N. 28 - Luglio - Agosto 2018 - Periodico bimestrale - Poste Italiane s.p.a. - Sped. in abb. post. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, NE/PD
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Numero 28
Direttore responsabile: Mauro Gambin Editore: Speak Out srl di Giampaolo Venturato e Mauro Gambin Piazza della Repubblica, 17/D Cavarzere (VE) info@speakoutmedia.it
6 L’ELZEVIRO
In agricoltura il lavoro c’è, ma manca chi lo fa
Hanno collaborato a questo numero: Silvano Bizzaro Emanuele Cenghiaro Mattia De Poli Michele Grassi Renato Malaman Adriano Mollica Eliano Morello Loredana Pavanello Anna Maria Pellegrino Roberto Soliman Mario Stramazzo Aldo Tonelli Martina Toso
CIBO E SALUTE
Frutti antichi, figli legittimi della biodiversità
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Progetto Grafico:
LA MEMORIA DI CARTA
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Festa! Un tempo bastava una fisarmonica
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Stampa: Stampe Violato snc Bagnoli di Sopra (PD) Tel 049 9535267 www.stampeviolato.com info@stampeviolato.com Giornale chiuso in redazione il 28 agosto 2018 Tiratura: 10.000 copie Diffusione: periodico bimestrale Iscrizione al Registro degli Operatori di Comunicazione (ROC) n. 23644 del 24.06.2013 Iscrizione al tribunale di Padova n. 2329 del 15.06.2013 Iscrizione del marchio presso Ufficio Italiano Brevetti e Marchi (U.I.B.M.) n. PD 2013C00744 del 27.06.2013 Tutti i diritti sono riservati. Gli articoli possono essere riprodotti solo con l’autorizzazione dell’editore e in ogni caso citando la fonte. Gli articoli firmati impegnano esclusivamente gli autori. Dati, caratteristiche e marchi sono generalmente indicati dalle case fornitrici (rispettivi proprietari)
La copertina è a cura dei laboratori della Cooperativa Sociale Giovani e Amici di Terrassa Padovana. L’autrice è Roberta Vignato
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PANORAMA GASTRONOMICO
Street food. E noi lo chiamavamo cibo povero
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EDITORIALE
VERDE
di Mattia De Poli
COME L’ERBA,
ROSSO
COME IL SANGUE
Figura 7 - Consumo di suolo a livello comunale ISPRA su cartografia SNPA.
I colori del territorio, fra realtà e simbolo, esortano ad un impegno concreto per la sua rigenerazione
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er spiegare a uno studente di scuola che cosa si- di cemento. Figura 7 - Consumo suolo a livello comunale (% esclusi i corpi idrici - 2017). Fonte: elaborazioni ISPRA su cartografia SNPA. La stampa ha sottolineato il primato nazionale della Lomgnifica che le carte geografiche sono simboliche, basta mostrare una carta fisica accanto a una fobardia, seguita a ruota dal Veneto, ma prontamente la tografia aerea o satellitare dello stesso territorio. Nella nostra Regione ha alzato le barricate: l’assessore al Ter prima convenzionalmente le pianure sono verdi e le ritorio, Cristiano Corrazzari, ha ricordato che la legge ͻ montagne marroni. Nella foto, invece, si vede che le piaregionale sul consumo del suolo, approvata nel magnure non sono coperte interamente da prati e da boschi, gio dello scorso anno, ha stabilito l’obiettivo di azzerare i quali anzi si concentrano soprattutto nelle zone collinari la cementificazione entro il 2050 ed ha ammonito che e montuose, meno urbanizzate. Anche l’esperienza peressa, come una freccia, “deve compiere il proprio personale e la conoscenza del territorio in cui si vive mostra corso prima di centrare il bersaglio”. Forse, però, più che chiaramente che non tutte le superfici verdi di una carta di una freccia, ci sarebbe bisogno di qualche bendaggio, fisica sono nella realtà di colore verde, né sono coperte di qualche medicazione. Insomma, di un radicale cambio necessariamente da erba o alberi. La simbologia della di prospettiva, anche nella comunicazione simbolica e carta geografica è una convenzione decodificabile graimmaginifica. Una pianura coperta da colate di cemento e asfalto, zie a una legenda. Ma cosa succederebbe se i colori serpentoni di automobili, nuvole di fumi di scarico, cittradizionalmente utilizzati venissero invertiti? Come apparirebbe il territorio se il verde indicasse le montagne e tà tentacolari è tutt’altro che verde: è un corpo ferito, il marrone le pianure? che sanguina. Ma nulla è immobile. Nell’arco dell’anno Per averne un’idea, basta guardare la carta prodotta la natura è soggetta a diversi cambiamenti cromatici: il dall’Istituto superiore per la protezione e la ricerca amgiallo scuro, il rosso, il bruno sono i colori dell’autunno bientale (Ispra), che rappresenta il consumo di suolo e preludono al grigiore dell’inverno, ma, seguendo l’anin Italia nel 2017. La Pianura padana, e con essa anche damento circolare delle stagioni, ad ogni primavera le Figura 7 - Consumo di suolo a livell ISPRA su cartografia SNPA. altre pianure fluviali o costiere, appare come una vasta piante tornano a germogliare. E torna il verde. La natura lingua bruno-rossastra, con concentrazioni più scure in fa il suo corso, tuttavia i suoi poteri sono limitati di fronte corrispondenza dei comuni più importanti. Di solito sono a un ambiente fortemente antropizzato: neppure in prii capoluoghi di provincia, ma non solo: nella provincia di mavera può trasformare da sola una distesa di cemento Padova tra i comuni in cui il consumo del suolo supera il in un prato fiorito. Laddove l’uomo è intervenuto, l’uomo 30 per cento c’è anche Solesino... E nell’insieme l’effetto è chiamato a fare attivamente la sua parte, cooperando visivo è quello di una serie di ferite, più o meno profoncon la natura. Senza artifici, con umiltà e lungimiranza. de, che coprono un territorio dilaniato dall’avanzata del Solo così alle parole seguiranno i fatti.
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I Fondi Europei per l’Ambiente all’interno del nuovo ciclo finanziario della Politica di Coesione Territoriale Europa 2014-2020 sono rivolti ad associare ad un più razionale utilizzo delle disponibilità idriche, il riutilizzo delle acque trattate nei settori agricolo e industriale, producendo ricadute positive, in termini di minore fabbisogno di risorse da prelevare dall’ambiente
GRANDI PROGETTI E GRANDI OPERE PER LA GESTIONE DELL’ACQUA La gestione della risorsa rientra nei piani per il futuro dell’Ente: la disponibilità sarà sempre più garantita insieme a nuovi strumenti per evitarne lo spreco Può apparire quasi paradossale che un territorio attraversato dai grandi fiumi della Pianura Padana e abituato, da secoli, a conviverci gestendo gli eccessi di acqua portati dai loro corsi, oggi si trovi, per contrario, a dover governare con parsimonia questo prezioso elemento. Cinquecento anni fa, infatti, quando la Repubblica di Venezia istituì le figure dei “Provveditori sopra li luochi inculti”, competenti in materia di bonifica e irrigazione e perciò paragonabili agli attuali Consorzi di Bonifica, questa parte del Veneto si trovava
ad affrontare con urgenza lo spinoso problema della bonifica delle terre. Ossia liberarle dalle acque per mettere a coltura nuovi campi e aumentare l’economia legata all’agricoltura. Oggi il problema è quasi al contrario, ma non meno spinoso: la necessità di acqua è crescente nelle estati sempre più siccitose, l’inquinamento però ne minaccia la disponibilità e per questo è necessario che quella fruibile non venga sprecata. Ed è su questo cruciale tema che il Consorzio di Bonifica Adige Euganeo, al pari degli antesignani Provveditori di cinque secoli fa, sta continuando ad investire le proprie energie. Infatti, se con l’ottenimento del finanziamento ministeriale di 45 milioni di euro, con il quale verrà presto realizzata l’estensione della rete irrigua nei tre distretti irrigui del Guà, Monastero e Fratta, si può dire abbia già risolto il problema dell’acqua pulita in
È in corso il completamento dei lavori che riguardano l’impianto irriguo a servizio dei comuni di Cinto Euganeo e Baone. Grazie ai quasi 167 mila euro ottenuti dal Piano Irriguo Regionale, dove il 90% dell’importo è stato messo a disposizione da Palazzo Ferro Fini e il rimante 10% dai due comuni interessati, i lavori verranno completati entro fine anno, per mettere a disposizione degli agricoltori una maggiore disponibilità di acqua
Consorzio di Bonifica Adige Euganeo • www.adigeuganeo.it ESTE Via Augustea, 25 - Tel. 0429 601563 Fax 0429 50054
campagna, in quei territori inficiati dal degrado del Fratta-Gorzone, e ora è la sua gestione al centro dei prossimi obiettivi. E non solo nell’area dei tre distretti. Anche in questo caso si tratta di portare nell’area di competenza dell’Ente risorse ingenti e progetti all’avanguardia per lo sviluppo del territorio, soprattutto del settore primario che abbisogna sempre più di valori “ambientali” per qualificare i propri prodotti. “L’opportunità - spiega il presidente del Consorzio di Bonifica Adige Euganeo, Michele Zanato - è offerta dai Fondi Europei per l’Ambiente all’interno del nuovo ciclo finanziario della Politica di Coesione Territoriale Europa 2014-2020. Questi fondi sono rivolti ad associare ad un più razionale utilizzo delle disponibilità idriche, il riutilizzo delle acque trattate nei settori agricolo e industriale, producendo ricadute positive, in termini di minore fabbisogno di risorse da prelevare dall’ambiente, con conseguente ricostituzione delle riserve naturali, anche a fini ecosistemici”. La disponibilità di
Lo scopo principale dell’opera sarà quella di trattenerne a monte quanto basta delle acque dolci, in modo da stabilizzare l’ecosistema dell’alveo fluviale anche sotto l’azione dell’alternarsi delle maree, ma avrà anche la funzione di economizzare l’acqua dolce dei fiumi in chiave irrigua per un vasto territorio, grazie ad operazioni di invaso durante le estati siccitose e favorendo l’autodepurazione
La sommità dello sbarramento avrà pure funzione di ponte, a due corsie con pista ciclabile e marciapiedi, per il collegamento delle due sponde del Brenta, alleggerendo in questo modo il traffico della Romea e creando i presupposti di una mobilità più sicura anche durante le stagioni turistiche, a vantaggio dei vicini centri della balneazione di Chioggia e Sottomarina acqua a scopi irrigui, infatti, dipende, tra gli altri fattori, dall’ammodernamento delle reti di adduzione e distribuzione, ma anche dalla creazione di nuovi bacini di accumulo e dal perseguimento di tecniche e metodi di irrigazione a maggiore risparmio idrico. “L’Europa - continua Zanato - ci chiede progetti innovativi da poter replicare su tutto il territorio continentale e noi ci sentiamo all’altezza. Tanto che dal 13 al 19 ottobre una nostra delegazione si recherà in Israele, lo stato che, come è noto, negli ultimi 70 anni è riuscito a trasformare un territorio arido e desertico in terreno fertile e coltivabile”. Grazie a un sistema per la desalinizzazione dell’acqua di mare, infatti, associato a un sofisticato metodo di irrigazione agricola “a goccia” oggi vengono risparmiati tra 25% e il 75% di acqua, con un incremento della produzione di circa 15%. Ma, in attesa che il progetto prenda forma, sarà l’acqua dei fiumi a venire preservata dal rischio salinizzazione (desalinizzata) nel territorio di attinenza del Consorzio di bonifica Adige Euganeo. Infatti, finalmente, tra qualche mese partiranno i lavori per lo sbarramento antintrusione salina alle foci del Fiume Brenta a Chioggia. Sarà il più grande d’Italia, e rappresenterà un’efficace risposta ai gravi problemi patiti dai comuni di Correzzola, Codevigo, Cona, Cavarzere, Chioggia, Pontelongo a causa delle infiltrazioni di acqua salsa nelle falde superficiali, fondamentali per l’approvvigionamento idrico delle colture. La situazione nasce dal fatto che questa area che degrada verso il mare (si tratta di circa 20 mila ettari) si trova sotto il livello del mare per quote che toccano anche i -4 metri e nelle prolungate “magre” dei fiumi, durante i periodi siccitosi,
Lo sbarramento antintrusione salina fluviale sarà lungo oltre 200 metri, avrà 28 paratoie di regolazione dei livelli dell’acqua, due paratoie centrali automatiche per il deflusso normale e la risalita dei pesci, una conca di navigazione per il diporto
l’acqua marina risale anche di 15-20 chilometri. Il problema è noto da tempo, come da tempo la risposta più ovvia da anteporre al problema è sembrata essere quella di uno sbarramento alle foce comune dei fiume Brenta-Bacchiglione-Gorzone, a est della strada Romea. Il progetto per la realizzazione dell’opera è stato poi oggetto di revisioni, in quanto al semplice sbarramento la Regione e il comune di Chioggia hanno ritenuto più opportuno associare anche un ponte a due corsie con pista ciclabile e marciapiedi, per il collegamento delle due sponde del Brenta, alleggerendo in questo modo il traffico della Romea, che quotidianamente è fonte di situazioni di pericolo, creando i presupposti di una mobilità più sicura anche durante le stagioni turistiche, a vantaggio dei vicini centri di balneazione. Il nuovo progetto però è andato ad inficiare gli interessi di una vicina darsena rimando bloccato per anni in controversie. Ora ripartirà: quando lo sbarramento sarà completo misurerà oltre 200 metri, avrà 28 paratoie di regolazione dei livelli dell’acqua, due paratoie centrali automatiche per il deflusso normale e la risalita dei pesci, una conca di navigazione per il diporto. Sarà dimensionato per 200 anni di esistenza, per operare anche in occasione di piene straordinarie del fiume e resistere a calamità e catastrofi come i terremoti. Anche questa un’opera che non ha paura del futuro.
Per tenerti informato sull’operatività del Consorzio di Bonifica Adige Euganeo e sui progetti che riguardano il territorio, iscriviti alla newsletter settimanale, basta entrare nel sito www.adigeuganeo.it, cliccare sul tasto “Contatti” e registrarsi
L’ELZEVIRO di Eliano Morello
Agricoltura e occupazione
IL LAVORO C’È, MANCA CHI LO FA Le mansioni agricole sono sempre più affidate ai lavoratori stranieri. I nostri giovani mancano quasi totalemnte dalla campagna, non sfruttano più il periodo di raccolta per racimolare qualche soldo per lo studio e lo svago
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el film Cose dell’altro mondo del 2011, un imprenditore veneto, impersonato da Diego Abatantuono, vede realizzarsi il suo sogno: un’Italia senza stranieri. In novanta minuti il registra Francesco Patierno mostra gli effetti dell’esodo: fabbriche in crisi perché senza operai, famiglie che non sanno a chi lasciare gli anziani genitori, i bagni degli uffici che velocemente degradano. Insomma un’essenza evidente, che probabilmente si noterebbe anche di più in agricoltura perchè in questo settore sempre più carente di manodopera la forza lavoro viene offerta in proprorzioni cospicue da personale straniero. Non voglio parlare di immigrazione, voglio, come sempre faccio su questo magazine, parlare di agricoltura e nella fattispecie di lavoro. Ossia quel lavoro che fino a qualche decennio fa veniva svolto anche da pletore di studenti che nei mesi di vacanza
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si precipitavano nei campi per guadagnarsi qualche soldo, approfittando delle varie campagne di raccolta. Cetrioli, patate, pere, mele… stiamo parlando di quelle produzioni che rientrano nello stesso made in Italy che inorgoglisce ogni connazionale quando ne sente parlare, ma non, evidentemente, a casa propria. Perchè chi ha figli in quell’età non si sogna nemmeno di invitarlo a contribuire a rendere questo made in Italy sempre più prestigioso nel mondo. Probabilmente, in cuor suo, ha disegni molto più promettenti del made in Italy per la propria prole e del resto l’agricoltura assomiglia più ad un mestiere del passato che a uno del futuro. Non ci pensiamo mai, ma quando scegliamo il futuro dei nostri figli scegliamo anche quello del territorio. Le due cose sono sempre connesse. Parliamo del domani. E il presente? Intanto il presente dice che questi la-
L’ELZEVIRO La mancanza di manodopera, e l’incidenza del suo costo nelle rese dei prodotti agricoli, può diventare l’anticamera della chiusura di molte nostre attività. E passare dall’abbandono di alcune attività all’abbandono del territorio il passo è brevissimo vori oggi vengono svolti da personale straniero. Nel settore lattiero-caseario, ad esempio, sono impegnati 31.600 lavoratori di origine indiana. Il settore frutticolo occupa 345.000 lavoratori non italiani (Romeni, Marocchini, Albanesi, Polacchi, … ), pari al 34% della forza lavoro necessaria per far andare avanti il settore stesso. Nella stessa percentuale rientra anche la vendemmia, laddove cui non è possibile la meccanizzazione (montagna, collina, vigneti a tendone), la raccolta delle mele in Trentino-Alto Adige o delle fragole nel Veronese. Bisogna riconoscerlo e ammetterlo: gli immigrati non vengono a rubarci il lavoro, ma a fare quei lavori poco nobili (per usare un eufemismo) ma indispensabili (tutti dobbiamo mangiare in qualche modo) che noi non vogliamo fare e che non facciamo fare tanto meno ai nostri delicati pargoli come esperienza. Quanti medici, imprenditori, banchieri e colletti bianchi in genere avete visto qui in Italia che non fossero italiani? Quanti chirurghi indiani ci sono nei nostri ospedali? Quante infermiere di colore? Quante commesse marocchine nei nostri negozi? Io queste persone le ho viste solo fare il lavoro di netturbino e raccogliere la frutta e la verdura “made in Italy” di cui andiamo tanto fieri nel mondo. Forse senza gli immigrati che li raccolgono, noi non mangeremmo ed esporteremmo tanti pomodori pachino! Secondo il dossier sull’immigrazione, stilato da Col-
diretti nel novembre dello scorso anno, il 50,4% degli stranieri occupati in agricoltura si concentra in quindici province: Bolzano (6,1%), Foggia (6,0%), Verona (5,0%), Trento (4,4%), Latina (4,1%), Cuneo (3,7%), Ragusa (3,7%), Cosenza (2,6%), Salerno (2,5%), Ravenna (2,4%), Bari (2,1%), Ferrara (2,0%), Forlì-Cesena (2,0%), Brescia (2,0%), Reggio Calabria (1,8%). Quest’anno, alcune organizzazioni sindacali hanno iniziato già da giugno a denunciare un allarmante carenza di manodopera per la raccolta delle primizie (fragole in pri-
mis). La denuncia riguarda, oltre le provincie già citate, anche quelle di Rovigo e Mantova in cui l’arduo reclutamento del personale, per la raccolta, ha messo in seria difficoltà i produttori di meloni e angurie. A questo vuoto si unisce anche quello normativo a riguardo dei sistemi di retribuzione: un giorno ci sono i voucher, il giorno dopo li tolgono, poi chi li ha tolti pensa di rimetterli ecc... Questo di certo non aiuta quei poveri volonterosi (pensionati compresi) che sarebbero disposti a lavorare! Quelli invece che desiderano trovare scuse per non lavorare nei nostri campi sostengono che la paga sia troppo bassa per il sacrificio richiesto. In effetti, lavorare sotto il sole di luglio a quasi 40°C non è idilliaco.
RACCOLTA FRUTTA, SOS MANODOPERA IN VENETO Per gli italiani è un lavoro troppo faticoso e poco redditizio, per gli extracomunitari è la burocrazia fatta di tanti controlli a bloccare gli imprenditori al momento dell’assunzione. Mancano gli operai per la raccolta della frutta e gli agricoltori sono in grave difficoltà, mentre incombe la campagna prevista per agosto e settembre. A lanciare l’allarme è Confagricoltura di Rovigo: alle aziende polesane servono 300 operai agricoli, ma non si trovano.
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L’ELZEVIRO Ma allora, quanto deve incidere il costo della manodopera per la raccolta di un prodotto sul costo finale del prodotto stesso? Facciamo l’esempio della frutta: un raccoglitore di frutta percepisce circa 7,5/8 euro netti all’ora, ma ne costa al datore di lavoro che lo mette in regola circa 13, quindi se raccoglie 100-150 kg/ora di frutta la manodopera incide per il 25-30% del valore del prodotto. Un terzo del valore del prodotto se ne va in manodopera. Questo ovviamente accade quando il prodotto raccolto è pagato a prezzo pieno! Poi ci sono i casi di vero e proprio sfruttamento che sfociano nel caporalato, nel lavoro nero e in tutte quelle piaghe che purtroppo contribuiscono ad inficiare il settore agrario. Molti indicano il mondo della viticoltura come un modello da seguire e in parte può essere vero, ma va precisato che la salvezza di questo settore, trainante per il Veneto, è stata la meccanizzazione, specialmente in pianura. Grazie alla vendemmia meccanica la coltura ha potuto espandersi senza essere ostaggio della carenza di manodopera che sta interessando tutti gli altri settori agricoli. Il problema non è di poco conto. Perchè la mancanza di manodopera, e l’incidenza del suo costo nelle rese dei prodotti agricoli, può diventare l’anDonald Trump ticamera della chiusura di molte nostre attività. E passare dall’abbandono di alcune attività all’abbandono del territorio il passo è brevissimo. Purtroppo questo fenomeno non è solamente
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Un raccoglitore di frutta percepisce circa 7,5/8 euro netti all’ora, ma ne costa al datore di lavoro che lo mette in regola circa 13, quindi se raccoglie 100-150 kg/ora di frutta la manodopera incide per il 25-30% del valore del prodotto locale, ma interessa molti altri Stati come la Svizzera, l’Inghilterra e la Bulgaria (solo per restare in Europa). Al di fuori del vecchio continente ci sono due Stati in cui le politiche restrittive sull’immigrazione hanno creato non pochi problemi all’agricoltura. La decisione di Donald Trump di bloccare l’afflusso di migranti dal Messico ha messo in ginocchio gli agricoltori della California, il primo stato produttore statunitense di frutta e verdura. Questo ha portato, tra le altre cose, allo sviluppo di robot per la raccolta di ortaggi e frutta in campo con l’obiettivo di rimpiazzare i lavoratori umani, sempre più scarsi (ma in Italia mancano soldi per innovarsi!!!). L’altro Stato è la Nuova Zelanda che, insieme all’Australia, ha una politica migratoria molto restrittiva. Questa primavera il governo di Wellington ha dovuto fronteggiare il problema dei kiwi. Le produzioni più abbondanti del solito e la mancanza di manodopera hanno spinto la premier a concedere visti speciali ai turisti che avessero passato qualche settimana nelle aziende a raccogliere il frutto simbolo della nazione. Tornando invece al tema dei giovani: abbiamo paura che sudino, che patiscano quello che abbiamo patito noi... ma in definitiva che cosa abbiamo patito? Eravamo ragazzi forti, scattanti,pieni di energia e salute. Che cosa si può volere di più dalla vita a quell‘età?
