Con i Piedi per Terra | 25. LUNGO I FIUMI

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N. 25 - Dicembre 2017 - Gennaio 2018 - Periodico bimestrale - Poste Italiane s.p.a. - Sped. in abb. post. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, NE/PD

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Direttore responsabile: Mauro Gambin

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Editore: Speak Out srl

ELZEVIRO

Numero 25

di Giampaolo Venturato e Mauro Gambin Piazza della Repubblica, 17/D Cavarzere (VE) info@speakoutmedia.it

Agricoltura, settore tecnologicamente arretrato

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Hanno collaborato a questo numero: Silvano Bizzaro Emanuele Cenghiaro Alessia Crivellaro Mattia De Poli Maurizio Drago Michele Grassi Renato Malaman Adriano Mollica Eliano Morello Roberto Soliman Mario Stramazzo Aldo Tonelli Martina Toso

Progetto Grafico:

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Stampa: Stampe Violato snc Bagnoli di Sopra (PD) Tel 049 9535267 www.stampeviolato.com info@stampeviolato.com Giornale chiuso in redazione il 20 Gennaio 2018 Tiratura: 5000 copie Diffusione: periodico bimestrale Iscrizione al Registro degli Operatori di Comunicazione (ROC) n. 23644 del 24.06.2013 Iscrizione al tribunale di Padova n. 2329 del 15.06.2013 Iscrizione del marchio presso Ufficio Italiano Brevetti e Marchi (U.I.B.M.) n. PD 2013C00744 del 27.06.2013 Tutti i diritti sono riservati. Gli articoli possono essere riprodotti solo con l’autorizzazione dell’editore e in ogni caso citando la fonte. Gli articoli firmati impegnano esclusivamente gli autori. Dati, caratteristiche e marchi sono generalmente indicati dalle case fornitrici (rispettivi proprietari)

La copertina è a cura dei laboratori della Cooperativa Sociale Giovani e Amici di Terrassa Padovana Titolo dell’opera: “Duilio Cip, detto er frittella” Autrice: Cecilia Zanforlin

SALUTE E BENESSERE

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Carciofo, contro il logorio delle vita moderna

PANORAMA GASTRONOMICO

Quanto sono generosi gli orti d’inverno

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LA FORMA DEL LATTE

Se abbandonare la tradizione non è un tabù

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EDITORIALE di Mattia De Poli

“Santa Candelora, de l ’inverno sémo fora” Nel cuore gelido e luminoso dell’inverno, in attesa che la stagione fredda finisca

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al 21 dicembre al 21 marzo, l’inverno dura circa novanta giorni. Dopo il solstizio, le giornate iniziano lentamente ad allungarsi, ma questo periodo è statisticamente quello in cui si registra la temperatura media più bassa dell’anno. Il sole, quando riesce a farsi largo fra le nuvole e la nebbia, è visibile per un tempo maggiore, ma non riscalda ancora abbastanza. Così la tradizione vuole che gli ultimi giorni di gennaio, detti anche “giorni della merla”, siano proprio i giorni più freddi dell’anno. Ai bambini spesso si racconta ancora oggi la leggenda del candido uccello che, per sfuggire all’imprevisto rigore di quelle giornate, trovò rifugio in un camino: si salvò, ma il suo piumaggio diventò completamente nero. Un erudito toscano di metà Settecento, Sebastiano Pauli, nel suo libro “Modi di dire toscani ricercati nella loro origine” ignora questa storia o la passa sotto silenzio, proponendo due possibili spiegazioni ben più razionali: la denominazione popolare si legherebbe a un cannone, chiamato “Merla”, oppure a una nobildonna della famiglia “de Merli”. Entrambi proprio negli ultimi giorni di gennaio riuscirono ad attraversare da riva a riva il fiume Po, completamente ghiacciato e capace di sostenere il loro peso. Comunque sia, i “giorni della merla” precedono immediatamente la “festa delle candele”, in latino “festum candelorum” (forma erronea di “candelarum”), il 2 febbraio. La Madonna “Candelora” è una ricorrenza del calendario liturgico cristiano, che coincide proprio con il cuore dell’inverno: a quaranta giorni esatti dal Natale si ricorda la presentazione di Gesù al tempio e il contestuale rito di purificazione della Vergine. Secondo il

Vangelo di Luca, il vecchio Simeone avrebbe indicato il bambino come “luce per illuminare le genti” e durante le celebrazioni della “Candelora” si benedicono e si portano in processione delle candele che i fedeli, nella tradizione contadina, conservano a casa per riaccenderle durante l’anno contro le calamità naturali o le malattie. E già il giorno seguente, il 3 febbraio, in occasione della festa di San Biagio, il prete ne usa due: incrociate e apposte alla gola, tengono lontani i mali di questa parte del corpo. Secondo alcuni proverbi diffusi in molte regioni italiane, e anche all’estero, la “Candelora” è il momento per fare una previsione meteorologica per la seconda metà dell’inverno, per i quaranta giorni successivi. Ma la saggezza popolare ha elaborato in questo caso delle formule ambigue: già dall’inizio di febbraio potrebbe terminare il periodo più freddo (“Da la Madona Candelora de l’inverno semo fora”), ma le temperature rigide potrebbero persistere ancora a lungo, sia che il 2 febbraio il tempo sia brutto (“ma se piove e tira vento de l’inverno semo drento”), sia che sia sereno o parzialmente sereno (“ma se ghe xè sole o solesèlo ghe ne xè ancora un bel fasèlo”). Di fronte a tanta incertezza non resta che affidarsi alle parole del poeta latino Orazio: è inutile interrogare il cielo per prevedere un futuro lontano, è più saggio vivere giorno per giorno, volgendo lo sguardo in avanti per uno spazio di tempo limitato ed evitando di alimentare speranze a lungo termine. E lasciarsi scaldare da un camino (senza il rischio di finire anneriti), o magari da un po’ di vino, al lume delle candele, in attesa del disgelo.

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CONSORZIO DI BONIFICA ADIGE EUGANEO

PRESTO UNA RETE IRRIGUA SICURA DA PFAS

In questi giorni sono in corso gli approfondimenti sui tavoli istituzionali Stato-Regioni per l’approvazione del progetto esecutivo realizzato dal Consorzio che prevede la realizzazione di una condotta sotterranea lunga 21 chilometri, in estensione al Leb, da Cologna Veneta a Masi e Castelbaldo, per l’alimentazione di una rete irrigua che permetterebbe di evitare i prelievi direttamente dal Fratta-Gorzone

Una rete irrigua sicura dall’inquinamento da Pfas è ormai una certezza. Il progetto esecutivo realizzato solo qualche mese fa dal Consorzio di Bonifica Adige Euganeo, inerente la realizzazione di una condotta sotterranea lunga 21 chilometri da Cologna Veneta a Castelbaldo, ha ottenuto il consenso dalla Regione Veneto e nei prossimi giorni dovrebbe arrivare sui tavoli istituzionali di confronto Stato-Regioni. Si tratta di un ottima notizia per l’Ente di via Augustea di Este, il progetto infatti era stato ritenuto di fondamentale importanza per il territorio e ha impegnato seriamente gli uffici anche in tempi recentissimi, quando l’urgenza di una veloce risoluzione, era stata accompagnata dalla decisione di finanziare il progetto esecutivo con i risparmi ottenuti dal limitato ricorso alle idrovore, durante l’estate dello scorso anno. E forse è stato anche in ragione di questa speciale procedura (gli oltre 300 mila euro necessari per portare avanti questo importante progetto sono de facto arrivati direttamente dai risparmi realizzati e messi prontamente a disposizione) che l’unico progetto esecutivo, e dunque finanziabile, sul tavolo del Ministero sia proprio quello del Consorzio di Bonifica Adige Euga-

neo. “Le scarse precipitazioni che hanno caratterizzato la stagione calda del 2017 - spiega il presidente Michele Zanato - hanno permesso un risparmio che unito ad altre economie ottenute nella gestione dell’Ente hanno permesso di mettere insieme gli oltre 300 mila euro necessari al perfezionamento di un progetto inerente l’alimentazione di una rete, in parte già esistente e in parte da eseguire ex novo, alimentata dai vari sifoni e capillarizzata nelle campagne attraverso canalette e condotte in cemento. L’impianto garantirebbe la disponibilità di acqua a scopi agricoli a tutta la parte meridionale del territorio di competenza del Consorzio Adige Euganeo, acqua, va precisato, pulita e che quindi andrebbe a servire quelle aree attraversate dal Fratta Gorzone, dove un prelievo direttamente dal fiume rischierebbe di estendere il problema di inquinamento derivante da Pfas. Un rischio realmente percepito a “Roma”, tanto che l’emergenza è trattata alla pari della “Terra dei fuochi” e dell’Ilva di Taranto”. Quindi sembra che la strada di questo capitale intervento sia finalmente aperta. Dal ministero è arrivata solo la richiesta di implementare la rete idrica di Merlara e Castelbaldo e anche questo lascia presagire che, dunque, non potrà che esservi un sostanziale via libera alle nuove strutture. Un risultato certo figlio dell’emergenza causata dall’inquinamento, ma

