche il consumatore inizi a modificare il suo modo di alimentarsi con i latticini e passi dall’uso di formaggi di lunga stagionatura, formaggi a pasta dura molto saporiti e aromatici, a formaggi meno impegnativi, più freschi, più lattici. È il momento di cambiare sistema di caseificazione, è il momento di sfruttare le caratteristiche tipiche del latte che lasciano proprio affermare, questo formaggio ha il sapore del latte. Così il passo è breve, dal formaggio marzolino o primaverile che il casaro provvederà a stagionare, al formaggio fresco dalla profumata acidità che attende di essere gustato proprio dopo il cambio di stagione. Certo è che questi formaggi sono prodotti e consumati durante tutto l’anno ma il fresco vento primaverile e i primi caldi, invitano il consumatore a modificare il modello gastronomico famigliare e così l’acquisto muta verso i formaggi ad alto contenuto d’acqua. Pensiamo alla Casatella trevigiana Dop ad esempio che è il tipico formaggio veneto a pasta molle che veniva fatto nelle case dei contadini solamente dalle donne di casa, soprattutto quando la stagione con le sue miti temperature permetteva una fermentazione naturale del latte. Si pensi che un tempo la provincia di Treviso era zona di produzione di un importante formaggio a pasta molle, il Taleggio, ora Dop, il cui disciplinare di produzione non dimentica questa origine veneta ma ormai riconosciuto da tutti come lombardo-piemontese. E la stagione delle temperature miti lasciava il segno

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sempre per l’arte casearia, per i pecorini che dal latte di pianura venivano fatti anche durante l’ascesa alla montagna dove si lasciava e si lascia ancora che gli agnelli si cibino direttamente dalle lattifere. Una serie di sensi unici gestiti dalla natura che ora sono diventati doppi sensi a causa della necessità di avere latte tutto l’anno e di sfruttare celle refrigeranti invece che ambienti naturali. Era proprio, e lo è ancora in ambiente pastorale, il sistema migliore per fare buoni formaggi, sfruttare la primavera magari per i pascoli più bassi e utilizzare le prime erbe aromatiche e il sole che le asciuga per fare, in seguito, cappature, ovvero coperture dei formaggi con le stesse erbe miscelate fra loro per dare aromi unici e croste edibili a formaggi anche a pasta molle. Immaginiamoci un buon pecorino che, lasciato asciugare lentamente, venga ricoperto di timo, di rosmarino che nella prima primavera è verdeggiante e fiorito, di fresche foglie sminuzzate di alloro, di origano che appena sbocciano i primi fiori viene essiccato o del seme di comino, tenuto a bada in vasi di vetro per tutto l’inverno. Un’esplosione di aromi di gusti contrastanti come la dolcezza del pecorino stagionato e l’acidulo del formaggio appena fatto ma miscelato con i profumi della primavera che tendendo all’estate lascerà spazio ad aromi più intensi, a formaggi gialli, carichi di beta caroteni, di grassi insaturi di odori vegetali e animali, di sapori dolci unici. Ma perché tutto ciò avvenga è necessario un grande rispetto della natura, è necessario che il pastore, l’allevatore e il casaro non facciano formaggio ma guidino semplicemente il latte a diventare il più buono dei prodotti dell’agroalimentare.

La Casatella trevigiana Dop è il tipico formaggio veneto a pasta molle che veniva fatto nelle case dei contadini solamente dalle donne di casa, soprattutto quando la stagione con le sue miti temperature permetteva una fermentazione naturale del latte


Caseificio

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AI PRÀ

Con l ’arrivo della stagione calda cambiano i gusti a tavola, a fare gola sono i piatti più freschi e i formaggi, molto spesso, rappresentano una vera opportunità per imbandire la tavola con qualcosa di veloce senza comunque rinunciare al sapore. Per questo al Caseificio Ai Prà l ’offerta si fa estiva, proponendo una selezione di prodotti pensati e realizzati proprio per assecondare la voglia di leggerezza

MOZZARELLE FRESCHISSIME Prodotte freschissime ogni giorno senza impiego di acido citrico

CACIOTTINE E FORMAGGI FRESCHI C’è solo l’imbarazzo della scelta: aromatizzate alla menta, alla salvia, al rosmarino o all’erba cipollina... fanno pendant con formaggi freschi come lo stracchino, le scamorze o il primo sale aromatizzato con rucola e pomodorini

SOLARE STAGIONATO Lo stagionato dedicato all’estate. Un formaggio di latte vaccino, stagionato 90 giorni, dove insieme alle proprietà benefiche della curcuma spicca il giallo oro dello zafferano

DOVE TROVARE I PRODOTTI DEL CASEIFICIO AI PRÀ

YOGURT, PANNA COTTA E CREME Per la colazione e la merenda. Antonella li prepara nelle ore più quiete della giornata, perché la sua produzione ha due segreti: il latte freschissimo impiegato appena dopo la mungitura e il riposo. I gusti sono praticamente infiniti: arancio e zenzero, pistacchio, liquerizia... ottenuti sempre con l’impiego di purea di frutta fresca

Il banco dei prodotti del caseificio Ai Prà si sposta durante la settimana: • Il martedì pomeriggio dalle 17.00 alle 19.30 in piazza di Due Carrare • Il mercoledì mattina al mercato di Conselve, mentre il pomeriggio è aperto il punto vendita aziendale dalle 15.30 alle 19.30 • Il venerdì è aperto tutto il giorno il punto vendita aziendale 9.00 -12.30 e 15.30 - 19.30 • Il sabato mattina in piazza Cannoni a Sottomarina al mercatino dei tipici, il pomeriggio è aperto il punto vendita aziendale dalle 15.30 alle 19.30 +39 339 3278420

Azienda Agricola Ai Prà via Pratiarcati, 9 - 35020 Maserà di Padova (PD) www.aziendaagricolacaseificio.padova.it antbus973@gmail.com Azienda Agricola Ai Prà


OLTRE L’ORIZZONTE di Anna Maria Pellegrino

® Blu 61

IL CHEESE TREVIGIANO VENDUTO NEI MAGAZZINI HARRODS A LONDRA I prodotti della Casearia Carpenedo sono apprezzati in 30 paesi al mondo. L’ultimo nato si chiama “Capo di Stato” ed è un formaggio affinato con le vinacce dei 100 vitigni a dimora nel territorio del Montello, si tratta di una produzione limitata, appena 100 forme Alessandro Carpanedo puoi raccontarci qualcosa della tua azienda e dei vostri prodotti? “La nostra è un’azienda che nasce ai primi del ‘900 con la “bottega” del nonno Ernesto. Immaginate i colori ed i profumi degli ingredienti sfusi: l’aroma del caffè, lo zucchero avvolto nella carta azzurra, la pasta secca venduta a peso. Ed è in compagnia di queste emozioni, oggi perdute, che mio papà, Antonio, cresce. Nel 1965 papà ha l’occasione di acquistare un piccolo caseificio ternario e si reinventa da autodidatta. La passione è davvero molta ed i risultati arrivano quasi subito sia con la Casatella che con il Montasio. Il 1976 è un’altra data importante in quanto papà re-

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cupera una tradizione popolare delle zone del Piave, un’escamotage che i contadini adottarono durante la Grande Guerra per salvare dal saccheggio le forme di formaggio, nascondendolo nelle vinacce e nuovamente, come accadde nel 1965, da autodidatta sperimenta per primo in Italia la tecnica dell’affinamento, che nel corso degli anni diventa un vero e proprio mestiere altamente qualificante. Nel frattempo in azienda entriamo mio fratello ed io, iniziando ad utilizzare nell’affinamento ingredienti e tecniche diversi, come il fieno e la barricatura o l’immersione, che ci permettono di ampliare la gamma e di offrire prodotti qualitativamente in un continuo divenire”.


OLTRE L’ORIZZONTE La tua azienda ha sede in provincia di Treviso, a Camalò di Povegliano. Immagino, tuttavia, che il Vostro mercato di riferimento sia più ampio della provincia di Treviso “Abbiamo decisamente guardato molto oltre il nostro paese tanto che i nostri prodotti sono apprezzati in 30 paesi al mondo, paesi indubbiamente diversi come cultura gastronomica, come gli Stati Uniti e il Giappone, senza dimenticare Londra, dove il nostro Blu61® è venduto nei Magazzini Harrods”. Cosa serve ad un’azienda che parte da qui per imporsi in mercati così lontani, non solo geograficamente, ma anche culturalmente? “Noi Italiani all’estero siamo spesso visti in modo contraddittorio: gente fantasiosa, piena di idee e capace, ma, anche, non sempre affidabile, avvezza all’arte di arrangiarsi. E quindi bisogna essere bravi, decisamente, e per esserlo ci vuole molto lavoro così che la provata esperienza faccia rima con autorevolezza. La Francia, per esempio, ama moltissimo i nostri prodotti ed è da questo paese, patria di eccellenze, che abbiamo ricevuto molte soddisfazioni in quanto riconosce ed apprezza la qualità. Papà ha reso la sua passione una vera e propria arte che trasforma i formaggi, donando loro un’anima. Emozioni che fanno letteralmente “innamorare” dei nostri prodotti”.