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ORTOFRUTTA SCARABELLO GIANNI Tutto il sapore e l’abbondanza dell’autunno
Il meglio delle produzione propria e della campagna padovana per garantire sempre freschezza e genuinità
Funghi di bosco e coltivati, Le zucche, produzione lonon possono mancare dalle cale e ingrediente speciale dispense in queste stagione per risotti, fumanti zuppe e ripieni
Minestrone, peperonata, mi- Al nostro bancone il princisto funghi, carciofi e fondi di pe degli orti di Maserà, il cecarciofo, fagioli, piselli: una lebrato radicchio linea di prodotti già tagliati e pronti da cuocere
Si eseguono ceste
con prodotti di stagione, una buona idea per regalare freschezza e qualità
Gli orti d’autunno traboccano. La raggiunta maturità di diversi prodotti, esplode in colori e profumi che suonano come un invito con l’arrivo delle prime frescure. È, dunque, il tempo di ritrovare sapori pieni, gustosi, succulenti e il posto giusto dove incontrare un’offerta amplissima è l’Ortofrutta Scarabello Gianni di Maserà di Padova. Qui, infatti, la varietà è di casa e va a braccetto con la qualità, in quanto ogni referenza viene attentamente selezionata da Gianni in persona con quell’esperienza che solo chi è anche un produttore può avere. Infatti oltre al meglio delle produzioni locali, nell’infinito assortimento di diverse varietà di mele, pere, numerose tipologie di uva da tavola, noci venete di nuovo raccolto, funghi di bosco e coltivati, una parte di orticole sono produzione propria. I primi radicchi, i broccoli, le patate, le zucche e le zucchine arrivano direttamente dai campi della campagna circostante al bancone, come sono le giuggiole e le patate americane, quest’ultime in vendita anche già cucinate al forno, perché nel punto vendita si tiene conto anche di chi ha poco tempo da dedicare ai fornelli. È con questa attenzione che nasce anche una selezione di prodotti “Pronti e Cuoci”, come i minestroni, realizzata appositamente qui, per permettere di portare in tavola sempre prodotti freschissimi e di grande qualità.
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I frutti antichi ,
ALIMENTAZIONE, SALUTE E TRADIZIONE del Prof. Adriano Mollica
FIGLI LEGITTIMI DELLA BIODIVERSITÀ Certe piante sono figlie della natura e non dei laboratori delle aziende sementiere. Hanno un patrimonio genetico che si tramanda da millenni e per questo sono perfettamente adattate al territorio. Sono resistenti alle malattie e hanno alte rese senza ricorrere all’uso di fitofarmaci e pesticidi
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cosiddetti frutti antichi o frutti dimenticati stanno riscoprendo un crescente interesse da parte del mondo della ricerca scientifica e dell’opinione pubblica. Infatti le antiche varietà colturali, hanno un patrimonio genetico che si tramanda da millenni, che conferisce loro caratteristiche di adattabilità territoriale che li rende naturalmente resistenti a condizioni pedo-climatiche specifiche e alle malattie, garantendo una crescita veloce e alte rese, senza ricorrere all’uso di fitofarmaci e pesticidi. Tali proprietà fanno sì che queste varietà di piante, in genere radicate in territori ristretti, siano un condensato di proprietà nutraceutiche e suscitino grande interesse nell’ambito dell’agricoltura sostenibile. Uno dei problemi ambientali derivati dalle colture intensive, infatti, è la perdita di biodiversità, cioè la scomparsa di specie di piante e di animali, dovuta spesso alle attività troppo aggressive dell’uomo che danneggiano o distruggono gli ambienti naturali. Il tema è complicato e per questo poco conosciuto dall’opinione pubblica, sicuramente ignorato dalla grande maggioranza delle persone che fa la spesa tutti i giorni. Ma, del resto, chi davanti ad un bel cesto di frutta o verdura si pone domande su quello che si sta comprando? I più sensibili si informano sul luogo di provenienza, la legge cerca sempre più di
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mettere in evidenza gli aspetti legati alla tracciabilità, ma non ci sarai mai scritto nulla, sulle confezioni, in proposito della ricerca e degli esperimenti che sono stati condotti per arrivare a selezionare quelle piante e il loro frutto. Non che questo avvenga perché in queste pratiche ci sia qualcosa da nascondere, anzi nel tempo la selezione ha prodotto tanti effetti benefici per le società umane. Del resto ben prima che si iniziasse a parlare di Ogm l’uomo aveva già iniziato a modificare le varietà per renderle più rispondenti alle caratteristiche del luogo di coltivazione, tanto che certi prodotti oggi si identificano maggiormente con i luoghi di produzione, anche se questi non sono più quelli di origine. La lista in questo caso potrebbe essere sterminata, ma come esempio usiamo il pomodoro. Oggi è simbolo dell’italianità, ma in realtà è stato totalmente assente dalla nostra penisola fino a qualche secolo fa. Perché semplicemente non era il suo habitat, e la biodiversità del tempo non contemplava la sua
Ben prima che si iniziasse a parlare di Ogm l’uomo aveva già iniziato a modificare le varietà per renderle più rispondenti alle caratteristiche del luogo di coltivazione
ALIMENTAZIONE, SALUTE E TRADIZIONE presenza. Fu un conquistador sanguinario di nome Hernàn Cortes a portarlo in Spagna insieme a quell’insieme di ricchezze che la colonizzazione dell’America Latina fruttò alla corona di Spagna, a cominciare dal XVI secolo. Arrivò a Napoli poi attraverso le parentele della casa reale iberica, il cui dominio si estendeva al meridione d’Italia. Al tempo era di color giallo, d’oro, appunto, come richiama il nome, ma in breve tempo divenne il frutto (perché tale è anche se noi lo consideriamo una verdura) che conosciamo, diventandone insieme ad altri paesi europei e americani tra i maggiori produttori. Oggi invece il mercato asiatico è quello dominante e spesso le aree dove viene coltivato non sono quelle naturalmente più favorevoli, infatti i pomodori vengono coltivati nelle serre in condizioni controllate per rispondere alla enorme richiesta. C’è da scommettere quindi che presto cambierà forma e
colore, per essere adattato a quelle latitudini. Non sempre, però, dietro al frutto di una pianta c’è la mano dell’uomo. Come detto certe specie sono scampate al controllo e oggi portano dentro di se solamente la storia della loro naturale evoluzione. Piante, che fino a non molto tempo fa rientravano nell’alimentazione di molte comunità locali, tanto che i loro nomi hanno quasi sempre un’origine e un significato dialettale. Sono piante in genere molto antiche, resistenti alle avversità del clima e ai parassiti, e producono frutti dalle mille proprietà benefiche. Oggi sempre più persone le stanno riscoprendo grazie all’opera di singoli coltivatori, enti e associazioni che li scovano, li studiano e si battono per la loro salvaguardia, e per infondere nella gente una maggiore consapevolezza di quanto in realtà sia bella e varia la nostra biodiversità territoriale.
Nel fare la spesa i più sensibili chiedono il luogo di provenienza di ciò che si apprestano a comprare, ma non sapremo mai nulla delle selezioni con le quali quei prodotti sono stati creati ECCONE ALCUNI ESEMPI: IL SORBO È uno dei frutti antichi più ricco di proprietà benefiche, viene consumato per l’alimentazione umana ormai molto di rado, ancora oggi viene utilizzato per confezionare marmellate o per la preparazione di un sidro molto apprezzato in alcune regioni della Francia e della Germania. Il Sorbo domestico (Sorbus domestica L.) è originario dell’Europa Meridionale ed è facile trovarlo selvatico nei boschi di latifoglie sotto gli 800 metri. Negli anni è stato sempre più apprezzato come albero ornamentale e cresciuto nei giardini. Il frutto si può consumare dopo l’ammezzimento, ovvero una volta raccolti devono essere messi a fermentare nella paglia, per essere idonei al consumo. le proprietà benefiche erano note fin dall’ epoca dei Romani, hanno infatti effetti positivi sull’intestino poiché contengono tannini, flavonoidi e vitamina C. IL CORBEZZOLO Il corbezzolo (Arbutus unedo L.) è il frutto di uno arbusto sempre verde, coltivato come pianta ornamentale offre infatti una cascata di fiorellini bianchi a campanella che sbocciano durante l’autunno e che nell’anno successivo si trasformano in colorati e dolci frutti. Un tempo il corbezzolo era utilizzato per preparare un ottimo aceto aromatizzato che serviva per condire insalate e pietanze. Un altro impiego possi-
Il Sorbo
Il Corbezzolo
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ALIMENTAZIONE, SALUTE E TRADIZIONE bile è farne marmellate, decotti e infusi utili a disintossicare reni, fegato e vie urinarie e a combattere stati febbrili e diarree per le proprietà antisettiche e astringenti. Un ramo di corbezzolo con due frutti è inserito nello stemma della Provincia di Ancona, poiché vi è una grande diffusione di questa pianta nel promontorio del Conero. LE CORNIOLE Nella forma possono ricordare le olive e durante la maturazione cambiano frequentemente colore passando dal verde al giallo, dall’arancio al rosso accesso fino ad acquisire una colorazione rosso scuro quando è il momento di raccoglierle. Il corniolo (Cornus mas L.) deve il suo nome alla durezza del legno che caratterizza la corteccia. Caduta in disuso come pianta da frutto, oggi è molto diffuso nei giardini come specie ornamentale. La corniola è un frutto leggermente acidulo e poco zuccherino, ha proprietà dissetanti e può essere usato per la preparazione di marmellate, aceto, liquori e dolci. L’azione tonico-astringente rende il frutto un ottimo rimedio per curare dermatiti, dolori articolari e disturbi del metabolismo. LE AZZERUOLE L’azzeruolo (Crataegus azarolus L.) è un albero che appartiene alla famiglia delle Rosaceae. È originario dell’Asia minore ma coltivato anche nell’ area mediterranea. L’albero non cresce più di 4 metri d’altezza, la chioma irregolare, e il tronco sinuoso. Il frutto, le azzeruole, hanno aspetto simile ad una piccola mela gialla, di sapore gradevole e gustoso, sono dissentanti e rinfrescanti, hanno proprietà ipotensive e antianemiche. Possono essere consumate fresche o per farne conserve, liquori e dolci.
Le Corniole
Le Azzeruole
LE GIUGGIOLE Dette anche "datteri cinesi", derivano dalla pianta che ha il nome botanico di Ziziphus jujuba Mill. La provenienza è ancora incerta ma qualunque sia la sua origine, il giuggiolo può essere coltivato sia in pianura che in montagna, per via della sua spiccata resistenza al freddo. Le giuggiole si raccolgono in tarda estate, meglio quando il colore della buccia diventa rosso intenso poiché la polpa raggiunge la completa maturazione, che gli conferisce il caratteristico sapore dolciastro e zuccherino.
Le Giuggiole
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Vivai Lorin Maurizio scegliere il meglio porta a buoni frutti Produzione e vendita barbatelle di viti e piante da frutto. Ampia gamma di varietà e selezioni clonali
Sono circa un milione le barbatelle di viti che ogni anno vengono preparate selezionando circa 60 varietà per la produzione di uva da vino e 20 per le uve da tavola. Praticamente ogni richiesta può essere esaudita
Quasi un secolo di esperienza nella preparazione di barbatelle qualifica l’offerta dei Vivai Lorin Maurizio di Arre nel padovano. Sono circa un milione le giovani viti che ogni anno vengono preparate per essere destinate ai vigneti del Triveneto, della Campania, della Toscana, dell’Abruzzo, delle Marche, della Puglia e dell’Emilia Romagna, praticamente esaudendo ogni richiesta in termini di varietà (autoctone, antiche, da tavola) e di quantità. Quasi 17 ettari di campagna, infatti, sono destinati ad una produzione ancora artigianale che risponde ai parametri tecnico-qualitativi della normativa nazionale. Il materiale di propagazione deriva da portainnesti e gemmai controllati dal servizio fitosanitario regionale del Veneto e selezionati dall’azienda per garantire ottime rese e qualità di uve eccellenti. La stessa qualità viene estesa anche alle piante da frutto, di cui i Vivai Lorin curano la commercializzazione sia in vaso che a radice nuda, e alle piante da piccoli frutti.
I Nostri Servizi
• Rapporto diretto con la clientela • Assistenza tecnica nella scelta della varietà • Moltiplicazione di biotipi aziendali ritenuti interessanti • Conservazione delle barbatelle in cella frigo a temperatura e umidità controllate • Consegna delle barbatelle al momento dell’impianto • Possibilità di fornire il vigneto “chiavi in mano” •D isponibilità per l’effettuazione di eventuali analisi del terreno • Recupero e selezione di varietà antiche o minori
Vivai Lorin Maurizio
via Campagnon, 21 35020 Arre (Padova) Tel. e Fax 049 5389022 Mob. 339 6414427
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Devis e Jaci Zanaica brindano ai dieci anni del loro frantoio. dieci anni di soddisfazioni, di premi che oggi pongono le diverse tipologie di extravergine prodotte qui tra le eccellenze nel panorama oleario nazionale
DIECI ANNI
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DI EXTRAVERGINE DI QUALITÀ Al via la stagione olearia, dalla metà di ottobre partirà la raccolta delle olive per una produzione che già si annuncia eccellente Un susseguirsi di arrivi, un frenetico lavoro di preparativi, di valutazioni, il frantoio che inizia la sua attività di molitura e poi la fisiologica attesa che dalle belle olive frante esca il nuovo extravergine. È questo il rito che al Frantoio di Cornoleda si rinnova ormai da dieci anni con l’arrivo della stagione olearia, una festa per i padroni di casa, per i produttori e per tutti coloro che vorrebbero conoscere da vicino questa attività sempre più caratteristica dei Colli Euganei. Perché, dalla metà di ottobre alla fine di novembre, il Frantoio di Cornoleda è aperto a tutti coloro che vogliono assistere ai vari processi di lavorazione, a quelli che vogliono assaggiare l’olio nuovo e portarsene a casa una bottiglia dai profumi energici e dai sapori sospesi che, come sempre, sapranno convincere chiunque.
GRAN MENZIONE ORO
MEDAGLIA D’ORO
Tra le produzioni del frantoio, originali sono le idee regalo che vengono realizzate per ogni ricorrenza associando alla naturalezza dei prodotti fantasia e creatività nel confezionamento FRANTOIO DI CORNOLEDA S.A.S. di Zanaica Devis & C. • via Cornoleda, 15/B • 35030 Cinto Euganeo (PD) Tel. 0429 647123 • Mob 380 7177284 • www.frantoiodicornoleda.com • info@frantoiodicornoleda.com
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STORIA E DINTORNI di Martina Toso
RITI ANTICHI E FIERE MODERNE NEL SEGNO DELL’AGRICOLTURA Dalle cerimonie propiziatorie per il buon raccolto ai sacrifici per un anno agricolo fruttuoso, la storia delle sagre nasce dall’agricoltura. E con lei anche la nostra storia
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ra tradizione e cultura, tra passato e presente, la sagra è un appuntamento che richiama e raggruppa le persone sin da tempo immemore, probabilmente fin da quando è iniziata la storia dell’uomo. L’esigenza di condividere momenti di vita, e perché no scambiarsi risorse, ci riporta indietro al Neolitico, il periodo più recente dell’Età della Pietra che va da sei a circa ottomila anni fa. In un’epoca in cui il nomadismo lascia spazio al sedentarismo e dai continui e ciclici spostamenti si passa alle tribù organizzate, si fa forte la necessità di creare occasioni di coesione tra piccoli gruppi locali. Ecco allora che nascono le prime feste rituali - forse non le prime in assoluto ma le prime di cui si abbiano testimonianza - in cui ci si ritrova a ringraziare le forze della natura, il ciclo della vita e a invocare insieme tempi propizi per l’agricoltura. E proprio quest’ultima, l’agricoltura, al pari delle divinità più note e famose, è un motivo forte di aggregazione e di festa: la semina, il raccolto, il sole e le piogge. Tutto quello che la riguarda da vicino diventa ben presto preghiera, ringraziamento, rito. Si perché le antenate delle sagre e fiere che noi conosciamo, sono proprio queste antiche feste rituali nate in seno alla civiltà e da quel bisogno ancestrale di celebrare la natura e i suoi frutti, cibo e fonte di
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sostentamento primaria e principale. Se le testimonianze non ci ingannano, è logico immaginare che a influenzare gli appuntamenti sia fin da principio la stagionalità delle coltivazioni e del lavoro nei campi. Come nel Neolitico, anche nell’Antica Roma la situazione sembra essere molto simile e, nonostante il grande salto nella linea del tempo, quelli che erano riti propiziatori e occasioni di festa prima diventano per i romani delle ricorrenze sacre. Ogni aspetto della vita, dalla guerra, alla politica, ai mestieri e fino all’agricoltura aveva nel corso dell’anno uno o più momenti di festa dedicati. Quando si tratta di semina e raccolto, rivolgersi alle divinità è una tappa obbligata: da un lato ci sono i sacrifici da offrire, dall’altro la speranza e preghiera che il nuovo anno agricolo sia fruttuoso. Non a caso, tra le principali feste del calendario roma-
Nel momento in cui il nomadismo lascia spazio al sedentarismo e dai continui e ciclici spostamenti si passa alle tribù organizzate, si fa forte la necessità di creare occasioni di coesione tra piccoli gruppi locali
STORIA E DINTORNI
In alto: The Vintage Festival di Lawrence Alma-Tadema (1871) conservato alla National Gallery of Victoria a Melbourne
Feste popolari e sagre sono sempre connotate da una componente rituale e sacra. Lo stesso termine deriva dal fatto che un tempo questo tipo di ritualità si teneva davanti ai templi o sui sagrati delle chiese no ci sono quelle in onore di Cerere, antica Dea italica protettrice della fecondità delle messi. A seconda del periodo, dai Cerealia di aprile ai Lectisternium Cereris et Telluris di dicembre, cambiano i rituali da rispettare: così durante gli Ambarvalia di fine maggio si sacrificano animali e si va in processione attorno ai campi per propiziare il raccolto. Le feste potevano durare diver-
si giorni ed essere accompagnate da giochi pubblici, sfide e spettacoli come succede nel corso dei Cerealia con i Ludi che si svolgono al Circo Massimo. Al centro, però, sempre la preghiera che eleva frangenti di vita comune a una dimensione di sacralità, fuori da tempo e spazio. Ed è proprio la componente sacra a connotare le feste popolari e le sagre che si svolgevano davanti ai templi o sui sagrati delle chiese e del resto, lo stesso termine sagra, deriva dal latino sacer ossia sacro. E quindi sacri diventano un gran numero dei prodotti della terra: dall’uva ai funghi, dalle zucche alle giuggiole, fino ai radicchi e alle patate americane per una nuova offerta che ha perso ogni contatto con la religione. Ma è con la facilitazione degli scambi mercantili e la diffusione del commercio che le sagre, pur mantenendo saldo il loro legame
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STORIA E DINTORNI
Le Fiere “franche” del Medioevo rappresentano una svolta nella storia popolare. Tipiche del periodo autunnale, queste fiere danno ai contadini l’opportunità di ricavare qualcosa dall’eccedenza del raccolto dopo un anno di duro lavoro con i periodi salienti dell’agricoltura, assumono nuove sfaccettature. Non più esclusivamente celebrazioni di fede ma anche giornate di commercio: in tal senso le Fiere “franche” del Medioevo rappresentano una svolta nella storia popolare. Tipiche del periodo autunnale, queste fiere danno ai contadini l’opportunità di ricavare qualcosa dall’eccedenza del raccolto dopo un anno di duro lavoro e dopo aver provveduto alla sussistenza della famiglia. Prima che arrivi l’inverno, infatti, sono molte le colture che arrivano a maturazione e che possono essere finalmente usate e lavorate, non ultima l’uva che poi diventerà vino. Ed è forse proprio per l’abbondanza e la disponibilità di risorse che l’autunno porta con sé che alcune tra la più antiche fiere della nostra regione come la Fiera del Soco di Grisignano di Zocco, la Fiera Franca di Cittadella e la Fiera dei Santi a Monselice sono nate e ancora oggi si svolgono tra settembre e dicembre. Iniziative ed eventi che a noi sembrano così moderne e tipiche dei nostri tempi ma che invece hanno alle spalle anni di tradizione e che attingono a piene mani da un bagaglio culturale lungo secoli. L’origine dei riti legati alle sagre ci fa tornare all’origine della vita comunitaria dell’uomo, allacciando le sorti della società a quelle del raccolto. Ogni festa ha il suo pre-
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ciso momento, così come la realtà agricola ha la sua periodicità fissa e a ciascun passaggio - dalla semina alla mietitura - era legata una celebrazione specifica, in una dimensione in cui il destino di tutti si giocava nei campi e durante le sagre. È proprio il caso di dire che se è vero che una rondine non fa primavera, è certo invece che la sagra fa autunno, anche oggi.
Bacco divinità legata alla terra e all’abbondanza, la sua iconografia e strettamente connessa al vino o meglio alle conseguenze del suo abuso, come momento di abbandono e di festa
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Agriturismo Corte Bonicella Agriturismo, Bed&Breakfast e Fattoria Didattica Sapori antichi rivisitati in cucina con gusto moderno, ottimi insaccati di carne ovina e il formaggio dell’alpeggio
Un luogo incantato della campagna, tra l’Adige e il mare Adriatico, in cui il tempo trascorre ancora con il passo lento delle stagioni: questa è Corte Bonicella, agriturismo, Bed&Breakfast e fattoria didattica. Un punto fermo attorno al quale in realtà gira un mondo in costante movimento qual è la pastorizia, arte che la famiglia Morandi si tramanda da generazioni e che qui ha trovato il suo valore più attuale. Moderni infatti sono i piatti proposti per pranzi e cene che escono dalla routine dei soliti sapori, le carni ovine ovviamente sono il punto forte della
L’agriturismo
Il ristorante
casa: insaccati e stagionati, come i salami o la bresaola, sono autentiche specialità e si accompagnano a preparazioni ormai internazionali come gli arrosticini, gli arrosti o le costolette. Ovviamente serviti con creatività e fantasia, sapendo coniugare sapori ed esaltandone il valore come nel caso del pecorino locale, stagionato nella baita dell’alpeggio, abbinato alle marmellate fatte in casa. L’altro valore aggiunto di Corte Bonicella è l’ospitalità, perché solo chi nel proprio Dna ha la vita errante conosce il valore dell’accoglienza.
Gli eventi
Le camere
Le camere sono tutte dotate di connessione Wi-Fi ed è possibile usufruire del servizio deposito bagagli e lavanderia CORTE BONICELLA Via Cavarzere, 28 - Pegolotte di Cona (VE) • Tel. 0426 59298 • Cell. 349 3680371 info@cortebonicella.it • www.cortebonicella.it
LA MEMORIA DI CARTA di Roberto Soliman
UNA PATATA AMERICANA, UNA FISARMONICA E UNA ZUCCA
ERA SUBITO FESTA! Viaggio a ritroso nel modo semplice e genuino di far festa delle genti della “Bassa”. E perché ora vogliamo il divertimento sempre, confezionato e take away?
