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LA FORMA DEL LATTE

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PAESAGGI SONORI

PAESAGGI SONORI

LA FORMA DEL LATTE di Michele Grassi Il formaggio

È UNA FOTOGRAFIA AL PAESAGGIO

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Nel latte si possono ritrovare non solo i valori apportati dal pascolo, ma anche i profumi dell’aria, il fresco dell’ombra e la “mano” del casaro

Nei primi mesi dell’anno la neve ha coperto abbondantemente le montagne, ma con l’arrivo dell’inoltrata primavera inizierà il disgelo e le pecore saranno pronte per i lunghi spostamenti sui tratturi. Anche le mandrie dalla Puglia si dirigeranno lentamente verso il Molise e l’Abruzzo per una monticazione orizzontale che si ripete da millenni. Ogni animale tra gli Appennini e le più alte vette d’Italia imboccherà le proprie strade, spesso le stesse coperte da uomini e animali dai tempi più ancestrali, perché ogni formaggio di malga ha i suoi posti, i suoi angoli e il suo paesaggio da raggiungere. In questi giorni in cui la neve si assottiglia e diventa una crosta umida e traslucente è bello camminare con le ciaspole per raggiungere quei luoghi che diventeranno popolati solo con l’arrivo delle mandrie. Per me queste brevi, ma intense, escursioni sulla neve anticipano quelle che farò tra qualche settimana, quando le prime erbe tenteranno di affacciarsi dal terreno e il sole proverà a riscaldare la montagna. I primi fiori che torneranno al sole saranno i bucaneve, seguiti dai colchici che con loro bel violetto trapunteranno gli spazi aperti, prima che questi diventino totalmente verdi. Gli sterpi rinsecchiti dal gelo invernale scompariranno, rimpiazzati dai nuovi e carnosi steli, ricchi di linfa, di acqua e di profumi. Un crescendo vegetativo che porterà a fioriture intense, un’abbondanza di clorofilla che gli allevatori attendevano da tempo, un’autentica ricchezza da “mettere in cascina” dopo lo sfalcio che ogni anno con puntualità si tiene dopo il 15 giugno. Ed è a questo punto della stagione che le montagne non sono più solo dei contadini e degli allevatori, perché al loro lavoro si unisce quello del malgaro: spesso un uomo “foresto”, perché viene da giù o comunque dall’altrove, e porta con se la sua leggenda di uomo rude, cipiglioso, tenace in tutti i suoi gesti, ma capace di fatiche indicibili e soprattutto di fare formaggio. Ed è al loro lavoro che si unisce il mio, di tecnico caseario e di critico dei formaggi, soprattutto per lo studio e i test di ricerca sulle produzioni a lette crudo. Una decina di anni fa, in una delle malghe in cui ho potuto lavorare, ho condotto delle osservazioni e delle verifiche sul rapporto tra paesaggio e formaggio. Per settimane ho osservato le vacche uscire al pascolo liberamente e ho annotato ogni loro scelta a comin

Ogni animale tra gli Appennini e le più alte vette d’Italia imboccherà le proprie strade, spesso le stesse coperte da uomini e animali dai tempi più ancestrali

ciare da quella dei prati. Le aree a disposizione non erano molte, anzi erano solo due, disposte su differenti versanti della montagna. Il primo, a ovest, per lo più boschivo, era costituito da piccole radure in mezzo agli abeti nel tratto più basso e ai larici in quello a quote più elevate. Le erbe differenziavano molto anche perché sotto gli abeti l’erba non cresce mentre sotto i larici è sempre presente. Erbe filiformi con poche fioriture, per lo più nel mese di giugno e luglio, ma sempre lussureggianti perché l’umidità rimane più a lungo. Sul versante sud, invece, non c’era un vero e proprio pascolo, ma un prato. Un grandissimo spazio contornato dagli abeti

Il valore del formaggio di malga sta nella varietà di profumi che contiene e nei valori organolettici che derivano dalla vita sana degli animali

dove l’uomo fino ad alcuni decenni fa sfalciava l’erba per farne il prezioso fieno, alimentazione invernale delle vacche. E ancora oggi questi prati sono rimasti tali, abbandonati al libero girovagare delle vacche, grazie al tacito accordo con gli innumerevoli proprietari, sono il principale pascolo della malga. E del resto, rispetto al pascolo a Ovest, qui le erbe crescono in pieno sole, diventano alte, rigogliose e stracariche di fiori, di ogni essenza e di mille colori per quasi tutto il periodo estivo. Gli animali possono godere di una grande scelta di vegetali, dei raggi del sole durante le ore fresche del mattino e dell’ombra degli abeti nelle più calde, insieme all’acqua limpida di un ruscello. Le vacche vi rimanevano per l’intera giornata, fino a quando non le raggiungevo per accompagnarle alla stalla. Non che avessero bisogno di me per tornare indietro, avrebbero trovato la via di casa anche da sole, ma a me interessava soprattutto vedere quali erano le erbe di cui si erano cibate, quali zone del pascolo avevano frequentato, quali, insomma, erano state le loro scelte. Perché un animale libero può seguire anche le sue inclinazioni, i