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rilevamento delle strutture e dei mezzi del Consorzio. “Nei prossimi mesi - continua Zanato - oltre 55 veicoli, tra trattori, escavatori e altri macchinari operativi, verranno dotati di rilevazione satellitare. Questo ci consente di avere ben chiara la situazione dei lavori in esterna, le ore di operatività nei vari cantieri, lo stato di avanzamento, i consumi degli automezzi e ci permette di estendere anche un livello di sicurezza più Negli ultimi due anni è stata avviata alto per gli operatori. un’attività di verifica e controllo delle mancate entrate, derivanti dal verOgni sistema satellitasamento dei contributi consortili da re, infatti, è collegato parte dei consorziati che è parzialad un allarme che avvimente diminuito. Una più puntuale rispondenza nella riscossione darà sa la centrale nel caso luogo ad una generale riduzione del di incidente sul luogo contributo consortile di lavoro. Una iniziativa che ha accolto, per questo, il plauso delle associazioni sindacali. Anche per la parte che riguarda le idrovore l’estensione della loro gestione attraverso il telecontrollo ha permesso risparmi in termini di tempo, di forza lavoro e ha aggiunto tempestività negli interventi. Non è più necessario che un operatore parta e si rechi sul luogo per aprire una paratoia o azionare una pompa, tutto può essere fatto a distanza. E dai 32 impianti già coperti, altre 4 idrovore, 2 sostegni e un impianto irriguo verranno automatizzati nei prossimi mesi”. Il tema delle risorse dunque è importante all’interno del Consorzio, la gestione trasparente di ogni aspetto che riguarda il patrimonio consortile è un tema fondamentale negli uffici di via Augustea a Este, per questo ribadire che da una gestione oculata delle risorse si è potuti arrivare alla realizzazione di opere strategiche per il territorio è un risultato importante per il Consorzio di Bonifica Adige Euganeo. AVVISO DI PAGAMENTO N. -----------------------

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dal lunedì al venerdì dalle 8.00 alle 13.00

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anche dalle risorse che è stato possibile rendere immediatamente disponibili grazie alle politiche di efficientamento che sono state poste in essere negli ultimi anni dal Consorzio. “Politiche - precisa il Presidente - che ci hanno impegnato a fondo nella riorganizzazione dell’Ente, ma che iniziano a dare i loro frutti. Per quanto riguarda la parte finanziaria ad esempio dopo un avvio particolarmente critico con una scopertura di cassa prossima ai 12 milioni di euro, gran parte determinati dal ritardato rimborso delle somme anticipate dal Consorzio per l’esecuzione di lavori in concessione regionale, si è passati ad una situazione ben diversa che al 31 dicembre 2017 è attestata su un attivo di cassa di poco superiore al milione e 200 mila euro”. Nel risanamento, oltre al ripianamento da parte delle Regione degli anticipi sui lavori eseguiti, contribuiscono in modo determinante tutta una serie di attività rivolte al contenimento dei costi di gestione, non ultimo il recente passaggio da due Aree Tecniche a una, con conseguente riduzione delle figure dirigenziali tecniche e ottimizzazione della struttura gestionale, attraverso anche l’affidamento delle responsabilità dei settori unicamente a personale laureato. Si tratta di 9 ingegneri, 3 laureati in giurisprudenza ed 1 in materie ambientali. In questo modo anche la competenza e la professionalità dell’ente è cresciuta e le riduzione non hanno dato luogo ad uno scadimento del servizio, al contrario la struttura operativa dell’Ente, con un maggiore coordinamento e ad un’organizzazione più snella, ha trovato standard operativi più efficaci. Merito anche una progressiva automazione e

Per consultare la propria posizione, accedere a: www.adigeuganeo.it > Portale del catasto > Avvisi di pagamento > Avvisi on line > inserire come Codice Ditta ******* e PIN *******

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Rev.2017/4

Questo è il monitor che si trova all’ingresso della sede di via Augustea di Este e mostra il sistema di funzionamento degli impianti collegati al telecontrollo

Contributi Consortili i proprietari degli immobili (agricoli ed extra agricoli), ricadenti all’interno del perimetro di contribuenza e che ricevono benefici dall’esecuzione, dalla manutenzione, dall’esercizio delle opere e delle attività del Consorzio, sono tenuti obbligatoriamente, ai sensi del R.D.215/33 e della L.R. 12/09, al pagamento dei contributi consortili calcolati secondo i criteri stabiliti dal Piano di Classifica vigente, approvato con D.G.R.V.n.133/2013. Il mancato pagamento del presente avviso comporta l’iscrizione a ruolo con conseguente notifica della cartella esattoriale ed aggravio delle relative maggiorazioni. Contro il presente avviso potrà essere proposto ricorso indicando le motivazioni entro 60 giorni dal ricevimento dell’avviso stesso. Il ricorso dovrà essere inviato con raccomandata AR al seguente indirizzo: Consorzio di Bonifica Adige Euganeo, Via Augustea 25 35042 Este (PD) o tramite casella PEC all’indirizzo adigeuganeo@pec.it

Responsabile del Procedimento: Vettorello dr.Stefano - Direttore del Consorzio di Bonifica Adige Euganeo

Attraverso l’istallazione del sistema di rilevazione satellitare sui tutti i mezzi operativi è oggi possibile un riscontro immediato dell’attività svolta da ogni operatore. Il sistema rileva l’ora di accensione degli automezzi, le ore di lavoro, gli spostamenti e quindi lo stato di avanzamento dei cantieri

Per tenerti informato sull’operatività del Consorzio di Bonifica Adige Euganeo e sui progetti che riguardano il territorio, iscriviti alla newsletter settimanale, basta entrare nel sito www.adigeuganeo.it, cliccare sul tasto “Contatti” e registrarsi


L’ELZEVIRO

L ’agricoltura

di Eliano Morello

UN SETTORE CON UNA TECNOLOGIA TROPPO ARRETRATA Attualmente in Italia l’applicazione dell’Agricoltura di Precisione è appena dell’1%. In Veneto l’innovazione è un miraggio: molti trattori hanno un’età media superiore ai 20 anni, con un basso ricambio, una bassa superficie aziendale, poche sono le aziende informatizzate, l’età media degli imprenditori si aggira dai 55 ai 59 anni e infine i redditi sono molto bassi