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ono sempre più stupito e ammirato nello scoprire la fantasia e le capacità, nonostante i regolamenti stringenti, di Pro-Loco e Comitati vari delle “Basse”, nell’inventare feste popolari che nulla hanno a che vedere con quelle tradizionali, ma con lo stesso comune denominatore: capannone, stand gastronomico e “lissio”! Sarà perché i nostri paesetti rurali un tempo festeggiavano solo a fine raccolto o dopo l’uccisione del maiale, e i santi protettori ci venivano assegnati solo nella brutta stagione, che ora si vuole far festa tutto l’anno come nei paesi più grandi che hanno
santi estivi. Ma a dar retta a tutte le feste c’è da perdere la testa! Scopro di “Feste della soppressa”, in luoghi dove invece era diffusa la produzione famigliare del salame, magari “de musso” da sacrificare e coniugare al maiale dopo che aveva servito da trasporto lavorativo verso, e dalle, “valli” per anni. E dato che nelle povere mense di allora con tre fettine di salame si faceva “conpanàdego” la soppressa, date le dimensioni, sarebbe apparsa uno spreco. In un paese del basso vicentino da anni si festeggia il “September fest”, chiara derivazione dalla festa bavarese ottobrina, solo che qui si tiene addirittura ad agosto! E che dire dell’uso del bilinguismo (con traduzione dal dialetto veneto all’italiano) per annunciare un’altra festa. In uno striscione
Persone di tutte le età, sedute su sedie di fortuna alla pallida luce della Luna, impegnate a togliere le “capòje” e lanciare le pannocchie pulite verso il centro del “zelese” 20
LA MEMORIA DI CARTA Era un modo per risaldare rapporti di amicizia e di solidarietà collaborativa nel duro lavoro dei campi bisognoso di molta manualità
D’autunno l’aia diventava il centro della vita. Insieme al raccolto iniziava la trasformazione dei prodotti che nel caso del mais doveva essere prima “scartocciato”, poi sgranato ed infine essiccato proprio sui mattoni del grande spazio sul quale un tempo affacciavano le case
pubblicitario ho visto scritto: “Festa dei bisi = piselli”. E quell’invito alla “1° tradizionale Festa del melone”? Dove è la tradizione nella novità? Ma non importa, l’importante è il divertimento a pancia appagata. E la confusione dove non puoi dire niente e non puoi dialogare, tanto chi ti può ascoltare? E più gente c’è più la serata è bella e da raccontare, e da tramandare ai followers con i selfie! E poi tutto finisce in attesa di un’altra festa uguale che non tarda a venire! Si dice che è la nuova socializzazione. Per me è un’esorcizzazione dalla solitudine che la società sempre più divisa in classi ci condanna, dove non scambi un saluto col tuo vicino di pianerottolo, dove con i colleghi di lavoro devi mantenere dei rapporti solo formali, dove le famiglie che fino a 50-60 anni fa erano numerose, e c’era per forza dialogo e contrasto costruttivo, ora sono ridotte, in Veneto, a una media di 2,4 componenti! (dati ISTAT 2011). Ma perché siamo cambiati così in fretta? Sociologi e studiosi del costume si arrovellano per giustificare questo “modus vivendi” partendo dall’analisi delle vetuste feste patronali, di contrada e famigliari, nate con motivazioni comuni e per questo significative. Anche le canzoni degli anni ‘60 sono state coagulo d’incontri per feste di noi giovani di allora. Mi riempio di nostalgia pensando ai festini domenical-pomeridiani, con un giradischi Philips, dei complici dischi scartati dal Juke-box dell’osteria del paese, amiche e amici con tanta voglia di stare insieme, ma sotto “osservazione” dei genitori ospitanti! Non c’erano SMS per avvisare il punto e l’ora di ritro-
vo ma il semplice passa parola e, una volta invitato, sentivi l’obbligo di portare qualche cosa da mangiare ottenutolo implorando tua madre che per contro cercava di carpirti chi erano gli invitati e soprattutto, dal tono della tua risposta, se c’era “lei”! Sono stati i nostri migliori anni! Ma da bambino ho fatto in tempo a vedere anche la gioia della mia “contrà” a fine raccolta dei vari prodotti dei campi. A cominciare dallo “descapòiare” il mais, con le pannocchie che venivano fatte ruzzolare dal carro, giù nel “zelese”. Intanto il mucchio di pannocchie veniva attorniato da persone di tutte le età, sedute su sedie di fortuna alla pallida luce della Luna, impegnate a togliere le “capòje” e lanciare le pannocchie pulite verso il centro del “zelese”, dove l’indomani sarebbero state sgranate. Tra una chiacchera e l’altra, una fetta di zucca cotta, mezza patata americana, mandate giù da un “torbolìn” di uva fragola tagliato col “bacò” per i grandi, e l’acqua “Idrolitina” per noi bambini, facevamo “galzega”, anche se la polvere del “fromentòn”, ti entrava tra
Quasi ogni contrada aveva il suo musicista. Gli strumenti più diffusi erano la fisarmonica oppure l’armonica a bocca. Non esistevano spartiti, gli improvvisati musicisti suonavano ad orecchio e a memoria
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LA MEMORIA DI CARTA i vestiti facendoti “grattare” fino all’ora di prendere sonno. Sul finire del lavoro, il musicista della “contrà” estraeva la “spinèta” (la fisarmonica a bocca), intonando i ballabili che conosceva a memoria, coinvolgendo nelle danze tutta la compagnia. Era un modo per risaldare rapporti di amicizia e di solidarietà collaborativa nel duro lavoro dei campi bisognoso di molta manualità. Anche la vendemmia rispecchiava questo aspetto ma con un che di sacralità. Anche la mietitura aveva qualche cosa di sacrale, nei gesti, nell’attenzione a non perdere una spiga di frumento, nell’ analizzare visivamente il grano che scendeva dalla trebbia, facendolo scorrere sulla mano. La Sacralità del pane e del vino. Anche nella vendemmia ogni grappolo veniva così analizzato, se c’era un chicco marcio tolto, per poi depore il grappolo delicatamente nella cesta di vimini tra gli altri, sempre con venerazione, accompagnando la vendemmia con canti popolari intonati dal padrone della vigna, con lo scopo recondito di salvare l’uva da morsi famelici, fino alla pigiatura con i piedi in un contenitore di legno.
Il canto durante la vendemmia teneva viva l’andatura delle maestranze e allo stesso tempo fungeva da antifurto
Non c’era nessun contatto con plastica o metallo, elementi amorfi, ma solo con materia viva come è materia viva il mosto e il vino che ne segue. Questa trasformazione misteriosa che si rinnovava ogni anno veniva festeggiata da tutti gli addetti ai lavori, e infiltrati, con una degustazione di vino nuovo, spillato dalla botte buona, quella più grande, mentre in quella piccola finiva il vino meno buono e il “tòrcio” (il vino uscito dalla torchiatura delle bucce), ma con moderazione per evitare effetti indesiderati, propri del mosto che non è ancora del tutto vino, e con pan biscotto e sarde sotto sale! A proposito delle bucce dell’uva torchiate (le “graspe”), queste venivano vendute a un negoziante mantovano che con il suo motocarro le conferiva nelle distillerie del vicentino. Pagava le “graspe” con soldi di carta che mio nonno divideva alle donne di
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Non c’era nessun contatto con plastica o metallo, elementi amorfi, ma solo con materia viva come è materia viva il mosto e il vino che ne segue casa che avevano partecipato alla vendemmia e alla vinificazione. Era per loro una festa disporre di qualche denaro da spendere dal “merciaio”, rinnovando qualche cosa del loro guardaroba e dei loro figli! La “galzega de San Martin” chiudeva finalmente l’annata agraria, con tutta la famiglia, i braccianti, il bovaro, e qualche parente specializzato nell’assistere al lavoro altrui, tutti a cena! E poi il lungo e freddo inverno! Con la neve che regolarmente scendeva copiosa e duratura, con le numerose passere che mancando di cibo e infreddolite si intrufolavano dappertutto, di notte, nei pollai, nel fienile, nei pagliai, nei pochi alberi sempreverdi, e i giovani uomini della “contrà”, armati di reti sostenute da lunghe pertiche, a catturarle nelle interminabili sere d’inverno, con la Luna che specchiandosi nella neve illuminava quello che oggi sarebbe il luogo del delitto. Ho fatto in tempo a partecipare alle cene preparate per tutta la “contrà”, con il raccolto di queste notti da predoni della natura. Natura che poi si riequilibrava in velocità. Queste povere passere, cotte con la pancetta del maiale e salvia e accompagnate da abbondante polenta fumante, dove tutta la “contrà” festante era coinvolta nella preparazione e condivisione, hanno lasciato in me il ricordo di quel mondo inesorabilmente scomparso, sostituito dai McDonald’s, dalle sagre tutte uguali, dal cibo pronto “take away”, e l’amarezza di non poter trasferire ai miei nipoti, presi da tutt’altre faccende, neanche un’attimo di quel mondo antico che gioìva per poco, anzi si può dire per niente, dato che non esiste più!
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Podere Villa Alessi
vivere e celebrare l’autunno insieme ai suoi frutti 23 settembre e 14 ottobre, due appuntamenti da non perdere per conoscere da vicino il mondo dell’enologia euganea e vivere momenti di assoluto relax in un’azienda di campagna
Podere Villa Alessi è la casa delle stagioni e l’autunno è forse la più attesa, in quanto c’è trepidazione nell’appurare se sarà di parola e riuscirà a mantenere quelle promesse che erano state fatte dall’estate. Fino ad ora bisogna dire di sì, la dispensa dell’agriturismo si è già riempita di miele e di dolci marmellate. Diventeranno ingredienti speciali nella cucina, insieme all’extravergine, che verrà prodotto tra qualche settimana, e agli altri prodotti della campagna e al vino. Ed è proprio in occasione della vendemmia che la famiglia Giacomin apre le porte della propria azienda per poter permettere a tutti di viverne l’esperienza. L’appuntamento è per il 23 settembre, quando i filari del vigneto didattico, che raccoglie circa 140 varietà di viti, alcune diventate ormai rarissime, diventerà il cuo-
re pulsante della giornata; dal mattino si potranno fare lunghe passeggiate guidate lungo i filari, inoltre chi vorrà pranzare potrà farlo grazie ad un menù a tema: il celebre risotto all’uva di Villa Alessi ne sarà la portata più rappresentativa. Non mancheranno momenti dedicati alla cantina, alla vinificazione a intrattenimenti dedicati al Wine-experience, come la pigiatura dell’uva con i piedi, rendendo questa giornata un’occasione di conoscenza, di approfondimento e di relax. La festa, infatti, è dedicata alla famiglia, alla socialità, all’ambiente e alla vita in campagna e lo stesso spirito si rinnoverà anche il 14 ottobre con la Giornata delle fattorie didattiche aperte, dove oltre agli antichi mestieri i più piccoli potranno conoscere da vicino i tanti animali dell’aia della Tenuta.
Qui si può acquistare vino, olio extravergine d’oliva, miele, confetture, consumare piacevoli spuntini e condividere il piacere di stare in un posto unico. L’agriturismo apre prevalentemente su prenotazione, i locali vengono messi a disposizione anche per cerimonie e matrimoni
AGRITURISMO PODERE VILLA ALESSI - Via San Pietro, 6 - Faedo di Cinto Euganeo - PD Tel. e Fax 0429 634101 - www.villalessi.it - info@villalessi.it
IL PANORAMA GASTRONOMICO di Mario Stramazzo
MANGIANDO DI CORSA LUNGO LE VIE D’ITALIA
Street Food
OGGI IN VOGA COME
Agli anglofoni è stato ceduto il termine ma in realtà l’origine di questo modo di consumare i pasti appartiene alla ruralità mediterranea, alla gente abituata a vivere per strada, alle materie prime povere ma ricche di sapori e gusti
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e qualcuno pensa che l’idea dell’insalatona al bar, per l’impossibilità di rientrare fra le proprie mura domestiche all’ora di pranzo, sia invenzione dei nostri tempi, si ricreda. Già a partire dai tempi dei romani, ma anche a seguire, fra i popolani che vivevano nei centri cittadini, la consuetudine di consumare il pranzo di mezzogiorno seduti a tavola, a casa propria, era pressoché inesistente dato che le classi popolari urbane vivevano per strada gran parte della loro giornata. Qui, fra i dedali delle vie di ogni borgo con l’aspirazione a diventare città, e più ancora nella stessa urbe imperiale, scorreva la vita di tutti i giorni, anche all’ora di pranzo. E sempre qui, il popolo si nutriva acquistando i cibi più diversi da botteghe: “thermopolia”, “popinae”, “cauponae” e “tabernae” o da venditori ambulanti. Veri e proprio specialisti, questi ultimi, di quel cibo di strada che oggi, gli anglofoni, vogliono che noi lo si chiami street food. Quasi che l’invenzione di mangiare in un paio di manciate di minuti fosse nata nella terra della perfida Albione,
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rubandone la paternità latina e ancora prima, mediterranea. Un modo di cibarsi semplice, quasi frugale, verrebbe da pensare, se non fosse che dentro ai cartocci o all’interno di pani, usati come stoviglie, o stoviglie vere e proprie in forma di ciotole o scodelle di legno, gli “chef” d’allora seppero creare dei capolavori dell’arte culinaria. Squisitezze che in molti casi sono ancora oggi pietre miliari gastronomiche per identificare, in pochi morsi, una genia, un popolo, un luogo, il suo territorio circostante, la sua storia, la sua essenza. Ecco più che street food meglio sarebbe se lo si chiamasse cibo essenziale. Essenziale e finanche rigoroso come forse lo vollero le intenzioni dell’imperatore Domiziano quando emanò uno storico editto per regolare il caos di merci e prodotti alimentari esposti e messi in vendita che regnava per le strade della capitale. Una svolta epocale che codificò il cibo del mezzogiorno dandone pure quella dignità riservata ai soli cibi dei ricchi o degli aristocratici che, nelle lor dimore, avevano servi e cucine, con tanto di fuochi e
IL PANORAMA GASTRONOMICO
Già nell’antica Roma la popolazione urbana che non rientrava a pranzo poteva trovare i cibi più diversi nei “thermopolia”, nelle “popinae”, nelle “cauponae” o nelle “tabernae”. Strutture molto simili a quelle di oggi per tenere in calda e servire piatti veloci. Nella foto un “thermopolia” salvatosi dall’eruzione del Vesuvio del 79 d.C a Pompei
forni. Tutto il contrario del misero focolare in uso al vulgo e buono, sì e no, per qualche zuppa serotina che magari poteva far da giusto conciliatore di pace ad uno stomaco che, a pranzo, non venivano risparmiate bordate di caloriche libagioni. Basti pensare ad esempio alle diverse focacce condite con strutto di maiale e farcite da formaggi, salsicce o verdure che in epoca moderna, dal nord al sud dell’Italia, culminano, ad esempio, con la Focaccia di Recco: una composizione che prevede due dischi focaccia bassa, tirata sottile fra i quali è interposta una formaggetta, prima di condirla con olio ligure e sale, cotta poi su un disco di ardesia. O ancora, continuando questo viaggio ideale fra i cibi di strada dell’Italia, i Gofri della piemontese Val Chisone che abbandonano la forma di focaccia per diventare cialde croccanti dalla superficie tipica a nido d’ape, ottenute da un impasto di acqua, latte, farina, uova e lievito cotto tra due piastre contrapposte e sagomate. Il Brezel dell’Alto Adige e dei paesi a nord delle Alpi: pane dalla forma intrecciata è sbol-
lentata in una soluzione di acqua e bicarbonato di sodio, che gli conferisce il tipico aspetto lucido, condito con grani di sale grosso e cotto in forno per rimanere croccante fuori ma morbido dentro. I lombardi Mondeghili, piatto di origine già più moderna, fatti con la polpa di carne già cotta che viene tritata e impastata con pane ammollato nel latte e uova, quindi fritta in abbondante burro. I Mussoli a Trieste e lungo le coste dell’alto Adriatico: bivalve simili alle ostriche ma più piccoli venduti nelle bancherelle agli angoli meno ventosi della città, messi in grandi pentoloni a schiudersi sopra a un fornello a carbone. I nostri Folpetti, piccoli polipi bolliti che portavano e portano ancora oggi una ventata di fresca sapidità del vicino Adriatico dentro le mura patavine. Le inossidabili e millenarie Fritole di Venezia che pur se fritte solo durante il carnevale rimangono ben scolpite nella memoria dei palati per tutti gli undici mesi a seguire. Ma è scendendo lungo lo stivale che la “faccenda” diventa ancora più ghiotta con l’esplosione dei Berlenghi, sottilissima crepe ottenuta da un impasto di acqua o latte, farina e sale condita con la tradizionale cunza, ovvero un battuto di lardo profumato con aglio e rosmarino e una piccola manciata di parmigiano. Le Piadine della Romagna o gli Gnocchi fritti dell’Emilia; e ancora i castagnacci che dall’alta Toscana scendono verso il centro e il meridione dove, prima di incontrare le Olive ripiene e fritte all’ascolana, lasciano celebrare al Lampredotto un vero e proprio trionfo
Un modo di cibarsi semplice, quasi frugale, verrebbe da pensare, se non fosse che in realtà che i cuochi del passato seppero creare dei capolavori dell’arte culinaria
Dal centro Italia al sud il cibo di strada è quasi sempre a base di frattaglie ed interiora, materie prime molto povere che connaturano l’origine popolare di queste preparazioni. Il lampredotto toscano è un panino preparato con la trippa bovina, anche gli murzeddu calabresi sono uno stufato a base di cuore, fegato, polmone, milza e a volte intestino di bovino, oppure il pani ca’ meusa siciliano preparato con la milza
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IL PANORAMA GASTRONOMICO Squisitezze che in molti casi sono ancora oggi pietre miliari gastronomiche per identificare, in pochi morsi, una genia, un popolo, un luogo, il suo territorio circostante, la sua storia, la sua essenza
Gli gnumareddi o turcinelli e turcineddi pugliesi altro non sono che degli involtini di interiora di agnello o capretto, fegato, rognone e polmone tenuti insieme come in un gomitolo dalle budella della bestia. Conditi con sale e finocchietto selvatico prima di essere arrostiti sulla brace
di calorie e grassi da far tremare i polsi anche al più scafato Pantagruel. Un’icona, questo cibo della città del giglio e del suo territorio, dove impera l’abomaso, uno dei quattro stomaci dei bovini, bollito per lungo tempo in acqua insaporita con sedano, pomodoro e cipolla. Una volta cotto, lo si usa tagliato grossolanamente per farcire un panino, bagnato poi nel brodo di cottura e condito con una salsa verde a base di olio e prezzemolo. Pane che invece viene farcito dalla Porchetta quando si entra nella laziale terra di Castelli e si torna a respirare l’aria di Roma. Che non fa mancare, in tempi ormai vicini a noi, preparazioni anche più complesse come i Suplì: una polpetta di riso dalla forma allungata fritta in abbondante olio caldo e dove al centro è posto un dadino di mozzarella che con il calore si scioglie e diventa filante. Come può diventarlo la mozzarelle che magari i napoletani usano per farcire la loro Pizza fritta. Una invenzione nata per ovviare alla mancanza di un forno a legna dentro casa e in cui cuocere il classico impasto. Tra il foggiano, il leccese e il brindisino si possono trovare gnumareddi o turcinelli e turcineddi che altro non sono se non degli involtini di interiora di agnello o capretto, fegato, rognone e polmone tenuti insieme come in un gomitolo dalle budella della bestia. Conditi con sale e finocchietto selvatico prima di essere arrostiti sulla brace. Controaltare per il murzeddu calabrese: pane a ruota di carro farcito con uno stufato a base di cuore, fegato, polmone, milza e a volte intestino di bovino. Il tutto cotto in una sal-
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sa di concentrato di pomodoro, peperoni piccanti e origano. Interiora che trionfano nuovamente con le sicule stigliole: budella dell’agnello, o del capretto, arrotolate intorno a una foglia di porro infilzata su uno spiedino in legno o bambù e arrostite sulla brace; condite con sale fino e succo di limone. Anche nel palermitano non si scherza, con il pani ca’ meusa, infatti, si intende la milza e il polmone di vacca, cotti in brodo e tagliati prima di essere spadellati nella sugna per finire dentro ad un panino e infine conditi con caciocavallo grattato e succo di limone. Forse usato, il limone, per dare dose di digeribilità di cui sembrano non aver bisogno invece le seadas. Dolce tipico della Sardegna che si compone di due dischi di pasta sovrapposti e farciti con formaggio fresco, fritti in abbondante olio di oliva e, ancora caldi, irrorati di miele e con il quale concludiamo questa corsa ideale del cibo di strada d’Italia. Scusandoci con le cento altre specialità che non abbiamo citato per ragioni di spazio ma non è detto che non se ne renda pari merito in una prossimo desinare, di corsa, in strada.
Tra i piatti dello street food veneto sicuramente sono da annoverare i folpetti, a Noventa Padovana una fiera prende proprio il nome da questo piatto
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Sapori e colori d’autunno Lo storico ristorante è il luogo perfetto per trovare quel preciso contrappunto tra scorci del paesaggio collinare autunnale e i sapori che a buon diritto appartengono allo stesso panorama
Lo chef Giuliano Lionello nella sua cucina
Non c’è posto più adatto del
dispensa del ristorante Al Pirio di Torreglia vanno ad
tavolo di un ristorante per as-
aggiungersi alle altre materie prime, sempre oggetto
saggiare il vero gusto delle
di una selezione attenta e scrupolosa, per diventare
stagioni. Perché con le pagi-
gli elementi portanti dell’offerta gastronomica dedi-
ne del calendario cambiano
cata alla terza stagione dell’anno. Gli altri ingredienti
i colori, ma soprattutto i sapori
usati in cucina sono la creatività, con la quale ven-
e con essi le nostre esigenze:
gono trovate sempre nuove combinazioni di sapori, e
stimolate dall’arrivo dei pri-
l’innovazione, estesa anche al metodo di cottura per
mi freddi verso un bisogno di
preservare tutti i valori delle materie prime. Ogni piat-
convivialità e dalla necessità
to, dall’antipasto al dolce, è oggetto della cura dello
di riallacciare rapporti sinceri,
chef Giuliano Lionello e trova preciso contrappunto
schietti. L’autunno, del resto,
nella fornitissima cantina capace di soddisfare an-
è la stagione più generosa: capace di unire a tut-
che la richiesta più esigente. Per questo qui è ancora
to quello che l’agricoltura ha portato a maturazio-
possibile alzarsi da tavola con una sensazione di festa,
ne l’abbondanza di ciò che la natura offre sponta-
conquistati da quello che non è stato solo un pasto,
neamente: funghi, castagne, tartufi, noci che nella
ma una vera e propria esperienza.
... ci piacciono le stagioni, ci piace assecondarle perché cambiano i nomi delle cose, cambiano i sapori, i desideri ed è così che dai piatti dell’estate ci stiamo preparando per quelli che anticipano la stagione fredda ...
