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LO SGUARDO OLTRE LA SIEPE
Il settore non ha conosciuto soste, il lavoro è continuato anche nelle settimane di massima allerta per garantire continuità alle forniture di cibo e bevande alla popolazione. I timori sono per il futuro, in quanto il Made in Italy è stato oggetto di discriminazioni a causa di timori ingiustificati sulla sua sicurezza L’AGRICOLTURA AI TEMPI DEL CORONAVIRUS
Come la natura, così l’agricoltura non si ferma e al settore primario viene riconosciuto un ruolo chiave anche in questo momento di emergenza. E il momento non è sicuramente facile, visto che il comparto agricolo, oltre i problemi portati dell’emergenza coronavirus, da mesi subisce attacchi per motivi diversi: dalla Brexit, ai dazi Usa e a tutte le politiche nazionaliste che stanno caratterizzando molti stati anche in Europa. La più grave per l’agricoltura, tuttavia, rimane la situazione provocata dell’epidemia, in quanto oltre a rivoluzionare il settore primario, ha fermato il già flebile sviluppo dell’intera economia italiana e modificato le abitudini della popolazione. Per evitare il diffondersi del contagio la pratica più diffusa è stata quella dell’isolamento, della quarantena, dell’astensione dal lavoro, ma non per il mondo dell’agricoltura che invece ha continuato il suo quotidiano impegno, grazie al lavoro dei tre milioni di italiani impiegati nella filiera alimentare, che dalle campagne all’industria fino ai trasporti, ai negozi e ai supermercati, si sono adoperati per garantire continuità alle forniture di cibo e bevande alla popolazione. Per mantenere gli scaffali dei punti vendita riforniti, anche nel pieno dell’epidemia Covid-19, è stato necessario che un intero gruppo di lavoratori continuasse a mantenere operative le aziende agricole e gli allevamenti, raggiungendo ogni giorno il posto di lavoro: sia nei campi che negli stabilimenti produttivi. Non è stato facile e non lo sarà da qui in poi, perché tra le conseguenze portate dal coronavirus va considerato anche che l’Italia è stata tra i primi paesi a imbattersi nell’epidemia e ricevere la discriminazione dei propri prodotti agricoli, da parte di altri Paesi a causa di timori ingiustificati sulla loro sicurezza. Sono stati atteggiamenti che hanno fatto male all’immagine del Made in Italy e che rischiano di comprometterne l’appeal nel mercato mondiale. Un problema tanto serio che dovrà essere affrontato con un serio piano salva export alimentare e con una c a m p a g n a di comunicazione rivolta a riabilitare il settore agricolo e la sua produzione, da sempre riconosciuta
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Il lavoro dei tre milioni di italiani impiegati nella filiera alimentare non si è mai fermato neanche nel momento di massima emergenza per garantire le scorte alimentari necessarie all’alimentazione di tutti
come un’eccellenza nel mondo. Ad oggi, infatti, un’azienda su due (53%) che esporta nell’agroalimentare ha ricevuto disdette negli ordini dall’estero secondo l’indagine Coldiretti/Ixe’. La campagna di comunicazione è diventata necessaria per combattere la disinformazione, gli attacchi strumentali e la concorrenza sleale che ha portato alcuni Paesi a richiedere addirittura insensate certificazioni sanitarie “virus free” su merci alimentari provenienti dalla Lombardia e dal Veneto, ma ci sono state anche assurde disdette per vino e cibi provenienti da tutta la Penisola sotto la spinta di una diffidenza spesso alimentata ad arte con fake news, tanto da far attivare al Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale una casella di posta elettronica dove segnalare restrizioni e discriminazioni verso i prodotti italiani riscontrate nelle esportazioni. Si deve tenere conto del fatto che quasi i due terzi (63%) delle esportazioni agroalimentari italiane interessano i Paesi dell’Unione Europea, dove la crescita nel 2019 è stata del 3,6%. Il principale partner è la Germania dove l’export cresce del 2,9% e raggiunge i 7,2 miliardi, mentre le vendite sono
Il 63% delle esportazioni agroalimentari italiane interessano i Paesi dell’Unione Europea dove la crescita, nel 2019, è stata del 3,6%. Il principale partner è la Germania dove l’export raggiunge i 7,2 miliardi di euro
praticamente stagnanti in Gran Bretagna con la Brexit e volano negli Stati Uniti (+11%) che con 4,7 miliardi di export, nonostante gli effetti negativi dei dazi, restano il primo mercato di sbocco fuori dai confini comunitari ed il quarto dopo Germania, Francia e Gran Bretagna. Ma i cambiamenti portati dalla pandemia hanno riguardato anche i carrelli della spesa degli italiani. La farina L’approvvigionamento alimentare in Italia è assicurato in Italia grazie al lavoro di 740mila aziende agricole e stalle, 70mila imprese di lavorazione alimentare e una capillare rete di distribuzione tra negozi, supermercati, discount e mercati contadini, il cui approvvigionamento è continuato anche durante le fasi più pericolose dell’epidemia nonostante le preoccupazioni per la sicurezza, i vincoli, le difficoltà economiche e gli ostacoli oggettivi all’operatività, dalla ridotta disponibilità di manodopera ai blocchi alle frontiere per i trasporti.
