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PAESAGGI SONORI

SCUDELLARI, ANTICHI E ANONIMI ARTIGIANI DEL VENETO RINASCIMENTALE

I loro nomi non compaiono a fianco dei grandi pittori, ma pure sono stati dei maestri che tra la fine del Medioevo e il XVII secolo hanno contribuito ad divulgare il linguaggio simbolico dell’arte

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Siamo abituati ad immaginare il Veneto come uno dei centri europei della produzione artigianale. I nostri nonni erano soliti “usarsi” l’appellativo di “maestro” nel salutarsi e nei convenevoli, sentendosi orgogliosamente figli legittimi dell’ingegno e di quell’intraprendenza italiana che ha conferme nel Rinascimento, seppur il nostro discorso segua il ramo delle arti applicate. Per chi ha la mia età ricorderà i ruggenti anni ‘80 e ‘90 della “locomotiva del Nord Est”, lanciata veloce sui binari del mobile e del tessile e purtroppo anche la successiva dissoluzione, ben prima che la crisi economica, iniziata con il fallimento della Lehman Brother’s, e i denti aguzzi della globalizzazione rendessero “provinciale”, e dunque “marginale”, la produzione. È stato sicuramente uno schiaffo che in una terra di falegnami come la nostra, dove l’arte del legno era stata tramandata da padre in figlio dai tempi eroici dei “marangoni” che fecero dell’arsenale di Venezia la prima industria al mondo, si sia insediato il colosso svedese dei mobili di cartone. Va beh, ironia della sorte o segno dei tempi, cambia poco: “magna e desmentega” è uno dei motti con i quali ci siamo lasciati alle spalle anche le tragedie più crude. E del resto sono molti i mestieri di cui ab

Artisti del tornio, armati di colori e pennelli hanno lasciato una traccia indelebile con una produzione di ceramiche che oggi viene definita dagli storici: “graffita ad ingobbio veneta”

biamo perso memoria. Restano i nomi, anzi i cognomi perché il lavoro in una terra come la nostra ha sempre significato identità e quindi ancora oggi ci portiamo addosso: Marangon, Lanaro, Scarparo, Favaro, Sartor, etc, etc. Gente viva chiamata con mestieri morti. Nulla da rimpiangere, per carità! Ma c’è una storia che merita di essere raccontata, quella degli “scudelari”, cognome ancora molto diffuso, anche se il mestiere a cui si riferisce non lo conosce più nessuno. Altri nomi per indicare lo stesso lavoro era “pegnatari” o “pegnata”. “Bocalaro” invece non ha avuto il privilegio di diventare cognome, forse perché attribuito a qualcuno poteva far correre il rischio a questi di essere identificato come uno facile agli sproloqui o artista della parola a vanvera. Quando, invece, artista lo era davvero, nel senso che gli “scudelari” e i “pegnatari” erano “maestri” del tornio e armati di colori e pennelli hanno lasciato una traccia indelebile con una produzione di ceramiche che oggi viene definita dagli storici: “graffita ad ingobbio”. Una produzione specificatamente veneta, a quel tempo fenomeno dell’Est più che del Nord Est, perché stiamo parlando di quella Repubblica di Venezia che alla fine del Medioevo si sentiva a casa in ogni angolo dell’Oriente e del Mediterraneo. Furono proprio i mer

canti veneziani ad impararne o ad importarne, insieme alle prime maestranze, la tecnica da Bisanzio, per poi diffonderne la produzione nelle terre in cui esercitava la sua influenza e il commercio in tutto il Nord Italia. In poco tempo sorsero dei centri di produzione in Emilia, dove si distinse Ferrara, Bologna e Faenza, in Lombardia, con Mantova, e ovviamente in Veneto dove le botteghe sorsero in città come Padova, Verona, Rovigo e Treviso ma molte fornaci trovarono fortuna anche nei paesotti lungo l’asta dell’Adige, come quelle di Anguillara, di Badia Polesine, di Masi o di Legnago, rimaste attive per diversi secoli. Infatti fu una produzione di successo, capace di continuare ad incontrare il gusto, e quindi un florido mercato, fino alla fine del ‘600 con minime variazioni di produzione e di stile. Una fortuna più che altro trovata nella facile realizzazione di questi prodotti e forse, ancor di più, nella loro economicità, tanto che la tecnica dell’ingobbio rimase efficace anche nel corso del XVI secolo quando i nostri “scudelari” a fianco della produzione tradizionale presero ad imitare le lucide e costosissime porcellane cinesi, bianche e blu, prodotte con il caolino. Insomma, al tempo, i “cinesi” eravamo noi, capaci di “copiare” i prodotti della gran moda, ma a poco prezzo. E anche nel caso della “graffita” si potrebbe parlare di plagio, perché tutto il ricco repertorio di immagini utilizzate per la decorazione provenivano dall’iconografia bizantina, che a sua volta risentiva di quella persiana. Il campionario di astratte raffigurazioni geometriche, rispondenti all’iconoclastia dell’Asia Occidentale, insieme al bestiario di figure fitomorfe e zoomorfe dalla grafica