Come noi consumatori locali, del resto. Quali novità all’orizzonte? “L’ultimo nato lo presenteremo alla prossima edizione di Cheese ed un formaggio segreto che, come accadde con il Blu61®, ci ha letteralmente fatto innamorare! Mentre qualche mese fa, in co-branding con l’azienda vinicola Lorendan Gasparini di Venegazzù, è nato “Capo di Stato”, un formaggio affinato con le vinacce dei 100 vitigni a dimora nel territorio del Montello, un’edizione limitata appunto a 100 forme”.

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INGIROPIEDANDO di Eloisa Gobbi

FILIERA ITTICA ITALIANA

COOPERARE PER CRESCERE SUI MERCATI Intervista a Paolo Tiozzo, presidente Federcoopesca-Confcooperative

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on 8.300 chilometri di costa, l’Italia ha, per sua vocazione territoriale, per cultura e tradizione, un legame forte con le economie legate alla pesca professionale. Con i suoi oltre 12 mila pescherecci e i circa 150 mila occupati, tra personale di bordo e di terra, l’Italia è il primo paese europeo del bacino Mediterraneo per produzione. Un mestiere antico quello del pescatore, fatto di tradizioni ma con un sguardo rivolto al futuro, perché l’offerta si fa sempre più globalizzata e le regole del gioco sono internazionali, fissate dall’Unione europea. Ma cosa vuol dire fare oggi il pescatore professionale? Lo abbiamo chiesto a Paolo Tizzo, imprenditore veneto del settore e presidente Federcoopesca-Confcooperative, associazione di categoria che svolge attività di rappresentanza e tutela delle cooperative di pesca e dei loro soci. “Fare il pescatore, l’imprenditore ittico, significa accettare una sfida, guardare oltre le difficoltà, e ce ne sono molte, allargare gli orizzonti, saper cogliere le opportunità offerte dall’economia del mare. Il settore della filiera ittica è il secondo settore della blu economy per numerosità imprenditoriale e conta più di 33mila imprese, pari al 18,2% del totale delle imprese dell’economia del mare. Il contributo al valore aggiunto nazionale, prodotto nel complesso dalle filiere riconducibili all’economia del mare, ha raggiunto il valore di 45 miliardi di euro (in termini nominali) con un’incidenza sul totale del 3%: quasi il doppio di quanto prodotto dal comparto del tessile, abbigliamento e pelli o più del doppio delle telecomunicazioni e il triplo di quello del legno, carta ed editoria. Un potenziale che dobbiamo saper sfruttare, un treno che il settore ittico non può perdere”. Quali sono gli ostacoli da superare? “Sono le criticità strutturali, il nostro “tallone di Achille”: imprese sottocapitalizzate; difficoltà di accesso al credito, ruolo marginale dei produttori nelle dinamiche di mercato; una politica comunitaria che spesso mortifica le peculiarità della pesca mediterranea

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e indirizza le politiche di gestione solo in un’ottica di contenimento dello sforzo di pesca”. Come si inserisce l’impegno della Federazione? Qual è il modello di pesca che volete sviluppare? “L’obiettivo è ambiPaolo Tiozzo, presidente zioso: passare dall’eFedercoopesca-Confcooperative mergenza alla progettualità; dalla fuoriuscita di imprese e lavoratori dal settore, all’atteso ricambio generazionale. Per fare ciò occorre creare una filiera efficiente in grado generare reddito e occupazione. In questo contesto, il nostro ruolo come associazione di categoria, è di essere sempre più soggetto utile ai pescatori e alle cooperative, interpretando al meglio le loro necessità con lo sguardo rivolto al futuro ed è quello che stiamo facendo anche in uno scenario più ampio che è quello dell’Alleanza delle Cooperative Italiane Pesca. L’attività di pesca oggi è accompagnata da un sistema assai complesso di regole. È necessaria, quindi, una rappresentanza sempre più adeguata e capace a dare voce a questa delicata filiera economica. Tra i modelli di gestione che stiamo promuovendo ci sono le Organizzazioni dei Produttori (OP). Investire nel modello delle OP può voler dire confrontarsi con l’opportunità di immaginare nuovi modelli economici in grado di migliorare le prestazioni delle nostre aziende. Fare rete, attraverso le Organizzazioni dei produttori così come i Gruppi di azione locale della pesca (Flag), è la chiave per soddisfare i bisogni delle imprese, cogliere al meglio le opportunità offerte dai fondi strutturali per il settore (Feamp). È fondamentale cooperare a tutti i livelli, promuovere l’aggregazione dell’offerta, per crescere sui mercati”.


Pesca, commercio e promozione di un prodotto esclusivo del nostro mare La sede legale dell’Organizzazione è a Chioggia, dove è anche presente, nei pressi del Mercato Ittico, il Centro Spedizioni Molluschi: il prodotto è controllato, eventualmente confezionato, e successivamente smistato. Tutto il prodotto che giunge a terra viene qui veicolato e da qui spedito presso i principali mercati italiani ed esteri

Una rete di imprese: associati tutti i pescatori veneti e friulani specializzati nella pesca del “fasolaro” L’esclusiva di un prodotto nostrano: la flotta è composta da un numero consistente di pescherecci attivi nei principali porti dell’Alto Adriatico: Grado, Marano Lagunare, Caorle, Cavallino-Treporti e Chioggia

Una pesca amica dell’ambiente: il prelievo avviene esclusivamente in relazione alla quantità di prodotto richiesta dal mercato Freschezza Sempre garantita: L’organizzazione e la filiera garantiscono tempestività nello smistamento del prodotto pescato e un prezzo di vendita stabile

Tra le attività istituzionali di O.P., oltre all’organizzazione dei mercati e all’ottimizzazione dei sistemi di produzione delle attività di pesca, c’è la promozione del prodotto e il suo corretto consumo in cucina O.P. I Fasolari ha uffici a Marano Lagunare (UD), Caorle (VE) ma la sede legale è a Chioggia in Via Maestri del Lavoro, 50 - tel. 041 403317 - fax 041 404185 - info@fasolari.it - www.fasolari.it O.P. I Fasolari è un’Organizzazione di Produttori riconosciuta ai sensi della normativa comunitaria, Reg. CE 104/2000, da parte del Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali con proprio decreto del 27 marzo 2003


IL PANORAMA GASTRONOMICO di Mario Stramazzo

PESCI D’ACQUA DOLCE

UNA LECCORNIA DATA IN PASTO ALL’INQUINAMENTO Per secoli la fauna ittica dei nostri corsi d’acqua ha sfamato la popolazione: tinche, carpe, lucci sono sempre stati considerati prede ambite dai pescatori e dai cuochi. Oggi questa ricchezza è andata perduta a causa dello stato dei nostri fiumi

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di questi giorni la notizia che nell’anno in cui Mantova, insieme a Bergamo, Brescia e Cremona, è Capitale Europea dell’Enogastronomia 2017, la città dei Gonzaga ospiterà fino ad ottobre anche una rassegna, organizzata da Slow Food, che cade a fagiolo anche come tema per le righe che avevamo pensato di farvi leggere per questo numero di Con i Piedi per Terra: il pesce d’acqua dolce. Una risorsa delle zone rurali ormai dimenticata che un tempo invece costituiva uno degli elementi più a buon mercato che il territorio e i suoi corsi d’acqua metteva a disposizione per integrare la non sempre munifica dieta delle genti contadine e di quella parte di popolazione che non apparteneva alle caste dei ricchi notabili, dei grandi proprietari terrieri o di nobili blasonati. Al tempo andava così! Perché allora non avevano ancora scoperto la facile speculazione proposta da quel modello di sviluppo, ancora attuale, che ha preferito usare le acque interne per scopi che hanno provocato più di un tipo di inquinamento: industriale, con sversamento nei fiumi di metalli pe-

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santi e idrocarburi quali scarti delle diverse lavorazioni manifatturiere; civile, con depuratori che spesso non ci sono o se ci sono funzionano a scartamento ridotto; agricolo, con relativa contaminazione delle acque dovuta all’eccesso di concimi, pesticidi, o rifiuti di allevamenti di bestiame. Senza poi metter in conto lo spreco dell’acqua che, come dicono in casa Slow Food, crea un vero e proprio “buco nell’acqua” e dove c’è poca acqua... ci sono pochi pesci. Al tempo, dicevamo, invece i pesci venivano pescati, per essere cucinati, proprio in quei corsi d’acqua che ormai sono talmente poco salubri e sicuri che per i pesci

Per ottenere un’orata del peso di un chilogrammo bisogna nutrirla con almeno 5 Kg di piccoli pesci o, rinunciando drasticamente alla qualità organolettica, alimentandola con mangimi e integratori