La grande maggioranza degli italiani (61%) in questo periodo va a fare la spesa circa una volta alla settimana per evitare uscite
(+80%) e il latte (+20%) sono i cibi più acquistati nelle settimane dell’emergenza coronavirus. Un’analisi della Coldiretti ha stilato un elenco dei prodotti alimentari più richiesti per riempire la dispensa con il crescente rischio quarantena, sulla base delle vendite del mondo Coop. La scelta degli italiani è stata quella di privilegiare alimenti semplici, alla base della dieta mediterranea, con una grande attenzione, però, alla conservabilità che ha favorito gli acquisti di prodotti in scatola. Se la farina, con un balzo dell’80% rispetto alla media del periodo, è stata il prodotto più acquistato viene scelta anche la carne in scatola, riscontrando vendite aumentate del 60%, e i legumi in scatola hanno fatto un balzo del 55%. A finire nel carrello della spesa degli italiani sono stati soprattutto la pasta, con un +51%, e il riso, con un +39%, ma è registrata una crescita del 39% anche per le conserve di pomodoro, mentre le vendite dello zucchero sono salite del 28%, quelle dell’olio da olive del +22%, il pesce surgelato del 21% e il latte Uht del 20%. Nelle scelte sono stati premiati i prodotti essenziali e penalizzate le scelte di gola: dagli aperitivi (-9%) alle creme spalmabili (-8%).
Negli acquisti va sottolineata anche la particolare attenzione con cui sono state scelte le merci, in quanto è stato riscontrato un deciso orientamento a sostenere gli acquisti di prodotti Made in Italy per aiutare lavoro ed economia. Segno che gli italiani hanno compreso la situazione di difficoltà e non hanno fatto mancare il loro sostegno alle eccellenze del nostro paese. Insomma un segno di responsabilità che è stato registrato anche attraverso le modalità con cui si è fatta la spesa. Per ridurre le uscite sono praticamente esplose, con un aumento del 97%, le consegne a domicilio anche da parte degli agricoltori. In Veneto gli imprenditori agricoli si sono organizzati per effettuare consegne di ortofrutta, carne, olio, uova, miele e altri prodotti locali per le limitazioni adottate per la spesa in negozi, supermercati, discount alimentari. Del resto l’invito a stare in casa da parte dell’autorità sanitarie e del Governo è stato raccolto dal 43% degli italiani, secondo un’indagine Coldiretti/Ixe’, al quale va aggiunto il 61% di chi ha tagliato le uscite anche per andare a fare la spesa, recandosi in supermercati e discount non più di una volta alla settimana. Per quanto riguarda il futuro, l’ottimismo rimane cauto soprattutto perché è difficile immaginare quando l’Italia tornerà alla normalità. Il 46% degli italiani pensa che dovremo fare i conti con il virus almeno fino all’estate, un 7% fino al prossimo autunno e infine i più pessimisti (5%) pensano che durerà per tutto l’anno mentre non si pronuncia il 12% della popolazione.