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olitamente a fine anno si traggono i bilanci dell’annata passata e si delineano le prospettive per l’anno che verrà. Nel settore agricolo, che cosa ci lascia il 2017? Non voglio parlare di bilanci agricoli, prezzi, produzioni, andamento climatico, ecc. Vorrei condividere con voi lettori alcune iniziative che ho avuto modo di apprezzare. Siamo tutti coscenti dell’impegno che l’agricoltura deve profondere per produrre cibo salutare, per l’attenzione ai fitofarmaci e ai concimi e all’alimentazione del genere umano. Gli sforzi che il nostro settore affronta spesso non sono conosciuti abbastanza dal pubblico e l’opinione viene così distorta con luoghi comuni e frasi fatte che la fanno da padrone. A partire dal mese di ottobre 2017 si sono verificati tutta una serie di eventi molto interessanti per l’aspetto innovativo e creativo che il settore sta attraversando, forse poco ripresi anche dagli organi di informazione. Ma andiamo con ordine: “Smart Agrifood Meet 2017 - Esplorare, conoscere e capire l’agroalimentare del futuro”. In una serie di tre incontri organizzati da Padova Innovation Hub (costola della Camera di Commercio di Padova) sono stati affrontati argomenti quali: Nuove tecnologie per un’alimentazione sana: Nutraceutica, Nutrigenomica e Alimenti Funzionali - Relatrice Patrizia Bridigi, Dipartimento di Farmacia e Biotecnologie dell’Università di

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Bologna (30 ottobre 2017); Agricoltura di Precisione - Relatore Luigi Sartori, Dipartimento di Territorio e sistemi agroforestali (TeSAF) dell’Università di Padova (6 novembre 2017); Innovazione per la qualità, la tipicità e la sicurezza degli alimenti - Relatore Massimo Iannetta, Divisione Biotecnologie e Agroindustria dell’ENEA di Roma (27 novembre 2017). Insect Feed Chick, un progetto, presentato presso Istituto Agario “Duca degli Abruzzi” (11 novembre 2017), rivolto allo studio di fonti nutrizionali alternative e sostenibili per l’allevamento degli avicoli, inserito nel programma di Biodiversità di Interesse agrario e alimentare “BIONET 2017-2022” finanziato con il PSR del Veneto. Futurpera, il futuro della coltivazione della pera, fiera tenutasi presso l’Ente omonimo della città Estense dal 16 novembre 2017, dove oltre ad essere trattati

È assodato che con la crescita della popolazione mondiale, gli agricoltori dovranno produrre sempre più cibo. La superficie coltivabile però non può aumentare di pari passo, anzi, molti dati fanno presumere il contrario


L’ELZEVIRO argomenti di aspetto frutticolo della pera, si sono affrontati anche temi riguardanti le nuove start-up per il settore specifico. “La grande sfida mondiale del cibo, riflessioni sulla sicurezza alimentare”, convegno organizzato dall’associazione PadovaLegge che ha portato come relatore l’On. Paolo De Castro in qualità di Vicepresidente della commissione agricoltura e sviluppo rurale del parlamento europeo (fiera di Padova il 27 novembre 2017). È assodato che con la crescita della popolazione mondiale, gli agricoltori dovranno produrre sempre più cibo. La superficie coltivabile però non può aumentare di pari passo, anzi, molti dati fanno presumere il contrario (una contrazione delle terre disponibili per cambiamento climatico, desertificazione, inondazioni, mancanza di acqua di irrigazione ecc.) e questi fattori potranno più facilmente degenerare in instabilità regionali o addirittura mondiali. Mi fermo qui. Come potete notare ci sono alcune parole chiave ricorrenti (alimentazione, sicurezza alimentare, fonti nutrizionali, start up, agricoltura di precisione) segno che l’opinione pubblica è particolarmente sensibile a tali temi. Ma spesso tali temi non vengono approfonditi e questa è solo una delle critiche che può essere rivolta alle Università che condividono poco gli studi di cui si occupano. Per esempio, in molti convegni spesso si parla di Biotecnologie applicate all’ambito agrario e alimentare, di prodotti per la conservazione e l’aumento della cosidetta “shelf-life” dei prodotti stessi, di tecniche informatiche, robotica e meccatronica, ancora molto distanti sia dal mondo agricolo sia dal mondo del consumatore. Il consumatore, da parte sua, si limita o preferisce sentir parlare solo di “biolo-

L’agricoltura di precisione per definizione è un sistema integrato di gestione della produzione agricola e forestale che impiega strumenti e tecnologie per fare la cosa giusta, nel posto giusto, al momento giusto

gico” e il settore risponde con un incremento incredibile di operatori (produttori, intermediari e prodotti industriali) dedicati alla crescente richiesta. Cibo, salute, sicurezza, naturale, sostenibilità: parole usate e spesso abusate nella comunicazione. Sembra pertanto delinearsi, per il futuro, oltre al già citato fenomeno del biologico, il settote dell’agricoltura di precisione (rimando a due articoli apparsi di recente uno a firma di Angelo Frascarelli, pubblicato sul n. 41/2017 dell’Informatore Agrario - pagina 5; l’altro apparso sulla rivista de Le Scienze a firma di Geoffrey Ling e Blake Bextine, sul numero 593 di gennaio 2018 - pagina 34). Anche questi sono segnali dei tempi che cambiano. L’agricoltura di precisione per definizione è un

Il business del futuro sarà la gestione dei dati, la tecnologia informatica applicata all’uso dei dati in tempo reale attraverso l’impiego di satelliti, sensori e droni. È questa la cosi detta agricoltura di precisione

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L’ELZEVIRO

sistema integrato di gestione della produzione agricola e forestale che impiega strumenti e tecnologie per fare la cosa giusta, nel posto giusto, al momento giusto. Possiamo annoverarla nella quarta rivoluzione agricola (definita come Rivoluzione 4.0 e partita nel 2015), che si pone come obiettivo l’utilizzo di reti intelligenti per aumentare l’automazione, aumentare il reddito (attraverso una riduzione dei costi), minimizzare gli impatti ambientali e migliorare l’occupazione e la qualità degli operatori: in sostanza, mitigare i rischi economici e l’insicurezza che inevitabilmente accompagnano le incertezze dell’attività agricola concepita attualmente. Ad esempio l’agricoltura attuale (tradizionale) si affida alla gestione del campo coltivato nel suo complesso - decisioni relative a semina, raccolto, irrigazione, distribuzione di fitofarmaci e di concimi - in base alle condizioni della regione (intesa come areale) e dei dati storici. Il business del futuro sarà la gestione dei dati, la tecnologia informatica applicata all’uso dei dati in tempo reale (impiego di satelliti, sensori e droni), la cosidetta agricoltura di precisione. Questa combina sensori, robot, GPS, strumenti di mappatura e programmi di analisi dei dati per curare su misura le piante. Attraverso sensori fissi oppure montati su robot o droni equipaggiati di telecamere si trasmettono, via radio, immagini e dati sulle singole piante (ad esempio dimensione del fusto, forma delle foglie, umidita del suolo circostante, segnali di stress o stati di sofferenza o di buona salute). Questi dati forniti in tempo reale, permetteranno all’agricoltore di valutare gli interventi correttivi da adottare (quando seminare, quando trattare, quando quanto e dove concimare, quando e da dove iniziare a raccogliere, quale parte del vigneto ha gli zuccheri e acidi pronti per una perfetta raccolta, ecc.). Molte sono le start up nel settore, molte avviate già da tempo da Monsanto, John Deere, Dow chemicals, Du Pont, Dipartiment of agricolture (USA), NASA e NOAA, ma alcune anche sono presenti presso le nostre Università e altre sono promosse proprio da quel Padova Innovation HUB di cui vi parlavo all’inizio. Fin qui tutto bene? Neanche un po’. Al momento attuale le conoscenze sono all’inizio, il trasferimento al mondo agricolo lentissi-

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I dati forniti in tempo reale permetteranno all’agricoltore di valutare gli interventi correttivi da adottare: quando seminare, quando trattare, quando quanto e dove concimare, quando e da dove iniziare a raccogliere mo. Pensate che il progetto agricoltura di precisione finanziato dal Ministero dell’agricoltura italiano (MiPAF) spera di raggiungere almeno il 10% delle superfici coltivate - con tale innovazione - entro il 2021. Ma l’agricoltura di precisione si fonda e ha bisogno di capacità professionali, di contributi per anticipare le spese (ancora troppo alte), diffusione della banda larga, aziende che non siano di piccole dimensioni. Attualmente in Italia l’applicazione dell’AdP (acronimo di Agricoltura di Precisione) è appena dell’1%. In Veneto l’innovazione è un miraggio: pensate che molti trattori hanno un’età media superiore ai 20 anni, con un basso ricambio, una bassa superficie aziendale, poche sono le aziende informatizzate (e che utilizzano il WEB), l’età media degli imprenditori si aggira dai 55 ai 59 anni e infine i redditi sono molto bassi (l’81% delle nostre aziende dichiarano un reddito inferiore a 25.000 euro/anno, solo il 6% dichiarano un reddito superiore ai 100.000 euro/anno). C’è ancora molto da fare.