IL TORRESANO, piatto tipico di Torreglia, arrostito e farcito con castagne e funghi
Ingrediente speciale è la creatività, per arricchire la tradizione di sapori inediti
Nel menù è sempre contemplata un’offerta vegetariana e vegan
La fornitissima cantina, per un’offerta che propone le migliori etichette euganee e quelle del buon bere internazionale
TRATTORIA AL PIRIO SNC di Lionello Giuliano & C. Via Pirio, 10 - 35038 Torreglia (PD) tel. 049 5211085 - info@alpirio.com - www.alpirio.com
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Sagra del folpo
A NOVENTA PADOVANA L’ANTICA FIERA D’AUTUNNO Dal 26 al 30 ottobre l’appuntamento è con una delle fiere più antiche del Veneto La chiave è il tempo, un tempo che ritorna nella medesima piazza di un paese, torna sulla riva del fiume e dentro il canale, torna sul sagrato delle chiese, sugli argini e sotto, sui campi. Il tempo torna uguale e diverso. Il tempo della festa è precisamente questo: un tempo condiviso, il tempo in cui le persone si danno appuntamento in piazza, nella stessa data per sottolinearne il ritorno. E la Sagra del folpo ormai ritorna da secoli. I documenti più antichi portano la data del 1776, ma probabilmente la Sagra era già esistente e chissà da quanto tempo. Oggi è uno degli appuntamenti più importanti e attesi del Veneto, una fiera arricchita, soprattutto negli ultimi anni, in contenuti, proposte e appuntamenti sia di natura culturale, che di svago o legati all’offerta commerciale locale. Del resto Noventa Padovana è ricca di bellezze architettoniche e paesaggistiche legate alla Riviera del Brenta e al Piovego. Così è facile spaziare dal panorama delle bellissime Ville Venete alla possibilità di fare acquisti all’angolo dei prodotti tipici locali, organizzato da Coldiretti Padova, o alla grande Mostra Mercato, divisa in un due stimolanti promenade: Via delle Delizie, dedicata alla produzione gastronomiche dolci e salate, e il Viale dei Desideri con l’oggettistica artigianale. Insomma il meglio
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delle produzioni locali proposte dagli oltre trecento artigiani e ambulanti che da sempre colorano la storica “Fiera di Noenta”. Sempre alle produzioni locali e al commercio è dedicato il Padiglione Expo Stile e Qualità, in piazza Giovanelli, curato dalle associazioni di categoria Confcommercio, Confartigianato e Confesercenti. Non manca, ovviamente, l’offerta enogastronomica, che anzi è uno degli elementi che maggiormente caratterizza la sagra grazie al “folpo” e al vino “Torbiolino”, e le opportunità di svago con: musica e concerti, spettacoli, mostre e l’immancabile Luna Park. Arrivare è facile e non c’è nemmeno il rischio di rimanere imbottigliati nel traffico. Anzi sarà sicuramente suggestivo arrivare alla Sagra del folpo direttamente in battello da Padova, lungo il percorso fluviale del Piovego, oppure approfittare dei trenini-navetta che, con percorsi ed orari stabiliti, collegano alcune località del territorio con fermate intermedie alla zona pedonale interessata alla Fiera. Il servizio è stato pensato per dare sempre più una valenza “green” alla storica Sagra del folpo, e allo stesso tempo agevolare gli anziani e i più piccoli, ma di fatto sta diventando esso stesso una nota caratterizzante di questa storica manifestazione, insieme ai fuochi d’artificio che concludono i cinque giorni di festa.
ALMENO 250 ANNI DI STORIA… Le sagre e le fiere da sempre si legano al calendario agrario. I vari momenti della campagna, soprattutto quelli legati ai raccolti, come la mietitura o la vendemmia, venivano celebrati con feste religiose, per ringraziare dell’abbondanza ricevuta e per ingraziarsi quella dell’anno successivo. Il termine sagra, infatti, mantiene la radice semantica originale, appunto legata al sacro o forse, più propriamente, al sagrato dove si tenevano queste ricorrenze. Anche le fiere si legano all’abbondanza dei raccolti, fin dal Medioevo infatti le eccedenze produttive potevano essere vendute dai contadini per ricavare qualche soldo con cui provvedere ai bisogni della famiglia. Le fèriae, da qui deriva il moderno nome, ossia il giorno festivo perché i mercati in antica usanza si tenevano in giorni di vacanza e nella ricorrenza di feste religiose per poter permettere a tutti di partecipare, rappresentavano quegli “appuntamenti” legati al commercio che si tenevano in precise date dell’anno. In un primo tempo le compravendite si tenevano per strada e quindi in balia di furti o soggetti a tributi e gabelle imposte da baroni e marchesi del territorio. Successivamente, per proteggere questa sorgente di ricchezza, i grandi principi furono indotti a offrire una specie di asilo, conferendo per un certo periodo di tempo, a coloro che convenivano in determinate località, particolari privilegi: libertà speciali, piazze, guarnigioni per il presidio delle merci. Nacquero così le fiere franche, ossia affrancate da qualsiasi forma di dazio. Ed è questa particolare forma di mercatura che risale
anche la Sagra del folpo. Le testimonianze più antiche risalgono a quelle riportate dallo storico Andrea Gloria, nel “Territorio Padovano illustrato” del 1862: “frequentatissima v’è la Fiera annua in ottobre della quale Girolamo Vendramin ottenne la conferma nel millesettecentocinquantotto, trasferita la 2° domenica di ottobre per la Ducale 11 settembre 1776” e che l’allora Doge Francesco Loredan emanò un decreto che decise “che sia rinnovata la concessione di un mercato franco da farsi nella 2° domenica e lunedì susseguente di ottobre di cadaun anno nella pubblica già capace strada”. Si trattava però di rinnovi di precedenti concessioni di cui non si conosce esattamente l’origine. Lungo tutti i secoli, tuttavia, la Fiera mantenne la natura di mercato agricolo autunnale, associato a diversi momenti di intrattenimento che iniziarono ad essere stabili. Come la presenza di attori girovaghi, che tanto rallegravano i patrizi Veneziani anche negli ultimi anni della Repubblica, o i “folpàri”, i venditori di piccoli polpi ai quali si deve il nome moderno della Fiera.
NOVENTA PADOVANA TURISMO E CULTURA Noventa Padovana è un luogo eletto per il buon vivere fin da quando l’aristocrazia veneziana scelse il tratto di Brenta che collega Padova alla Laguna di Venezia come luogo per villeggiatura. Noventa Padovana, infatti, rappresenta proprio la porta d’ingresso alla “Riviera del Brenta”. Città tranquilla, distesa tra due fiumi, il Piovego e appunto il Brenta, da qui dipartono percorsi ciclabili nel verde della natura circostante e tra le meraviglie dell’architettura. Padova dista appena 8 chilometri e quindi diventa facilissimo coniugare la bellezze della città a questo angolo di campagna bucolica, ma altrettanto suggestivo è il burchiello, con il quale è possibile percorrere i navigli e magari farsi guidare dalle correnti per raggiungere la Laguna. Noventa Padovana è la città degli artisti, qui hanno trovato soggiorno compositori e letterati come
Georg Friedrich Händel, Gasparo Gozzi e Melchiorre Cesarotti, uomini di scienza come Giovanni Santini e si conservano le opere di importanti di pittori, del calibro di Andrea Urbani, Diego Varotari e Girolamo Brusaferro, o scultori come Giovanni Bonazza e del suo allievo Pietro Danieletti.
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Vecia Sagra de Noventa di Bepi Missaglia
NELL’ANNO DEL CIBO ITALIANO, OLTRE A BETTOLE E BETTOLINI IL VILLAGGIO DEL GUSTO
Nell’anno dedicato al Cibo italiano non poteva mancare uno spazio dedicato alla degustazione delle specialità italiane. Non poteva di certo mancare alla “Sagra del folpo”, in quanto qui ai piatti della tradizione è stato da sempre tributato spazio e importanza. Per rendersene conto basta snocciolare qualche numero e dire che nelle caratteristiche bettole, e altrettanto caratteristici bettolini, ossia negli stand deputati all’offerta enogastronomica, possono trovare posto a sedere circa due mila persone per una degustazione dei piatti caratteristici del territorio. A cominciare dall’immancabile “folpo”, uno dei pochi, se non l’unico, prodotto ittico fresco diventato il simbolo di una fiera di pianura, che ogni anno viene preparato dalle abili mani dei “folpari” fino a raggiungere, nei cinque giorni di festa, quantità che toccano i due quintali di prodotto fresco lavorato. Pure il baccalà è uno dei piatti più gettonati. Anche in questo caso a confermarne l’appeal sono le quantità preparate, circa un quintale e mezzo, e non mancano le grigliate, le “trippe” in brodo e le altre preparazioni care alla cultura del territorio. A fianco di queste, l’edizione 2018, proprio in onore dell’anno dedicato al cibo italiano, ospita il Villaggio del Gusto, organizzato in aderenza al programma di festeggiamenti voluto dai Ministeri delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali e dei Beni Culturali e del Turismo, per sottolineare le tante eccellenze gastronomiche che ormai costituiscono una forma di identità per il Belpaese. Non solo queste, a dire il vero, in quanto alla cucina vengono associati gli altri punti di forza dell’Italia, come l’arte, il paesaggio, la cultura di cui anche Noventa e depositaria e custode. Il tema di fondo dell’iniziativa, infatti, è quello di trovare nelle tante iniziative rivolte alla tradizioni italiane, come la Sagra del folpo, un’occasione, per diffondere l’immenso patrimonio che rende uniche e diverse tutte le 20 regioni d’Italia. Segui il programma completo della dell’Antica Fiera di Noventa Padovana su www.sagradelfolpo.it
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Folpi caldi, masenete I marroni grossi bei, pevarini e le favete, tiramola par putei.
Nose mandole co’ i fighi. Pomi cachi bei grossi Cuchi e cuche, mille intrighi E de zuca te t’ingrossi. Mandolato , caramelle, Masteloni, mastelete, balosini, girastele subi pifari e trombette. Stalo grando per cavai E custodia biciclette, vin spinà dentro i bocai: vegna vin ca semo in sete. Toni bevi anca ‘sto goto Pago mi! Mi no ghe bado, go anca el pan che xè biscotto co’ na feta de salado. Tiri a segno co’ i piumini, tiri a colpi che fa bumm, tiri a foto co’i balini, el casoto turuntumm. Circo equestre co’ la banda, balo fatto in piantaforma, una pesca tanto granda, l’organeto co’ la Norma. Altalena co’ barchette, do cavai tacà ‘na rupia, qua le nove cansonete e n’armonica che supia. Xente tanta e tanta ancora, done, omai, putei dapartuto: salta fora come nuvole de osei. Tuti magna par le strade, fave nose e castagne, dispensando le peade su le piante... pore cagne. Camminando co’ fa ochi I se scontra co’ sfiancà, ma no i bada, perde i tochi de la roba zà magnà. I gramofoni sofiosi I te spaca recie e testa. Ma i xe i tuti rumorosi, per passare ‘sta gran festa. Dopo i torna tuti a casa Imbriaghi ben pasui Co’ la pansa sgionfa rasa, duri strachi co’ fa mui. Ma contenti par dei mesi Torno al fogo de polenta, i pensava ai soldi spesi a la sagra de... Noventa.
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L’AmARO del FOLPO
Amabile calice per brindare alla socialità
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L’amaro del folpo è l’immagine di Noventa Padovana, della sua intraprendenza, della sua arte e del suo modo di fare festa. Omaggio alla storica Fiera che da secoli anima il territorio, ne riassume il significato profondo, identitario, per diventare un prodotto capace di raggiungere ogni angolo del mondo e farsi ambasciatore di questa parte della Riviera del Brenta La scelta dell’imbottigliamento in un fiaschetto impagliato a mano vuole essere un forte richiamo alla tradizione veneta e rurale. Tradizione contadina che lo stesso Ruggero Pagnin celebra nella sua opera “Vecia Sagra de Noenta” e da cui è nata l’iconografia del nostro “Amaro de Noenta”. L’opera è esposta alla Biblioteca Comunale ed è lì che è stata concepita l’idea che ha portato alla realizzazione del prodotto finale, e dei valori che lo caratterizzano. L’amaro del folpo è un inno alla socialità, al vivere allegro, all’auspicio del brindisi, insomma un sorso ed è un po’ come essere qui in quei cinque giorni della Sagra del Folpo, in cui Noventa Padovana annulla il presente e rivive la propria storia insieme al ciclico ritornare della stagioni.
Il packaging dell’amaro del folpo riprende il quadro del pittore Ruggero Pagnin dedicato all’ Antica Fiera d’Autunno, che nel sentimento comune è per tutti la “Sagra del folpo”
La Ricetta
Nato da un’idea di Luca Pasin, titolare del negozio Lucaffè Shop, e subito condivisa con alcuni colleghi commercianti di Noventa, “L’Amaro de Noenta” è preparato dalle Antiche Distillerie Mantovani secondo un’alchimia che miscela: genziana, rabarbaro, arancio dolce e qualche altro ingrediente naturale. La sua bassa gradazione alcolica, 21 gradi, lo rende perfetto conviviale di sagre e feste in piazza, ma anche originale e sfizioso fine pasto. Ottimo con ghiaccio, piacevolissimo caldo con l’aggiunta di una scorza di limone o arancio.
Amaro del Folpo - Liquore de Noenta è un prodotto registrato e distribuito da Lucaffè Shop Padova Aperto da Lunedi a Sabato con orario 9.00-12.30 e 15.30-19.30 Piazza Giovanelli, 48 - 35027 Noventa Padovana (PD) - Tel. +39 049 6226155 - mail info@saluscaffe.it. www.saluscaffe.it e su Facebook con una pagina dedicata
INGIROPIEDANDO
L ’Antica Fiera di Noventa di Mauro Gambin
E IL CIBO DI STRADA
I folpàri sono sicuramente uno degli elementi caratterizzanti dei cinque giorni che animano la Riviera del Brenta ad ottobre di ogni anno. Hanno una storia altrettanto lunga, ma la loro offerta oggi è di estrema attualità, rientrando a pieno titolo un quella branca della ristorazione che oggi va molto di moda con il nome di street-food
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urante i cinque giorni dell’Antica Fiera di Noventa Padovana l’offerta gastronomica è importante è affidata a uomini e donne che da sempre custodiscono i segreti delle ricette tradizionali, continuando a proporle nei caratteristici stand. Però se c’è un piatto a cui la storica fiera si associa, tanto da prenderne il nome, è il folpo. Cefalopode da non confondere con i polipi, famiglia alla quale invece appartengono gli anemoni di mare e le madrepore delle barriere coralline, ma neanche con il polpo, trattandosi invece di un “moscardino” delle dimensioni di una mano, preparato lesso e servito con un “sughetto” fatto da prezzemolo, vino bianco, limone e altri ingredienti che ogni “folpàro” mantiene rigorosamente top secret. La Fiera di Noventa, infatti, è l’unica in cui queste antiche figure della ristorazione di strada, oggi celebrata con il termine di street-food, ancora sono protagoniste. I venditori di folpi, infatti, un tempo erano molto diffusi, esercitavano il commercio ambu-
lante in quasi tutti i mercati e le fiere del veneziano e del padovano, vendendo pesce. Non certo il pesce costoso ma tutta quella serie di molluschi, crostacei e gasteropodi che la povera gente riusciva a racimolare senza spesa e che per questo sono entrati a far parte del cibo popolare. Come: i “bovoetti”, lumachine che vivono nelle sterpaglie vicino al mare che si raccolgono da aprile ad ottobre, o le “masenette” le femmine del granchio, pescate tra agosto e dicembre o le più prelibate “moeche”, granchi della laguna pescati nel periodo della muta, quando abbandonano il carapace e sono quindi tenere e molli. Autentiche leccornie che con i loro sapori e profumi hanno accompagnato i momenti di festa lungo tutti i secoli della storia. Oggi quest’antica forma di ristorazione viene portata avanti ancora da qualche folpàro che malgrado il cambio di abitudini sociali continua a scommettere sull’attualità e il valore di questi prodotti.
FOLPETTI BOLLITI Pulite i folpetti mantenendo le interiora, poi lavateli bene e per eliminare la sabbia che contengono fate entrare l’acqua nella testa e schiacciatela. Portate ad ebollizione abbondante acqua in una casseruola con una manciata di sale grosso, il vino rosso e l’alloro. Prendete ora i folpetti, afferrandoli dalla parte della bocca, e tuffateli nell’acqua in ebollizione. Immergeteli 2/3 volte affinchè i tentacoli si arricciano e poi fateli scivolare nell’acqua. Cuoceteli per 20/30 minuti ed alla fine fateli intiepidire nell’acqua di cottura. Tritate il prezzemolo e l’aglio e raccoglieteli in una ciotola con abbondante olio. Scolate i folpetti, tagliateli a pezzi, conditeli con sale, pepe, la salsina al prezzemolo e una strizzatina di succo di limone.
Difficoltà: bassa
Preparazione: Cottura: 15 minuti 30 minuti
INGREDIENTI per 4 persone • 4 folpetti da circa 150 g l’uno • 1 bicchiere di vino rosso • 3/4 foglie di allora • sale grosso • 1 mazzetto di prezzemolo • 1 spicchio d’aglio • olio extravergine dio oliva • limone • sale • pepe
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INGIROPIEDANDO
Il Torbiolino NON LO BERRETE MAI ALTROVE
Si parla di folpi e di fritto. Ma la sagra di Noventa è famosa anche per un’altra cosa: il torbiolin. Passa per vino, ma in realtà è ancora mosto e del resto, in questa stagione, la vendemmia è ancora in corso. Però ha la sua natura, a metà strada tra il brio del prosecco e il boccato stucchevole della spuma, è il vino che si accompagna alla Sagra, anzi forse rappresenta per estensione la nostalgia di una certa Italia. Contadina e lavoratrice. È sicuramente social, in quanto rientra tra quelle bevande che anticipano di anni luce l’aperitivo, ma che hanno sempre mantenuta accesa l’allegria tra le persone, favorendo il superamento delle classi sociali, le divisioni portate dalle idee politiche, i problemi personali e le bizze del tempo. Non lo berrete mai altrove, o comunque per degustarlo nella sua pienezza bisogna andare alla “Sagra de Noenta”, solo lì sprigiona la sua carica aromatica e diventa strumento pericoloso di contagio per trasmettere gioia.
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L’ALTA MODA NELL’ABBIGLIAMENTO
le mode passano lo stile resta con Nicole “Da 45 anni il nostro impegno e quello di dare a tutti la libertà di poter scegliere il proprio stile e mostrare la propria personalità attraverso i loro outfit” NICOLE BOUTIQUE in via Guglielmo Marconi, 82 a Noventa Padovana e in via Franchini, 15 a Pieve Tesino Mob. 346 668 7213. È possibile seguire le novità delle collezioni anche su Facebok
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INGIROPIEDANDO
CONFRATERNITA DEL FOLPO ISTITUZIONE TENTACOLARE PER GODERE DEL TERRITORIO Nata lo scorso 21 marzo, il primo incontro conviviale è da segnare in calendario nella casella del 20 ottobre All’antica fiera di Noventa Padovana, o comunque al suo popolare prodotto, si lega anche la recente nascita della Confraternita del Folpo. Il merito va riconosciuto ad un gruppo di amici che richiamati a Noventa ogni anno proprio dalla Storica Fiera d’Autunno, hanno voluto fare del celebre cefalopode un vessillo per rimarcare il legame con il territorio e con i ritmi dettati dal calendario agreste, a cui si lega questa storica manifestazione. Gli intenti della neo-costituita associazione stanno scritti tutti in uno statuto, ma potrebbero essere riassunti anche dalla lettura della morfologia anatomica del folpo. “Il folpo - spiega il presidente della Confraternita del Folpo, Federico Bordin - per noi è fonte di immensa ispirazione. È cefalopode, ossia ha testa e gambe connesse, utili per fare buona strada. Ha due occhi riccamente innervati e molto ricettivi su ciò che lo circonda, per non perdere la visione d’insieme e alcun singolo dettaglio. Muta mirabilmente per farsi un tutt’uno col Territorio. Ha tre cuori che ne vivacizzano la circolazione e la sensibilità. È mollusco, ma non molle, ed è quindi flessibile per aderire totalmente a ciò che trova di suo interesse. Più di altri animali ha capacità di apprendimento.
La Confraternita si ispira ad un sano epicureismo, dove i termini tranquillità e spirito vanno interpretati con generosità in tutte le loro possibili accezioni
Infin e , m a p o tremmo aver dimenticato qualcosa, è un essere dotato di grande autonomia, che unisce la capacità di immergersi beatamente in esplorative solitudini con la disponibilità a lasciarsi “tentacolare” da vivaci momenti di branco. E anca soeo co’ pressemoeo e limon el zè “na meraveja!”. Parallelismi che richiamano alla mente Aristotele, allo scopo di compiacersi che in questo caso forma e sostanza coincidono, e che mettono in luce l’intento aggregativo, nel segno della condivisione, della Confraternita e i valori schiettamente genuini e agricoli che ne sono il collante. “È così - continua il Presidente - per noi il Sabato che da inizio alla Sagra del folpo è un appuntamento nel quale facciamo il punto sul “raccolto” dell’anno, quasi come i nostri nonni mezzadri di cui desideriamo rivivere i valori nel Territorio di appartenenza, esaltandone bellezze, colori, profumi e sapori: e questo accade ogni anno, proprio davanti ad un fumante piatto di folpi”. Il “folpo, dunque, è l’elemento attorno al quale si polarizzano idee e intenti, ne è il pretesto ma anche il motore. “La Con-
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INGIROPIEDANDO fraternita del Folpo - continua Federico - si ispira ad un sano epicureismo, dove i termini tranquillità e spirito vanno interpretati con generosità in tutte le loro possibili accezioni. Ma quello che ci accomuna è il piacere spontaneo dello stare insieme e del gustare rispettosamente delle bellezze e bontà del Territorio (non solo quella del folpo) soprattutto di quello erroneamente identificato come “minore”, proponendo con semplicità alcune iniziative a chi desiderasse liberamente prenderne parte, e - perché no? - dando una sbirciatina anche un po’ a tutto quello che, in termini di iniziative, gruppi, avvenimenti, ci sta intorno, perché dal confronto intelligente tutti possiamo trarne arricchimento. Ricordando che quanto abbiamo di bello e buono non è a nostro esclusivo uso e consumo, ma ci è affidato per goderne con sobrietà e coltivarlo con cura per chi naturalmente ci seguirà. Ed è con questo spirito, e con gratitudine verso Noventa Padovana che ci ha dato i natali come Confratelli, che ci troveremo per il nostro primo incontro conviviale sabato 20 ottobre, presso DIEFFE-Accademia delle Professioni di Noventa Padovana. Sarà una cena a tema che avrà come motto: acqua in bocca, non fa gran presa...”.