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IL COVID-19
E IL SENSO DI INAPPROPRIATEZZA
Il Covid-19 è entrato prepotentemente nella nostra storia. Ha sconvolto talmente in profondità la vita di ognuno sul globo che è destinato a segnare un’epoca, molto di più dell’11 settembre, molto di più di Chernobyl, molto di più del maremoto dell’Oceano Indiano. Perché di tutte e tre le tragedie riassume i caratteri più spaventosi: la velocità, la scia di vittime che ha lasciato dietro di se e l’imprevedibilità. Lo spiazzamento, infatti, credo sia stato l’effetto accusato da tutti. Positivi o meno, siamo rimasti paralizzati davanti ad un fenomeno che si riteneva non potesse appartenere alla nostra epoca. Morire d’influenza, anche se un’influenza un po’ particolare, chi l’avrebbe pensato? Neanche il mondo medico era preparato ad un’emergenza di questa proporzione. L’impressione che ha destato, del resto, è rimasta codificata nelle parole che sono servite per il suo racconto, parole come peste, ad esempio, capaci di evocare nell’immaginario collettivo tragedia, tenebra, paura, vulnerabilità, assenza di valore della vita. Insomma non è mancata solo l’esperienza diretta al fenomeno Covid-19, è mancato anche il vocabolario. Tanto che i termini usati per descrivere la nuova realtà sono stati presi da altre epoche: peste appunto, generalizzando tra quella dei tempi di Giustiniano a quella “manzoniana”, “untore”, “monatto”, “quarantena”. Parole che nessuno conosceva più. E anche “virale” è sembrata fuori termine, ossia per niente attuale, relegata com’era tra gli “slang” dei nuovi mezzi di comunicazione, per esprimere quel “contagio” che però avviene solo via “social”. Epidemia, poi, come unità di misura è stata insufficientemente capiente: sfruttata e abusata dai media nei “tempi di pace”, per definire anche il più banale dei raffreddori, è risultata Tra gli effetti collaterali all’epidemia andrebbe registrato anche lo spiazzamento causato dalle sua natura e dalle sue proporzioni. Sono mancate le misure, le cure e anche le parole per raccontarla
Dal vocabolario che accompagna il racconto del coronavirus è uscita la parola “untore”, ossia un termine utilizzato nel Cinquecento e nel Seicento per indicare chi diffondesse volontariamente il morbo della peste spalmando in luoghi pubblici appositi unguenti venefici
svilita nella guerra del Covid-19 per raccontare una carneficina. Un po’ come succede con “caldo africano” o “caldo terrificante” quando vengono usati, a ogni piè sospinto, per annunciare i primi picchi del termometro della stagione estiva e poi non si hanno più parole proporzionate per spiegare i veri cataclismi portati dal mutamento climatico. No, non c’è niente nella storia recente che possa essere paragonato al Covid-19. Nulla che abbia messo così allo scoperto la nostra impreparazione ad affrontare, sul piano globale e non solo quello, un’emergenza. Convinti che la medicina potesse avere una risposta per tutto, tranne che per quei pochi mali alla cui letalità siamo abituati, e forti di una cultura decennale che prevedeva l’atomica, l’uranio o le guerre come uniche minacce a livello mondiale, “due colpi di tosse” ci hanno tolto tutte quelle certezze che provenivano dalla modernità alla quale apparteniamo. Da questo punto di vista il Covid-19 vale come la Grande Guerra per il Positivismo. Anzi, forse siamo stati catapultati anche più indietro, tra le pagine di quel Medioevo pieno di tenebre e pipistrelli dove anche la medicina non è riuscita ad andare oltre alla quarantena, all’i