semplificata, ma fortemente simbolica, bizantina, rimase attuale anche al di fuori dei messali, dei salteri e dai libri d’ore dai quali erano stati desunti e soprattutto anche in un tempo in cui il Rinascimento aveva aggiornato il linguaggio dell’arte. Nella arti applicate, come la ceramica, il linguaggio rimase resiliente, si modernizzò con maggiore lentezza, anche se una certa evoluzione c’è stata. Ma forse fu proprio la destinazione popolare della produzione a rendere meno pressante

LA TECNICA DELLA CERAMICA

GRAFFITA AD INGOBBIO

Ceramica graffita ad ingobbio è un nome difficile, ma che riassume molto bene la tipologia della produzione. Perché si trattava di ceramiche, di uso quotidiano o anche artistiche, caratterizzate da un decoro che veniva eseguito graffiando con una punta o una stecca l’ingobbio. Che cos’è l’ingobbio? Tutt’ora tra i maestri ceramisti è una patina sottile di argilla fine e purissima che ricopre un piatto o una ciotola realizzata con una creta più grossolana. In buona sostanza è “un bagno”, anche perché l’applicazione avviene per immersione, in una sospensione di argilla bianca che restituiva al prodotto una finitura tutto sommato pregiata, anche se in realtà era fatto con materiale piuttosto basso, come il “tivaro” che poteva essere recuperato nei depositi dei nostri fiumi, durante le “magre” invernali. Il “graffio” lasciava scoperta l’argilla grossolana sottostante, che con la cottura diventava rossa, creando un contrasto con la patina bianca e lucida di superficie, sulla quale poi si interveniva a pennello essenzialmente con due colori ottenuti da ossidi minerali, il giallo ferraccia, il verde ramina e per completare la decorazione seguiva una seconda cottura per fissare la vetrina stannifera, ossia a base d’ossido di stagno.

LA BOTTEGA

La bottega dello “scudellaro” era del tutto assimilabile a quella di un artista medievale. A capo c’era un “maestro”, spesso depositario delle tecniche e del repertorio delle immagini, che curava la produzione, gli ordini e i rapporti con la committenza e anche la vendita. Vi erano poi gli aiutanti e i garzoni a diversi livelli di apprendimento e di pratica al tornio e alla decorazione. I principali centri di produzione del nostro territorio si trovavano lungo il corso dell’Adige sia per il facile approvvigionamento dell’argilla, ma anche perché quasi tutte le merci un tempo viaggiavano sull’acqua

GLI STRUMENTI E LE CONOSCENZE

Oltre ad una discreta manualità al tornio e con il pennello, gli “scudellari” dovevano possedere anche buone conoscenze chimiche in quanto le argille impiegate erano il risultato di crete ottenute con diverse percentuali di minerali e anche i colori erano ottenuti dalla lavorazione di ossidi come il rame, dal quale si otteneva il verde, il ferro o l’antimonio per il giallo o le vetrine a base di piombo, stagno o di silicio

LA COTTURA

La progettazione e il controllo del ciclo di cottura erano tra le operazioni più difficili, sia perché durava molte ore sia perché le temperature da raggiungere erano molto elevate. Il calore all’interno delle camere di cottura, dove venivano impilati il maggior numero di pezzi, in genere andava ben oltre i 1000 gradi e per evitare gli eventuali danni causati da sovracottura o sottocottura si ricorreva a continui saggi del materiale infornato. La graffita padana richiedeva due passaggi in forno, il primo per la cottura dell’argilla, dopo la decorazione appor-