Non c’è niente di più creativo dell’ascolto!

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PRODURRE CARNI BIANCHE NEL SEGNO DELLA NATURALEZZA Il nostro sistema di allevamento continuerà ad essere con animali liberi di muoversi e razzolare perché solo in questo modo si ottengono carni sane e di grande pregio È la cultura del “mangiare sano” il valore che distingue i prodotti dell’azienda Scudellaro. Decenni di esperienza come allevatori avicoli hanno portato alla convinzione che prima di tutto viene la salute e il benessere degli animali, in quanto porta all’abbattimento drastico dell’uso di medicinali durante le fasi dell’allevamento e come conseguenza un valore che alla fine è possibile riscontrare nel piatto. Un elevato standard di benessere si traduce in ricadute positive sulle caratteristiche organolettiche delle carni che risultano più gradevoli e consistenti, perché più magre. Il colore, anche, è più invitante. Una porzione di carne di pollo diventa così una ricca fonte di proteine e di vitamine del gruppo B (niacina, in particolare), più che di grassi. Il rispetto dei naturali tempi di accrescimento e delle necessità di movimento dell’animale rende le carni povere di tessuto connettivo, a tutto vantaggio di una buona struttura muscolare costituita per lo più da fibre sottili. Queste caratteristiche incidono positivamente sulla masticabilità e digeribilità dei prodotti da portare a tavola.

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INGIROPIEDANDO di Alessia Crivellaro

NUOVE COLTURE:

Bacche di Goji,

I FRUTTI DELLA LONGEVITÀ I piccoli frutti arancioni del Lycium Barbarum, originari degli altopiani di Cina, Tibet e Mongolia, sono coltivati anche in terra padovana. Tra Due Carrare e Piacenza d’Adige sono presenti 14 ettari di Goji tibetano

A

ppartiene alla stessa famiglia di melanzane, mitrofe a Padova, chiarisce: “Come i frutti che siamo pomodori, patate e peperoni ma proviene soliti consumare soffre della presenza della Drosodall’Asia centrale, è il Goji, il frutto di lunga fila, il ben noto moscerino della frutta ma al di là di vita. Apprezzate per le loro qualità terapeutiche e nuciò, rustica e abituata a sopravvivere a condizioni tritive, le bacche di Goji sono ricche di vitamine, sali climatiche avverse, la pianta del Goji non richiede minerali e aminoacidi e rappresentaattenzioni particolari e produce fino no un notevole energizzante naturaa 3,5 kg di frutto. Se la consiglierei a le, tuttavia pochi sanno che i piccoli un coltivatore? Certamente, la parte frutti arancioni del Lycium Barbarum, gravosa di questo tipo di coltivaziooriginari degli altopiani di Cina, Tine si limita alla scrupolosa raccolta a bet e Mongolia, sono coltivati anche mano finalizzata a mantenerne intatin terra padovana, tra Due Carrare e ta la delicata buccia”. Piacenza d’Adige, infatti, sono preAlla raccolta delle bacche può seguisenti 14 ettari di Goji tibetano. re l’essicazione al sole, che in una La coltivazione di questa pianta, pesettimana completa in modo naturale renne e rampicante come la vite, è fail ciclo di vita del frutto, oppure la lacilitata dalle forti escursioni termiche vorazione del prodotto fresco. che rendono il clima padano simile a “Il giorno stesso della raccolta il Goji quello continentale. Nicola Donola, Nicola Donola uno dei primi produt- di nostra produzione viene recapiproduttore di Goji nelle campagne li- tori di Goji in provincia di Padova tato fresco ai mercati ortofrutticoli e

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INGIROPIEDANDO

La pianta di Goji è rustica e abituata a sopravvivere a condizioni climatiche avverse, non richiede attenzioni particolari e produce fino a 3,5 kg di frutto. La parte gravosa di questo tipo di coltivazione si limita alla scrupolosa raccolta a mano finalizzata a mantenerne intatta la delicata buccia

Ottimo come spuntino energetico si può gustare appena colto oppure sotto forma di succo, di estratto, di bacca essicata e posta a bagnomaria oppure aggiunto a yogurt, macedonia, riso e insalate

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alle gelaterie che lo richiedono, oppure trasformato in confettura extra o puro succo - prosegue Donola - per la trasformazione ci siamo affidati ad un’azienda veneta che si occupa di alimentazione spaziale e che ha rifornito l’astronauta Samantha Cristoforetti”. Ricercando quali siano i benefici di questo frutto prodigioso emerge che da più di 2000 anni le popolazioni della Cina del Nord e della Mongolia Interna, tra le più longeve e meno soggette a tumori e malattie cardiovascolari, si nutrono di Goji traendone giovamento per l’intero organismo. Molto più efficace dei comuni multivitaminici, con i suoi effetti tonici ed energizzanti, è in grado di integrare sali minerali come calcio, potassio, ferro, zinco, fosforo e vitamine dei gruppi A, B e C. Prezioso nel supporto delle difese immunitarie, il Goji contiene inoltre 18 aminoacidi diversi, acidi grassi vegetali, flavonoidi e carotenoidi. Elisir antiossidante ancor meglio del lampone o del cioccolato fondente, questo frutto particolare è di sapore dolce con un leggero retrogusto amaro. Ottimo come spuntino energetico si può gustare appena colto oppure sotto forma di succo, di estratto, di bacca essicata e posta a bagnomaria oppure aggiunto a yogurt, macedonia, riso e insalate. Utile a rinforzare il sistema immunitario, a disintossicare il fegato, a migliorare la resistenza muscolare, a sostenere l’organismo durante i periodi di forte stress e a supportare l’idratazione e l’elasticità della pelle, il Goji è tra i frutti più ricchi di antiossidanti al mondo. Esso infatti contrasta l’invecchiamento cellulare ed è un vero e proprio alleato per la bellezza di unghie e capelli. Sconsigliato a chi assume farmaci anticoagulanti e a chi è allergico al pomodoro, può essere assunto a tutte le età, da chi soffre di pallore, affaticamento visivo, menopausa, disturbi associati allo stress, sbalzi di umore e in particolare da chi sta seguendo un regime dietetico controllato. La combinazione vincente di zinco e cromo attiva, infatti, il metabolismo dei macronutrienti offrendo un valido aiuto nelle diete. Da quando nel 2012 ne è stata permessa l’importazione, il Goji è stato scoperto e apprezzato da tutto il nostro continente. Ciò nonostante, per gustarla al meglio, questa bacca asiatica va preservata dall’umidità e dai raggi solari che ne provocano l’ossidazione conservandola in contenitori non trasparenti per proteggerla da quei cambiamenti di temperatura che favorirebbero la prolificazione di batteri e muffe.


INGIROPIEDANDO In un’Europa invasa dal Goji essiccato di origine cinese, è bene inoltre porre attenzione alla varietà di bacche di cui ci si nutre in quanto la specie “Lycium Chinense”, meno pregiata ma altamente diffusa nel mercato, non detiene le proprietà benefiche della “Barbarum”. Le differenze tra le due specie botaniche sono evidenti anche agli occhi dei meno esperti: il Goji Chinense ha foglie larghe e produce frutti rossi con retrogusto molto amaro mentre la varietà Barbarum ha foglie allungate e produce frutti arancioni, polposi e dolci. In una campagna che si scontra con una siccità di anno in anno più stringente sarà questa dunque la nuova coltivazione che s’inserirà tra le eccellenze della produzione veneta? Non è dato saperlo ma quel che è certo è che nella nostra terra crescono floride piante con proprietà antidegenerative esclusive e preziose.