Un animale libero al pascolo può assecondare le sue inclinazioni, i suoi bisogni e forse, i suoi desideri

suoi bisogni e forse, i suoi desideri. Comunque le vacche non sono dei “rasa erba”, scelgono. E così sul pascolo della giornata erano rimasti i ciuffi spinosi delle erbe più coriacee, i fiori fucsia del cardo e altre essenze indigeste, mentre le zone brucate risultavano color smeraldo, basse, aree che portavano la promessa di una veloce ricrescita. Ovviamente le leguminose rientrano tra le erbe più ricercate dai palati bovini, quasi dei dessert, mentre il trifoglio o il loietto costituiscono i piatti forti della dieta giornaliera. Tuttavia, a sera, dopo aver raggiuto la stalla e iniziata la mungitura era l’intero paesaggio ad essere racchiuso nei profumi del latte. Il sole, le nubi, la pioggia, il vento e a volte la grandine, le essenze delle erbe e la frescura dell’acqua del ruscello uscivano nuovamente per mischiarsi con l’odore intenso del manto delle vacche, del cuoio, spesso bagnato dai brevi ma intensi acquazzoni pomeridiani e agli altri profumi della malga, per fissarsi definitivamente nel formaggio che il mattino seguente avrei realizzato con il latte serale e quello della munta mattutina, dal profumo più intenso. E così mettevo all’interno della caldera tutte le essenze della giornata precedente e della notte, la trasformazione avveniva all’insegna di alcuni fattori che lasciavano il pensiero vagare tra la meraviglia di annusare la natura e l’incredulità di comprendere che una sostanza così bella e buona possa

Raggruppare e conservare tutte le essenze della montagna è la sfida più bella che il malgaro deve saper vincere

tramutarsi in un alimento eccezionale. E tutti i giorni le fasi della trasformazione diventavano atti unici, diversi fra loro, evidentemente influenzati dalla stagione, dal sole o dalla pioggia, dal temporale o da quei due fiocchi di neve di fine agosto. Questa è la vera bellezza del fare formaggio in malga: un giorno il caglio opera velocemente e magari il successivo lentamente, oppure la cagliata può venire ben coesa e asciutta ma anche lievemente umida. Con le tante varianti che la vita naturale rende possibili, rispetto alla stabulazione, la lavorazione va guidata, affinché il risulto finale possa risultare stabile. Anche se, questo è l’impegno che mi sono dato, nessuno di quei profumi poteva andar perso per strada. Del resto riuscire a raggruppare e conservare tutte le essenze della montagna, è la sfida più bella e complessa che il malgaro può, anzi deve, perseguire.

Valnogaredo

STORIA DI LUOGHI, DI UOMINI E DI UN OLEIFICIO

“Valnogaredo, è terra d’olio extra vergine d’oliva DOP, ma è pure un borgo con tracce di preistoria e remote rovine, una Chiesa Settecentesca, dove giace un Santo papa, e una stupenda villa gentilizia”

ÈPaolo Barbiero che racconta, un frantoiano di seconda generazione e olivicoltore. Paolo è un entusiasta della sua terra ed è pure una “dotta guida”, capace di condurti nei suoi Colli tra verdi pendii, piccole strade che, come in una ragnatela, disegnano una natura da secoli addomesticata dal lavoro agricolo. Paolo ti fa notare che le sommità dei colli circoscrivono tutto, quasi un hortus conclusus, ma se alzi lo sguardo, l’occhio corre in un orizzonte lontano, in una lunghissima pianura, che si chiude in bianchi vapori. Il centro di Valnogaredo è la Chiesa, costruita nel 1758 da Angelo e Giulio Contarini, è in stile barocco veneziano e, dal 1921, è monumento nazionale, dedicata a San Bartolomeo, uno dei dodici apostoli. Al suo interno conserva una reliquia un po’ particolare, si tratta delle spoglie di un papa: San Adeodato, sessantottesimo Pontefice nella storia della chiesa cristiana. Poco lonta

no, sorge la settecentesca e splendida Villa Contarini, elegante sontuosa nell’architettura, ma sono gli aspetti più rustici che spesso raccolgono la storia del territorio. Nella “barchessa”, ad esempio, operava un antico frantoio, con le molazze che giravano spinte da animali e schiacciavano le olive, che erano poi poste in sacchi