Eravamo talmente sicuri che sarebbero stati l’atomica, l’uranio o le guerre le vere minacce al mondo che “due colpi di tosse” ci hanno spiazzati
solamento. Niente più confini, niente più stati, tutti, dall’Est all’Ovest, sotto un unico impero e comunque soli, nelle nostre case, a riflettere sul domani. Ma anche qui abbiamo scoperto di avere degli anticorpi, i soliti nostri: l’ottimismo, le canzoni cantate dai balconi, la solidarietà via “tam-tam” come quelle comunità di ominidi appena scese dagli alberi che compresero che nella socialità stava il primo passo verso la sopravvivenza. Ecco: in questo viaggio nel tempo, forse, è stata recuperata la dimensione dell’Homo, ossia di quella specie fragile che ogni tanto si accorge che nel mondo naturale è venuta alla luce come “preda”, seppur sentendosi “predatore”. E ci eravamo appena abituati all’idea di essere noi la “malattia” della Terra che di colpo è venuta a galla la nostra irrilevanza. Perché nel bene e nel male l’opinione di noi stessi è stata messa in discussione da un organismo, biso
Il COVID-19 è un beta-coronavirus. È costituito da un singolo filamento di acido ribonucleico (RNA). L’ analisi della sequenza genica del COVID-19 mostra la struttura tipica degli altri coronavirus, e il suo genoma è simile a quello del virus SARS 2003. Con questo ha in comune diverse strutture, e anche sintomi respiratori simili, avendo però più contagiosità
Il Covid-19 vale come la Grande Guerra per il Positivismo, ci ha tolto certezze e ridimensionato il valore della modernità
gna riconoscerlo, più progredito di noi. Un virus la cui evoluzione non l’ha portato di certo a camminare su due gambe, ad avere un cervello più grande, capace di contenere intelligenza sensibile, ad imparare a servirsi di parola e strumenti, ma a fare un salto di specie, a passare dal pipistrello a un altro animale: più numeroso, più mobile sul pianeta e più sociale. Ossia noi, come specie capace di dare maggiori certezze per una vita prospera e numerosa, una volta annidato nei nostri polmoni. Ci ha individuati, ci ha scelti e
poi attaccati perché anche la sua evoluzione ha come fine la sopravvivenza e come tutte le evoluzioni è un adattamento a circostanze transitorie, alla fine ne serviranno altre per andare avanti. Diversamente sarebbe l’estinzione. E quindi, per non vedere nel Covid-19 solo un virus, o un paio di mesi del 2020 caratterizzati dall’essere stati rinchiusi in casa, il nostro compito evolutivo, anche se tutto razionale, dovrebbe portarci a una consapevolezza nuova, a una visione del genere umano diversa. A cominciare dal sentirci parte di un insieme, l’ambiente, a riconsiderare il tempo, i rapporti tra noi e quello che ci circonda. In queste settimane soprattutto ci è mancata l’aria, lo spazio, il verde e la possibilità di farne parte in forma aggregata, ma potrebbe anche essere che gli uomini del domani non possano disporne in maniera definitiva a causa di un inquinamento e una devastazione che sta prendendo velocità da contagio. E allora se Chernobyl ci è servita ad evitare di intraprendere strade pericolose, l’11 settembre a considerare vulnerabili anche zone che parevano inattaccabili e il maremoto indo-asiatico del 2004 a considerare che siamo fatti di fragili fili, il Covid-19 ci serva per capire che noi, i virus, il pianeta andiamo tutti nella stessa direzione, quella del tempo e nel tempo ci incontreremo ancora.
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Verso la fine del XVIII secolo il pastore anglicano Thomas Malthus sosteneva l’evidenza di un limite naturale all’incremento della popolazione.