Per l’acquisto del Goji bisogna fare attenzione, perché il mercato di questo prodotto è invaso dal “Lycium Chinense” una varietà decisamente meno pregiata e che non detiene le proprietà benefiche della “Barbarum”

Utile a rinforzare il sistema immunitario, a disintossicare il fegato, a migliorare la resistenza muscolare, a sostenere l’organismo durante i periodi di forte stress e a supportare l’idratazione e l’elasticità della pelle, il Goji è tra i frutti più ricchi di antiossidanti al mondo. Esso infatti contrasta l’invecchiamento cellulare ed è un vero e proprio alleato per la bellezza di unghie e capelli

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Il Tricolore del Veneto FEASR

Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale: l’Europa investe nelle zone rurali

L’Insalata di Lusia Igp, l’Aglio Bianco Polesano Dop e il Radicchio di Chioggia Igp

“Il comune denominatore che coniuga i nostri tre Consorzi è certamente la terra. Una terra speciale, dominata quasi per ossimoro dall’acqua, o meglio dalla sua grande forza sprigionata dai fiumi che l’attraversano: Adige, Brenta, Po che nei millenni della loro storia hanno sedimentato “terra” trasformando l’ambiente, compresa la laguna di Venezia. Un territorio che ha messo a dura prova i suoi abitanti. E la loro storia volentieri la riassumiamo nel concetto di “Tradizione, restituendo essa l’esatta forma in cui l’uomo si è adattato ad un ambiente, essendo la perpetuazione degli aspetti vincenti che lo hanno reso possibile. Tra questi aspetti vincenti ci sono i nostri

Alessandro Braggion presidente Consorzio di tutela Insalata di Lusia IGP

prodotti: l’Aglio Bianco Polesano Dop; l’Insalata di Lusia Igp e il Radicchio di Chioggia Igp ai quali la Comunità Europea, appunto per la loro storia e tradizione, ha riconosciuto il marchio di “Denominazione di origine protetta” e di “Indicazione geografica protetta”. Oggi dunque ad unirci, oltre a questa “terra”, c’è la responsabilità di tutelare e valorizzare i suoi prodotti più rappresentativi, figli della storia del territorio e di quella che l’uomo ha speso nel portarli verso il valore che a tavola si chiama qualità. È una sfida complicata, appassionata, ma è anche questo entusiasmo a legarci in modo convinto”.

Massimo Tovo presidente Consorzio di tutela Aglio Bianco Polesano DOP

Giuseppe Boscolo Palo presidente Consorzio di tutela Radicchio di Chioggia IGP

Partecipano al progetto aggregato: Iniziativa finanziata dal Programma di Sviluppo Rurale per il Veneto 2014-2020 Organismo responsabile dell’informazione: Consorzio di Tutela dell’insalata di Lusia IGP Autorità di Gestione: Regione Veneto - Direzione AdG FEASR Parchi e Foreste


L’INSALATA DI LUSIA: È LA SOLA IN EUROPA CONTRADDISTINTA E CERTIFICATA DAL MARCHIO IGP Ha un primato assoluto europeo l’Insalata di Lusia: è la sola in Europa contraddistinta e certificata dal marchio Igp, ottenuto nel 2009. La sua storia è più che centenaria: si iniziò a coltivarla nella prima metà dell’Ottocento, ma è un secolo dopo che a Lusia decolla la produzione di ortaggi e diventa un’importante attività commerciale oltre che agricola. Vista dall’argine del fiume Adige, la campagna di Lusia, appare come una immensa opera di parchwork, lavorata da abili mani. Distese di orti, bene tracciati e coltivati, nei quali si alternano il verde di diverse gradazioni degli ortaggi e il colore grigio sabbia della terra.

L’AREA DI PRODUZIONE E IL TERRITORIO Venezia Lusia

ROVIGO

Costa di Rovigo

Fratta Polesine

Sant’Urbano Vescovana Barbona

Lusia Lendinara Villanova del Ghebbo

Rovigo

Una zona di produzione rigorosamente circoscritta all’area di tutela.

Badia Polesine

La grande diffusione della coltura dell’Insalata di Lusia ha impresso sulle terre comprese tra il basso corso del Po e dell’Adige un segno caratteristico. Osservando il paesaggio ci si imbatte a perdita d’occhio nel verde degli orti, striato dal grigio intenso del terreno sabbioso di origine alluvionale, reso fertile dall’azione del tempo e dalle opere di bonifica. La ricchezza di humus e l’abbondanza d’acqua, quest’ultima favorita da una fitta rete di canali e da una

L’area tutelata dall’Igp in Provincia di Rovigo comprende i comuni di Lusia, Badia Polesine, Lendinara, Costa di Rovigo, Fratta Polesine, Villanova del Ghebbo, Rovigo. Mentre in provincia di Padova sono coinvolti i comuni di Barbona, Vescovana e Sant’Urbano. Entrambe le sponde dell’Adige, dunque, sono interessate dalla produzione: a garantire l’idoneo “terroir” è il grande fiume che alimentando la falda superficiale permette la presenza di acqua ad appena ad un metro di profondità. In questo modo è garantita la coltivazione in tutte le stagioni, per una produzione che raggiunge le 10.000 tonnellate annue.

IDENTIKIT DELLA VERA INSALATA DI LUSIA IGP L’Insalata di Lusia IGP è un ortaggio a foglia larga allo stato fresco appartenete alla famiglia della Asteracee, genere Lactuca, specie sativa, nelle due varietà: Capitata (denominata Cappuccia) e Crispa (detta Gentile). Viene coltivata sia in pieno campo, sia in coltura protetta, in terreni sciolti e permeabili, opportunamente preparati, ed irrigui. La raccolta inizia quando la varietà Gentile ha raggiunto un peso non inferiore a 150 g e la varietà Cappuccia non inferiore a 200 g. Le foglie sono morbide per l’assenza di

fibrosità, accompagnata dalla turgidità che permane anche dopo 10 -12 ore dalla raccolta. Al gusto è fresca, croccante e sapida, tanto da non richiedere sale da cucina nel condimento, particolarità riconducibile alla ricchezza di Sali minerali nei terreni di coltivazione. La varietà Cappuccia presenta foglia compatta e ondulata con il margine intero di un colore verde brillante. Il peso del cespo varia da 200 a 500 grammi. La varietà Gentile ha foglia bollosa con margine frastagliato, di colore verde chiaro brillante, ha peso leggermente inferiore che va da 150 a 450 g.

CONSORZIO DI TUTELA DELL’INSALATA DI LUSIA IGP - www.insalatalusia.it


IL RICONOSCIMENTO DELL’IGP NEL 2009 Nel 2009 per le varietà Cappuccina e Gentile è arrivato il riconoscimento europeo Igp, un valore oggi difeso dal Consorzio che grazie ad uno specifico disciplinare garantisce sia “buone pratiche agricole”, tanto che per il territorio di produzione è stata adottata la certificazione “Biodiversity Friend”, sia la trasparenza nei confronti del consumatore: dalle operazioni in cam-

pagna, alla lavorazione del prodotto fino al confezionamento. Solo i prodotti che riportano il marchio “Insalata di Lusia Igp” sono autentici.

IL MARCHIO È LA GARANZIA

Compiti del consorzio: • tutela della denominazione • valorizzazione della produzione • informazione al consumatore

Dell’insalata di Lusia Igp si apprezza il contenuto vitaminico, per questo è bene preferire sempre la parte verde delle foglie rispetto a quella bianca, in quanto più ricca di caroteni, principali precursori della vitamina A. In generale, il contenuto vitaminico dell’insalata, come degli altri ortaggi, dipende in gran parte dalla freschezza del prodotto: minore è il tempo tra il momento di raccolta e il consumo, maggiore l’apporto di vitamine. Il contenuto di sali minerali, invece, si riduce all’aumentare del tempo di ammollo dell’insalata. Infine, grazie al suo volume e al contenuto di fibra, presenta un elevato potere saziante: ecco perché mangiare insalata prima del pasto è un’ottima abitudine, ma l’Insalata di Lusia Igp si accompagna bene anche a secondi piatti a base di carne o pesce, può essere un gustoso piatto unico abbinata ad altra verdura cruda, legumi, cereali, tonno, formaggi e quant’altro secondo i gusti personali.