IL PANORAMA GASTRONOMICO di mare, è stato fin troppo facile vincere la battaglia contro i loro dolci cugini. Lucci, carpe, tinche, cavedani, barbi, pesce gatto, alborelle, scardole, persico, persico sole, persico reale, storione, vairone, foraguade, saltarelli, anguille e, non ultime, le rane. Che proprio pesci non sono ma erano sempre pronte sul fosso fuori casa per diventare, in stagione, la base per un succulento risotto o una frittura dell’ultimo momento per ospiti arrivati all’improvviso. Insomma una grande disponibilità da quelle acque di pianura che scendendo limpide dalle montagne si dividevano con abbondanza in mille corsi creando un reticolo di canali e fossi che hanno assicurato oltre che l’irrigazione dei campi anche cibo davvero prezioso e buono. Tanto che furono più di una le ricette “inventate” dalle casalinghe e dai maestri di cucina come lo fu il Bartolomeo Scappi, cuoco segreto di Papa Pio V, che nel suo libro terzo, suggeriva l’uso in cucina del pesce d’acqua dolce anche per ribadirne il valore come simbolo di ottimo cibo anche per i periodi quaresimali e quindi non grasso ma comunque capace di soddisfare palato e appetito. Oggi troppo spesso distratti dai gusti del pesce di mare che in realtà, per colpa degli allevamenti intensivi cui è sottoposto questo tipo di alimento, di sapore sapido del mare ha conservato ben poco, soprattutto se messo a confronto con i cosiddetti “pesci di cat-

Bartolomeo Scappi, cuoco segreto di Papa Pio V, nel suo libro terzo, suggeriva l’uso in cucina del pesce d’acqua dolce anche per ribadirne il valore come simbolo di ottimo cibo anche per i periodi quaresimali e quindi non grasso ma comunque capace di soddisfare palato e appetito

tura”, sempre meno numerosi per il grigio impoverimento che, oltre a fiumi e corsi d’acqua di terra, ha coinvolto anche i nostri mari arrivando finanche agli oceani. Sottoposti, anch’essi, ad un stressante sfruttamento dovuto alla frenetica voracità del mondo moderno che cozza, di contro con quelle sacche di

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IL PANORAMA GASTRONOMICO Il pesce di acqua dolce potrebbe tornare ad essere protagonista della nostra tavola se solo si riflettesse sulla sua grande importanza rispetto al ricorso spropositato verso il pesce di mare, sempre meno pescato e sempre più allevato mondo povero dove invece il pesce d’acqua dolce è ancora cibo. Buono e che potrebbe tornare ad essere protagonista solo se si riflettesse sulla sua grande importanza rispetto al ricorso spropositato verso il pesce di mare, sempre meno pescato e sempre più allevato. Basterebbe infatti riflettere sul fatto che per ottenere un’orata del peso di un chilogrammo bisogna nutrirla con almeno 5 Kg di piccoli pesci o, rinunciando drasticamente alla qualità organolettica, alimentandola con mangimi e integratori la cui origine non è sempre così trasparente o tracciata come quella ben nota a chi un tempo andava a pescare in riva a corsi d’acqua dolce, magari a qualche passo da casa o poco più distante se si doveva raggiunger un qualche fiume. Ritenuto dai pescatori d’acqua dolce come una sorta di oceano, ricco di varietà e speci, dove stagione dopo stagione si alternavano per essere catturati i pesci attraverso le più tecniche più varie, curiose e molto spesso figlie di quell’ingegno contadino che ha saputo disegnare per lunghi secoli anche il nostro habitat rurale e i nostri paesaggi fino alle pendici dei monti. Dove, nei freddi torrenti, si pescava la trota e la trota salmonata, vera leccornia ancora ben presente sulle tavole dei molti ristoranti e recentemente riproposta da locali stellati che, alla moda di Bartolomeo Scappi, la ripropongono pure in carpione. Metodo ormai ancestrale per gustare e soprattuto conservare quel pesce d’acqua dolce che spesso veniva pescato pure in quantità definite miracolose da limpidi corsi d’acqua che sapevano essere davvero generosi con chi sapeva rispettarli. Offrendo un pesce buonissimo, a chilometro zero e a costo bassissimo.

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PESCI GATTO IN UMIDO

Difficoltà: media

INGREDIENTI • 8 pesci gatto grandi • olio extra vergine d’oliva • 4 spicchi d’aglio • 1 mazzetto di prezzemolo • 3 limoni • vino Colli Euganei D.O.C. Merlot • 4 foglie d’alloro • farina • sale

Preparazione: 20 minuti

Cottura: 45 minuti

PREPARAZIONE Tritare l’aglio ed il prezzemolo e soffriggere in olio fino alla doratura dell’aglio. Aggiungere i pesci gatto e l’alloro e coprire con il vino. Far bollire per circa cinque minuti, aggiungere il succo di tre limoni. Lasciare raffreddare e consumare il giorno dopo.


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VONGOLE DI MARE, VERACI E FASOLARI

dal mare alla tavola Una tradizione antica come il mare, tanta passione e rispetto per il prodotto pescato, queste sono le armi vincenti della cooperativa Sciabica di Chioggia, formata da una decina di soci, 4 imbarcazioni e attiva da più di due lustri nella pesca di fasolari e vongole di mare e nell’allevamento di quelle veraci in laguna. Qualità è la parola d’ordine, in quanto la pesca avviene in acque di categoria A (acque aperte), e dunque non necessitano di depurazione, la cernita e il lavaggio vengono fatti rigorosamente a mano evitando stress ai bivalve, sempre a mano anche il confezionamento in sacchetti di 15 kg prima del conferimento al Centro di spedizione molluschi per la distribuzione.

fasolari Vera eccellenza del nostro Adriatico, vive solo qui da Chioggia al Golfo di Trieste dove le correnti marine provenienti dall’Istria creano grandi banchi di sabbia, habitat esclusivi di questo bivalve dal lento accrescimento: ci impiega 6-7 anni per raggiungere i cinque centimetri di pezzatura per il consumo. Ma è una prelibatezza, il consumo ideale sarebbe crudo dopo l’apertura a vivo delle valve e l’asportazione della piccola appendice calcarea del mitile, la sicurezza del consumo è data dal fatto che viene pescato al largo, dalle 8 alle 12 miglia dalla costa, in mare aperto e pulito a 16-22 metri di profondità.

vongola di mare (Venus gallina)

LUCIO PERINI E ROBERTO PREDEN, PESCATORI OGGI “Essere pescatori oggi - spiegano Lucio Perini e Roberto Preden, figli di generazioni di pescatori - significa rispettare il mare e i suoi prodotti. Dopo anni in cui il prelievo è stato fatto smodatamente, oggi il nostro lavoro deve essere portato avanti con il rigore dell’etica. Da una parte sono le leggi stesse ad imporre il fermo pesca di almeno due mesi, ma dall’altro è la cultura che anima la nostra cooperativa a puntare sulla gestione della risorsa mare. La pesca, in buona sostanza, deve essere sostenibile, i cicli di accrescimento delle specie deve essere rispettato con la turnazione delle zone di pesca e anche con le quantità di prelievo. Oggi noi possiamo pescare un massimo di 3,5 quintali di fasolari al giorno, con un prelievo che può avvenire su 3-5 giorni la settimana, e 24 quintali di vongole di mare la settimana, tuttavia non ci avviciniamo mai a queste quantità, lavoriamo sulla richiesta, in modo che il pescato appena tolto dal mare sia già venduto, garantendo in questo modo il rispetto degli stock e la freschezza del prodotto”.

Anche lei regina delle preparazioni culinarie chioggiotte è una vera prelibatezza, da non confondere con la vongola filippina (o caparozzolo) che vive nei bassi fondali della laguna, viene pescata in mare aperto, in acque di classe A. C’è una particolarità: quelle pescate da Chioggia verso il Tagliamento sono più salate rispetto a quelle che crescono verso le foci dell’Adige, il perché è un mistero ma l’aneddoto potrebbe essere stuzzicante per i palati più sensibili

vongola filippina (Vongola verace) L’allevamento è stato abbracciato solo da qualche anno e si concentra nelle lagune di Porto Levante con la coltura delle vongole veraci.

Dal 14 al 23 luglio

vieni a trovarci all’80° edizione della

Sagra del Pesce

il nostro stand è sul Corso del Popolo, davanti al Municipio Siamo i vincitori della scorsa edizione


PRO LOCO CHIOGGIA

Due appuntamenti imperdibili dellʼestate clodiense DAL 16 A 18 GIUGNO XXVII Edizione del Palio della Marciliana

Ogni anno la terza domenica di giugno si disputa il Palio della Marciliana, ossia una pagina vera della storia locale con il quale viene fatta rivivere l’entrata trionfale in città del doge Contarini alla conclusione della Guerra di Chioggia, il 24 giugno 1380, nella quale la città si distinse per coraggio e resistenza contro l’invasione della Repubblica di Genova. La rivalità tra Venezia e la città dei Doria, per la supremazia sul mare infatti, accese un conflitto che vide convolta soprattutto la piccola cittadina di Chioggia. La flotta genovese si presentò davanti alle coste il 6 agosto 1379 e, aiutata dalle milizie del signore di Padova, si impadronì di Chioggia Minore (Sottomarina)

e pose l’assedio a Chioggia Maggiore, difesa dal podestà Pietro Emo e da 3000 uomini. Pur sapendo di non poter ricevere aiuti da Venezia, la guarnigione resistette per undici giorni contro gli assedianti otto volte superiori e cedette solo il 16 agosto. Ci impiegò un anno Venezia per riprendersi il suo territorio, l’assalto finale venne sferrato il 23 giugno 1380 da Carlo Zeno, facendo prigionieri 4.200 genovesi, 300 padovani e 19 galee. Per celebrare la vittoria il doge Contarini entrò trionfante nella città liberata insieme al principale artefice dell’impresa, l’ammiraglio Vettor Pisani. Ed è da 27 anni che nel terzo week end di giugno un pezzetto

di quel mondo torna in piazza grazie alla presenza di oltre 600 figuranti: artigiani, mercanti, nobili, osti, musici, danzatrici, fornai, armati e contadini occupati nelle loro faccende quotidiane, come se il tempo da allora non fosse trascorso. Anche quest’anno i momenti clou della rievocazione saranno la benedizione dei balestrieri e il giuramento dei Capitani di contrada, la tenzone dei Balestrieri, trasmessa in diretta da Rai 3, al quale seguirà il maestoso e coinvolgente corteo. Musiche medievali, spettacoli teatrali, cantastorie e giullari, allieteranno la tre giorni che si concluderà con l'incendio alla Torre di Sant'Andrea e con le feste nelle Contrade.