Il limite era stabilito dalle risorse che la natura poteva offrire. Oltre vi stavano le sciagure dell’uomo
Al momento in cui sto inviando queste righe per andare in stampa, non riesco ad immaginare quale possa essere la situazione nel nostro Paese o nel resto del mondo dopo l’ingresso a gamba tesa del Coronavirus, denominato Covid19. Quel che è certo è che questo organismo infinitesimale, come tutti i suoi compagni patogeni di cotanta razza, riesce a far piegare le gambe anche al più forzuto degli umani, mettendone in discussione il suo stesso ruolo nel fin qui perpetuo spettacolo, ordito, giorno dopo giorno, da madre natura o da chi per lei, caso mai si volesse ricorrere alle più variegate fedi divine. Diverse l’una
dalle altre ma tutte pronte a concludere che non di solo pane vive l’uomo, ma anche di companatico e di quanto altro gli sia necessario e gradito per elevare il suo spirito attraverso il palato. Nota di non poco conto, se si pensa a quanto l’uomo consumi o sprechi di tutte quelle risorse che solo all’occhio superficiale risultano essere prodotte da lui e non venire, come di fatto è, da un pianeta terracqueo che non è certo di umana proprietà. Concesso, piuttosto, in uso da quella “natura” che continuiamo a mettere a dura prova. A cominciare dallo sfruttamento che ne facciamo per saziare il nostro appetito. Tanto che nel 1798 il pastore anglicano Thomas Malthus pubblicò un saggio, “Principle of Population”, nel quale sosteneva come ci fosse un limite naturale all’incremento della popolazione oltre il quale non ci si poteva spingere. Questo limite era stabilito dalle risorse che la natura poteva offrire. Varcato questo limite sarebbe stata la stessa natura ad intervenire, mediante qualsiasi espediente, per far crollare il numero di abitanti e poter così ristabilire l’equilibrio infranto. Così, quello che in seguito venne definito come “freno maltusiano”, fu una teoria accettata per molto tempo e che ancora recentemente ha fatto proseliti. Pronti, questi ultimi, a rispuntare in tempi come quelli determinati dal Covid19, che sembrano portare indietro le lancette degli orologi fino a quando un’altra grande pandemia colpì l’Europa, tra il 1347 e il 1350, e che venne chiamata peste nera. Forse la patologia che più di altre impressionò sia i cronisti del tempo che gli storici moderni e contemporanei. Non esiste cronaca o testo storico, infatti, che trattando l’argomento peste, non descriva con toni quasi apocalittici la situazione delle città e delle campagne europee nella metà del XIV secolo. Certo con molto meno strombazzamento mediatico di quel che accade ai nostri giorni, pur se anche oggi, come allora, l’Italia ebbe il poco invidiabile privilegio di esser stato il primo paese dell’occidente colpito da quel flagello. Ma mentre nella metà del trecento, nel mondo occidentale, la fame era di casa, fatti salvi i ca
La peste nera del 1347 e il 1350 è la patologia che più di altre ha impressionato sia i cronisti del tempo che gli storici moderni e contemporanei
Thomas Malthus
Popolazione Risorse
Punto di crisi
Malthus afferma che mentre la crescita della popolazione è geometrica, quella dei mezzi di sussistenza è solo aritmetica. Una tale diversa progressione condurrebbe a uno squilibrio tra risorse disponibili, in particolar modo quelle alimentari, e capacità di soddisfare una sempre maggiore crescita demografico
stelli e i palazzi nobiliari, e i “maltusiani” non avrebbero attecchito, oggi, come si diceva, riemergono. E forse a ben donde, se è vero, come affermano studi e ricerche, che l’Overshoot Day arriva nel mondo occidentale sempre prima. Ovvero quel giorno in cui, se la Terra fosse una sorta di dispensa o frigorifero a disposizione, risulterebbe desolatamente vuota. Un giorno che l’anno scorso è arrivato nel mese di maggio, ancora prima di quando, nel 2018, arrivò in agosto e via a ritroso. Insomma una vera iattura per il pianeta che si calcola confrontando l’impronta ecologica di ogni singolo cittadino con la “biocapacità”, cioè la capacità del Pianeta di rigenerare risorse naturali per ogni suo abitante. Compreso il cibo e tutto quello che ne viene dalla catena agroalimentare e che grazie al Coronavirus e allo stupido accaparramento derivato da una altrettanto insulsa psicosi, andrà ad incidere, e non solo statisticamente, all’anticipazione ancora più prossima del giorno in cui la dispensa del Pianeta diventerà nuo