Paolo Barbiero

di canapa, i fiscoli, per essere pressate nel torchio e ricavarne un liquido che, raccolto in una grande vasca di pietra, veniva lasciato a “riposare” per far affiorare l’olio. A fine Ottocento gli animali che facevano girare queste macine furono sostituiti da una macchina a vapore, che fu attiva per oltre cinquant’anni. Con orgoglio Paolo svela che proprio lì il suo papà, Oreste, aveva appreso l’arte di fare l’olio d’oliva e divenne il “capo frantoiano”, una funzione che richiedeva conoscenze e forte personalità, per guidare i collaboratori e gestire i conferimenti delle olive. Negli anni Quaranta, quando l’energia elettrica entrò a pieno titolo come forza motrice, la macchina a vapore fu sostituita e s’inserirono nuovi macchinari. Oreste fu l’anima di questo cambiamento e gestì la produzione dell’olio ancora per anni. Le conseguenze del secondo conflitto mondiale cambiarono le condizioni economiche e sociali, e anche per il frantoio di Villa Contarini era giunto il momento di riorganizzarsi. Era il 1958 e l’Italia raggiungeva il “boom economico”, così Oreste valutò di gestire in proprio l’antico frantoio, ma l’idea si poté concretizzare solo nel 1960, con l’acquistò degli impianti dai conti Rota, al tempo proprietari della villa, e si trovò così a vivere quello che proprio in quell’anno Domenico Modugno cantava: “Penso che un sogno così non ritorni mai più”. Oreste affrontò la nuova responsabilità con animo sereno, avendo il pieno appoggio degli operai che già lavoravano in frantoio, in particolare di Carisio Mutta, che gestiva il ricevimento delle olive da parte degli olivicoltori e riconsegnava l’olio spremuto in funzione delle rese ottenute, persona di massima fiducia, sia per Oreste e sia per gli olivicoltori. Per Oreste iniziò una nuova avventura, armato d’ingegno e passione, mantenne

Se alzi lo sguardo, l’occhio corre in un orizzonte lontano, in una lunghissima pianura, che si chiude in bianchi vapori

PAPA ADEODATO I RIPOSA A VALGANOGAREDO

Sotto l’Altare Maggiore della chiesa di San Bartolomeo, giacciono le spoglie di un santo dimenticato. Si tratta di san Papa Adeodato I le cui spoglie furono donate nella seconda metà del XVII da Papa Innocenzo XII a Domenico Contarini, affinché la sacra Presenza tutelasse le persone e i luoghi vicini alla nobile famiglia veneziana. Adeodato I fu il sessantottesimo vescovo di Roma e Papa latino, fu in carica dal 19 ottobre 615 e sino alla Sua morte, l’8 novembre 618. Di Adeodato I si sa poco, fu educato nel monastero di sant’Erasmo in Roma e, quando fu eletto Vescovo di Roma e Papa, era sacerdote da quarant’anni, secondo la tradizione, si sarebbe fatto monaco benedettino prima di divenire papa. Nei primi secoli della Chiesa, solitamente, era il pontefice in carica che determinava il suo successore, ma per Adeodato I non fu così. Il 25 agosto del 608 moriva papa Bonifacio IV, senza aver proposto alcuno, così la decisione, com’era uso del tempo, fu stabilita dal clero e dalla popolazione locale, e la scelta ricadde su Lui. Durante il pontificato, Adeodato I amò molto il clero e il popolo, fu un esortatore della preghiera, introdusse nelle chiese una “secunda missa”, un ufficio serale di preghiere. Durante i tre anni del Suo pontificato Roma fu colpita da un terremoto, da un’epidemia di scabbia e da una grave rivolta di truppe bizantine stanziate in Italia. Adeodato I fu sempre accanto al popolo che lo percepì in “odore di santità”; morì avendo vissuto secondo il Vangelo, in coerenza eroica nella testimonianza della fede e “vox populi” fu proclamato Santo. Pochi anni dopo la Sua scomparsa, Papa Onorio I fece scrivere sulla Sua tomba “semplice, pio, saggio e accorto”. La liturgica lo ricorda l’8 novembre e lo rappresenta così: «san Deusdédit I, papa, che amò il suo clero e il suo popolo e fu insigne per semplicità e saggezza.»

L’operare di san Adeodato I fu rivolta al soccorso degli uomini, del clero, alla preghiera, fu un “Santo Pastore”, al Quale è possibile rivolgersi per invocare grazie, secondo i bisogni materiali e spirituali.