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“Il folpo è cefalopode, ossia ha testa e gambe connesse, utili per fare buona strada. Ha due occhi riccamente innervati e molto ricettivi su ciò che lo circonda, per non perdere la visione d’insieme e alcun singolo dettaglio. Muta mirabilmente per farsi un tutt’uno col Territorio. Ha tre cuori che ne vivacizzano la circolazione e la sensibilità. È mollusco, ma non molle, ed è quindi flessibile per aderire totalmente a ciò che trova di suo interesse. Più di altri animali ha capacità di apprendimento. Infine, ma potremmo aver dimenticato qualcosa, è un essere dotato di grande autonomia, che unisce la capacità di immergersi beatamente in esplorative solitudini con la disponibilità a lasciarsi “tentacolare” da vivaci momenti di branco”
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Carni di maiale e insaccati di altissima qualità Animali allevati direttamente in azienda e prodotti genuini, realizzati secondo tradizione.
Ciò che ci contraddistingue è il legame profondo con il territorio e con la tradizione veneta nel produrre insaccati di altissima qualità. Per garantire sapore e genuinità utilizziamo solo ed esclusivamente tutti i migliori tagli di carni provenienti da suini allevati in azienda e una lavorazione senza utilizzo di conservanti e additivi chimici, come richiede ora un consumatore attento alla qualità di ciò che consuma e alla sua salute. La lenta stagionatura e lo scorrere del tempo permettono poi al prodotto di maturare creando un perfetto equilibrio in bocca
TI ASPETTIAMO IL 29 E 30 SETTEMBRE A VILLA CONTARINI DI PIAZZOLA SUL BRENTA IN OCCASIONE DI CASEUS VENETI, sarà l'occasione giusta per assaggiare i nostri prodotti e condividerne profumi e gusto I prodotti dei F.lli Scremin possono essere acquistati presso il punto vendita aziendale in via Fiume, 72 a Piazzola sul Brenta, oppure al mercato domenicale di Camisano Vicentino - Cell. 328 6642395 - .
LA CUCINA DI QB di Anna Maria Pellegrino
Lasciamoci sedurre dal folpo
Mollusco celebrato dagli antichi per la sua intelligenza e per le capacità mimetiche, come cibo, invece, è sempre stato considerato assai poco. Forse a causa della durezza delle sue carni. Ma esistono ricette in grado di esaltarne il valore anche in cucina, eccone una
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ella tarda civiltà minoica (1400-1200 a.C.) il polpo era la manifestazione della Grande Dea nella sua funzione rigeneratrice. Ed è probabile che il mito di Medusa, la dea che aveva serpenti al posto del capelli, nasca dai tentacoli del polpo. Omero, nel canto V dell’“Odissea”, paragona Ulisse, il più umano degli eroi greci, a un polpo, mettendo in evi-
Casa del Fauno Pompei: Il polpo compare nel mosaico pavimentale della Casa del Fauno di Pompei, oggi conservato al Museo Archeologico di Napoli
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denza l’altissimo quoziente intellettivo di cui entrambi sono dotati. Nell’antichità classica, il polpo compariva su monete di Siracusa e di altre città greche e su mosaici, come quello della Casa del Fauno di Pompei. Molte sono le virtù attribuite a questo simpatico mollusco e le più interessanti sono indubbiamente quelle afrodisiache, alludendo alla consistenza delle sue carni prima e dopo la cottura. Si riteneva infatti che il polpo, una volta mangiato, avrebbe scatenato sogni osceni e lussuriosi, tanto che François Rabelais, l’autore di Pantagruel e il Gargantua, nel Cinquecento ne parlava ampiamente. Anche Cicerone ne scrisse, raccontando di un polpo presentato in tavola camuffato da testa di Giove. Ma quali sono le forme del Polpo? Fin dal Medioevo se ne conoscevano le due varietà distinte: il Moscatello (Eledone moschata) e il Polpo (Octopus vulgaris). Sono entrambi cefalopodi e presentano le medesime caratteristiche morfologiche ma mentre il primo è provvisto di una sola fila di ventose, non supera i 40 cm di lunghezza ed emana un forte odore di muschio, il secondo presenta due file di ventose e raggiunge anche i 50 cm di lunghezza totale, con una qualità delle carni decisamente migliore. Ecco allora un primo aiuto per acquistare al meglio in pescheria, visto anche la notevole differenza di prezzo.
LA CUCINA DI QB
UN GIRO IN GIRO TRA RICETTARI E RICETTE Il ricettario di un cuoco anonimo meridionale (tra la fine del XIV e l’inizio del XV secolo) dice “lexa lu polpo grosso et magnalo con sale, et semegliantemente poy fare de pescie ch’a nomo moscarello” mentre Maestro Martino da Como nel Libro de arte coquinaria (seconda metà del XV secolo) non pone limiti nelle modalità di cottura del polpo: “li polpo è pesce vile et de non farne stima; cocilo dunque como ti pare”. Nei ricettari del secoli XVII-XIX lo spazio riservato ai polpi è purtroppo limitato. Ne “Lo scalco alla moderna” di Antonio Latini (1694) a proposito del “pesce polpo” si legge: “S’apparecchia in tutti i modi accennati del calamajo; ma con maggior cottura, perché è di polpa assai più dura; è buono fritto e se ne possono fare diversi pottagi”. In una ricetta di “seppie in pottaggio” si legge che le seppie, pulite, lavate e tagliate a pezzi e quindi disposte in un vaso con olio, erbe odorifere, cipolla trita, un bicchiere di vino bianco, pinoli, uva passa e amarene secche, venivano servite con succo di limone, e “sono un piatto gustoso ma non molto nobile”. Una seconda ricetta è “altro piatto di polpi”, in cui si suggerisce di seguire lo stesso procedimento usato per le seppie, “vorranno però un poco più di cottura, perché sono duri”. Durezza delle carni che si risolve con un trattamento particolare da vivo ovvero di “batterlo sopra una pietra con un bastone, poi sbianchirlo accuratamente in acqua molto calda; tagliarlo quindi a pezzi lunghi un dito e metterli in pentola senza acqua al calore delle braci, lontano dal fuoco, lasciando cuocere adagio; quando è ormai intenerito, aggiungere un poco di cipolla fritta, erbe odorifere, spezie, agresto e un poco d’acqua; mescolare, lasciar sobbollire un poco e servire”. Il logorio della vita moderna non consente di dedicare così tanto tempo per la realizzazione di un singolo piatto per cui, non me ne vogliano i puristi, è possibile utilizzare la pentola a pressione, a patto di lasciar raffreddare completamente il polpo nell’acqua di cottura, senza intervenire nella valvola, così da ottenere carne sode e morbide nello stesso tempo. Gli aromi da utilizzare in cottura sono decisamente semplici, come si addice ad un cibo che i nobili disdegnavano e da sempre considerato di strada: sedano, carota e cipolla, qualche foglia di alloro, qualche grano di pepe nero e naturalmente il vino, che può essere bianco o rosso. Al momento del servizio basteranno limone, prezzemolo fresco ed un filo d’olio
Il “polpo” non va confuso con il “moscardino”. Sono entrambi cefalopodi e presentano le medesime caratteristiche morfologiche, ma mentre quest’ultimo è provvisto di una sola fila di ventose, non supera i 40 cm di lunghezza ed emana un forte odore di muschio, il polpo presenta due file di ventose e raggiunge anche i 50 cm di lunghezza totale, con una qualità delle carni decisamente migliore
per degustare un piatto davvero appagante. Del polpo, come ci insegnavano le venditrici napoletane (analogamente a quelle veneziane di frittelle erano le donne che si occupavano del commercio in strada dei molluschi), non si butta via nulla e il brodo, servito caldo in bicchiere, è corroborante in inverno e ristoratore in estate. Due trucchi: se volete arricciare i tentacoli, così da rendere più armonica la presentazione, dovrete immergerli per tre volte consecutive in acqua bollente e, come insegnano molti chef, non eliminate tutta la pelle e tutte le ventose! Vi saluto con un’insalata di polpo che di solito evoca sempre l’abbinamento con la patata. E se mettessimo nel piatto un po’ di colore e di sapore? È la ricetta di questo mese, dove il polpo cotto con qualche aroma diventa decisamente morbido e il servizio coloratissimo, grazie alle olive nere ed agli spicchi di arancia pelati a vivo. Un’insalata che diventa light (ed anche smartfood).
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LA CUCINA DI QB
Difficoltà: bassa
Preparazione: Cottura: 10 minuti 50 minuti
INGREDIENTI per 4 persone • 800 g di polpo • 1 finocchio • 2 arance bio • 1 carota • 1 costa di sedano • 1/2 foglia di alloro • 2 cucchiai di olive nere • 1 cucchiaio di capperi sotto sale • Olio evo • Qualche foglia di aneto o finocchetto selvatico o le barbe del finocchio • Sale e pepe nero macinato al momento
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INSALATA DI POLPO
CON FINOCCHI, OLIVE E CITRONETTE ALL’ARANCIA In una casseruola inserire la carota e il sedano mondati, la foglia di alloro, il polpo pulito ed eviscerato e coprire con acqua fredda. Portare a bollore e cuocere per circa 35’. Far raffreddare nell’acqua di cottura. Nel frattempo sciacquare i capperi, sgocciolare le olive, pelare a vivo un’ arancia ed ottenere dalla seconda il succo, mondare e tagliare prima a metà e poi fette sottili il finocchio. In una ciotola unire il succo d’arancia, un paio di cucchiai di olio extra vergine di oliva, sale e pepe, mescolare con un frustino così da ottenere una profumata citronette. Sgocciolare il polpo in una terrina tagliarlo a tocchetti e condirlo con un cucchiaio di olio extra vergine di oliva, sale e pepe Impiattare procedendo prima con il finocchio e l’arancia, continuare con i capperi e le olive a rondelle e terminare con il polpo, condire con la citronette e decorare con le foglioline di aneto o finocchietto selvatico.
Antico Molino
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trattoria
Di Pernumia
D’AUTUNNO SI GIOCA A RINCORRERE PROFUMI E SAPORI Paste e carni sono i punti di forza del menù e con il cambio di stagione hanno trovato nuovi accordi nell’immensa disponibilità di prodotti che offre l’autunno
Funghi, zucca, radicchio e profumati tartufi. Sono questi i quattro assi calati nel menù per aggiornare l’offerta alla stagione che cambia. Perché, ormai, l’estate è invecchiata e l’autunno incombe mettendoci addosso la voglia di convivialità, di distese atmosfere, in cui ritrovare i sapori convinti dei prodotti maturi. E la Trattoria Antico Molino di Pernumia è il posto giusto in cui trovare le une e gli altri, grazie alla suggestività dell’accoglienza, in spazi ricavati da un molino del XVI secolo, e a una cucina raffinata basata su un’attenta selezione delle materie prime. Le carni sono uno dei punti di forza: tra quelle di maiale italiano da provare è sicuramente la Braciola con osso alla milanese, mentre tra quelle di scottona garronese omega 3 la scelta può dividersi tra le succulente fiorentine o le raffinate cruditee come la Tartare, le battute al coltello e i carpacci. I primi freddi richiamano un apporto di proteine maggiore che può essere soddisfatto anche dal coniglio, che proprio in questi giorni è entrato tra la scelta dei secondi, nella versione “disossato”, “arrotolato” e “porchettato”. Altra “colonna” del celebrato ristorante sono le paste, per le quali occorre consigliare i Bigoli con trito dell’iberico
prosciutto Patangra e tartufo, o la Pasta e fagioli. Va ricordato che anche il pane qui è veramente quotidiano, trovandoci all’interno di un mulino il piacere per le farine non poteva che essere quello di darne lievitazione e cottura ogni santa mattina insieme ai dolci anch’essi figli della mano del cuoco e non dell’industria. Discorso a parte meritano i vini per i quali alla qualità si accompagna l’abbondanza. Circa 500 etichette per dimenticare del tutto la genericità del vino sfuso. Perché c’è una accordo importante tra i piatti e i calici, un rapporto molto intrigante che va cercato ogni volta per godere appieno dei profumi e dei sapori che la stagione offre. La Trattoria Antico Molino dedica serate esclusive ai prodotti della stagione, ecco i prossimi appuntamenti: • 11 ottobre: “Il fungo” • 25 ottobre: “ Antico Molino e Caveau, parliamo di vino” • 9 novembre: “Il radicchio tardivo” • 22 novembre: “A cena con il tartufo bianco” • 6/7 dicembre: “Il maiale come una volta”
Antico Molino Via Palù Superiore - Pernumia (PD) - Tel. 0429 779071 - info@anticomolino.it Il ristorante è aperto tutta la settimana, rimane chiuso la domenica sera e il lunedì
ARTERRA di Loredana Pavanello
Villa e Vita in campagna, NEI CICLI PITTORICI VENETI Sono diverse e portano la firma degli artisti più autorevoli del loro tempo le scene di vita bucolica all’interno dei grandi saloni di residenze aristocratiche. Alcuni esempi sono quelli lasciati dai Tiepolo a Villa Valmarana ai Nani, dal Veronese a villa Barbaro di Maser e Andrea Urbani a villa Grimani Vendramin Calergi a Noventa Padovana
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ell’uso comune la parola “villa” è associata all’idea del lusso e della ricchezza: si pensa a un’abitazione elegantemente arredata, immersa nel verde di un armonioso giardino o di un romantico parco, situata in campagna o anche zone urbane, sempre in contesti di grande pregio paesaggistico. Di fatto la villa è una realtà multiforme, che ha conosciuto evoluzioni nel corso del tempo, mutando fisionomia e funzioni. Già al tempo dei Romani esistevano due tipologie fondamentali: vi era in primis la villa “rustica”, la casa di campagna che funzionava
come una vera e propria fattoria, destinata dunque alla produzione agricola ma anche all’otium, ossia il tempo del riposo, distinto dal tempo del negotium, e dunque del lavoro e del frenetico ritmo della città; la duplice destinazione si rispecchiava nella stessa divisione planimetrica, che vedeva da un lato la pars massaricia, abitata dalla servitù e riservata alla lavorazione dei prodotti, e dall’altro la pars dominica, la zona residenziale di pertinenza del padrone. Vi era poi la seconda tipologia della villa ‘urbana’, più facilmente raggiungibile dalla città e caratterizzata da
In alto: Giandomenico Tiepolo (1727-1804) dipinge le sue scene campestri nella Foresteria di villa Valmarana ai Nani a Vicenza, vicino a quelle di matrice più mitologica-allegorica del padre Giambattista. Queste scene sono importanti per la poetica che vi è sottesa, volta a conferire dignità e importanza a soggetti ‘umili’
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ARTERRA una struttura monumentale. Dotata di ogni comodità, fungeva da segno del prestigio del proprietario, ed era spesso corredata da ampi spazi quali complessi termali, biblioteche, teatri: la magnifica residenza imperiale di Villa Adriana a Tivoli ne è forse il più significativo, insieme alla Domus Aurea di Nerone e alla Villa del Casale di Piazza Armerina in Sicilia. Un altro momento d’oro per la villa è quello del Rinascimento, grazie alla figura di Leon Battista Alberti (1404-1472), il grandissimo architetto ed erudito che si rese protagonista di quel pieno recupero della cultura classica, dopo la “decadenza” medievale (che poi decadenza non fu), creando un ponte verso la cultura ‘moderna’: a lui va ascritta la riscoperta, tramite lo studio di Vitruvio, della villa suburbana quale luogo ameno di quiete e riposo, circondato dal verde. Presto la novità si diffuse nell’Italia centrale e oltre, presso le principali corti e città, da villa Medici a Fiesole (prototipo delle ville medicee, caratterizzate dalla totale vocazione all’otium) a villa Madama a Roma, ideata da Raffaello (1483-1520) e portata a termine da Giulio Romano (1499 ca-1546), solo per citare due fra i più notevoli esempi. La “moda” non manca di toccare anche il Veneto, che sviluppa una sua peculiare tipologia, messa a punto da Andrea Palladio (1508-1580), che si distingue dalle ville centro-italiane per la dop-
Accanto alla “pittura alta” di carattere mitologico-allegorico trovano spazio rappresentazioni legate al tema della caccia, delle stagioni che scandiscono il ritmo della vita e, in alcuni casi, scene di vita campestre dal sapore popolare pia funzione: la villa veneta è infatti luogo dello svago, ma anche centro di produzione agricola, vero e proprio motore economico, a partire dalla conquista veneziana della Terraferma a inizio ‘400, e dal progressivo spostamento degli interessi dei nobili veneziani dal mare alla terra. La ‘moda’ si trasformerà così nei secoli in un elemento connotativo del territorio, proprio perché prevalentemente agricolo e segnato da importantissime azioni di bonifica, fino a diventare quella peculiare realtà nota come “civiltà della villa veneta”. Considerata dunque la “doppia vocazione” economica-produttiva e di svago della villa veneta non dobbiamo stupirci di alcune precise scelte iconografiche, presenti nei cicli che decorano numerosi complessi: prevalgono infatti, accanto alla “pittura alta” di carattere mitologico-allegorico, rappresentazioni legate al
Andrea Urbani, (1711-1798) ebbe una formazione pittorica affine a quella degli altri pittori-scenografi veneti, suggestionati dall’arte di Giambattista Tiepolo e dai paesisti settecenteschi. La sua produzione è spesso caratterizzata da delicati scorci campestri, capricciose vedute, dove sono miscelate realtà e finzione fantastica con eleganza e rigore prospettico
tema della caccia, delle stagioni che scandiscono il ritmo della vita e, in alcuni casi, scene di vita campestre, dal sapore popolare. Fra queste ultime celebri sono certo quelle di Giandomenico Tiepolo (17271804) nella Foresteria di villa Valmarana ai Nani a Vicenza, importanti per la poetica che vi è sottesa, volta a conferire dignità e importanza a soggetti ‘umili’, a siglare la svolta dei tempi. A preparare il terreno per la novità tiepolesca vi è tutta una tradizione iconografica veneta mirata a esaltare le valenze poetiche del paesaggio rurale e dei suoi protagonisti: non solo nei fondali delle scene mitologiche diffusissime nelle decorazioni di villa, ma anche nei casi in cui il soggetto non è una narrazione: lo si vede ad esempio nei paesaggi fluviali, con tanto di mulino, a villa Godi a Lugo di Vicenza, realizzati a metà ‘500 da Gualtiero Padovano (1510 ca-1552); o in quelli di Lambert Sustris (1515 ca-1584 ca) in villa dei Vescovi a Luvigliano, dove spicca il grosso putto paffuto che mangia l’uva. Per non parlare delle suggestive aperture paesaggistiche di Paolo Veronese (1528-1588) nella famosissima stanza del Cane in villa Barbaro a Maser; o ancora, sempre in ambito veronesiano, l’opera della bottega in villa Loredan a Sant’Urbano, incantevole complesso di proprietà dell’Istituto delle Ville Venete e messo ormai in vendita, dove nella sala dei Paesaggi si possono ammirare, e si spera di poterle continuare ad ammirare nel futuro, rasserenanti scene di vita agreste. Nel corso del tempo il concetto si sviluppa in modo sempre più raffinato: nelle stesse scene di Giandomenico Tiepolo alla Valmarana si nota un ricercato equilibrio tra lo stile naturale notato da Goethe e la
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ARTERRA A villa Grimani Vendramin Calergi si possiamo ancora ammirare le monumentali aperture con vedute di paesaggi e architetture, dal tono pacato e quasi rarefatto, in sintonia con le vedute su giardini verdi e rigogliosi In epoca medioevale la villa era un possente fortilizio di proprietà della ricca famiglia padovana dei Dalesmanini. Venne poi radicalmente trasformato nei secoli successivi, fino ad assumere l’elegante fisionomia di villa settecentesca, che ancora conserva. La residenza passò infatti nel ’400 prima ai Contarini e poi ai Grimani, entrambe nobili famiglie veneziane; fu poi dei Vendramin Calergi: l’ultima erede Elena Marina Maria (1807-1894), andata in sposa ad Andrea Valmarana (1788-1861) da cui non ebbe prole, lasciò la villa al Comune di Noventa. In questa villa Andrea Urbani lasciò il suo più grande ciclo di affreschi
forma idealizzante di una sorta di arcadia contemporanea. Proprio nella sala delle Scene Campestri sembra esser stato presente, per la realizzazione della cornice naturale degli alberi, Andrea Urbani (1711-1798), maestro poco studiato ma di notevole caratura. Egli infatti saprà cogliere il brio e la freschezza dei Tiepolo, traducendone le istanze in uno stile del tutto personale: fra i suoi capolavori va annoverata la decorazione (1766-1770) di villa Grimani Vendramin Calergi a Noventa Padovana. La villa, collocata in una terra di bonifica - il nome stesso di Noventa si pensa possa significare “terra di recente messa a colutura” - e in un punto strategico in connessione con la via d’acqua del Brenta, oggi non più percepibile, a seguito degli interventi succedutisi nel corso dei secoli: sorgeva infatti sul fortilicium della ricca famiglia padovana dei Dalesmanini, lo stesso che ospitò, a quanto pare, Isabella d’Inghilterra consorte di Federico II Barbarossa, nell’inverno del 1237-1238, e radicalmente trasformato nei secoli successivi, fino ad Leon Battista Alberti (1404-1472), il grandissimo architetto ed erudito che si rese protagonista di quel pieno recupero della cultura classica. A lui va ascritta la riscoperta, tramite lo studio di Vitruvio, della villa suburbana quale luogo ameno di quiete e riposo, circondato dal verde
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assumere l’elegante fisionomia di villa settecentesca, che ancora conserva. La residenza passò infatti nel ‘400 prima ai Contarini e poi ai Grimani, entrambe nobili famiglie veneziane; fu poi dei Vendramin Calergi: l’ultima erede Elena Marina Maria (1807-1894), andata in sposa ad Andrea Valmarana (1788-1861) da cui non ebbe prole, lasciò la villa al Comune di Noventa, con la condizione che venisse trasformata in una Fondazione destinata all’educazione di ragazze sordomute; divenne così l’Opera Pia Fondazione Vendramin Calergi Valmarana attiva come Ipab fino al 2016, quando l’ente è stato sciolto e la villa è tornata a disposizione del Comune: uno spazio tutto da decidere. Di certo è ancora un piacere camminare fra le ariose stanze dell’edificio, affrescate dai dipinti di Urbani che, quasi rispondendo puntualmente alle invenzioni dei Tiepolo alla vicentina Valmarana ai Nani, lasciò qui il suo più grande ciclo di affreschi. Qui, nel salone del piano nobile possiamo ancora ammirare le monumentali aperture con vedute di paesaggi e architetture, dal tono pacato e quasi rarefatto, in sintonia con le vedute, se pure più intime ed armoniose, della stanza della Pittura, o ancora con gli sfondati con vedute di giardini nella curiosa stanza Cinese, ambiente che asseconda il gusto del tempo per le “cineserie” e che più di tutti ci riporta all’esempio vicentino dei Tiepolo, rielaborato secondo quella variazione di registro, oscillante tra il codice sontuoso della quadratura e la vena leggera della fantasia, cifra stilistica del grande artista veneziano ancora in parte da riscoprire.