LATTUGA CAPPUCCIA PRINCIPALI CARATTERISTICHE DEL PRODOTTO (media per 100 grammi di prodotto fresco)

Sostanza secca (%) Acqua (%) pH Conducibilità elettrica (mS cm-1) Solidi solubili (°Brix) Acidità titolabile (% ac. citrico) Fibra alimentare totale (% pf ) Lipidi (% pf ) Proteine totali (% pf ) Saccarosio (mg/100 g pf ) Glucosio (mg/100 g pf ) Fruttosio (mg/100 g pf ) Valore energetico determinato (kcal/100 g pf ) Valore energetico calcolato* (kcal/100 g pf ) Vitamina C (mg/100 g pf )

4,5 95,5 5,98 6,69 3,2 0,074 1,196 0,150 0,874 21,4 695 714 16,9 13,0 17,7

LATTUGA GENTILE PRINCIPALI CARATTERISTICHE DEL PRODOTTO (media per 100 grammi di prodotto fresco)

Sostanza secca (%) Acqua (%) pH Conducibilità elettrica (mS cm-1) Solidi solubili (°Brix) Acidità titolabile (% ac. citrico) Fibra alimentare totale (% pf ) Lipidi (% pf ) Proteine totali (% pf ) Saccarosio (mg/100 g pf ) Glucosio (mg/100 g pf ) Fruttosio (mg/100 g pf ) Valore energetico determinato (kcal/100 g pf ) Valore energetico calcolato* (kcal/100 g pf ) Vitamina C (mg/100 g pf )

3,8 96,2 5,35 8,19 2,01 0,085 1,103 0,139 0,892 136 430 632 15,1 11,8 4,5

Via Provvidenza, 25/3 - 45020 Lusia (RO) - Tel./Fax 0425 607024 - info@insalatalusia.it - comunicazione@insalatalusia.it

Le analisi qualitative sono state condotte presso il Dipartimento di Agronomia Alimenti Risorse naturali Animali e Ambiente (DAFNAE) dell’Università degli Studi di Padova

In cucina e a tavola


AGLIO BIANCO POLESANO DOP, L’ORO BIANCO RODIGINO Nel Polesine l’aglio bianco ha trovato una sua capitale. Questa coltura infatti si lega alle specificità di questa parte di Veneto attraversata dai due più grandi fiumi d’Italia: Adige e Po, nei millenni il loro corso ha sedimentato sabbie e limi creando suoli di medio impasto, ben drenati, porosi e fertili che ben si addicono a una produzione di pregio qual è l’Aglio Bianco Polesano. Già negli anni ‘60, il nostro prodotto era famoso per le ricercate caratteristiche commerciali e la capacità di fornire valori elevatissimi di produzione lorda vendibile, e già allora veniva esportato nei mercati di Cuba, Stati Uniti, Inghilterra, Germania e Francia; questo ortaggio è così diventato un elemento di sviluppo economico tale da essere definito “l’oro bianco del Polesine”.

L’AREA DI PRODUZIONE E IL TERRITORIO Venezia Polesine

ROVIGO

L’area tutelata dall’Igp in Provincia di Rovigo comprende i comuni di Adria; Arquà Polesine; Bosaro; Canaro; Canda; Castelguglielmo; Ceregnano; Costa di Rovigo; Crespino; Fiesso Umbertiano; Frassinelle Polesine; Fratta Polesine; Gavello; Guarda Veneta; Lendinara; Lusia; Occhiobello; Papozze; Pettorazza Grimani; Pincara; Polesella; Pontecchio Polesine; Rovigo; San Bellino; San Martino di Venezze; Villamarzana; Villadose; Villanova del Ghebbo e Villanova Marchesana. Paesi accomunati dalla tipologia dei terreni, dalla diffusa presenza di aziende a conduzione familiare nelle quali di generazione in generazione sono state selezionate a mano i migliori bulbi da cui ricavare il miglio Aglio Polesano.

IDENTIKIT DEL VERO AGLIO BIANCO POLESANO L’Aglio bianco Polesano DOP è una pianta appartenente alla specie Allium sativum L., si distingue per il bulbo di forma rotondeggiante, regolare con un leggero appiattimento della parte basale, di colore bianco lucente, ed esente da difetti; è costituto da un numero di bulbilli variabile. Il profilo aromatico risulta meno pungente e più persistente rispetto ad altre varietà, con note

gradevoli di erba appena tagliata e sapore dolce e fruttato. L’Aglio bianco Polesano DOP deve presentare bulbi sani, consistenti, puliti, privi di odore o sapore estranei. Il prodotto deve avere i requisiti previsti dalle norme di qualità per le classi “Extra” con calibro minimo di 45 mm e “Prima” con calibro minimo di 30 mm.

CONSORZIO DI TUTELA DELL’AGLIO BIANCO POLESANO DOP


LA DOP RICEVUTA NEL 2009 L’Aglio Bianco Polesano ha ottenuto dall’Unione euroL’Aglio bianco Polesano DOP deve essere commerpea il marchio DOP nel 2009 sia per gli ecotipi locali cializzato per un anno a decorrere dal 10 luglio fino nonché per la varietà “avorio” che è stata selezionata al 9 luglio dell’anno successivo, accompagnato da un partendo dagli stessi ecotipi. Ad occuparsi della tucartellino riportante la denominazione con la scritta tela di questo prodotto oggi è il Consorzio, DOP ed il nome del produttore. In commerattraverso una collaborazione con i produtcio si trova in sei diversi formati: treccia; tori ed i confezionatori che intendono adottreccione; grappolo, grappolone, canestritare il disciplinare di produzione dell’aglio no e mazzo. bianco polesano. Condizione indispensabile per fregiarsi del marchio DOP è quella Compiti del consorzio: che il produttore venga regolarmente cer• tutela della denominazione tificato dal Csqa di Thiene (Vi), l’ente cer• valorizzazione della produzione tificatore incaricato, condizione necessaria • informazione al consumatore IL MARCHIO È LA GARANZIA anche per il confezionatore.

In cucina e a tavola

L’aglio fa bene, è un antibiotico naturale grazie dell’allicina, il principio attivo che possiede un forte potere antisettico, ma la sua funzione risulta positiva per combattere anche altri disturbi come la pressione alta, esaurimento fisico e malattie nervose. Questo perché attiva la circolazione, aiutando il corretto funzionamento del cuore. In cucina può essere utilizzato in modi diversi, a crudo, intero o sminuzzato, secco in polvere o spremuto, regalando ad ogni preparazione un sapore unico; è ingrediente ideale per molti piatti, dagli spaghetti aglio, olio e peperoncino alle zuppe e negli stufati.

PRINCIPALI CARATTERISTICHE DEL PRODOTTO (media per 100 grammi di prodotto fresco) Sostanza secca (%)

37,2

Proteine totali (% pf)

Acqua (%)

62,9

Saccarosio (mg/100 g pf)

5,91 -

pH

6,6

Glucosio (mg/100 g pf)

202

Conducibilità elettrica (mS cm-1)

5,31

Fruttosio (mg/100 g pf)

275

Solidi solubili (°Brix)

8,00

Valore energetico determinato (kcal/100 g pf)

147

Acidità titolabile (% ac. citrico)

0,723

Valore energetico calcolato (kcal/100 g pf)

37,5

Fibra alimentare totale (% pf)

4,93

Vitamina C (mg/100 g pf)

15,1

Lipidi (% pf)

0,238

Piazza Garibaldi, 6 - 45100 Rovigo - Tel. 0425 426428 - info@agliodop.eu - www.agliodop.eu


RADICCHIO DI CHIOGGIA IGP, IL PRINCIPE ROSSO In Veneto si produce più di metà del radicchio di tutta l’Italia, il radicchio di Chioggia è primo per superficie coltivata e quantità di produzione, mentre in tutto il mondo si sono diffuse tipologie che lo imitano. Il radicchio attualmente coltivato deriva dal “Radicchio Variegato di Castelfranco” che gli ortolano chioggiotti iniziarono a coltivare immediatamente dopo la Grande Guerra. Da allora, selezionando come “porta seme” soltanto le piante con propensione alla formazione di foglie centrali strettamente “embricate”, si è ottenuto il “Radicchio Variegato di Chioggia” dal quale, scegliendo le piante con screziature rosse estese, si è differenziato intorno al 1950, il “Radicchio Rosso di Chioggia”.