il bisogno di aggiornare l’iconografia o proprio l’universalità di quelle immagini, fortemente evocative e comprensibili a tutti, come gli emoticons dei giorni nostri, a decretarne una lunga sopravvivenaza. E quindi nei cavetti di ciotole e piatti, incorniciati da linee continue intervallate da racemi, losanghe e festoni polilobati gli “scudellari” continuarono a dipingervi le immagini di un campionario studiato più che altro in ragione alla committenza: simboli augurali di fertilità come cervi e conigli nel caso di una produzione rivolta a giovani sposi (la ceramica graffita sta anche alle origini delle bomboniere) simboli come la croce di San Bernardino o il melograno, destinati agli ordini religiosi, pesci ed uccelli come auspicio di abbondanza. E tra i soggetti di successo non mancava il “nodo”, considerato un talismano orientale, la stella di David, un segno propiziatorio, il cerchio, la losanga tagliata in croce, gli alberi (vegetante e secco), la rosa e il giglio, le rosette di buon augurio graffite sullo sfondo accanto a teste per lo più di profilo o a figure a mezzo busto rappresentate entro un giardino fiorito (hortus conclusus) luogo d’amore e di letizia per eccellenza. E poi scudi araldici e le iniziali dei nomi con lettere in onciali gotici entro verzieri di foglie e girali d’acanto per una committenza più d’alto rango. La qualità della decorazione variò molto anche nello stesso centro di produzione e nello stesso periodo: accanto a stoviglie dal disegno sempli

I cognomi veneti molto spesso sono nomi di mestieri e “Pegnataro” o “Pegnata” o “Bocalaro” indicavano l’antica arte di chi produceva piatti, ciotole, brocche e pignatte

cissimo, ma pur sempre gustoso, destinate all’uso corrente, sono state trovate ceramiche con raffigurazioni estremamente elaborate ed elegantissime, segno di una produzione già attenta alle leggi del mercato, che sapeva adattarsi alle possibilità di spesa e al gusto della committenza. La storia non ci ha restituito nomi di scudellari illustri, non c’è un Tiziano, un Tintoretto o un Giorgione tra di essi, tuttavia la loro produzione è ancora ben documentata, non esiste museo che non ne conservi un piatto, una ciotola, un boccale. Ma anche la nostra campagna ne conserva traccia, a tutti gli effetti sotto forma di inquinamento, antesignano anche questo a tanta produzione veneta, perché tutto ciò che non superava le due cotture (era circa il 40%) veniva distrutto gettandolo nei fiumi, oppure usandolo come materiale inerte per coprire buche o compattare argini e terrapieni. E così non è raro imbattersi accidentalmente in un frammento di questa particolare produzione a chilometri zero, come è capitato a me, e magari di pensare a quante cose “si mangia” il tempo e la terra o i fiumi, invece, no. tata con l’incisione dell’ingobbio, e una successiva per fissare colori e vetrina. Malgrado la maestria degli artigiani veneti lo scarto era molto alto, circa il 40% non trovava commercializzazione

L’ICONOGRAFIA

La qualità della decorazione era molto varia anche all’interno della stessa bottega e nello stesso periodo: accanto a stoviglie dal disegno semplicissimo, ma pur sempre gustoso, destinate all’uso corrente, sono state trovate ceramiche con raffigurazioni estremamente elaborate ed elegantissime.

IL LINGUAGGIO

Le immagini che c o m p a r i v a n o all’interno di ciotole e piatti avevano una chiara derivazione dell’arte bizantina. Soprattutto il ricco corredo di figure fitomorfe e zoomorfe che corredavano salteri, evangelari e libri d’ore realizzati nell’impero di Costantinopoli continuarono ad essere fonte di ispirazione per gli artigiani veneti

I MUSEI

Esposizioni delle ceramica graffita padana si possono trovare al Museo Nazionale Atestino di Este, al Museo Civico Archeologico “Antonio Giacomelli” di Montagnana, al Museo Civico Etnografico “Camillo Corain” di Stanghella, al Museo Civico “Barufaldi” di Badia Polesine, al Museo della Fondazione Fioroni di Legnago e al Museo Civico di Castelnuovo Bariano

A OGNI UOVO IL PROPRIO VOLO

In natura esistono varie forme d’uovo: grandi, piccole, maculate, perfettamente sferiche o con un ovale più o meno allungato. La soluzione a questa diversità è recente e secondo la Princeton University è il risultato dell’adattamento e dell’abilità al volo