PROGRAMMA VENERDÌ 16 ore 21.30 Benedizione delle Contrade e dei balestrieri ai Santi Protettori, Oratorio della SS Trinità o “dei Rossi” Corteo Storico, Ballo della “Rosina”, Circateatro e Giuramento dei capitani di contrada SABATO 17 dalle 10.00 alle 12.30 e dalle 17.00 alle 23.30 Vita medioevale in città dalle 21.30 Il ballo dell’Anello e Incursione genovese DOMENICA 18 dalle 10.00 alle 13.00 e dalle 17.00 alle 23.30 Vita medioevale in città Palio delle balestre grandi tra Contrade, entra il Doge nella Città di Clugia e Corteo storico e assegnazione del Palio Alle 23.00 Incendio della torre di Sant’Andrea

PRO LOCO CHIOGGIA Via Felice Cavallotti, 410 (già Calle palazzo) - Chioggia


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Il 16 giugno andrà in scena la ventisettesima edizione del Palio della Marciliana e dal 14 fino al 23 luglio si terrà l’ottantesima edizione della Sagra del pesce Con l’arrivo dell’estate Chioggia ogni anno torna ad essere uno dei centri del turismo balneare veneto, grazie a chilometri di spiagge e ad un’offerta turistica che ai lettini e agli ombrelloni sa coniugare la bellezza, la cultura e il folklore di una città millenaria. Sono moltissimi, infatti, gli appuntamenti per lo svago e l’intrattenimento, frutto dell’impegno della locale Pro Loco che lavorando in stretta sinergia con gli enti e le altre associazioni cittadine ogni anno presenta una programmazione attenta e finalizzata a qualificare sempre più la città di Chioggia nella sua vocazione di cittadina dell’accoglienza. Una rassegna che come sempre mette in primo piano la storia locale, l’arte, la tradizione marinara, quella ittica e le tante eccellenze del territorio e che ogni anno coinvolge centinaia di migliaia di persone soprattutto grazie alle sue manifestazioni più memorabili quali il Palio della Marciliana e la Sagra del pesce.

DAL 14 AL 23 LUGLIO 80° Edizione della Sagra del Pesce - Corso del Popolo

La Sagra del Pesce di Chioggia è una delle cento meraviglie d’Italia e una delle manifestazioni più attese in Veneto, tanto che negli ultimi anni ha raggiunto le 100 mila presenze. Questa festa popolare, che trasforma l’intero centro storico in un unico ristorante all’aperto, affonda le sue origini alla fine degli anni Trenta del secolo scorso. La prima edizione, infatti, fu inaugurata il 20 agosto 1938, come progetto nazionale per l’incentivazione del consumo di pesce, visto che l’Italia del tempo praticamente non portava a tavola i prodotti del mare. La stessa manifestazione servì anche come momento di formazione dei pescatori e degli operatori dell’indotto e in pochissimo tempo divenne una delle manifestazioni più rappresentative del-

la città di Chioggia. In piazza, o meglio sul Corso del Popolo, dove ancora si tiene la manifestazione, vengono portati i mestieri caratteristici, i costumi popolari, le esposizioni del pescato, le reti, segno del mestiere antichissimo del pescatore e del suo instancabile rapporto con il mare, si dividono la scena con le immancabili friggitorie che d’altro canto testimoniano l’altrettanto secolare tradizione nel preparare i pesci da portare in tavola. Da ottant’anni questa è la sagra del pesce: per dieci sere, nella splendida cornice del centro storico di Chioggia, si potranno degustare i piatti tipici della cucina chioggiotta negli stand allestiti dalle associazioni locali grazie a ricette tradizionali come il “saor”, il fritto misto con polenta, le “bi-

barasse in cassopipa”, le seppie in umido con polenta, le immancabili grigliate di pesce e gli altri piatti in menù dove ai prodotti ittici si coniugano i prodotti orticoli più caratteristici come il radicchio di Chioggia; la cipolla bianca; il carciofo violetto di Chioggia, le carote e i prodotti della panificazione come “bossolà”; “papini”; “sbreghe” e “bissiole”. Durante i dieci giorni della Sagra si terranno anche vari spettacoli di intrattenimento popolare che renderanno ancora più folcloristica la manifestazione. E per chi ai tavoli disposti lungo il Corso del popolo preferisse quelli dei ristoranti, l’offerta sarà sempre all’insegna della valorizzazione del buon pesce fresco locale a prezzi contenuti.

PROGRAMMA TUTTE LE SERE DAL 14 AL 23 LUGLIO gli stand gastronomici offriranno il meglio delle eccellenze ittiche con i prodotti orticoli locali mentre dalle 21.30 sui due palchi cittadini di Piazza Vigo e Porta Garibaldi si alterneranno musica, teatro e cabaret

info@prolocochioggia.org - www.prolocochioggia.org


INGIROPIEDANDO di Mauro Gambin

CENA EVENTO CON CARDIOCHEF, il cibo come non l’avete mai conosciuto Il 9 giugno all’agriturismo Tenuta Civrana un cardiologo e uno chef insieme per una cena di informazioni sulla stretta correlazione tra cibo e malattie cardiovascolari. Il Radicchio di Chioggia e gli altri prodotti del territorio saranno i protagonisti del menù Davide Terranova è medico specialista in cardiologia, fondatore e past president dell’Associazione regionale cardiologi ambulatoriali del Veneto

“N

oi siamo quello che mangiamo”. Ludwig Feuerbach, il filosofo tedesco e critico del pensiero religioso che fu ispiratore anche di Engels e Marx, lo aveva già capito quasi due secoli fa. Certo il suo obiettivo era etico-politico, lui pensava alla fame con cui i poveri del suo tempo erano costretti a vivere, sostenedo che questa era la causa non solo dell’abbattimento del vigore fisico, ma anche di quello spirituale e morale dell’uomo, “in quanto lo privava della sua umanità, della sua intelligenza e della conoscenza”. Ma lo stesse conclusioni sono valide ancora oggi, se pensiamo alle malattie causate da una cattiva alimentazione. In Italia 140.000 persone in un anno, 270 al giorno, 11 ogni ora, sono colpite da infarto cardiaco. Le malattie cardiovascolari, infarto e ictus cerebrale, sono in assoluto la prima causa di mortalità nel nostro paese e dipendono in larga parte da ciò che mangiamo. Ovviamente in eccesso. Insomma un’alimentazione sbagliata causa più o meno gli stesse conseguenze della fame: la morte. In questo caso non è più neccessario continuare a seguire il ragionamento di Feuerbach, ma è più opportuno tirare in ballo il cardiologo Davide Terranova e lo chef Franco Ruggero che unendo le

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Franco Ruggero è uno chef con molta esperienza alle spalle ed esperto per la scelta degli alimenti

proprie competenze si sono fatti venire una brillante idea, ossia CardioChef. Tecnicamente si tratterebbe di un convegno, solo che potendo assaggiare, con i denti, la materia trattata, è più opportuno definirla una cena, un evento insomma aperto a tutti dove i piatti proposti dallo chef contengono le indicazioni salutistiche del cardiologo e i prodotti del territorio, ovviamente nelle combinazioni pro-cuore. Quindi la pasta è solo quella ottenuta da cereali di qualità, l’olio non quello da tre euro perché forse non è neanche olio, e spazio a verdure, carne e pesce secondo quei dettami già cari alla Dieta Mediterranea riconosciuta come patrimonio dell’umanità. Ma in realtà è molto di più, perché unire al cibo la conoscenza permette di ritornare a quella deduzione alla quale era arrivato Feuerbach, ossia che la qualità della nostra esistenza inizia a tavola e al duo Cardiochef sta a “cuore” solo e semplicemente illustrare gli obbiettivi che ognuno dovrebbe perseguire nella gestione della propria alimentazione al fine di pervenire le malattie. Il prossimo appuntamento si terrà il 9 giugno all’agriturismo La Civrana di Pegolotte di Cona e il menù avrà per protagonista il Radicchio di Chioggia Igp, insieme alle altre eccellenze di questa parte del territorio.