L’AREA DI PRODUZIONE E IL TERRITORIO Venezia

Il radicchio di Chioggia “tardivo”: si produce in tutti i dieci comuni: Chioggia, Cavarzere, Cona, Codevigo, Correzzola, Rosolina, Loreo, Porto Viro, Taglio di Po e Ariano Polesine. Mentre il radicchio di Chioggia “precoce”: viene prodotto esclusivamente nei comuni litoranei di Chioggia e Rosolina, grazie al terreno particolarmente sabbioso, alla vicinanza al mare che determina una temperatura superiore rispetto all’entroterra. Gli orti in cui si coltiva il Radicchio di Chioggia hanno origine dalle rocce arenarie che i grandi fiumi come il Po, l’Adige e il Brenta hanno portato dalle Alpi fino all’Adriatico. Si tratta, quindi, di terreni con una forte presenza di minerali ai quali si aggiunge la salinità apportata dalle brezze marine. Il Chioggia Igp è infatti il più sapido tra i radicchi italiani e tra quelli che richiedono il minor numero di interventi con prodotti chimici.

IDENTIKIT DEL VERO RADICCHIO DI CHIOGGIA IGP Il Radicchio di Chioggia è un ortaggio a foglia appartenente alla famiglia delle Asteracee (Composite), genere Cichorium, specie inthybus, varietà silvestre. Ha un cespo tondeggiante e compatto, con foglie di colore rosso più o meno intenso con nervature centrali e secondarie bianche, sapore amarognolo e consistenza croccante; grumolo di pezzatura generalmente medio-piccola nella tipologia “precoce”, mentre quella “tardiva” presenta un grumolo con pezzatura medio-grande. Inizialmente la produzione di radic-

chio interessava solo i mesi autunno-invernali ma, nella seconda metà degli anni settanta, è stato costituito un nuovo ecotipo disponibile al consumo già dal mese di aprile e fino a luglio inoltrato. Oggi è quindi possibile gustare il Radicchio di Chioggia Igp durante tutto l’anno grazie alle varietà “precoce” e “tardivo”.

CONSORZIO DI TUTELA DEL RADICCHIO DI CHIOGGIA IGP - www.radicchiodichioggiaigp.it


IL RICONOSCIMENTO DELL’IGP NEL 2008 Il Consorzio di Tutela del Radicchio di Chioggia è valori nutrizionali e nutraceutici. Tali azioni promoziostato costituito nel novembre 2009, a seguito del nali sono tese a valorizzare un prodotto inserito in riconoscimento dell’Unione Europea a fine 2008 un patrimonio artistico e culturale che rende questa dell’Indicazione Geografica Protetta per il Radicchio terra un unicum irriproducibile. In questo modo l’oridi Chioggia. Il Consorzio, che non persegue fini di gine geografica protetta, oltre che una garanzia della lucro, ha lo scopo di tutelare e promuoveprovenienza del prodotto, costituisce un re la denominazione IGP del Radicchio di forte richiamo al luogo d’origine e ai suoi Chioggia e il suo territorio, attraverso buoelementi d’attrazione: il prodotto promuove ne “pratiche agricole” e una corretta inil territorio. formazione rivolta al consumatore. E stato riscontrato dall’associazione WBA (World Compiti del consorzio: Biodiversity Association) onlus, che le aree • tutela della denominazione di produzione garantiscono un buon livello • valorizzazione della produzione di biodiversità a tutto vantaggio di una pro• informazione al consumatore IL MARCHIO È LA GARANZIA duzione di qualità, caratterizzata da ottimi

In cucina e a tavola Principe rosso di Chioggia, sovrano in tavola

Il Radicchio di Chioggia IGP è un ortaggio che si distingue per l’elevato contenuto di antiossidanti legati alla tipica colorazione rossa delle foglie e al caratteristico gusto leggermente amaro. Sono inoltre presenti composti che migliorano le potenzialità salutistiche del radicchio rappresentati dall’acido clorogenico con azione antibatterica, antiossidante e dell’acido cicorico che ha funzione anti-tumorale e antivirale, riduce l’insorgenza di obesità e diabete. Molto interessante anche il contenuto di composti amari che hanno funzione antinfiammatoria, vaso protettiva e coleretica con effetti depurativi ed epatoprotettivi. Per questo il Radicchio di Chioggia Igp è sempre più ricercato, sia dagli chef stellati che dalle famiglie per la cucina di tutti i giorni. Questo tipo di radicchio può essere consumato sia crudo che cotto in preparazioni che vanno dalle semplici insalate ai risotti o come secondo, se grigliato ai ferri, mentre saltato in padella è il contorno perfetto che accompagna carne e pesce.

VALORI NUTRIZIONALI DEL RADICCHIO DI CHIOGGIA IGP (per 100 grammi di prodotto fresco) Valore energetico

23 Kcal

Fibra

3,0 g

Vitamina A

3000 U.I.

Acqua

94%

Potassio

180 µg

Vitamina B1

70 µg

Proteine

1,01 g

Calcio

79 µg

Vitamina B2

120 mcg

Lipidi

0,49 g

Fosforo

21 µg

Vitamina C

10 µg

Carboidrati

3,44 g

Ferro

1,7 µcg

Vitamina D

1,7 µg

Via Mercato Orticolo di Chioggia - Località Brondolo 30015 Chioggia (VE) - Tel. 041 8224105 - consorzio@radicchiodichioggiaigp.it


ALIMENTAZIONE, SALUTE E TRADIZIONE del Prof. Adriano Mollica

CONTRO IL LOGORIO DELLA VITA MODERNA: IL CARCIOFO, IL CARDO e IL CARDO MARIANO Ottimi come ingredienti di molte ricette si fanno apprezzare anche per i valori medicinali nel combattere una varietà impressionante di malattie. Tradizionalmente il carciofo è usato come antimicrobico, anti-infiammatorio, coleretico, epatoprotettore e come rimedio per abbassare il colesterolo cattivo

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l carciofo, (nome scientifico Latino Cynara scolymus) è un ortaggio prettamente invernale. È coltivato in gran parte del mondo a scopo alimentare e cresce comunemente nelle regioni mediterranee. La parte commestibile della pianta è il bocciolo, circondato da foglie esterne coriacee che proteggono il cuore. Va consumato prima che si formi il fiore poiché una volta sbocciato la parte commestibile è molto ridotta. È strettamente imparentato con il cardo, chiamato a volte cardone, usato in molte zone d’Italia a scopo alimentare, ad esempio è usanza cucinare come piatto delle feste una zuppa a base di cardone, uova e brodo di carne. Il cardo mariano, è una varietà selvatica di cardo, appartenente alla stessa famiglia del carciofo e del cardo comune, contiene anch’ esso una serie di sostanze benefiche, rientranti nella ca-

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tegoria dei “flavolignani”, in particolare va annoverata la “silimarina”, miscela di composti, che ha come componente maggioritario la “silibina” chiamata anche “silibilina”. Questa sostanza è usata in medicina come rimedio contro le epatiti e come purificante del fegato. È disponibile in Europa come farmaco, ma è anche possibile trovarlo come integratore alimentare sotto forma di fitocomplesso. È consigliato anche nella terapia disintossicante in seguito all’ingestione di funghi epatotossici. USI FARMACEUTICI E SALUTISTICI Tralasciando il ben noto utilizzo come alimento, il carciofo trova una posizione di spicco anche nella nutraceutica e nella fitoterapia. La pianta del carciofo è un’importante pianta medicinale che appartiene