L’ uovo più grande al mondo è quello trovato fossile in Madagascar e appartenuto all’uccello elefante, una specie estinta molto grande e probabilmente antenato dello struzzo. Misura ben 21 cm di diametro e 30 di altezza e confrontato con quello di gallina risulta cento volte più grande. Negli uccelli attualmente l’uovo più grande è quello dello struzzo che arriva a pesare anche 2,5 kg mentre l’uovo più piccolo che viene deposto pesa solo 0.3 grammi ed è di un colibrì della Giamaica. Tutto comincia dall’uovo ma non tutte le uova sono uguali, anzi ne esistono migliaia di tipi diversi: ellittiche, ovali, appuntite a forma di pera o tonde, ma anche colorate in modo diverso per mimetizzarsi in base all’ambiente. Dalle classiche uova di gallina a quelle a pois della quaglia fino ad arrivare a quelle perfettamente sferiche dei gufi, le forme e i colori delle uova deposte dagli uccelli variano incredibilmente da specie a specie. Ma perché? A rispondere a questa curiosa domanda arriva uno studio della Princeton University che chiarisce finalmente come le diverse forme delle uova siano il risultato dell’adattamento e dell’abilità di volare. In altre parole a ogni uovo il proprio volo, in contrasto con le numerose teo

L’uovo più grande è quello dello struzzo, che arriva a pesare anche 2,5 kg, mentre l’uovo più piccolo pesa solo 0.3 grammi ed è di un colibrì della Giamaica

rie precedenti che suggerivano come i fattori ambientali o le caratteristiche del nido fossero i fattori determinanti per la forma. In primo luogo i ricercatori hanno studiato forme e dimensioni di quasi 50.000 uova, appartenenti a 1.400 specie diverse, classificandole in base alla simmetria e alla forma più o meno allungata. In un secondo momento hanno messo a confronto le uova per vedere se c’erano relazioni con il tipo di nido, la localizzazione, la numerosità della nidiata, l’alimentazione e l’abilità nel volo: le analisi hanno evidenziato che l’unico aspetto rilevante è proprio quello del volo. La spiegazione è che quando il corpo di alcuni uccelli è cambiato per adattarsi ad un volo più potente si sono ridotte anche le dimensioni della cavità addominale che ospita le uova: il problema di spazio è stato risolto con uova dalla forma più allungata, mantenendo un volume ampio per un corretto sviluppo del pulcino ma larghezza ridotta per adattarsi al corpo più sottile e aerodinamico. La stagione dei nidi e la schiusa delle uova è un momento molto importante per i neo genitori, ma naturalmente è anche un momento delicato per i piccoli impegnati a imparare tutto il possibile sul mondo che li circonda. C’è chi depone un unico uovo, come il grifone, altri fino a 20, come la starna. Quando si parla di piccoli di uccelli sentiamo parlare di “pulli” e altre volte di “pulcini”: qual è la differenza sostanziale? Si preferisce usare il termine pulcini quando questi nascono già abili a muoversi e nutrirsi in modo autonomo, mentre per pulli ci si riferisce invece alla “prole inetta” ovvero a quei nidiacei che hanno bisogno di cure da parte dei genitori per un periodo più o meno lungo prima di involarsi. Le piume sono di vitale importanza per gli uccelli ma molti nascono quasi privi di piumaggio come i barbagianni; le piume crescono rapidamente dopo la schiusa ma, almeno nella fase iniziale, questi piccoli richiedono più cure parentali. Altri uccelli, come il germano reale, na

Anche il numero delle uova all’interno del nido varia da specie a specie. C’è chi depone un unico uovo, come il grifone, altri fino a 20, come la starna

Uova di piccione

scono già con morbide piume pettinate verso il basso, utili per stare al caldo e prive di colori vivaci in modo da rendere più facile la mimetizzazione dai predatori: è per questo che alcuni pulcini possono lasciare il nido già poche ore dopo la schiusa. Alcuni uccelli, come il cuculo, non costruiscono nidi ma depongono le uova nei nidi di altre specie. Nel momento in cui la femmina del cuculo si accorge che un nido è stato lasciato momentaneamente incustodito dai proprietari, ne approfitta per portare via un uovo e deporre velocemente il suo. Le uova hanno colorazione varia ma somigliante a quelle dell’ospite e dopo 12 giorni si schiudono, generalmente prima delle altre. Il pulcino, cieco e nudo, durante i primi giorni si libera delle altre uova gettandole fuori dal nido e così verrà nutrito solo lui dagli adulti della specie parassitata. I giovani cuculi vengono allevati da questi “genitori adottivi” e, nella maggior parte dei casi, sono nettamente più grandi dei pulli naturali della coppia. La nidificazione è una fase molto delicata nella vita degli uccelli, per questo non si deve rischiare di disturbare le singole nidiate durante questa delicata e fragile fase del ciclo riproduttivo. Gli uccelli sono esseri viventi preziosi che meritano rispetto e protezione.

Le piume sono di vitale importanza per gli uccelli, ma molti nascono quasi privi di piumaggio come nel caso dei barbagianni

Sotto: Germano reale con pulcini Sopra: Barbagianni con pulli e uovo. Foto di Christian Napolitan

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