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TENUTA CIVRANA oltre lo spettacolo

della natura e ai suoi prodotti proponiamo

cultura e intrattenimento • Sabato 10 giugno - Teatro • Sabato 17 giugno - Teatro •8 /9 luglio due giorni di beach volley con il Torneo Civrana •S abato 29 luglio concerto di musica classica con l’Orchestra Tulio Serafin di Cavarzere Per maggiori informazioni segui gli appuntamenti sul nostro sito e iscriviti alla nostra pagina Facebook

Per tutta l’estate un calendario di eventi animeranno le serate all’agriturismo Con l’arrivo dei mesi caldi i motivi per fare un salto alla Tenuta Civrana di Pegolotte raddoppiano. Sì perché non stiamo parlando solo di un’azienda agricola, dove orticole e frutta di stagione vengono prodotte con metodi che garantiscono qualità e rispetto per l’ambiente e vendute freschissime sui banchi del punto vendita, ma di un luogo dove natura e relax hanno un peso decisamente rilevante. E se per tutto l’anno le ormai celebrate pietanze che escono dalle cucine dell’agriturismo o la possibilità di scampagnate, tra laghetti e torrette attrezzate per il birdwatching, giustificano da sole il motivo di una visita, con l’arrivo della stagione calda le opportunità vanno a braccetto con la voglia di star fuori di casa e di divertimento grazie ad un calendario di eventi pensato appositamente per aggiungere cultura e intrattenimento allo spettacolo della natura.

Pegolotte di Cona (VE), Via della Stazione 10 - Tel. 333 6662584 • Agriturismo 347 2220023 info@tenutacivrana.it • www.tenutacivrana.it • Seguici su Facebook


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Al Ristorante La Torre

è già stagione di funghi Norberto Gallo e Franca Borin dal 1978 basano la loro cucina sull’eccellenza del prodotto stagionale e del territorio

Sono quattro le stagioni al Ristorante La Torre di Monselice, esattamente come quelle di un anno solare, ma qui si chiamano stagione delle erbette, dei piselli, dei funghi e del tartufo. Quattro prodotti che seguono le pagine del calendario, anzi le anticipano perché questo è il luogo delle primizie e dunque al Ristorante La Torre con i primi giorni di giugno siamo già entrati nella stagione dei funghi. Porcini e finferli, abitualmente, ma non raramente anche gli ovuli, sempre freschissimi con i quali il menù trova nuovi accordi e ritrova piatti ormai diventati cavalli di battaglia come i ravioli

con porcini e patate, i porcini ai ferri, la frittatina con i finferli o il carpaccio con i porcini crudi:

Porcini e finferli e non raramente anche gli ovuli, sempre freschissimi con i quali il menù trova nuovi accordi e ritrova piatti ormai diventati cavalli di battaglia

autentiche specialità che inoltre dialogano perfettamente con le altre portate celebri della carta, come il petto d’oca affumicato, l’insalata di carciofi, la lombatina di vitello, l’ossobuco, la battuta di filetto. La varietà va a pari passo con la qualità: dall’antipasto ai dolci, rigorosamente della casa. Non vanno trascurati i vini, 120 etichette che spaziano dalle alture locali alle grandi aree del buon bere internazionale

Piazza Mazzini, 14 - 35043 Monselice (PD) • Tel. 0429 73752 www.ristorantelatorremonselice.it


LA RECENSIONE di Renato Malaman

?

PERCHÈ

Recensione

“Antico Molino”

UN

Renato Malaman, noto enogastronomo padovano, visita per la nostra rivista i ristoranti della Bassa Padovana, dell’area euganea e dei territori limitrofi più ricchi di tradizione, per raccontare storie, personaggi e piatti che nel tempo li hanno resi celebri. Esprimendo anche una sua valutazione sulla qualità attuale della proposta

DI SAPORI AUTENTICI Il ristorante di Pernumia sorge su un opificio del 1565 ristrutturato con gusto nel 1998 dall’attuale titolare Andrea Bergamasco. Carni e verdure le specialità

I

l molino è autentico e fino a una trentina di anni fa, sfruttando l’energia pulita dell’acqua, macinava grano e mais per trasformarli in farina e altri prodotti per l’agricoltura, l’allevamento e l’alimentazione umana. Oggi il molino è un ristorante, l’Antico Molino appunto. Lo è diventato per effetto di un sogno: quello di Andrea Bergamasco. Quand’era ragazzo Bergamasco, che è della vicina Due Carrare, passava in bici da Pernumia e si coccolava con lo sguardo quel complesso già pensando al progetto di riconversione. Dal 1998 al 1999 il sogno è diventato realtà. E così alla confluenza di due corsi d’acqua è sorto questo ristorante rustico e raffinato al tempo stesso, circondato da un ambiente naturale davvero suggestivo. A decretare il successo del progetto sono stati due elementi tuttora apprezzabili: la scelta azzeccata di puntare sulla carne (preparata in tutte le maniere, dalla griglia ai crudi) e sulle verdure fresche della zona, oltre al fatto di aver mantenuto al governo dei fornelli sempre lo stesso cuoco: Michele Rosolin. Piatti come “Il carpaccio di Fassona presentato come una pizza” o “il duo” (battuta di Fassona al coltello con burrata e nocciole, più la classica tartare con verdure croccante) sono in menu tutto l’anno, sebbene la carta cambi ogni due mesi. La nostra impressione è che la cucina di Rosolin abbia l’obiettivo di valorizzare la materia prima e di dare una sensazione

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Tanto territorio nel piatto e uno chef “fedele” da 17 anni


LA RECENSIONE Cantina ricca con numerose proposte anche internazionali

di freschezza e di leggerezza, oltreché trasmettere piacevoli sensazioni di gusto. In fondo è la stessa finalità perseguita anche con la decisa virata verso i piatti vegetariani o ricchi di verdure fresche del territorio, come asparagi, radicchi, piselli e altro. La pasta fatta in casa, sebbene Bergamasco confessi che sono i risotti la sua passione, tradisce la stessa genuinità. E più sono semplici, più sembrano buoni: vedi i Bigoli d’autore dell’Antico Molino, con datterino, porro e guanciale croccante. Gode di buona fama il risotto ai germogli di ortica e Taleggio. Lodevole la sezione dedicata ai piatti anni '60 in cui spiccano la trippa “bianca” e il fegato alla veneziana. Altro piatto che va forte è “Il magnifico vegetariano”. Piace l’accuratezza delle lavorazioni e i misurati accostamenti di sapori. In effetti la cifra stilistica del locale è la raffinatezza. I dolci sono fatti in casa. Ma soprattutto sono della zona, in questo periodo, gli asparagi (di Pernumia) e i piselli (di Baone). Oltre alle tante altre verdure che finiscono nel piatto. La carta dei vini è il “giocattolo” di Andrea Bergamasco. “In vent’anni di selezione” dice con orgoglio “ho portato a 600 le etichette della cantina”. C’è anche molto estero, e non solo Champagne, nella proposta. Peccato che non tutti i vini dichiarino le annate disponibili. Colli Euganei ben rappresentati. Al servizio in sala pensano Sara Marin e Claudia Bergamasco, figlia del patròn. Una cinquantina i coperti nei giorni normali che salgono a 200 in occasione dei banchetti. Invitante lo spazio all’aperto con la quinta dei salici chinati verso l’acqua. Alla clientela gourmet o “turistica” (anche internazionale) dei fine settimana, si affianca una clientela business legata alle numerose aziende del territorio. L’Antico Molino la cui costruzione risale al 1565 si trova alle porte di Pernumia, in via Palù Superiore, poco lontano da altre due storici molini: quelli di Il giornalista Renato Malaman Pontemanco e Rivella. con Andrea Bergamasco

La Pagella

di Con i piedi per terra

⊲ Uso delle materie prime del territorio

⊲ Piatti in menù che seguono la stagionalità ⊲ Rielaborazione dei piatti della tradizione secondo fantasia e creatività ⊲ Accoglienza ⊲ Abbinamento vini ⊲ Rapporto qualità-prezzo


OUT

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L ’angolo del buon pesce lontano dal mare

Nel celebrato ristorante di Montagnana durante i mesi caldi nel menù vengono aggiunti piatti freschi Il pesce è buono anche lontano dal mare. A patto che sia fresco e che lo si sappia preparare ed è così che l’Hostaria San Benedetto ha annullato le distanze con l’Adriatico: la materia prima arriva fresca direttamente da Chioggia e in cucina trova ogni abbinamento possibile con la stagione, perché questa è la regola del San Benedetto che pretende sempre tutto secondo l’almanacco. E così durante i mesi caldi nel menù vengono aggiunti piatti freschi, le cruditè di pesce, per esempio, la catalana con l’astice, ma anche gli gnocchi alla polpa di granchio, la pasta al basilico o il risotto con fiori di zucca e mazzancolle, l’assortimento non manca e discende sempre dall’ottimo buon gusto e dalla creatività. Non manca nemmeno il giusto compendio enologico, i bianchi con cui accompagnare i prodotti del mare arrivano da tutta Italia, perché infondo siamo un paese di santi, marinai e buongustai.