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“È cessata la pioggia” L’ultima fatica editoriale di Claudio Vallarini dedicata al rapporto tra le Forze armate alleate a quelle della Resistenza nel Veneto, dal 1943 al 1945 “È cessata la pioggia” fino a qualche settimana fa, per la storia, era solo uno dei tanti messaggi speciali registrati negli archivi di Stato. Una di quelle frasi misteriose che Radio Londra trasmise durante la seconda guerra mondiale per comunicare con i partigiani, che valsero all’emittente britannica l’emblema della lotta al nazi-fascismo. Attraverso l’etere, infatti, i Comitati di Liberazione Nazionale venivano informati dagli Alleati sulle operazioni da compiere o sui pericoli del conflitto. “È cessata la pioggia” aveva annunciato un imminente aviolancio di armi ed esplosivi ai partigiani della Bassa Padovana, ed è a questo messaggio che lo storico Claudio Vallarini si è ispirato per il titolo del libro, fresco di stampa, che raccoglie vent’anni di ricerche ed interviste ai testimoni, rivolte a fare luce sull’intenso rapporto che intrecciò le azioni delle Forze armate Alleate a quelle della Resistenza civile operanti tra la provincia di Rovigo e quella di Padova in seguito all’8 Settembre 1943. “Sì - spiega l’autore - il titolo allude a quel tipo di informazione, fondamentale per gli esiti della guerra, ma vuole anche essere un rimando a tutta quell’attività informativa rimasta invece sepolta, nella trattazione storica di quel periodo, sotto l’aura della Resistenza. Non si tratta di revisionismo storico, tutt’altro, ma di raccontare anche quel rilevante contributo che le Forze Alleate diedero alla causa italiana con impegno e, spesso, superando il mero spirito di missione”. Così, sullo sfondo delle impacciate scelte politiche del governo Badoglio e della monarchia, che seguirono l’Armistizio, prende il via l’approfondita cronaca di “È cessata la pioggia”. Il Veneto, ovviamente, è quello già occupato dalla Wehrmacht sin dall’agosto 1943, e diventato la base organizzativa e logistica per le operazioni tedesche al fronte e contro i partigiani e gli ebrei. Un Veneto, per questo, già oggetto delle attenzioni dell’Intelligence Alleate, per reperire informazioni e documenti che potevano essere determinanti per modificare gli esiti della guerra. Il lavoro di Vallarini porta alla luce le attività effettuate dagli agenti segreti alleati inviati nel Veneto dopo l’Armistizio, arrivati con sommergibili o con aeroplani, paracadutati nelle campagne, per compiere operazioni di spionaggio e di sabotaggio contro le ferrovie o i capisaldi germa-
nici, operazioni La storia di una guerra che costituirono rimasta segreta avvenuta un fecondo rap- nelle province di Rovigo e Padova porto con la Redall’Armistizio alla Liberazione. sistenza, della quale, grazie ad un accordo sottoscritto in Svizzera nel novembre 1943, gli agenti divennero i più stretti collaboratori e fornirono ad essa un senso di legame e di fratellanza da parte degli Alleati. Pur affrontando in gran parte il rapporto tra la Resistenza e gli Alleati, tuttavia, l’autore si addentra anche su episodi di costume e, soprattutto, di guerra partigiana che coinvolsero cittadine quali Castelbaldo, Merlara, Stienta, Rosolina o Ariano Polesine. Uomini e donne che affrontarono non solo la morte, ma anche il suo più truce dolore attraverso le torture del controspionaggio tedesco, con patimenti ed esecuzioni che andarono ben oltre la rappresaglia, assumendo forme dimostrative rivolte a dissuadere l’insorgere di ogni sorta di collaborazionismo tra gli agenti segreti e la società civile. Più di trecento pagine corredate da foto e documenti che accompagnano il lettore in un viaggio dentro agli ultimi due anni di una guerra rimasta per molti aspetti sconosciuta, facendoci ascoltare le voci dei protagonisti, politici, ufficiali, semplici soldati e persone comuni, immergendoci in una realtà che ci appare lontana, ma che per questo non deve essere dimenticata.
Cassibile 3.9.1943. Stretta di mano tra il generale Castellano ed Eisenhower dopo la firma dell’armistizio
Il libro è in vendita nelle librerie della provincia di Padova e Rovigo e su Amazon
LA FORMA DEL LATTE di Michele Grassi
Formaggi e vino, BINOMIO CHE DURA DA SECOLI La tecnica tutta veneta di affinamento nelle vinacce è una pratica scoperta forse per caso, ma che oltre a conferire un sapore diverso permette di proteggere il formaggio da parassiti ed acari
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e galline la abbiamo nascoste su, verso quella montagna là. Ai Larcs, dove avevamo una stalla e un fienile. Là abbiamo nascosto anche qualche formaggio dentro al fieno. Ma un giorno mentre io e mia madre andavamo lassù a vedere - e del resto vi si andava tutti i giorni - abbiamo visto i tedeschi scendere con le forme di formaggio nel sacco! Ah, io ho patito la fame in quella guerra…”. Documenta così Rosa Colussi Oliva, in “Ultimo anno della prima guerra”, di Camillo Pavan, la ruberia di formaggi che per essere salvati venivano nascosti, celati nel modo che appariva più facile e sicuro, ma che così evidentemente non era. Meglio è andata in provincia di Treviso, quando, sem-
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pre per nascondere i preziosi formaggi dai soldati, questa volta quelli italiani in ritirata dopo Caporetto si decise di nasconderli nelle vinacce. Come è noto l’esercito austriaco fece breccia nella linea italiana il 24 ottobre, proprio nei giorni in cui le fattorie erano impegnate nelle vinificazione. E i contadini piuttosto che vedersi privati di quei preziosi beni, ai quali erano affidate le speranze di sussistenza dell’intera famiglia, preferirono rovinarli nascondendoli sotto ai cumuli degli scarti della lavorazione del vino. Riuscirono a salvarli e allo stesso tempo anche a fare una scoperta, perché aperte le prime forme si accorsero che la crosta si era ammorbidita, aveva assunto un colore rosso amaranto, quasi violaceo, con il sotto
LA FORMA DEL LATTE Nella pagina a sinistra: l’Imbriago. Tra i formaggi “avinazzati” il più celebre è proprio lui: l’Imbriago, censito nell’elenco delle produzioni agro alimentari tradizionali, che ha luogo di origine proprio nella provincia di Treviso Qui sotto: Monte Veronese. Nel veronese si affina nelle vinacce, e a volte anche nel mosto per innescare meglio la fermentazione, il Monte Veronese nella tipologia d’allevo mezzano
I contadini piuttosto che vedersi privati di quei preziosi beni, ai quali erano affidate le speranze di sussistenza dell’intera famiglia, preferirono rovinarli nascondendoli sotto ai cumuli degli scarti della lavorazione del vino crosta lievemente rosato e la pasta bianca, morbida e decisamente profumata. E ancora più stupefacente era l’aroma fruttato e una sensazione di leggera piccantezza. I due aneddoti riferiti alla Grande Guerra potrebbero lasciare intendere al lettore che la tecnica dell’affinamento dei formaggi nel fieno e nelle vinacce nasca tra il 1915 e il 1918, in realtà non è così. I due episodi gli ho scelti solo per connotare questa pratica con le regioni settentrionali dell’Italia, toccate appunto dalla prima guerra mondiale. L’affinamento dei formaggi risale invece a secoli fa, come nel caso del Formaggio di Fossa di Sogliano, ora Dop, la cui tecnica di infossatura è documentata nei registi dei Malatesta, i signori della Romagna, a partire dal XIV secolo. Probabilmente, però, alla base di queste tecniche c’è lo stesso atteggiamento dei contadini della Grande Guerra, ossia la necessità di nascondere i preziosi formaggi agli occhi di qualcuno: quelli dei soldati, dei malintenzionati (presenti in tutte le epoche) o anche a quelli microscopici dei parassiti. Come nel caso appena citato o come nel caso dell’ubriacatura dei formaggi nelle vinacce allo scopo di proteggere la crosta dagli acari. Questo trattamento, infatti, consen-
te la formazione di una di “cappatura” quasi cerosa, eccellente alternativa al più costoso utilizzo di olio di oliva. Ecco forse il motivo del successo. E per uscire dalla storia e arrivare ai giorni nostri è importante dire che i formaggi vengono ancora nascosti, ma esclusivamente per consentire una maturazione diversa da quella tradizionale su assi di legno. L’affinamento, sinonimo di stagionatura, ha la caratteristica di essere perpetrata quasi sempre da esperti che si occupano della maturazione del formaggio in diverse modalità. Sono molti, infatti, i metodi scoperti o inventati che, in funzione delle tecniche utilizzate, modificano la normale maturazione del formaggio. In Veneto, come abbiamo visto nelle righe più su, è diffusa l’ubriacatura, ma con tecniche molto più raffinate del nascondere le forme sotto alle vinacce. Le uve vengono attentamente selezionate, non troppo pigiate per mantenere una maggiore umidità, utile anche per migliorare la seconda fermentazione del formaggio. E tra gli “avinazzati” il più celebre è proprio lui: l’Imbriago, censito nell’elenco delle produzioni agro alimentari tradizionali, che ha luogo di origine proprio nella provincia di Treviso. Sono formaggi di prima scelta ad essere affinati nelle vinacce, in quanto i difettosi, soprattutto quelli con problemi sulla crosta, immersi nelle vinacce, sarebbero oggetto di insana maturazione e di conseguenza assumerebbero odori, aromi e sapori del tutto inaccettabili, ma la scelta dei formaggi da “ubriacare” è diversificata in funzione del territorio in cui vengono prodotti, a dimostrazione che la pratica non è più solo ad appannaggio del trevigiano ma dell’intero Veneto e anche del Friuli Venezia Giulia
Nel territorio vicentino le forme affinate con le vinacce sono quelle dell’Asiago, sia nella tipologia pressato che d’allevo mezzano
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LA FORMA DEL LATTE Sono formaggi di prima scelta ad essere affinati nelle vinacce, in quanto i difettosi, soprattutto quelli con problemi sulla crosta, immersi nelle vinacce, sarebbero oggetto di insana maturazione
In Friuli e nella parte settentrionale del Veneto il formaggio che viene ubriacato è il Montasio semi stagionato
dove si produce il Sot la trape. Per quanto riguarda il territorio vicentino è scontato identificare il formaggio da affinare con l’Asiago, sia nella tipologia pressato che d’allevo mezzano. Nel veronese si affina nelle vinacce, e a volte anche nel mosto perché pare che inneschi meglio la fermentazione, il Monte Veronese nella tipologia d’allevo mezzano, mentre in Friuli e nella parte settentrionale del Veneto il formaggio da ubriacare è il Montasio semi stagionato. Il metodo di ubriacatura varia in funzione della tipologia di formaggio, sempre privo di difetti naturalmente, a pasta semicotta, semidura, e anche il periodo di immersione delle vinacce. A grandi linee più il formaggio è giovane meno tempo deve rimanere immerso, ma il formaggio da affinare solitamente deve aver subito una stagionatura di almeno 60 giorni. E per quanto riguarda la scelta delle vinacce anche questa di solito è in relazione alle zone di produzione vitivinicola, si passa così con disinvoltura dal Merlot, al Raboso, al Cabernet o il più corposo Amarone. Queste devono essere appena svinate o leggermente torchiate e mantenute a temperatura non superiore ai 20°C. Spesso la tecniche prevede l’aggiunta di vino o mosto alle vinacce, per mantenere un corretto contenuto di umidità, ma solo per un breve
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periodo non superiore a 50-60 ore. L’affinamento nel mosto modifica anche la colorazione delle forme per la maggiore presenza di tannino che ne determina la complessità delle caratteristiche organolettiche. Minore intensità olfattiva e gustativa nel caso si utilizzino vinacce o mosto da uve bianche come il Durello o il Soave o altri vini aromatici. E questo è proprio il momento della svinatura che nei territori veneti caratterizza e modifica i profumi dell’aria. L’odore del mosto, delle fermentazioni, ci invita a pensare alla storia del territorio, alle caratteristiche dei prodotti autunnali, al lavoro del vignaiolo che non finisce con la pigiatura ma continua, in altro e meraviglioso settore dell’agroalimentare, con l’utilizzo di una materia povera che è la buccia dell’uva già privata del buon succo, ma ancora capace di concedere sensazioni diverse, lattiche e vegetali, floreali e fruttate, a formaggi che creano ambiente e diversità al territorio.
Più il formaggio è giovane meno tempo deve rimanere immerso, ma per una corretta affinatura solitamente deve aver subito una stagionatura di almeno 60 giorni
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Caseificio AI PRÀ
Profumi e sapori d ’autunno
La produzione di Antonella e Pier Giorgio viene aggiornata con le stagioni. Ora è tempo di vinacce, fieno, castagne e di colori caldi Quanti chilometri siete disposti a percorrere per ritrovare un profumo che custodisce un ricordo? Magari quello del fieno odoroso, delle vinacce settembrine, della castagne oppure tutti e tre assieme, visto che con questi il Caseificio Ai Prà contraddistingue la propria produzione autunnale di formaggi. E di chilometri non è nemmeno necessario farne tanti, visto che quasi ogni giorno un camioncino parte di buon’ora dallo stabilimento, per raggiungere i principali mercati rionali del Padovano e del Veneziano. Comunque vale la pena cercarli questi formaggi, perché sono l’espressione più naturale della genuinità. Dal latte ottenuto quotidianamente della mungitura delle e cinquanta mucche pezzate italiane, allevate da Pier Giorgio, al laboratorio di Antonella, dove inizia la trasformazione, la filiera di produzione è appena di pochi metri e l’industria ha un nome, un volto e le mani di chi ama la campagna e per questo la sa rispettare. Nasce così una produzione di eccellenza, realizzata con l’impiego di solo caglio naturale di vitello, fermenti e sale. Niente conservanti, niente acido citrico (nemmeno nelle mozzarelle), niente che non sia totalmente naturale.
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LA PRODUZIONE
Il bancone trabocca di colori e profumi aggiornandosi alla stagione autunnale, così alle caciotte prodotte in mille aromatizzazioni: dalle noci al miele, e dalle vinacce alle erbe aromatiche, si accompagna l’arancione carico del “Solare” formaggio stagionato e speziato con curcuma e zafferano. Chi ama il gusto intenso provi il Nostrano, affinato con il miele di castagno o in barrique di legno riempite di fieno, oppure il “Vecchio” con dieci mesi di stagionatura. E non dimentichi il celebrato Ai Prà dal sapore di latte appena munto. Inoltre non mancano mai la ricotta, le toselle, le mozzarelle insieme ai latticini e agli yogurt sempre rigorosamente artigianali.
DOVE TROVARE I PRODOTTI DEL CASEIFICIO AI PRÀ
Il banco dei prodotti del caseificio Ai Prà si sposta durante la settimana: • Il martedì pomeriggio dalle 17.00 alle 20.00 in piazza di Due Carrare • Il mercoledì mattina al mercato di Conselve • Il venerdì è aperto tutto il giorno il punto vendita aziendale • Il sabato mattina in piazza Cannoni a Sottomarina al mercatino dei tipici • La domenica ai mercatini di Campagna Amica, o alle fiere promozionali del territorio
Azienda Agricola Ai Prà via Pratiarcati, 9 - 35020 Maserà di Padova (PD) www.aziendaagricolacaseificio.padova.it antbus973@gmail.com Azienda Agricola Ai Prà
PRODOTTI GOURMET ALL’INGROSSO DAL CONTINENTE Ci proponiamo di ricercare e selezionare, con entusiasmo e dinamicità, i prodotti migliori dell’enogastronomia europea per offrirli ad una clientela che predilige la qualità. L’ obiettivo principale è di distinguersi offrendo: Qualità, Prezzo e Servizio
Appartengono alla tradizione quei prodotti che hanno vinto in resistenza la prova contro il tempo, rimanendo semplicemente se stessi, anzi migliorando. Per questo la tradizione è un valore: perchè una lenta evoluzione, una stratificazione di tutta quella storia che è stata necessaria per portare alla massima espressione le risorse che un territorio offre, in forma di prodotto. Potremmo dire che ne contiene la cultura. Di più: che è il vero sapore dei paesi, se parliamo di gastronomia. Un sapore che però è autentico se il prodotto che lo rappresenta è autentico, un’originalità che tuttavia va conosciuta ed è su questa competenza che noi de Il Tagliere abbiamo fondato la nostra ventennale attività di commercio all’ingrosso di prodotti gourmet italiani ed europei. Ogni prodotto della nostra offerta è stato attentamente selezionato, assaggiato e studiato per trovare il miglior abbinamento gustativo e proporvelo. Conosciamo tutti i produttori delle nostre referenze, vi proponiamo i prodotti di migliore qualità e le indicazioni per valorizzarne il consumo
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UN’OFFERTA QUASI ILLIMITATA E IN CONTINUO AGGIORNAMENTO Il meglio dei formaggi europei, dei salumi italiani e spagnoli, un’attenta selezione di prodotti di mare, riso, condimenti, sott’oli, sott’aceti, sfizziosità. E ancora: vini italiani e spagnoli, birre artigianali europee, liquori. Il meglio di ciò che si produce nel Continente lo trovi nel nostro catalogo www.iltagliere.it
SEGUENDO LA STAGIONE, QUI E ALTROVE
Degustare secondo stagione è il modo di cogliere i prodotti nel loro momento migliore e con l’arrivo dei profumi intensi e alcolici della vendemmia la nostra proposta non può che tenerne conto. Eccone solo alcuni:
FORMAGGI AFFINATI NELLE VINACCE • Erborinato al Moscato • Lo Schiopettino • Nostrano ubriaco • Caprino con vinacce di Moscato Rosa • Pecorino alle vinacce • Testun alle vinacce di Barolo • Formaggio affinato nella Vitovska Nella foto il Testun alle vinacce di Barolo, il Caprino con le vinacce di Moscato Rosa, lo Schippettino e l’Ubriaco all’Amarone della Valpolicella D.O.C.G.
SALUMI “UBRIACATI” AL VINO
Nella foto la coppa, il salamino e la doppia fesa ubriacati nell’Amarone della Valpolicella D.O.C.G.
• Coppa all’Amarone della Valpolicella D.O.C.G. • Coppa al vino bianco • Coppa al vino bianco frizzante • Doppia fesa, affinato all’Amarone della Valpolicella D.O.C.G. • Salame di Varzi alla Bornarda D.O.P. • Salame veneto con tra gli ingredienti il Prosecco D.O.C.G.
Gastronomie, ristoranti, enoteche, wine bar che desiderano acquistare i nostri prodotti, oppure semplicemente avere delle informazioni, possono contattarci direttamente Il Tagliere S.r.l. spedisce i propri prodotti in tutta Italia. Per il trasporto ci affidiamo a corrieri specializzati nel recapitarvi la freschezza
A OGNUNO IL SUO CALICE… di Emanuele Cenghiaro
SOAVE
Cinque vini regionali
CHARDONNAY
V
ROSÈ
BONARDA
NERO D’AVOLA
MERLOT
PINOT NERO
PASSITO
PORTO
CHAMPAGNE PROSECCO
MOSCATO
CHE HANNO IN COMUNE LA SINCERITÀ
erso la fine dell’estate è il momento d’oro per chi ama l’uva! È la stagione dei profumi complessi, come quelli del mosto fresco, e dei sapori più ricchi che accendono i ricordi; torna la voglia di rivedere i vecchi amici che, nella stagione delle vacanze, si erano un po’ persi di vista,
e di raccontarsi ogni cosa. Sta per arrivare il tempo delle tavolate negli agriturismi e nelle taverne, con i caminetti accesi e lunghe chiacchierate. In tavola non può mancare un compagno sincero: e questo è il vino che, in queste pagine, andiamo cercando... Ce n’è per tutti?
IL BIANCO (SOAVE – VR) SOAVE CALVARINO PIEROPAN struttura al palato e complessità nei profumi Le radici di una delle più importanti aziende vitivinicole venete, la Pieropan di Soave, affondano in un appezzamento di terreno difficile da lavorare e tortuoso, tanto da ispirarsi nel nome all’evangelico monte di Gerusalemme: è il Calvarino. Fu acquistato dall’azienda a inizio Novecento nel cuore della zona classica del Soave, dove la natura del terreno è ricca di argilla e tufi basaltici. Qui si coltivano viti che hanno dai 30 ai 60 anni, Trebbiano di Soave ma soprattutto Garganega: dal 1971, quando ne uscì la prima etichetta, è uno dei cru che rappresenta l’anima tradizionale del Soave. Vendemmia solo a mano e con più passaggi in vigna per selezionare i grappoli maturi, affinamento per un anno a contatto con le fecce fini: se ne ricavano struttura al palato e complessità nei profumi che valgono bene il prezzo, in fondo non troppo elevato. Perfetto come aperitivo.
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La natura del terreno è ricca di argilla e tufi basaltici. Qui si coltivano viti che hanno dai 30 ai 60 anni, Trebbiano di Soave ma soprattutto Garganega
A OGNUNO IL SUO CALICE… IL PROFUMATO (GAMBELLARA – VI) GARGANEGA MENTI classico, bianco e secco: profumi floreali e fruttati I fratelli Michela e Nicola Menti, assieme al padre Agostino, sono gli eredi di una famiglia che produce vino a Montebello Vicentino da due secoli e mezzo. A loro piace continuare la tradizione e fare prodotti che valorizzano l’uva autoctona della zona, la Garganega, che producono in tutte le “salse”, principalmente Doc Gambellara. Ce n’è per il pasto completo: dall’Insolito che matura sui lieviti e si fa preferire come aperitivo, al frizzante Bocciolo per gli antipasti, al classico Rivalonga (bollino rosso al Merano Wine Festival) per il pesce fino al Recioto passito, il Mens, per il dessert. E poi vari altri. Noi rimaniamo al
classico, bianco e secco, che coinvolge con i profumi floreali e fruttati e avvolge il palato con buona morbidezza. Non manca il retrogusto amarognolo, tipico della Garganega. Da bere non troppo freddo, può ben accompagnare il re della cucina locale... il baccalà alla vicentina!
Avvolge il palato con buona morbidezza. Da bere non troppo freddo, può ben accompagnare il re della cucina locale… il baccalà alla vicentina!
IL ROSSO (ROVOLON - PD) “VIN BASTARDO” I REASSI in realtà schietto come un amico Un nettare che riporta ai tempi passati, sapori che non vanno più di moda ma che allo stesso tempo offrono grande soddisfazione al palato
Nasce dalla collaborazione con l’Istituto sperimentale per la Viticoltura di Conegliano e Veneto Agricoltura, con l’intento di recuperare e valorizzare antiche varietà viticole, l’originale “Vin Bastardo” dell’azienda di Francesca Callegaro, I Reassi, a Carbonara di Rovolon (Pd). Il risultato è sorprendente, e chi ama un vino
“che sappia parlare” non può farselo scappare: un cibo, più che un nettare, che riporta ai tempi passati, sapori che non vanno più di moda ma che allo stesso tempo offrono schiettezza e soddisfazione al palato. Non è un vino grezzo, a dispetto del nome (che viene dalla varietà predominante, la Marzemina nera bastarda, cui si aggiungono Corvina e Turchetta); piuttosto, è sincero come un amico e tale anche lui vorrebbe essere. Degustare sopra i 16 °C, perfetto in autunno quando gli amici vengono a trovarvi a metà pomeriggio.