Chiesa san Bartolomeo: Nel centro di Valnogaredo sorge la chiesa dedicata a San Bartolomeo, costruita nel 1758 da Angelo e Giulio Contarini in stile barocco veneziano

l’oleificio all’interno della Villa Contarini, perfezionò ogni fase della filiera produttiva, rinnovò i locali, inserì nuovi strumenti di molitura e imbottigliamento. Oreste vendeva i suoi oli soprattutto a quelle famiglie che sceglievano con cura i cibi e che cercavano di renderli più saporiti con oli di qualità e del territorio. Nel tempo, innovazione dopo innovazione, Oreste trasmise al figlio Paolo l’arte del frantoiano, a iniziare dalla cura nella raccolta delle olive, nel valutare la loro sanità, il grado di maturazione, le differenze tra le diverse varietà. Oreste insegnò anche i segreti del territorio, dove la pianta d’olivo attecchisce meglio, dove le giaciture, le esposizioni dei terreni, le loro tante nature, calcaree, argillose, con affioranti trachiti, i tanti microclimi conferivano agli oli aromi e profumi più delicati, o più decisi, ed erano questi legami che creavano oli di altissime qualità. Le colline dei Colli Euganei sono territori difficili da capire, prima perché sono molto orgogliosi, per loro bellezza e per la loro capacità di produrre, tanto che si fanno chiamare “Monti”, ma Paolo acquisì la loro fiducia e iniziò a coltivare olivi sul “Monte Brecale”, dal terreno lavico, e sul “Monte Resino” dove le radici delle piante poggiano sul pietrisco di Rosso Ammonitico e

Sul Monte Brecale sul Monte Resino gli oliveti hanno bordure di frassini e di roverelle. Dal terreno sbucano iris, papaveri e ginestre

La varietà “Rasara” è la più antica e tipica dei Colli. Da oli di un’eccezionale qualità, mediamente fruttati, con note vegetali, leggermente piccanti e amari, riconosciuti dalla Comunità Europea con la Denominazione d’Origine Protetta, DOP

Biancone. Due terreni fecondi, dove gli oliveti ora hanno bordure di frassini e di roverelle e, dal terreno, sbucano iris, papaveri, minuscoli fiori della ginestra, denti di cane. Da qui Paolo raccoglie le olive della varietà “Rasara”, la più antica e tipica dei Colli, che da oli di un’eccezionale qualità, mediamente fruttati, con note vegetali, leggermente piccanti e amari, riconosciuti dalla Comunità Europea come oli a Denominazione d’Origine Protetta, DOP. Nel lavoro in frantoio, a Paolo si accostò Pierangela, la moglie, nondimeno la nipote di nonno Carisio, tanto che Gianni Rodari ne avrebbe tratto una fiaba dal tono: “… ma si, sono io, Carisio, che ero con Oreste, mi confondevo nel raccontare le favole a Pierangela, ma Le insegnavo a far bene l’olio, va bene, ora torno a leggere il giornale...” Paolo e Pierangela hanno costruito un nuovo frantoio, con macchine a ciclo continuo, a estrazione a freddo e fusti d’acciaio inox per contenere gli oli, con all’interno l’azoto, un gas inerte, che limita il contatto del prodotto con l’ossigeno dell’aria, proteggendone così le caratteristiche di qualità. In quest’operosità Paolo e Pierangela hanno “coniugato” la cultura della terra e il desiderio del buon cibo e, considerando che l’olio è pure bellezza, hanno una linea di cosmesi molto apprezzata, dove si utilizzano le proprietà benefiche delle sostanze contenute nell’olio. Come fece Oreste, anche Paolo sta trasmettendo al figlio Filippo i “segreti” del mestiere di frantoiano per aggiungere un’altra generazione e un futuro a questa lunga storia.

L’eccellenza dell’Extravergine Veneto Berico Euganeo Dop

Un frantoio attivo dalla metà del ‘700 e da quattro generazioni è la famiglia Barbiero ad occuparsi della produzione e della trasformazione dell’olio di oliva. Una produzione insignita dai migliori concorsi nazionali, come l’Ercole Olivario, e dalle più prestigiose guide, ma il premio migliore è quello che arriva con la soddisfazione dei clienti

L’amore per il territorio euganeo, una gestione degli olivi attenta all’ambiente e una trasformazione dei loro frutti più sani con attrezzature moderne ed efficienti portano ad una produzione di qualità

• Extravergine Veneto Berico Euganeo Dop

“Olio del Doge” • Olio Extravergine di oliva 100% italiano • Olio Extravergine di oliva 100% italiano

Biologico • Olio Extravergine di oliva “Rasara” • Involtini di verdure, carciofi, peperoni, pomodori secchi in olio extra vergine di oliva • Pasticceria di alta qualità con olio extra vergine di oliva • Bomboniere per ogni occasione • Regali aziendali • Prodotti cosmetici, senza parabeni, per la salute e la bellezza della pelle

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FRANTOIO di VALNOGAREDO s.a.s di Barbiero Filippo & C. - via Mantovane, 8/A - Valnogaredo di Cinto Euganeo (PD) Tel. 0429 647224 - info@frantoiovalnogaredo.com - www.frantoiovalnogaredo.com - .

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