L’Overshoot Day indica a livello illustrativo il giorno nel quale l’umanità consuma interamente le risorse prodotte dal pianeta nell’intero anno
vamente inutile anche per questo 2020. Non essendoci niente da conservare e impegnandoci a rincorrere nuove fonti da dissipare, senza minimamente preoccuparci di aver reintegrato quelle consumate. Altro che la peste nera, che seppur descritta come apocalittica non riporta di comportamenti insulsi nei confronti del cibo e delle risorse agroalimentari come ai nostri giorni e, più ancora, in tempi di Covid19. Che, a dar credito alla teoria di Malthus, sembrerebbe davvero di essere arrivato come un freno maltusiano teso a riequilibrare pesi e misure fra uomo e Pianeta, ma che in realtà dovrebbe far riflettere su come ognuno di noi, oggi più che mai, spende male la sua spesa. Anche e nonostante la crisi economica di cui l’occidente non riesce a liberarsi ormai da un decennio e più. Tutto il contrario di quel che accadeva nei secoli scorsi e soprattutto in frangenti pestilenziali molto simili a quelli che stiamo vivendo. Non solo c’era il rispetto per il cibo ma si sapeva produrlo e acconciarlo, perché non andasse nella differenziata, ed era pure inveterato l’obbligo di onorare pure il principio inerziale di ogni cosa: terra, acqua, aria. Piatti come le “sarde in saor”, ad esempio, scaturito, con buona probabilità, dall’inventiva di Nicola Venier, Marco Querini e Paolo Bellegni, chiamati a “governare”, dal Consiglio dei Dieci, in veste di commissari straordinari, la peste nera. A loro infatti i meriti di aver da subito fatto spostare i morti dal nucleo residenziale e darne sepoltura sotto grandi quantità di terra nelle isole abbandonate, la successiva realizzazione dei lazzaretti, l’invenzione della quarantena e l’istituzione di punti di assistenza alla cit
A Nicola Venier, Marco Querini e Paolo Bellegni vanno riconosciuti i meriti di aver inventato l’uso dei lazzaretti e della quarantena per la cura della peste
Le “sarde in saor” furono uno dei piatti che aiutarono i veneziani a superare le prolungate quarantene provocate dagli attacchi di peste. Infatti, ancora oggi, è il piatto della festa del Redentore che celebra la fine dell’epidemia del 1575 La peste del 1630 a Venezia in un’opera di Antonio Zanchi che decora una delle pareti dello scalone della Scuola Grande di San Rocco
tadinanza. Dove, secondo quanto raccontano alcune cronache, venivano preparate anche grandi quantità di cibo fra le quali le “sarde in saor”. Un concentrato di empirica sapienza culinaria che aveva messo insieme la forza degli omega tre e del fosforo dei pesci all’alto contenuto di vitamine, in particolare la C e sali minerali della cipolla. La gustosa ma benefica acidità che fa dell’aceto anche un ottimo disinfettante, all’elevata capacita calorica e nutritiva dei pinoli, completata dall’alta quantità di corroboranti zuccheri dell’uva sultanina o di Corinto e di Smirne. Comunque importata dal magico Oriente che ammantava l’uvetta anche di fantastiche e magiche proprietà curative. Al punto che il “saor”, visto che lo si trova preparato ancora oggi con altri pesci, diventò il piatto della peste per eccellenza, ancora prima di far parte dei menù della festa del Redentore che celebra la fine di un’altra pestilenza: quella del 1575. Pare, infatti, che di questo “saor”, in tempi di peste, ne venissero preparate quantità industriali in ogni sestiere per poi essere distribuite ai veneziani, che se ne stavano chiusi in casa per evitare il contagio, da inservienti agli ordini dei Provveditori e Sopra Provveditori alla Sanità. Funzionari che entravano in piena operatività dopo che la morte silenziosa, così era chiamata la peste, faceva ciclicamente la sua comparsa e non certo per dar ragione alle postume teorie di Thomas Malthus che tuttavia oggi paiono come gli oroscopi: non ci si crede ma si leggono.