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A OGNUNO IL SUO CALICE… LA SORPRESA (PINZANO AL TAGLIAMENTO - PN) PECOL ROS DELLA CANTINA BULFON un friulano delle Colline Occidentali Profuma di frutti di bosco ed è strutturato, dal gusto secco e tannico ma non troppo. Può maturare qualche anno, meglio non molti
La cantina di Emilio Bulfon (www.bulfon.it) è un museo dell’enologia. Si trova a Valeriano, frazione di Pinzano al Tagliamento (Pordenone), e ha un obiettivo: la riscoperta e il recupero degli antichi vitigni friulani coltivati per secoli sulle colline del Friuli Occidentale. Moscato rosa,
Cordenossa, Cjanoòrie, Sciaglin, Forgiarin, Cividin, Ucelut, Piculit Neri… sono i nomi di uve e vini che troverete solo qui, o quasi. Tutti da assaggiare e riscoprire. Difficile consigliarne uno: proviamo. Il Pecol Ros, uvaggio tra Refosco e alcune delle uve a bacca rossa sopra nominate. Profuma di frutti di bosco ed è strutturato, dal gusto secco e tannico ma non troppo. Può maturare qualche anno, meglio non molti, e va degustato a 16-18°C. Un vino che non portà non sorprendere i vostri commensali. Chiudere la serata con il Moscato rosa e una crostata di frutta fresca.
LA TRADIZIONE (SALGAREDA - TV) PIAVE MALANOTTE DELLA CANTINA TRAVERSO corposo quanto vellutato al palato Chiudiamo questa breve rassegna di vini sinceri con un “must”, il Piave Malanotte, un vino che da qualche anno ha ottenuto la Docg. Quello della famiglia Ornella Molon Traverso, ad esempio: l’azienda fu creata nel 1982 dalla passione di due imprenditori. A base di Raboso del Piave, il loro Malanotte beneficia di estrema cura: dal diradamento “verde” dei grappoli per garantire la qualità dei rimanenti, vendemmia manuale, appassimento di una parte delle uve in fruttaio per 45 giorni. La fermentazione malolattica che si protrae in botti di rovere fino alla fine della primavera dona morbidezza al vino, che dopo 24 mesi di bar-
Raboso del Piave, figlio dell’estrema cura e del tempo necessario per un lungo affinamento in botti di rovere, barrique e poi in bottiglia 56
rique ne fa un altro in botte e uno in bottiglia. Esce di colore cupo e profumi complessi, dal cacao alla prugna, corposo quanto vellutato al palato. Servire a 18°C e più, accompagnandolo con piatti di carne elaborata.
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Ristorante Pizzeria
pesce e tipici di chioggia seguendo la stagione Un menù che contempla il meglio dei prodotti del mare con quelli degli orti interpretati secondo tradizione, ma anche originalità per un’offerta che parte dagli antipasti, arriva al dolce e alle pizze La calda estate è ormai trascorsa per lasciare spazio ai colori dell’autunno, una stagione altrettanto suggestiva per visitare e conoscere le tante bellezze che fanno di Chioggia e Sottomarina destinazioni interessanti anche senza l’ombrellone. E un motivo valido per venir fin qui potrebbe essere quello di degustare i prodotti dell’Adriatico, quelle varietà di pesce di cui il nostro mare abbonda e che il Ristorante Minerva prepara interpretando la tradizione della cucina chioggiotta, cioè trovando la giusta liaison con gli altri prodotti per cui la Città è celebre: il radicchio, le cipolle e l’immancabile zucca che nelle commedie di Goldoni è motivo di aspre “baruffe”. Insomma il ristorante Minerva è celebre per quell’intelligente predilezione di portare in tavola i piatti dell’ortodossia gastronomica adriatica ma rivisitati in preparazioni gourmet
con il compendio delle migliori etichette del buon bere nazionale e internazionale. Armido e Fabrizio, insieme alle rispettive mogli Daniela e Nadia, del resto, sono ristoratori di conclamata fama e di grande esperienza, e sanno sempre proporre il piatto giusto nella stagione di riferimento: perché il mare funziona esattamente come gli orti, la disponibilità e la qualità varia in ragione del calendario. Così in questi giorni in cui il caldo è ancora una buona compagnia un’insalata di gamberi con il radicchio di Chioggia Igp è quanto mai appropriata, come del resto lo sono i Fasolari in saor con la cipolla bianca e la lista potrebbe continuare con le triglie, le “schie”, i rombi chiodati, per arrivare fino alle pizze, anch’esse preparate per rispondere alle esigenze dei palati più esigenti.
Un appuntamento da non perdere a metà ottobre: i funghi incontreranno i prodotti autunnali di Chioggia. Per restare informato seguici su Facebook IL MIGLIOR PESCE acquistato fresco ogni giorno
VERDURE DI STAGIONE direttamente dagli orti di Chioggia
LE NOSTRE PIZZE
un piatto veloce senza rinunciare alla qualità e al gusto
La cucina e la sala sono attrezzate per banchetti e cerimonie I tavoli affacciano direttamente sul mare. Il ristorante è aperto tutto l’anno dalle 12.00 alle 14.30 e dalle 18.30 alle 24.00. Il lunedì i mestoli riposano Lungomare Adriatico - Lato Nord, 30015 - Sottomarina Mob. 339 6684500 - Tel. 041 4965367 ristorante.minerva@libero.it - www.ristorantepizzeriaminerva.it - Seguici su Facebbok e Twitter
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Nero d’Abano l’unico vero pane Padovano
Il pane Nero D’Abano ha una propria immagine che lo rende facilmente riconoscibile, sulla crosta superiore riporta stilizzata una fontana che sgorga acqua come simbolo dell’essenza della vita
Il grano con il quale viene prodotto ha un genoma antico, le farine sono ottenute attraverso la molitura a pietra, l’impasto è totalmente naturale. Il risultato? Fa bene ed è onestamente buono Buono come il pane. Lo si dice per esprimere le genuinità del carattere, l’anima leggera, la bellezza essenziale delle cose semplici di un tempo. Il pane, insomma, tira in ballo i valori primari, come il sapore originale della terra, e se ce n’è uno in grado di incarnarli ancora perfettamente questo è il Nero D’Abano. Ottenuto dai chicchi dell’antico grano Timilia coltivato, oggi come cinquecento anni fa, sui pendii che circondano l’abazia di Praglia, macinati a pietra e panificati attraverso una lavorazione totalmente naturale, è la vera espressione del territorio. Perché è stato creato per raccoglierne la storia, il sentimento, la cultura millenaria e per essere messo in bocca assaporandone il piacere. Grazie alle sue caratteristiche è un pane che fa bene alla salute. Infatti, la totale assenza di conservanti, il cospicuo apporto di fibre, che comportano la benefica diminuzione dell'indice glicemico alla digestione, la quasi assenza di sale, all'impasto sono sufficienti quelli naturali presenti nelle farine, e il suo alto grado di assorbimento d'acqua, lo rendono un pane dall'alto coefficiente saziante e con valori nutrizionali rispettosi del benessere del corpo. "Mangiare il giusto, mangiare il meglio" è la parola d'ordine che ne accompagna il consumo.
Se fa bene vuol dire che è anche buono Il recupero dell’antico grano Timilia ha portato alla produzione di farine totalmente naturali e a basso contenuto di glutine. Grazie alla sua alta qualità questa antica varietà si è presa la rivincita su quelle moderne, molto spesso realizzate solo per garantire alte rese e facilità di impiego nell’industria alimentare Nero d’Abano è un pane realizzato con una percentuale di farina Timilia che supera l'80%, macinata a pietra ed integra ossia composta dall’intero chicco di grano. La lievitazione è bassa ma naturale, grazie al lievito madre, mentre la lavorazione è stata studiata con il fine di preservare le proprietà organolettiche e sensoriali tipiche della varietà di grano. Viene impiegato pochissimo cloruro di sodio
in quanto la farina è già ricca di Sali minerali, sono completamente banditi dall’impasto i conservanti e nonostante questo il Nero D’Abano si conserva perfetto per diversi giorni.
Azienda Agricola Zambon Alberto - Piazza Guido Negri, 92/B - Vighizzolo d'Este (PD) Alberto Zambon 340 5709646 - nerodabano@gmail.com - www.nerodabano.it - .
Nero d’Abano un alimento social
Se il pane siete abituati a mangiarlo in accompagnamento ad altre pietanze, vuol dire che quel pane non ha molto sapore. Il posto del Nero D’Abano invece è al centro della tavola, perché ha un sapore deciso e un carattere conviviale. Ama il dialogo, si pone tra la gente ed è perfetto per trovare un dialogo gustativo con gli altri prodotti di eccellenza per cui il Bel Paese è famoso nel mondo. Insaccati, formaggi, salse o semplicemente un filo di ottimo olio d’oliva bastano per esaltarne il sapore e valorizzarne l’indole social in aperitivi, break o come cena veloce senza rinunciare al gusto e alla necessità di sentirsi sazi. Per questo Nero D’Abano è da cercare soprattutto negli agriturismi e nelle enoteche, alcune già lo servono e si può dire sia iniziato un nuovo rito attorno a quel desiderio che stuzzica l’appetito.
Un progetto Nero d'Abano: "Prodotto + Comunicazione" Nero d'Abano nasce con un'indole aggregativa. Lo scorso 3 luglio all'Abbazia di Praglia si è tenuta una conferenza nella quale Alberto Zambon, al quale si deve il recupero del grano Timilia e l'idea dell'impiego delle sue farine nella realizzazione del pane Nero d'Abano, ha posto il tema della comunicazione come strumento sinergico per aggregare produttori, trasformatori ed esercenti. I buoni prodotti della terra e il loro corretto impiego a tavola, infatti, dovranno essere sempre più al centro della comunicazione, affinché questi possano accrescere la loro popolarità presso i consumatori e possano affermarsi come reale ricchezza del territorio di produzione. Il convegno è stata solo la prima tappa di un progetto più ambizioso che ha unito il pane Nero d'Abano all'agenzia "Qbetech" di Lorenzo Trevisan, certificata da Google streat view, per aggiungere un servizio di georeferenziazione ai locali che hanno aderito al progetto "Prodotto + Comunicazione" e proporre insieme a loro un nuovo modello di alimentazione incentrato sul paniere di prodotti che un territorio come quello del Nero d'Abano oggi può proporre.
Alberto Zambon ha recuperato la coltura del grano Timilia e la sua panificazione in Nero d'Abano
La salute proviene dal saper rispettare la Natura La crescita della pianta nella sua spontaneità con genoma antico, derivante dalla natura, e la totale assenza di concimazione chimica dal terreno hanno sviluppato nel nostro grano Timilia una maggiore adattabilità all’ambiente e quindi una miglior resistenza alle malattie con minor ricorso ai fitofarmaci. La naturalezza della materia prima di partenza permette di ottenere farine particolarmente ricche di sali minerali, vitamine, sostanze fotochimiche naturali e con minori percentuali di glutine che ci consentono di limitare l’aggiunta di sale durante la panificazione per un prodotto più salutare e a più alta digeribilità.
Panificio convenzionato alla produzione: "Naturalmente vivo pane" via Battaglia, 127 - Sant'Agostino (PD) - Tel. 320 3403999
DIVINO PARLAR di Silvano Bizzaro - Sommelier s.bizzaro@alice.it
SÀTA,
Merlot e Cabernet nel segno del fare artigianale Un vino schietto, naturale creato apposta per dialogare con i piatti della tradizione
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estita con un’elegante e scura bottiglia bordolese “Sàta” si presenta in tutta la sua stretta sobrietà di vino classico, un blend di Merlot e Cabernet. Anche il nome, che vuol dire zampa, ma nel senso veneto di maniera personale di fare le cose, vuole essere un omaggio alla manualità, al fare artigianale contro le produzioni industriali di vini prodotti da laboratorio. E del resto questo vino nasce per un motivo particolare e da una circostanza piuttosto originale, infatti, non è il prodotto di una cantina ma di un ristoratore: quell’Arturo Zanarotti che a Montagnana è celebrato soprattutto per il sua Hostaria. Avere nella carta dei vini una produzione tutta sua, anche se il lavoro di produzione viene svolto da un’azienda dell’area dei Colli Euganei, è un modo per presentare ai propri clienti un pezzo della sua terra, un modo di proporre appunto la sua “sata”: dai piatti della cucina al giusto compendio enologico. Un vino che va raccontato a cominciare dalla sua vendemmia che avviene rigorosamente
alla fine di settembre-primi di ottobre. La produzione è iniziata nel 2017. La vinificazione è in rosso, con successiva stabilizzazione in acciaio per alcuni mesi e all’inizio dell’anno (febbraio) imbottigliamento e riposo. Io l’ho degustato ormai qualche mese fa e quindi ora potrebbe essere diverso. Avevo notato una certa “giovinezza” che probabilmente ora è scomparsa, migliorandolo ulteriormente. Un vino che mi ha conquistato per quel colore violaceo caratteristico di questi vini di struttura, ma limpido con discreta trasparenza sull’unghia. Al naso schietto e fine, sottile/ complesso con note di frutta rossa (spicca l’amarena e un po’ di mora), nota vinosa, nota minerale, nota erbacea. Di discreto corpo e struttura. Al palato rotondo e secco. Fresco, sapido e giustamente tannico e per niente banale, pur essendo un vino di ponta beva. Se passate per Montagnana... non vi resta che degustarlo!
La Scheda di Con i piedi per terra
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⊲ ANALISI VISIVA
Limpido, poco trasparente. Tonalità violacea
⊲ ANALISI OLFATTIVA
Intenso, schietto e fine. Sentori tra il sottile e complesso: si avvertono note di frutta rossa dove spicca l’amarena e un pò di mora. Nota minerale ed erbacea. Nota vinosa
⊲ ANALISI GUSTATIVA
Al palato buon equilibrio tra elementi di morbidezza vs durezza. Caldo, rotondo e secco. Fresco, sapido e giustamente tannico
⊲ RETROGUSTO
Sufficientemente persistente. Finale corto
⊲ ABBINAMENTO
Classico vino da pasto per tutti i giorni. Primi piatti a base di carne, grigliate, pollo arrosto, carni arroste bianche in genere. Ottimo da spunciotti (affettati, formaggi, bocconcini farciti, ecc.) durante lo spritz.
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Benvenuta Vendemmia Produttori per passione e innamorati della stagione più bella. La cantina durante il periodo è aperta per visite e degustazioni La su, tra i vigneti de Il Pinazio, a Galzignano Terme, la vendemmia è nel vivo e la famiglia Selmin sta raccogliendo il frutto del proprio lavoro. L’estate è volata via lasciando all’uva uno stato di salute ottimale, i grappoli sono pieni e il caldo di questo primo scorcio d’autunno permette di spiccarli nel loro miglior momento di maturazione. Questo faciliterà il lavoro in cantina. La raccolta è iniziata con il Pinot e il Glera. Con quest’ultimo, qui, viene prodotto il celebre Serprino, una delle etichette più rinomate e premiate della cantina. Poi sarà la volta dei rossi, ma non prima di aver attentamente selezionato i grappoli che daranno vita al Fior d’Arancio Passito. Anche in questo caso stiamo parlando di bottiglie che ogni anno ottengono l’attenzione dei più prestigiosi premi enologici nazionali, come il Concorso Selezione del Sindaco di Cannelli, Asti, dove la medaglia d’oro della categoria è finita proprio al collo di questo simbolo dei Colli Euganei. Complessivamente, con tempi diversi legati ai sistemi di produzione che caratterizzano ogni vino, saranno circa novanta
mila le bottiglie alle quali verrà messo il tappo: dalle bollicine dei vini frizzanti e spumanti, tra i quali non va dimenticato l’autoctono “Corbinello”, ai bianchi fermi. E tra i rossi la scelta spazia dal “Colli Euganei rosso”, vino giovane fresco con note di frutta rossa, recentemente segnalato al Concorso Eno-Conegliano con una menzione, a vini più strutturati come la Riserva “Eremo” o lo “Jenio”, etichetta che più di tutte rappresenta le varie generazioni di Selmin vignaioli: attenti preservatori dell’ambiente tra i filari e creativi in mezzo alle botti, in quanto sempre alla ricerca di nuovi vini da proporre agli estimatori. Dunque il momento giusto per salire alla loro cantina, per una degustazione, non può che essere proprio questo della vendemmia, una festa e per questo le porte sono sempre aperte per conoscere da vicino questo antico rito che trasforma l’uva in prezioso vino.
Grandi vini per assecondare la Stagione Gli eccessi dell’estate sono trascorsi e dopo i picchi del termometro ora sono i sensi a chiedere calore: i primi sono i profumi, rotondi e pieni come lo sono i frutti maturi, e poi i sapori avvolgenti e bisognosi di accordarsi con i colori accesi della stagione IL PIANZIO di Selmin Soc. Agr. - Via Pianzio, 66 - 35030 Galzignano Terme (PD) Tel./Fax 049 9130422 - Cell. 393 7699836 - info@ilpianzio.it - www.ilpianzio.it - Seguici su Facebook
LA RECENSIONE di Renato Malaman
Al “Garibaldi ” COMANDA... NELSON
Lo storico ristorante di Sottomarina prese il nome dell’Eroe dei due mondi dopo la pasta e fagioli che questi vi apprezzò nel 1867. La famiglia Meneghello oggi propone una cucina di mare di qualità eccellente, frutto di una ricerca continua. La fama del locale è tenuta alta anche da piatti della tradizione chioggiotta
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e si dice Garibaldi a Chioggia tutti pensano al ristorante di via San Marco, civico 1924, dove si mangia da sempre un gran buon pesce. Ma pochi sanno che quel nome non è stato messo a caso. Il rinomato locale, che conserva l’anima dell’osteria delle origini e in realtà si trova nella frazione “rivale” di Sottomarina, poco lontano dalla torre dell’acquedotto, porta il nome del famoso generale perché nel 1867 lo ospitò a pranzo. In quell’occasione Garibaldi, accompagnato da Giovanna Boscolo Seggionetto detta la Nanona e dal cugino Zaccaria, che da bersagliere partecipò allo storico incontro di Teano, lo portarono all’Osteria del Sole di Barba Checco. L’eroe dei due mondi apprezzò molto la pasta e fagioli che gli venne servita. Ma proprio tanto. Il titolare Francesco Boscolo Bariga decise allora di ribattezzare l’osteria-trattoria “Garibaldi”. La famiglia Meneghello, padovani di Piove di Sacco, subentrò nel 1935 e di quell’epoca il locale oggi conserva delle splendide gigantografie in bianco e nero alle pareti. Impossibile non restarne ammaliati. Cesare Meneghello e la moglie Maria Xodo aprirono la nuova sede in una Sottomarina ancora deserta. Il locale è il secondo più vecchio della zona. L’attuale titolare Nelson Meneghello (al quale danno man forte la moglie Bruna Stefani e la figlia Lorenza) ha rilevato la gestione subito dopo il servizio militare, nel 1970, per la morte del papà Rino. Nelson affiancò la madre Elda con grande senso di responsabilità e voglia di imparare. La zuppa di pesce è stato il primo cavallo di battaglia del locale. Oggi il “Garibaldi” è un locale raffinato dentro e fuori. Nella proposta e negli arredi. Ma, si badi bene, la cucina pur puntando su una materia prima di qualità indiscutibilmente alta (questo lo percepirebbe persino un neofita della degustazione anche solo addentando un canestrello) è rimasta ancorata a preparazioni semplici che, in molti casi, nobilitano la tradizione chioggiotta. Anzi, la esaltano. Nel corso della nostra visita è questo il connotato emerso: un bel locale, dove si continua a mangiar bene, dove ogni dettaglio è curato, ma senza esagerazioni. Raffinata è anche la mise en place, sobria ed elegante. Con sottopiatti da collezione che portano una nota artistica sul tovagliato bianco. Dalla cucina a vista (che scelta felice!) si nota Nelson girare con maestria i pesci che cuociono alla brace e nel contempo guarnire con mano artistica una tavolozza di crudi. Nelson è
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PERCHÉ
Recensione
Renato Malaman, noto enogastronomo padovano, visita per la nostra rivista i ristoranti della Bassa Padovana, dell’area euganea e dei territori limitrofi più ricchi di tradizione, per raccontare storie, personaggi e piatti che nel tempo li hanno resi celebri. Esprimendo anche una sua valutazione sulla qualità attuale della proposta
La zuppa di pesce è stato il primo cavallo di battaglia del locale
LA RECENSIONE Un bel locale, dove si continua a mangiar bene, dove ogni dettaglio è curato, ma senza esagerazioni
quasi teatrale nelle sue movenze, osservare la passione con cui tratta pesci, crostacei e molluschi amplifica l’appetito. La cucina dal vivo è spettacolo e al Garibaldi è anche un divertimento per i commensali-spettatori. Abbiamo assaggiato gli splendidi crudi (serviti con diverse varietà di olio), una granseola fatta come dio comanda (che freschezza e turgore!), i gamberetti di laguna con aglio, prezzemolo e polentina appena fatta, i canestrelli bianchi scottati, qualcosa di bollito (canocchie superlative). Come primo due classici: gli spaghetti con le seppie nere e quelli con le “bibarasse e caparossoli”. Infine un assaggio (di più non ci stava, ahimè) di frittura di “minuaglia” (ovvero pescetti piccoli) e di luserna “incovercià”, piatto icona di Chioggia. Si tratta della famosa gallinella di mare lasciata cuocere in un invitante intingolo, a fuoco lento, lasciando “pipare” la pietanza spostando leggermente il coperchio… Prezzi dei piatti che oscillano dai 15 ai 16 euro. I più pregiati 20. Bruna e Lorenza al tavolo e anche il cameriere sanno spiegare ogni segreto di questi piatti, interpretando il lavoro in sala nel giusto modo. Da “ambasciatori” della cucina. Finale dolce con la famosa crema fritta, specialità di Nelson. Con i vini al Garibaldi c’è da divertirsi. La carta è ampia, ma soprattutto accanto agli Champagne, ai Franciacorta e ai Trento Doc più celebrati propone anche etichette dal buon rapporto qualità-prezzo che Nelson ha scelto perché gli sono piaciute. Sbirciando nell’altra sezione del menù, quella moderatamente creativa, troviamo piatti che, magari la prossima volta, potrebbero costituire uno stimolante banco di prova. Parliamo dei tagliolini asparagi e scampi, degli spaghetti di farro e seppie nere con crema di piselli, delle linguine all’astice con i due pomodori. Nelson viene al tavolo e con moglie e figlia racconta il suo amore per la cucina: “Qualità e ricerca continua sono i valori veri della nostra proposta - dice Nelson, che a dispetto del nome altisonante è una persona dalla tipica bonomia chioggiotta - qui abbiamo abituato i clienti, che arrivano anche dalle province vicine, a trovare sul piatto solo l’eccellenza. Chioggia è un emporio del pesce che ci permette di dare spesso anche delle cose diverse, di giornata, e talvolta ce le chiedono. Andare al mercato ittico a scegliere la cassetta di pescato giusta, appena scaricata dal peschereccio, è ancora un’abitudine che mi appassiona. Anche se bisogna alzarsi all’alba, anche se d’inverno fa freddo e si è sferzati da un vento tagliente. Alla passione non si comanda”.