Tel. 0429 800999 - Fax 04295 38909 - info@hostariasanbenedetto.it - www. hostariasanbenedetto.it Seguici su Facebook e Twitter


DIVINO PARLAR

“La prima volta ” di Silvano Bizzaro - Sommelier s.bizzaro@alice.it

IL SERPRINO SUPER NATURALE DI VIGNE AL COLLE

“…I

n una fredda notte d’inverno il Carro Minore, il Colle e la Luna si incontrarono… e nacque così l’azienda Vigne al Colle” - il cantiniere, Martino Benato, ama raccontare con questo aneddoto la propria storia, e proprio lì, sulla sommità del promontorio di Rovolon, il contatto degli astri con la terra continua a generare novità. L’ultima si chiama La prima volta, che del resto c’è sempre, ma in questo caso, e non poteva essere diversamente, si tratta di un vino. Il Serprino, per la precisione, ossia l’immagine delle bollicine euganee, che qui si è voluto produrre nella forma più naturale possibile a cominciare dal 2015. L’ho assaggiato. Ovviamente la vendemmia 2016, che sarebbe la seconda volta, e ho potuto condividere la scelta di produrlo lasciandolo sui propri lieviti, con rifermentazione naturale in bottiglia. Una finezza a tutto vantaggio della naturalezza di questo vino secco con zero presenza di zuccheri e bassissimo contenuto di solforosa. Anche la scelta di una vendemmia leggermente anticipata è stata utile per dare una propria impronta in ter-

Una nuova versione delle bollicine euganee sur lies, zero zuccheri e bassissimo contenuto di solforosa

mini di freschezza e dunque di acidità. La pressatura dei grappoli interi è stata senza diraspatura, il successivo illimpidimento del mosto è avvenuto in pressa al quale è seguita la fermentazione di circa 10 giorni a temperatura controllata sui 16°C. Dopo la fermentazione e stabilizzazione è avvenuta la presa di spuma con aggiunta del “liquer de tirage” verso novembre e dunque una nuova fermentazione a 13-14 °C. Non ci sono state filtrazioni, e il riposo è avvenuto sui lieviti. Questo Serprino si presenta di colore giallo paglierino/verdolino; sul fondo della bottiglia si nota il deposito dei propri lieviti. Al naso spicca l’immediata aromaticità ma non eccessiva, equilibrata; i sentori di fiori bianchi e le note fruttate di mela golden con accenno a note esotiche. Si avertono anche sensazioni citrine. Al gusto è secco, ottima sapidità e mineralità (per via del territorio dei Colli Euganei vulcanico e prevalentemente calcareo). Persistenza al retrogusto. Un vino che grazie al sua bassa gradazione alcolica si sa presentare a tutti i palati e si sposa benissimo con i menù alleggeriti di questo inizio di stagione calda.

La Scheda di Con i piedi per terra ⊲ ANALISI VISIVA

Colore giallo paglierino/verdolino, con evidenza di particelle sospese per la presenza dei prodotti di rifermentazione

⊲ ANALISI OLFATTIVA

Note floreali di fiori bianchi e note aromatiche fruttate di mela golden, pera, note esotiche (dall’ananas… alla banana); sentore di nota minerale

⊲ ANALISI GUSTATIVA

Vino secco, freschezza e grande bevibilità, pulizia del palato Buona sapidità e mineralità

⊲ RETROGUSTO

Persistente

⊲ ABBINAMENTO con

Aantipasti leggeri all’italiana a base di carni bianche, primi piatti leggeri, piatti estivi, risotti alle erbette, asparagi, antipasti e primi piatti a base di pesce. Formaggi freschi a pasta mole

i piatti del territorio

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A OGNUNO IL SUO CALICE… di Emanuele Cenghiaro

SOAVE

È stagione di cantine aperte…

CHARDONNAY

ROSÈ

BONARDA

NERO D’AVOLA

MERLOT

PINOT NERO

PASSITO

PORTO

CHAMPAGNE PROSECCO

MOSCATO

DEGUSTARE MA ANCHE CONOSCERE Cinque proposte di vini veneti: una Celebrità, una Riscoperta, una Novità, una Tradizione e una Proposta per i Giovani ma in realtà adatta a tutti

S

iamo alla seconda puntata di questa rubrica dedicata a proposte di vini da provare, ogni tanto, al ristorante, a casa, ma anche direttamente in cantina. Perché questa è stagione di cantine aperte, una valida occasione per provare qualcosa di diverso, facendosi guidare dai produttori che vi spiegheranno storie e segreti di vini e vigneti. Degustare un prodotto gastronomico sapendo la storia che c’è dietro è un’esperienza diversa, e questo è ancora più vero nel caso del vino: c’è una famiglia, una storia e

un territorio, un clima e un terreno, un’uva, un metodo di coltivazione, una tradizione che è importante conoscere. Siamo certi che la stessa bottiglia, bevuta a casa o in cantina, avrà un sapore diverso. Questa volta proponiamo una Celebrità (i vini di cui avete forse sentito parlare e una volta almeno vi piacerebbe assaggiare), una Riscoperta (stavolta non un’uva bensì un metodo rivalutato), una Novità (curiosità), una Tradizione (andiamo sul sicuro!) e per finire una proposta per i Giovani (ma in realtà adatta a tutti).

LA TRADIZIONE (SACILE) VISTORTA MERLOT DOC FRIULI GRAVE, un biologico di qualità maniacale Dici Merlot, dici Bordeaux. Oppure, in Friuli, dici Vistorta. L’azienda di Sacile, i cui vigneti sconfinano nel Veneto, è di proprietà del conte Brandino Brandolini d’Adda, agronomo per passione o, forse è meglio, per vocazione. Il suo Merlot cento per cento viene da vigneti importati direttamente dalla città francese e piantati nella storica tenuta di Vistorta, coltivati con cura maniacale e, da una decina d’anni, con metodo biologico: i grappoli sono addirittura raccolti solo dopo un assaggio dell’uva filare per filare. Il risultato è un Merlot Doc Friuli Grave da provare, meglio se in magnum da

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1,5 litri. Non mancano il Cabernet e i vini “più classici” della zona, come il Refosco dal Peduncolo rosso e i bianchi, allevati a Cordignano: Friulano e Chardonnay, Pinot grigio, Traminer e Sauvignon. Ma il cuore batte a Bordeaux ed è rosso vivo: può invecchiare (maturare e affinare) per un po’, anche a lungo, ma forse è meglio non troppo. Abbinatelo a qualsiasi cosa che non sia bianca, il classico pane e soppressa va sempre bene.

Merlot 100% da vigneti importati direttamente dalla città francese e piantati nella storica tenuta di Vistorta, coltivati con metodo biologico e i grappoli vengono raccolti solo dopo un assaggio dell’uva filare per filare


A OGNUNO IL SUO CALICE… LA RISCOPERTA (TREVISO) PROSECCO COLFONDO, non un vino ma un modo di farlo alla maniera antica Colfondo? Non è una cantina, è un modo di fare il prosecco. Quello, molto comune tra i trevigiani e non solo, secondo il quale si fa fermentare il mosto sui lieviti indigeni: una fermentazione lenta che non si completa mai del tutto causa l’arrivo dell’inverno e delle basse temperature. Si imbottiglia poi il vino a primavera, per tradizione nel periodo pasquale, e si attende che il ritorno del caldo faccia ripartire una seconda fermentazione, stavolta direttamente in bottiglia: ne nasce un vino frizzante e “col fondo”, ovvero con il deposito dei propri lieviti esausti. Certo, siamo mille miglia lontani dal classico Prosecco che siamo abituati a degustare: il Col fondo era un prodotto “de casa”, che quando stappavi non sapevi mai com’era. Ma i

suoi estimatori stanno tornando a crescere, tanto che è permesso anche dai disciplinari delle Docg, e sempre più cantine lo stanno proponendo nei propri panieri, anche aziende grandi e rinomate. Noi ne citiamo tre tra quelle che ci credono di più: il Capo degli onesti della cantina Bastia di Miche Rebuli a Saccol, Bele Casel di Caerano San Marco e Casa Coste Piane di Santo Stefano di Valdobbiadene. Molti altri ce ne sono, a voi il piacere di scoprirli.