Gran Carni Group, amore e passione dal 1974
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Alla storica macelleria di Stanghella: fiorentine, costate e braciole selezionate tra i migliori tagli di animali allevati nel territorio
“Dalle carni di maiali allevati da piccole aziende della pianura Padana otteniamo i nostri celebri salumi. Si tratta di una produzione totalmente artigianale realizzata nella più scrupolosa attinenza alla tradizione locale e soprattutto nella più totale genuinità in quanto non sono impiegati coloranti e conservanti. Salami, pancette, coppe e tanti prodotti a coltello che rappresentano un vanto per la nostra azienda insieme a tutti i tagli destinati alle braci, compresa la celebre “braciola con il manico”. Gianni Astolfi
“Una carne di ottima qualità si riconosce soprattutto dal sapore. Da 20 anni selezioniamo le nostre carni di manzo dall’allevamento Faggion di Badia Polesine, dove gli animali sono cresciuti allo stato semibrado e alimentati con solo cereali e foraggi prodotti in azienda. La frollatura avviene in modo naturale all’interno di celle per un periodo che supera i 35 giorni e le lavorazioni vengono eseguite tutte manualmente all’interno del nostro laboratorio”
BCS 243 La regina dei prati
Il messaggio pubblicitario che nel 1943 accompagnava il lancio della nuova falciatrice l’incoronava come sovrana degli spazi verdi. Un slogan azzeccato, tanto che il suo regno è rimasto incontrastato fino ai giorni nostri
Se volessimo fare un confronto tra le teste coronate di tutta Europa, per misurare la longevità dei rispettivi regni, la sovrana d’Inghilterra, Elisabetta II, troverebbe un valida concorrente solo nella motofalciatrice BCS 243. La prima, infatti, è salita al trono nel 1952, mentre la seconda, presentata al pubblico sotto il felice slogan la “regina dei prati”, continua a tenere in pugno il suo scettro addirittura dal lontano 1943. Dietro al termine “BCS” - è una delle poche macchine agricole passate alla storia con un nome proprio - privilegio indubbiamente regale, si nasconde in realtà l’acronimo di Bonetti, Castoldi, Speroni, ossia i titolari dell’omonima azienda, tutt’ora esistente con sede ad Abbiategrasso, in provincia di Milano, specializzata nel settore della fienagione e dell’agricoltura in generale, essendo nata nella fertile campagna della valle del Ticino. Nel 1943, l’ing. Luigi Castoldi, osservando le fatiche patite da famigliari e paesani nel tagliare con la falce le sterminate tenute coltivate a prato, progetta e costrui
Dietro al nome “BCS” si nasconde l’acronimo di Bonetti, Castoldi, Speroni, ossia i titolari dell’omonima azienda tutt’ora esistente
sce, nella sua piccola officina di Abbiategrasso, quella che sarebbe diventata la falciatrice rivoluzionaria che viene prodotta ancor oggi con la stessa architettura meccanica di ben 77 anni fa. Era il modello 243, una “eterna regina dei prati”. L’ing. Castoldi ha sviluppato l’idea di un mezzo semplice, dotandola di un motore a scoppio di bassa potenza, installato su un telaio dove sono ospitati anche la trasmissione e la barra falciante, una rivoluzione per l’epoca, sia per l’alta capacità produttiva e per il risultato di sollevare gli agricoltori da grandi fatiche, e a un costo tutto sommato contenuto, per cui è entrata in ogni azienda, sia in pianura che in montagna. Unici problemi: la non sempre pronta accensione del capriccioso motore a petrolio e la guida imprecisa tramite una terza ruota carrellata “guidata