La Pagella
di Con i piedi per terra
⊲ Uso delle materie prime del territorio
⊲ Piatti in menù che seguono la stagionalità ⊲ Rielaborazione dei piatti della tradizione secondo fantasia e creatività ⊲ Accoglienza
Bruna, Nelson e Lorenza Meneghello in compagnia del giornalista Renato Malaman
⊲ Abbinamento vini ⊲ Rapporto qualità-prezzo
VENDEMMIA DA INCORNICIARE Negli impianti di via Marconi aVo’ Euganeo i tini ribollono di un raccolto eccezionale per qualità e quantità. A metà settembre la Festa dell’Uva. Lo storico appuntamento con la vendemmia sarà l’occasione per degustare l’intera produzione 2017 e conoscere quella in corso
Un’annata da incorniciare e anche con una bella cornice. La vendemmia è incominciata già da un po’ nei vigneti dei soci che conferiscono alla Cantina Colli Euganei di Vo’ e i frutti di un’estate, calda di giorno e fresca di notte, si stanno già facendo apprezzare. Le buone temperature, infatti, hanno permesso alle uve un’ottima maturazione, sia per i bianchi che per i rossi, concentrando i profumi primari e le note qualitative. E quando i grappoli sono sani e anche più facile lavorarli in cantina soprattutto qui, dove a fine stagione saranno passati ben cento mila quintali di uve che verranno vinificate e messe sotto vetro in un numero che supera abbondantemente i due milioni di unità, destinate a raggiungere sia il mercato interno che quello estero. Usa, Canada, Cina, Sud Korea ed Europa, infatti, si confermano buoni mercati per le etichette che riportano nella titolazione “Cantina Colli Euganei”. Per le prime bottiglie bisognerà attendere gli ultimi giorni di ottobre, per quel periodo infatti gli spumanti saranno pronti a “sparare via” il tappo, ma intanto l’occasione giusta per conoscere l’intera produzione, amabilmente degustando, potrebbe essere la storica “Festa dell’uva” che si terrà come da tradizione a metà settembre. Perché qui la vendemmia è soprattutto una festa, un modo di stare insieme e godere dei profumi e dei prodotti che la stagione offre in abbondanza.
LA CANTINA
La Cantina Colli Euganei è una società cooperativa agricola fondata nel 1949, nata per volontà di un gruppo di viticoltori che si sono associati per poter raccogliere, vinificare e commercializzare il vino della zona Dop e Igp dei Colli Euganei. Oggi raggruppa circa 600 produttori, disseminati all’interno del territorio protetto dal Parco dei Colli. Per gli associati la cantina è un punto di riferimento quotidiano: consulenza enologica, assistenza tecnico-formativa per i viticoltori, grande attenzione alle scelte di qualità, in vigna come in cantina. E’ un’azienda certificata, che impiega tecnologie all’avanguardia in tutte le fasi della lavorazione. Aggiornamento costante, cultura tecnica e competenza caratterizzano lo staff che si impegna nel dare la certezza di una filiera totalmente controllata, dal grappolo alla bottiglia. Con 8 milioni di chili d’uva raccolta, 6 milioni di litri di vino prodotto e 2 milioni di bottiglie distribuite la Cantina Colli Euganei è il maggiore produttore dell’area. Oltre ai punti vendita di Vo’, Limena e Selvazzano e Galzignano terme è possibile acquistare i prodotto della Cantina Colli Euganei anche on-line. Basta una mail all’indirizzo info@cantinavo.it per entrare in contatto con un operatore e poter accedere al acquisti e ricevere entro 48 ore il vino desiderato direttamente a casa cantina colli euganei s.c.a. via marconi, 314 - vo’ euganeo (pd)
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LA STAGIONE INVITA AI VINI ROSSI…
L’autunno si carica di colori e profumi. La stagione è abbondante di prodotti e i primi freschi richiamano appetiti per piatti genuini che la tradizione vuole si accompagnino ai vini rossi. Ecco la selezione della Cantina Colli Euganei dove a fianco dei tipici: Merlot DOC, Cabernet DOC, al Rosso Doc, si stagliano le Selezioni rappresentate dal “Cabernet Franc-Palazzo del Principe” e dal riserva “Notte di Galileo”
CABERNET FRANC PALAZZO DEL PRINCIPE Le uve 100% Cabernet Franc di questa selezione speciale provengono dalla zona sud occidentale dei Colli Euganei dove i terreni sono più sassosi e poco profondi. Le produzioni oltre ad avere una superiore ricchezza zuccherina, posseggono una maggior concentrazione di componenti in grado di mettere in rilievo la struttura del vino a cui daranno origine. Il colore è rosso carico, tra i profumi spiccano i frutti di bosco. In bocca pieno e rotondo, con una buona ed elegante struttura ed un retrogusto di lunga persistenza
NOTTE DI GALILEO 2016 Prodotto con uve Merlot e Cabernet Sauvignon provenienti da aziende selezionate nella zona DOC Colli Euganei aderenti al Progetto Qualità, è il risultato di un procedimento di vinificazione condotto attraverso un prolungato contatto tra mosto e bucce. Al termine della fermentazione il vino rimane in barriques di rovere pregiato per 15-18 mesi. Un’ulteriore permanenza in bottiglia ne completa la maturazione. Di colore rosso porpora con riflessi granati possiede un profumo ampio ed intenso con note speziate di vaniglia e frutta matura. In bocca è morbido e avvolgente
IL PUNTO VENDITA, NON SOLO VINO Nel Punto vendita della Cantina non è solo la rivendita delle bottiglie prodotte qui è, invece, un posto in cui si possono trovare le migliori eccellenze dell’agroalimentare nazionale: pasta, pomodori, olio, miele e ovviamente i dolci. • VO’ EUGANEO via Marconi, 314 Tel. 049 9940011 - Fax 049 9940497 • LIMENA via Buccia, 1 Tel. 049 8843803 - Fax 049 7662081 • CASELLE DI SELVAZZANO via Nazzario Sauro, 2 Tel. 049 8978378 • GALZIGNANO TERME via Valli, 55 Tel. 049 525384 tel. 049 9940011 - fax 049 9940497 - www.cantinacollieuganei.it - info@cantinavo.it
SCOPRIRE IL TERRITORIO a cura della redazione
Questa pubblicazione ha ricevuto il patrocinio di: This publication has received the patronage of:
Provincia di Padova
A SPASSO NELLE TERRE DEI CARRARESI
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Comune di San Pietro Viminario
tra arte, paesaggio e prodotti tipici
A WALK IN THE LANDS OF THE CARRARESI between art, landscape and typical products
THINK! soluzioni creative
U
Comune di Pernumia
A SPASSO NELLE TERRE DEI CARRARESI
Tra arte, paesaggio e prodotti tipici n progetto di promozione e visitazione del territorio realizzato da Speak Out e sponsorizzato da alcune aziende del territorio. Un modo per raccontare la ricchezza di questa terra e proporre quattro itinerari per conoscerla meglio sia nei suoi aspetti culturali e paesaggistici, ma anche come centro per gli acquisti di prodotti tipici, vista la presenza di tante storiche aziende dai marchi di assoluta qualità. La terra dei Da Carrara, del resto, è sempre stata ricca. Sotto questa dinastia il territorio conobbe la massima espansione territoriale e la loro corte richiamò i più insigni artisti dell’epoca trasformandola in una della capitali intellettuali e politiche del tempo. Un passato che ancora leggibile attraverso la storia conservata in forma di museo diffuso e rintracciabile anche nei tanti prodotti che il territorio offre, per questo questa pubblicazione va letta anche in chiave di opportunità di “shopping” emozionale e dinamico.
Comune di Comune di Comune di Comune di Comune di Comune di Albignasego Cartura Casalserugo Conselve Due Carrare Maserà
Pubblicazione realizzata da Speak Out Srl editori di “Con i piedi per terra” Publication realized by Speak Out Srl publishers of “Con i piedi per Terra”
OUT
www.conipiediperterra.it
Una cartina in due lingue collegata al web da un QR Code, per le proposte di itinerario, roadmap e le schede di presentazione dei siti di interesse storico, architettonico e paesaggistico dell’area a Sud della città di Padova alle pendici dei Colli Euganei. Nonché le aziende aperte per lo shooping e le loro proposte merceologiche
SCOPRIRE IL TERRITORIO
PERCORSO DEGLI AVIATORI SCUDERIA IN BLOOM
37,8 Km
7 8 CONSORZIO ORTOFRUTTICOLI E TIPICI PADOVANI CASEIFICIO 9 SALVÒ
ORTOFRUTTA 2 SCARABELLO
1 GD CENTRO TELEFONIA PIEVE SANTA MARIA 3 COMINCIAMO DAL VINO 4 RISTORANTE PIZZERIA 6 PER SEMPRE
VILLA FERRI
CASTELLO DI SAN PELAGIO
BORGO DI CA’ MURÀ
10 VINI MONTICELLO
AZIENDA 5 RIGONI FLAVIO
11 CANTINA LA MINCANA VILLA GRIMANI
CHIESA RONCHI DEL VOLO
MULINO DI PONTEMANCO VILLA SPERANDIO
VILLA CAPODAGLIO
6 CASEIFICIO AI PRÀ
13 MASERÀ > CASALSERUGO > BOVOLENTA > DUE CARRARE > MASERÀ RISTORANTE 14 APICOLTURA MIELE PIÙ
PIZZERIA GIÀ CHE CI SEI
Questo itinerario è dedicato a due importanti pionieri dei cieli, il barone Leonino Da Zara e il poeta Gabriele D’Annunzio. La loro storia, infatti, è legata a due siti incrociati dal percorso: Ronchi del Volo a Casalserugo, che prende il nome proprio dalle gesta del primo e il Castello di San Pelagio, da dove decollarono gli aerei del “volo su Vienna” nell’agosto del 1918. Ma sono in realtà diversi i siti di interesse incrociati lungo i 37 chilometri da fare rigorosamente in bici, magari con la bella stagione per poter assaporare il gusto di una campagna rimasta per larghi tratti vergine e solcata da tanti corsi e fiumiciattoli attorno ai quali si sono sviluppati piccoli borghi, come Pontemanco, centro artigianale medievale cresciuto attorno alla forza motrice di un piccolo salto d’acqua, o le belle ville di cui è famoso il Veneto come Villa Grimani e Villa Sperandio, sempre a Pontemanco, Villa Capodaglio, nella vicina Due Carrare, o Villa Petrobelli nel borgo di Ca’ Murà.
Fotografando con il tuo smatphone il QRcode qui a fianco avrai accesso alla roadmap del percorso e alle schede di presentazione dei siti di interesse storico, architettonico e paesaggistico, nonché le aziende aperte per lo shopping e le loro proposte merceologiche
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SCOPRIRE IL TERRITORIO
I SITI D’INTERESSE STORICO E CULTURALE INTERCETTATI DAL PERCORSO PONTEMANCO, l’antico borgo nato dalla forza dell’acqua
IL CASTELLO DI SAN PELAGIO e il folle volo della “Serenissima”
A Due Carrare, lungo le sponde del Biancolino, sorge il piccolo borgo medievale di Pontemanco, custode del mulino più antico del Nord Italia, menzionato nel 1338 nel testamento di Marsilio da Carrara, signore di Padova. In questo borgo proto-industriale, con le granaglie lavorate dal mulino si svolgevano numerose attività artigianali tanto che, nel 1539, si contavano ben dodici macinatoi. A contribuire all’attività molitoria furono anche i nobili Grimani, alloggiati nella villa con oratorio prospiciente il mulino, poco distanti dalla settecentesca Villa Sperandio, nascosta nella parte meridionale del borgo.
È da qui che il 9 agosto 1918 che Gabriele D’Annunzio partì con 11 biplani Ansaldo SVA dell’87° Squadra Aeroplani per compiere il celebre Volo su Vienna, per il lancio di migliaia di manifestini tricolori contenenti una provocatoria esortazione alla resa e a porre fine alle belligeranze della Grande Guerra. Abitato dagli Zaborra da oltre 300 anni, il castello medievale che ospitò il poeta nel biennio 1917-1919 sorprende con la sua torre d’avvistamento, i labirinti e il Museo del Volo. Nelle oltre trenta sale dedicate a Leonardo, ai Montgolfier, ai fratelli Wright e a molti altri inventori il museo, inaugurato nel 1980, ripercorre la storia del volo umano mettendo in esposizione modelli di aerei, dirigibili e mongolfiere.
CA’ MURÀ, l’antico borgo dei benedettini Negli anni in cui Litolfo Da Carrara finanziava l’Abbazia di Santo Stefano, a Maserà di Padova si insediavano altre comunità benedettine impegnate nella bonifica dei terreni paludosi. A testimoniarlo è il borgo di Ca’ Murà che, nei pressi dell’Oratorio di Santo Stefano ed Eurosia, presenta tuttora: l’edificio del “casolino” che lavorava col baratto delle uova, la casa bracciantile, le case del maniscalco, del fabbro e del “sensaro”, l’ospitale, l’albergo del pellegrino, le “boarie” e la casa del “gastaldo” detta Casa Giuditta. A sovrintendere le attività del borgo Villa Petrobelli, la seicentesca dimora estiva dei Conti Petrobelli, nobilmente dotata di parco e barchesse.
LA CAPPELLA DEGLI OBIZZI, il ritratto di Albignasego Mentre i Carraresi tentavano invano di riconquistare Padova, la famiglia Obizzi vantava nel 1440 grandi possedimenti terrieri ad Albignasego. Con lo stesso sfarzo con cui costruiranno il Castello del Catajo, questi celebri capitani di ventura eressero nel XIII-XIV secolo la cappella situata dietro l’altare della Chiesa di San Tommaso. Particolare per lo stile architettonico, la Cappella degli Obizzi è magistralmente affrescata e custodisce una pala d’altare attribuita a Stefano Dell’Arzere, artista che volle dipingere i volti degli apostoli facendo veri e propri ritratti di personaggi del tempo.
Lungo il percorso: L’enoteca “Cominciamo dal vino”, perché il vino nelle Terre dei Carraresi è una cosa seria “L’Ortofrutta Scarabello”, questa è la terra del celebre Radicchio di Maserà e non solo “L’Azienda Agricola Ai Prà”, dove si possono trovare i prelibati formaggi preparati da Antonella Ristorante e pizzeria “Sei per sempre”, dove all’ospitalità si coniuga l’intelligente scelta di puntare su materie prime del territorio
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TEMPO DI FESTA, TEMPO DI VENDEMMIA Per la storica cantina di Due Carrare il momento della maturazione e della raccolta dell’uva è fatto di lunghe giornate trascorse tra il sole dei filari ed il fresco della cantina, di braccia stanche, di mani colorate di mosto e di un vivo brulicare di vita
“Il mestiere delle stagioni è quello di cambiare: caldo non fa più, freddo non ancora. È il tempo della vendemmia, il momento della verità: da un bicchiere di mosto capiremo quanto la Natura è stata benevola con noi e anche quanto lo siamo stati con lei. È in questo preciso istante che vengono al mondo le nostre bottiglie, in cui si depositano le fatiche di un anno e i profumi più profondi della nostra terra Euganea. Per questo la vendemmia per noi è momento importante, perché segna in modo profondo questo nostro rapporto con le stagioni che ormai si rinnova da oltre cento anni” Famiglia Dal Martello
La Mincana - Via Mincana, 52 - 35020 Due Carrare (PD) - Tel. 049 525559 - Fax 049 525499 www.lamincana.it - info@lamincana.it Cantina La Mincana-Dal Martello
AMICI CON LE ALI di Aldo Tonelli
Il Lodolaio ACROBATA DELL’ARIA
In questi giorni si sta preparando per partire. Nidifica tardi rispetto alle altre specie di uccelli, ma anche i piccoli ora sono pronti per raggiungere zone più temperate dove trascorrere l’inverno
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uò essere un segnale della fine della stagione dei raccolti vedere giovani Lodolai volare sopra le messi in caccia: infatti questo falco è uno degli ultimi uccelli a nidificare dalle nostre parti. Assomiglia a un Falco pellegrino in miniatura con ali strette ma riconoscibile per i calzoni e le copritrici del sottocoda color ruggine, un doppio mustacchio nero che spicca sulla guancia e collo bianchi, le parti inferiori bianche con pesanti strie nere mentre la parte superiore è grigio-bluastra. I giovani hanno parti superiori bruno scure, parti inferiori più beige e più fittamente striate, e mancano di rosso sui calzoni e sotto la coda anche questi di colore beige. Con il suo corpo elegante e le ali a forma di falce, il Lodolaio assomiglia ad un Rondone sovradimensionato e in quanto prodezze aeree non ha sicuramente niente da invidiargli.
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Il Lodolaio in picchiata
AMICI CON LE ALI Cacciatore davvero molto abile, cala sulle prede in volo in picchiate mozzafiato, le sorprende volando rasoterra, fa spesso delle finte cambiando rapidamente direzione e con inseguimenti prolungati le cattura al volo afferrandole con gli artigli con apparente facilità Cacciatore davvero molto abile, cala sulle prede in volo in picchiate mozzafiato, le sorprende volando rasoterra, fa spesso delle finte cambiando rapidamente direzione e con inseguimenti prolungati le cattura al volo afferrandole con gli artigli con apparente facilità, per poi consumarle ancora volando se di piccole dimensioni o posandosi se più grandi. Si ciba prevalentemente di insetti quali falene, libellule e coleotteri e di uccelli quali Rondoni, Rondini, Balestrucci e Allodole, da cui il nome “lodola: perché caccia le allodole”. Ama muoversi all’alba e al tramonto fin quasi al termine del crepuscolo, momento nel quale riesce a catturare anche i pipistrelli che escono dai loro rifugi diurni. Arriva di solito in aprile ma spesso non lo si nota fino a maggio quando la coppia, molto territoriale, effettua parate nuziali molto belle e spettacolari dove si esaltano ancor più le doti acrobatiche con circonvoluzioni aeree ora circolari ora in picchiata e risalite con scambio di cibo in volo, in questa fase si nutre quasi esclusivamente di insetti. In Pianura Padana nidifica su alberi nelle aree golenali, più raramente sui tralicci delle linee elettriche, e specialmente nei pioppeti, dove frequentemente utilizza i nidi di corvidi, come la Cornacchia grigia, cercando di sfrattare anche i legittimi proprietari disturbandoli con voli ravvicinati e grida: il suo richiamo è molto simile a quello di un altro uccello caratteristico come il Torcicollo. La cova in genere inizia nella seconda metà di giugno, dura un mese ed è effettuata prevalentemente dalla femmina mentre il maschio procaccia le prede, quasi esclusivamente grossi insetti e qualche uccello. La nidificazione avviene con un certo ritardo
A ottobre gli ultimi esemplari partono per l’Africa a sud dell’Equatore, molte volte aggregandosi ad altri esemplari, ritrovandosi alla sera in dormitori comuni e anche nelle aree di svernamento dove gli insetti tornano prevalenti nella loro dieta
Giovani che hanno lasciato il nido
rispetto alla maggior parte delle altre specie di uccelli europei con lo scopo di poter avere a disposizione più uccelli giovani delle altre specie come prede, inesperti nel volo e più facilmente catturabili nel periodo critico dell’allevamento della propria prole che ha necessità di un maggior importo proteico. La covata è costituita da due a cinque uova e non è raro che nei pressi del loro nido ci sia anche quello del Colombaccio: è stato dimostrato che, aggregandosi al rapace molto aggressivo nei confronti dei corvidi potenziali
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AMICI CON LE ALI Nel Veneto nidificano dalle 70 alle 100 coppie che rappresentano il 10% di quelle nazionali ma la recente diminuzione delle coltivazioni di pioppeti nel Nordest potrà forse incidere sul successo riproduttivo futuro di questo falco predatrici di uova e pulcini, il Colombaccio riduca il rischio di vedere predato il proprio nido poiché il falco non permetterebbe mai per esempio a una Gazza di starsene posata dalle sue parti. Gli involi avvengono dalla seconda metà di agosto ai primi di settembre e per un mese i giovani devono imparare in fretta i metodi di caccia prima della partenza per i paesi più caldi. A ottobre gli ultimi esemplari partono per l’Africa a sud dell’Equatore, molte volte aggregandosi ad altri esemplari, ritrovandosi alla sera in dormitori
Il Lodolaio adulto e il giovane
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comuni e anche nelle aree di svernamento dove gli insetti tornano prevalenti nella loro dieta. Nel Veneto nidificano dalle 70 alle 100 coppie che rappresentano il 10% di quelle nazionali ma la recente diminuzione delle coltivazioni di pioppeti nel Nordest potrà forse incidere sul successo riproduttivo futuro di questo falco come quello dell’uso di pesticidi che contaminano le sue prede. Il suo nome scientifico è Falco subbuteo che significa di taglia più piccola (sub) di quella di una Poiana (buteo) e questo ci porta al famoso omonimo gioco da tavolo. Nel 1947 infatti l’ornitologo inglese Peter Adolph ebbe l’idea di riprendere un gioco degli anni trenta e di codificarlo nel gioco del calcio da tavolo con il nome di Subbuteo. Avrebbe voluto inizialmente brevettare il passatempo con il nome The Hobby che in inglese è il nome del Lodolaio ma non essendo il termine registrabile all’Ufficio Brevetti inglese ripiegò su parte del nome scientifico, Subbuteo appunto, omaggiando così il suo amato rapace.
VERNICIATURA A POLVERI E ZINCATURA
L’AVANGUARDIA NEL SETTORE DELLA VERNICIATURA A POLVERI Trent’anni di esperienza, pongono la nostra azienda ad essere leader nel settore della verniciatura a polveri. In costante crescita, investiamo con lungimiranza ed entusiasmo impegnando le nostre risorse per esaltare tecnologia, standard qualitativi, assistenza e servizi per arrivare a soddisfare al meglio ogni esigenza del cliente PERCHÉ SCEGLIERCI: • tempestività, l’organizzazione aziendale e le attrezzature all’avanguardia permettono diversi cambi di tinta giornalieri garantendo l’abbattimento dei tempi di attesa per la restituzione del lavoro ultimato • disponibilità, grazie ad un sistema di trasporti consolidato è possibile la raccolta e la riconsegna anche di piccoli lotti di materiale da verniciare. Da noi è possibile verniciare e zincare qualsiasi superficie • economicità, è ottimo il rapporto tra qualità del servizio e costo dell’intervento
QUALITÀ, EFFICIENZA E CORTESIA
Anche consulenze tecniche e consigli per soddisfare l’esigenza del cliente più esigente
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VALENTINA 46 anni
prodotti del mio territorio.