In provincia di Treviso citiamo tre cantine tra quellie ci credono di più: Bastia di Michele Rebuli di Saccol, Bele Casel di Caerano San Marco e Casa Coste Piane di Santo Stefano di Valdobbiadene

VINO PER I GIOVANI (PADOVA) QUOTA 101 GARGANEGA, Tai e Manzoni bianco: “Please, Please, Please, Let Me Get What I Want” Come la scorsa volta, per i giovani non uno ma tre: sono i vini che l’azienda Quota 101 - una new entry nei Colli Euganei essendo nata nel 2009 da una famiglia di imprenditori, i Gardina di Rovigo, ma in pochi anni già marchio di punta del territorio - ha presentato al recente Vinitaly: Garganega, Tai e Manzoni bianco. Tutti e tre in purezza, ovvero fatti al cento per cento con uve del vitigno corrispondente, tutti Colli Euganei Doc. Se andate in cantina, potrebbero essere assaggiati secondo l’ordine elencato, che è quello della gradazione alcolica: da 12,5 a13,5 a 14 %Vol. Se ne volete provare solo uno, andate diretti al Manzoni, 14 gradi, fermentato per metà in acciaio e metà in legno. L’azienda Gardina si diverte ad abbinare i vini a film e musiche: per

il Manzoni ha scelto “Please, Please, Please, Let Me Get What I Want”, grande successo dei The Smiths, e una pellicola intelligente e romantica, dove compare anche la canzone, “(500) Days of summer”, in italiano “(500) Giorni insieme”, diretta da Marc Webb. Un vino rotondo, per sognare, meglio se in due. Da provare senza indugio è anche il Tai abbinato a “Gatto nero gatto bianco” di Kusturica: quest’ultimo è un capolavoro, il vino forse non ancora, ma crescerà.

Se andate in cantina, assaggiateli secondo l’ordine elencato, che è quello della gradazione alcolica: da 12,5 a 13,5 a 14 %Vol. Se ne volete provare solo uno, andate diretti al Manzoni 55


A OGNUNO IL SUO CALICE… LA CELEBRITÀ (VERONA) MASI - AMARONE DELLA VALPOLICELLA CLASSICO DOCG COSTASERA, difficile voler di più L’azienda della famiglia Boscaini, presente in Valpolicella dal Settecento, è una tra i più noti marchi italiani del vino e fu tra le prime a comprendere le potenzialità dell’oro nero veronese: il suo Amarone della Valpolicella Classico Docg Costasera è uno degli ambasciatori non solo dei vini veneti, ma anche di quelli italiani, nel mondo. Un prodotto che non fa mai sfigurare, pluripremiato, dall’inconfondibile etichetta in stile antico, perfetto anche da regalare (lo si trova attorno ai 35 euro). Le uve sono le consuete della Valpolicella, ovvero Corvina, Rondinella e Molinara, e l’alcol raggiunge i 15 %Vol. Difficile volere di più: ma si può, con la versione Riserva, 15,5 %Vol, che riposa tre anni in botte. C’è anche una versione con una maggior percentuale di Corvina, il Nectar Costa-

sera, e tutta una schiera di prodotti “non amarone”, ovvero non realizzati da uve passite, tra cui la linea Campofiorin. Il progetto “Masi Wine Experience” è la proposta Masi per visitare le loro numerose tenute, in alcune delle quali si può anche soggiornare, e degustare in loco i loro vini.

Il progetto “Masi Wine Experience” è la proposta Masi per visitare le loro numerose tenute, in alcune delle quali si può anche soggiornare, e degustare in loco i loro vini

LA NOVITÀ (PADOVA) “CUORE DI DONNA DARIA”, l’unico vino veneto premiato tra i primi 50 dal The Winesider Best Italian Wine Awards È uno dei più noti vini passiti italiani il Donna Daria dell’azienda La Montecchia - Conte Emo Capodilista, prodotto con uve Fior d’Arancio (Moscato giallo) selezionate nei vigneti sul monte Castello, a Baone, nei Colli Euganei. Parlare di novità per questo vino, pluripremiato da varie guide italiane, prodotto da una famiglia che fa vino dal medioevo e il cui titolare, Giordano, è il primogenito della 22esima generazione, sembra un controsenso: ma di recente ne è stata prodotta un’edizione speciale, il “Cuore di Donna Daria”. Si tratta di un vero nettare composto da dieci diverse annate del Donna Daria: un blend che promette profumi e sensazioni intense come solo i migliori passiti sanno dare. Non a caso è stato l’unico vino veneto premiato tra i

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primi 50 dal The Winesider Best Italian Wine Awards. Oltre che sul Fior d’arancio, l’azienda, che si segnala per l’attenzione all’ecosostenibilità, punta soprattutto sui vini rossi, tra cui nomi celebri come l’Ireneo (Cabernet Sauvignon) o il Rosso Colli Euganei Doc Villa Capodilista, per citarne solo alcuni.

Si tratta di un vero nettare composto da dieci diverse annate del Donna Daria: un blend che promette profumi e sensazioni intense come solo i migliori passiti sanno dare


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TERRA DI VALDOBBIADENE D.O.C.G ecco l’effervescenza di chi sa produrre bollicine tizze Superiore D.O.C.G.; Valdobbiadene extra dry Quando la natura premia il lavoro dell’uomo c’è semD.O.C.G.; Frizzante Fii Spago sono queste le etichette pre da essere soddisfatti, anche lassù sulle “rive” del che rappresentano l’effervescenza del bere veneto ai Cartizze, a Saccol nel cuore della Valdobbiadene delle cui estremi si trovano la tradizione bollicine, dove il vino è un’istitue l’innovazione, ossia il Frizzante zione tanto da essere l’immagine <<< FRIZZANTE Capo degli Onesti, il vin col fondo, liquida del paesaggio. La qualiCAPO DEGLI il prosecco pre metodo Martinottà, del resto si ottiene, quando, in ONESTI ti, con rifermentazione naturale e cantina si sa lavorare bene il frutto spontanea in bottiglia, dal gusto del vigneto e la sua stagione, e a secco ma armonico, sapido e con Bastia, questo rapporto si perpeuna buona mineralità e il Valdobtua da ben quattro generazioni, ma biadene introverso brut nature la vendemmia del 2016 ha stupito D.O.C.G. l’ultimo nato: complesso anche un cantiniere esperto come nella sua realizzazione, introveril padrone di casa, pardon di Baso appunto, tanto da essere una stia, Michele Rebuli. prova di bravura, ardito, ma anche “È stata sicuramente la miglioun simbolo di purezza nel mondo re degli ultimi cinque anni - spie>>> dell’enologia, quasi inedito pure ga - ha aggiunto valore al valore VALDOBBIADENE per un’area prestigiosa come Valin termini di profumi, freschezza, INTROVERSØ dobbiadene. Una brut con lo zero complessità e in bocca: una buoBRUT NATURE di residuo zuccherino! na struttura”. Valdobbiadene CarD.O.C.G.

“Dopo due secoli l’anima dell’azienda si è evoluta ma allo stesso tempo è rimasta intatta, rigorosamente a conduzione familiare, che mi vede impegnato a far crescere un progetto di filiera, dal vigneto alla bottiglia, a coltivare la mia terra prestando molta attenzione a come la lavoro, a ciò che uso per mantenerla sana e viva, rifiutando le varie etichettature che impone la moda ma fidandomi solo di ciò che la natura ci dona” Azienda Agricola Rebuli Michele Via Strada di Saccol, 30 - Saccol di Valdobbiadene (TV) Tel/Fax 0423 975113 - info@bastiavaldobbiadene.it - www.bastiavaldobbiadene.it Facebook: Bastia Rebuli Michele Valdobbiadene DOCG


WIGWAM COMMUNITY di Efrem Tassinato

Il Colognese Veneto TRA MANDORLATO E AGRICOLTURA SMART

Un percorso ad anello nel territorio della Wigwam Local Community del Colognese Veneto collocato tra basso veronese e padovano a lambire la terra berica, consentirà di scoprire prelibatezze come il mandorlato e i succhi di frutta bio, in una cornice di pianura coltivata, tutt’altro che piatta, quanto ad ambienti e testimonianze di storia e di architettura

P

unto di partenza e ritorno certamente Cologna Veneta con punti riferimento Bevilacqua e Pojana Maggiore, intercettando però borghi medievali come Montagnana e Monasteri come quello di San Salvaro. L’itinerario si sviluppa per circa 40 km per un tempo di percorrenza in auto ci circa un’ora. In bici, ovviamente ci si impiega di più (3-4 ore) ma l’itinerario potrà svilupparsi per tratti di capezzagne arginali ricche di scorci di natura e coltivi paesaggisticamente sicuramente più interessanti. Al Wigwam Circolo di Campagna Corte Moranda, si può lasciare l’auto e/o trovare alloggio impostando sul vostro navigatore GPS le coordinate dell’Azienda Agricola Ambroso di Bevilacqua con coltivazioni col metodo Organic-Forest e di Aromy di Pojana Maggiore con produzioni bio di tisane di verdure. Punti anche di acquisto di ottimi prodotti e di assistenza. In breve eccovi qualche news su ciò che potrete scoprire lungo questo itinerario: Cologna Veneta coi resti del Castello Scaligero, edificato nell'XI secolo di cui, degli otto torrioni che componevano la rocca, oggi

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ne rimane solamente uno, visibile vicino al campanile in via A. Papesso. Una visita merita il Museo Civico Archeologico che ospita materiali preistorici dal Neolitico sino all'età del bronzo finale; reperti dell'età del ferro; oggetti di età romana e longobarda. Già che ci si è, una visita con degustazione ad uno dei numerosi laboratori di mandorlato artigianale, merita davvero (il Circolo Wigwam le organizza).