con i piedi”. Lo scoppiettante motore a petrolio aveva la messa in moto a fune e lo scarico quasi libero, con l’uscita dei gas a coda di squalo. Naturalmente per l’avviamento bisognava girare il rubinetto “a benzina”, tentare la messa in moto per poi girare il rubinetto “a petrolio” del doppio serbatoio. La BCS non era solo una motofalciatrice da alta produzione e per guidatori esperti, ma svolgeva compiti i più disparati: trainava il voltafieno e, all’occorrenza, anche dei carrettini, segava la legna con l’apposita applicazione di una lama a disco, dava il verderame alle vigne se dotata di piccola botte e pompa, tagliava il frumento con la predisposizione di mietilega; togliendo il carrello con la terza ruota la si usa ancora (con maggiore sicurezza rispetto al trattore che si può rovesciare), per tagliare il fieno sugli argini e su luoghi in forte pendenza. Insomma non vuole abdicare neppure lei anche se il modello ora prodotto porta il numero 622, ma è sempre lei, la “regina dei prati”! Un tempo, noi figli di agricoltori dovevamo contribuire all’economia familiare con l’aiuto nel lavoro dei campi, dopo aver fatto i compiti e durante le vacanze, invidiando i “piazzarotti” che frequentavano il bar giocan
BCS d’epoca
do a calcio balilla, e ancora sono lì, magari giocando a carte o con le “machinéte” mangia pensione. Superata la prima patente sul campo ottenuta arando con il Landini o con l’OM, da ragazzotto dell’età di 15- 16 anni dovevi tentare di prendere quella di secondo grado agricolo, per evitare così lavori noiosi o pesanti, come raccogliere le tegoline o caricare e scaricare i carri di fieno. Allora dovevi imparare a guidare la BCS, ma non per tagliare l’erba medica sul campo (troppo facile!), ma per tagliare il fieno in mezzo alle vigne! Anche di traverso! In primavera, nei vigneti, si faceva il taglio del fieno, naturalmente con quel marchingegno che si “guidava con i piedi” e che passava agevolmente in mezzo ai filari, ma anche trasversalmente, evitando con la testa il fil di ferro del vigneto, alzando la “barra falciante” abbassando il manubrio, per sorvolare il fieno già tagliato lungo il filare stesso per non intasare la barra. Era una manovra che richiedeva forza nelle braccia per spingere in giù le stegole del manubrio, e coordinamento dei piedi impegnati alla direzione del mezzo meccanico che doveva lambire le vigne senza danneggiarle, il tutto il più velocemente possibile per far cadere all’indietro il fieno in fase di taglio. Più facile a dirsi che a farsi! La BCS si guidava con i piedi perché le mani erano impegnate sul grande manubrio oscillante che a sinistra aveva la leva della frizione, come nelle moto, a destra l’acceleratore a levetta e i freni indipendenti: una leva per la ruota sinistra e una per la destra, così si potevano fare le curve strette bloccando una delle due ruote motrici, mentre tirando le due leve assieme si frenava il mezzo. Lì davanti c’erano le leve del cambio e dell’innesto della lama falciante. Dovevi coordinare il
tutto mentre eri seduto su un duro sedile in ferro che trasmetteva alle terga tutte le irregolarità del terreno, così stavi sveglio anche dopo il lavoro di ore. Genio di un ingegner Castoldi! Ma la guida con i piedi non era precisa come con il volante e qualche volta, tagliando il fieno sotto al vigneto, poteva capitare che il “dente” della barra falciante colpisse il fusto di una povera vigna che era lì, contorta e seminascosta dall’erba alta, da tanto tempo. Allora premevo la frizione di colpo per non far slittare le ruote sull’erba, attaccavo la retromarcia per indietreggiare un po’ e ripartivo sperando che nessuno a casa avesse sentito o visto nulla. Finito il lavoro pulivo la BCS infernale, la mettevo in magazzino e mi avvicinavo verso casa facendo finta che non fosse successo niente. Ma evidentemente già al tempo dovevano esistere dei sistemi di videosorveglianza in campagna, perché mio zio, vero inquirente di famiglia, puntualmente mi riprendeva con: “…ch’ela
Serviva forza nelle braccia per spingere in giù le stegole del manubrio e coordinamento dei piedi per dare direzione al mezzo meccanico
Moderna BCS
vegna la, he!”. Il che equivaleva ad una sonora bocciatura e alla necessità di ripetere gli “esami di guida” al taglio di fieno l’anno successivo. Ma molto peggio di me era andata alla povera vigna: dopo quindici lunghi giorni si distingueva dalle altre per le foglie gialle, per il progressivo rinsecchimento, per un destino ormai evidentemente ingrato e ferale. La “regina dei prati” aveva chiesto il suo tributo di sangue!
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