Castello Bevilacqua


WIGWAM COMMUNITY A Bevilacqua, certamente da visitare l’omonimo castello la cui edificazione ebbe inizio già nel XIV secolo e con svariati successivi rimaneggiamenti, i più notevoli dei quali ad opera dell'architetto Michele Sanmicheli, nel 1532, che trasformò il maniero in una dimora nobiliare. Gli interni hanno mantenuto gli arredi che le varie epoche vi hanno stratificato: la cucina antica con focolare e forno da pane del XVI sec, la sala delle armature, la sala scriptorium dell’amanuense, la cantina, le varie sale tra cui spicca il salone rosa con decorazioni risalenti al 1756 e pavimenti in terrazzo alla veneziana.

Il Museo Civico Archeologico di Cologna Veneta ospita materiali preistorici dal Neolitico sino all'età del bronzo finale, reperti dell'età del ferro, oggetti di età romana e longobarda A San Salvaro di Urbana, l’omonimo monastero, dal 1181 al 1407 fu retto dai canonici portuensi di Porto di Ravenna, appartenenti all’ordine degli Agostiniani. Ospita il Museo delle Antiche Vie, ovvero costituisce un centro di documentazione storica che ripercorre l’evoluzione del territorio della Bassa Padovana, la nascita degli antichi tracciati stradali della zona e la vita di strada di un tempo. Vi si trovano le antiche planimetrie dei territori centuriati del Veneto centrale. A Pojana Maggiore, il castello fu costruito intorno all'anno 1000 per conto dell'allora feudatario, il vescovo di Vicenza che lo fece presidiare dalle proprie milizie. La costruzione era di forma quadrata, con 4 torri

Cristo Pantocratore, abside della chiesa di San Salvaro

agli angoli, del tutto simili a quelle ancora esistenti a Montagnana. Fu più volte oggetto di assalti, tra i più sanguinosi quello di Ezzelino che nel 1240 sterminò l’intera famiglia Pelli, soldati e popolani che lo difesero e distrusse castello e borgo. Oggi se ne possono intravvedere i resti inglobati in un complesso di caseggiati agricoli nei pressi della Chiesa di Santa Maria Nascente, sulla strada che conduce a Montagnana.

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TEMPO AL TEMPO, DI STAGIONE IN STAGIONE

Per i Colli Euganei i vini bianchi sono stati una scoperta recente... ma che scoperta! Dalle uve bianche oggi produciamo i vini immagine di questa terra: il Fior d’Arancio, nelle versioni secco, spumante e passito, il frizzante Serprino e vinifichiamo in bianco anche il Raboso Friularo, per ottenere un rosé indicatissimo da accompagnare ai piatti estivi...

“ Il nostro motto è gestire bene il vino

quando ancora si trova nel vigneto”

Solo 20 anni fa sui crinali e le valli degli Euganei si producevano quasi esclusivamente vini da uve rosse, anche la nostra era una cantina impostata su queste varietà, ma poi nel ‘95 c’è stata la prima svolta con il Serprino, poi è arrivato lo chardonnay e con l’arrivo della DocG, 7 anni fa, siamo stati stimolati ad investire anche sul Fior D’Arancio. Ma non è finita, infatti pur mantenendo fede alla tradizione, che ci vede preminenti sui rossi, la prossima sfida sarà ancora un vigneto di uve bianche per sfruttare al massimo la sapidità dei nostri terreni calcarei e la mineralità apportata dalle lave vulcaniche, quando 35 milioni di anni fa sono emersi i Colli Euganei La Mincana - Via Mincana, 52 - 35020 Due Carrare (PD) - Tel. 049 525559 - Fax 049 525499 www.lamincana.it - info@lamincana.it


AMICI CON LE ALI di Aldo Tonelli

Case, nursery, ripari:

IL CAMPIONARIO DEI GRANDI ARCHITETTI DELLA NATURA Esistono un’infinità di modi di costruire il nido: dalle semplici costruzioni tra i rami a vere e proprie camere termiche per l’incubazione delle uova

G

li uccelli si dimostrano straordinari architetti e muratori durante il periodo riproduttivo quando costruiscono ex novo o riparano i vecchi nidi dove coveranno le uova al riparo sia dalle avversità atmosferiche che dai predatori. Costruiti generalmente in primavera, in luoghi ben nascosti e difficilmente raggiungibili, la scelta dell’ubicazione, della forma e dei materiali da utilizzare per la costruzione varieranno a seconda della specie. Alcuni li costruiscono negli anfratti, nelle cavità degli alberi o in buchi scavati nelle pareti sabbiose; altri invece prediligono

Gufo comune giovane in nido di corvide

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fare i nidi a terra, fra gli steli d’erba, oppure fissandoli ai rami di alberi o cespugli a varie altezze. La materia prima con cui sono costruiti deve essere di facile reperibilità nell’ambiente; vengono utilizzati paglia, fili d’erba, rametti, muschio, fango, piume e spesso anche materiali provenienti direttamente dalla nostra “società” come pezzetti di carta e plastica. La protezione delle uova dal freddo è una delle principali funzioni a cui è destinato il nido, normalmente realizzata attraverso la cova delle uova da parte dei genitori; alcuni uccelli però fanno eccezione a questa regola e il nido funge così da camera incubatrice. Per esempio i maschi di alcuni uccelli australiani (megapodi), utilizzando le robuste zampe, accumulano ammassi di terra mista a vegetali all’interno dei quali la femmina depone le uova. La temperatura di incubazione delle uova deve essere attorno ai trenta gradi ed è ottenuta dal calore prodotto dal processi decompositivi dei vegetali umidi con cui il nido è fatto;

La protezione delle uova dal freddo è una delle principali funzioni a cui è destinato il nido


AMICI CON LE ALI il maschio giornalmente si assicura della temperatura interna del nido immergendo il becco nel materiale in decomposizione. Quando l’ultimo uovo sarà schiuso, avrà terminato il suo compito e non offrirà più nessun aiuto ai neonati pulcini i quali dovranno riuscire da soli a liberarsi dai detriti che li sovrastano e raggiungere la superficie. Tra questi nidi-incubatrice uno dei più grandi mai osservati era alto 5 metri e con un diametro di 12. Analoga funzione svolge il nido del Fagiano australiano che per 11 mesi all’anno si dedica alla costruzione e alla sorveglianza della sua camera incubatrice. Ogni giorno questo uccello per mantenere costante la temperatura delle uova modifica, durante l’arco della giornata, lo spessore della sabbia che le ricopre, ammassandola o diradandola in base alle variazioni di temperatura. Dopo questa impegnativa impresa, nato l’ultimo pulcino, il dodicesimo mese finalmente può andare brevemente in “vacanza” per prepararsi alla nuova stagione riproduttiva.

Il Fagiano australiano per 11 mesi all’anno si dedica alla costruzione e alla sorveglianza della sua camera incubatrice Altra forma di difesa a cui assolve il nido è quella contro i predatori e per questo è costruito in modo che sia difficile individuarlo e spesso anche le uova assumono colorazioni tali da mimetizzarsi. Alcuni dotano il loro nido di un’entrata a fondo cieco la cui funzione è quella di ingannare predatori di uova e nidiacei come i serpenti. Mentre esistono specie specializzate nel costruire nidi eccezionali, ne esistono altre che proprio non fanno il nido. Per esempio i falconiformi preferiscono posare direttamente le uova al suolo in anfratti di rupi o in cavità, difficili da raggiungere per eventuali predatori, oppure utilizzano i nidi allestiti dai corvidi, cosa che fa per esempio anche il Gufo comune. Esistono poi specie dal comportamento parassita come il Cuculo, che non solo trae vantaggio dal nido costruito da altri uccelli senza doverne preparare uno tutto per sé ma affida a loro anche il proprio uovo che verrà covato da questi ignari genitori adottivi. Nel mondo il più grande uovo di un uccello vivente appartiene allo Struzzo mentre il più piccolo appartiene al Colibrì di Vervain dalle dimensioni di un pisello che cova in un nido grande come mezza noce. Non dimentichiamo l’aiuto che possiamo dare agli uccelli costruendo e posizionando nei nostri giardini dei nidi artificiali per quelle piccole specie che frequentano boschi, campagne e città. A forma di casetta o simile a un tronchetto non crea differenza per la mag-

Il Picchio rosso maggiore fa il nido in una cavità

gioranza delle specie, importante è posizionarli a una certa altezza (tra i due e i tre metri) e con l’entrata non rivolta alla tramontana. Anche il diametro del foro d’entrata è particolarmente importante poiché troppo piccolo rende impossibile l’accesso a specie di taglia più grande mentre un foro troppo ampio non offre adeguata sicurezza dai predatori. Cinciallegra, Cinciarella, Passera d’Italia, Passera mattugia, Storno e Codirosso sono tra le specie che più frequentemente occupano i nidi artificiali. Importantissimo è ricordare che i nidi, le uova e i nidiacei sono protetti dalla legge nazionale n. 157/92 e che l’articolo 635 del codice penale vieta l’uccisione e la distruzione dei nidi, considerate queste azioni reati penali.

In Italia la distruzione dei nidi, delle uova o dei nidiacei è considerato un reato sanzionato dal Codice Penale

Cavalieri d’Italia impegnati nella costruzione del nido

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