ALIMENTAZIONE, SALUTE E TRADIZIONE

alla famiglia delle “Asteraceae”, le foglie contengono polifenoli, sesquiterpeni, lattoni, flavonoidi, fitosteroli, zuccheri, inulina, enzimi ed olii essenziali. In alcuni paesi del mondo (Vietnam, Romania, Messico) è venduto come tisana, ed è raccomandato per una varietà impressionante di malattie, dai raffreddamenti alle nefriti, passando per l’angina pectoris. Famosissimi sono i liquori dalle proprietà digestive inequivocabili, sicuramente date dal sapore amaro di alcune sostanze in esso contenute. Nella medicina tradizionale le foglie di carciofo sono state usate per secoli come antimicrobici, anti-infiammatori, coleretici, epatoprotettori, come rimedio per abbassare il colesterolo cattivo, contro i trigliceridi, soprattutto nella medicina tradizionale turca e medio orientale. Negli anni novanta sono stati pubblicati diversi lavori che dimostravano come l’estratto delle foglie potesse essere associato a un effetto epatoprotettivo, antiossidante, radical scavenger, con riduzione della perossidazione lipidica ed aumento dell’attività della glutatione perossidasi. Studi di questo genere sono tutt’ora in corso, e i risultati sembrano essere tutti concordi nell’attribuire all’estratto di foglie di carciofo proprietà epatoprotettrici. Il fegato infatti, è il più complesso organo nel corpo coinvolto nel metabolismo e nella biosintesi. È responsabile della detossificazione e dell’omeostasi. Poiché il fegato è un organo così attivo, è soggetto all’azione delle specie reattive dell’ossigeno (ROS) che si producono normalmente nelle cellule. Il fegato ha una gran quantità di meccanismi di protezione dai ROS, in ogni caso la continua e massiccia produzione di ROS insieme a altri sbilanciamenti endogeni tra antiossidanti e ossidanti, può portare a stress ossidativo che può procurare dei danni epatici, portando nel tempo alla formazione di steatosi, epatite cronica, fibrosi, cirrosi, e carcinoma epatocellulare.

Erano gli anni ‘60 quando Ernesto Calindri proponeva il celebre liquore “contro il logorio della vita moderna”, ma le inequivocabili proprietà digestive degli infusi alcolici a base di carciofo sono note da secoli alla medicina naturale

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ALIMENTAZIONE, SALUTE E TRADIZIONE CAGLIO VEGETALE Un’altra interessante applicazione del carciofo e del cardo, è quella del caglio vegetale. La coagulazione del latte è un passaggio principale per produrre il formaggio. Gli enzimi coagulanti sono preparazioni che contengono enzimi proteolitici, cioè che tagliano e denaturano le proteine del latte. Storicamente il caglio è estratto dallo stomaco dei ruminanti, ma esistono anche cagli di origine microbica e vegetale. Gli enzimi sono stati studiati e isolati, come ad esempio la chimosina. A causa del consumo crescente di formaggio esistono oggi anche cagli chimici. La maggior parte dei cagli contiene le cosiddette proteasi ad aspartico, ma esistono anche

Il carciofo è anche un buon surrogato del caglio impiegato nell’industria casearia. Questa produzione è da tempo consolidata in Spagna, ma sta prendendo piede anche in tutta la nostra penisola grazie anche ai presidi slow food ed al conferimento del marchio DOP ad alcune produzioni

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proteasi a cisteina e a serina, a seconda dell’aminoacido che è responsabile del taglio enzimatico operato dall’ enzima sulle proteine del latte. L’uso di caglio vegetale, può essere ritrovato in particolare nell’area mediterranea, il più famoso è quello dell’estratto del carciofo; purtroppo non è facile utilizzare gli estratti vegetali come cagli in quanto l’attività proteolitica può essere eccessiva e quindi il risultato sarà un formaggio poco saporito e poco strutturato. La produzione di formaggi con caglio vegetale è da tempo consolidata in Spagna, ma sta prendendo piede anche in tutta la nostra penisola grazie anche ai presidi slow food ed al conferimento del marchio DOP ad alcune produzioni. I formaggi che si ottengono hanno struttura diversa da quelli ottenuti con cagli animali, una particolare cremosità, e una particolare texture della pasta, lo sviluppo di aromi inconsueti li rendono particolarmente apprezzabili.



IL PANORAMA GASTRONOMICO di Mario Stramazzo

L’ORTO È GENEROSO ANCHE D’INVERNO

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IL PANORAMA GASTRONOMICO Sono diversi i prodotti che danno il meglio di se proprio quando le temperature vanno sotto lo zero. Tanto che molti gourmet pensano che se verze, cavoli e più ancora le cicorie o i cardi, non sono passati sotto il giogo delle bianche gelate non acquistano quel dolce leggermente amaricante che ne esalta la bontà

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ur se le piante orticole che resistono al freddo delle possibili gelate invernali sono pochissime, non per questo, con l’inverno, l’orto diventa avaro e lascia a bocca asciutta. Anzi proprio alcuni ortaggi sembrano dare il meglio di se in gusto e sapore proprio quando le temperature vanno sotto lo zero. Tanto che molti gourmet pensano che se verze, cavoli e più ancora le cicorie o i cardi, ad esempio, non sono passati sotto il giogo delle bianche gelate non acquistano quel dolce leggermente amaricante che ne esalta la bontà, limando, laddove presente, l’amaro che invece contraddistingue alcuni delle piante orticole che sono regine delle tavole invernali. Ortaggi che si piantano in estate e si raccolgono durante l’inverno sfruttando proprio la loro capacità di resistenza al freddo e alle temperature che inducono la voglia di succulenti zuppe dal benefico effetto riscaldante per noi umani. Un vero toccasana che risulta godibile non solo per la sensazione di tepore per il nostro stomaco ma soprattutto per il salutare apporto che vitamine e sali minerali, contenute negli ortaggi delle nostre zuppe o dei contorni, garantiscono alla stessa fisiologia del nostro organismo. Specie nei mesi dove risulta più elevato il consumo di energia e il ricorso a tutti quegli elementi che fungono da barriera agli attacchi del freddo e agli agenti patogeni che con esso si manifestano. Largo dunque sulle tavole ai cavoli, ai cappucci, ai broccoli, alla bieta da coste, alla catalogna, al cavolo rapa, ai finocchi, alla barbabietola, ai topinam-

Ortaggi che si piantano in estate e si raccolgono durante l’inverno sfruttando proprio la loro capacità di resistenza al freddo e alle temperature che inducono la voglia di succulenti zuppe dal benefico effetto riscaldante

È proprio il gelo a smussare l’amaro che contraddistingue alcune delle piante orticole che sono regine delle tavole invernali

Zuppe e minestroni sono un vero toccasana che regala piacevoli sensazioni di tepore per il nostro stomaco ma soprattutto offrono un salutare e necessario apporto di vitamine e sali minerali nella stagione di maggior bisogno

Il colore arancione delle carote è un tributo degli ortolani olandesi del XVII secolo alla loro casa regnante, gli Orange. La maggior parte delle carote in precedenza avevano colore scuro, violaceo

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IL PANORAMA GASTRONOMICO bur, al sedano rapa, ai porri, alle cime di rapa, all’indivia belga, ai cardi o a sua maestà il rafano o cren. Elemento insostituibile, quest’ultimo, per ogni pranzo a base di carni bollite che si rispetti e che mai come in inverno risulta gradito. Insomma un florilegio di ortaggi e verdure che nonostante il credere comune sulla povertà della produzione orticola invernale dimostra invece quanto la natura e la sapienza contadina riescono a regalare ai nostri palati anche nei giorni in cui il sole rimane nascosto per più della metà del giorno. E se da un lato la troppa comodità dei supermercati ci fa spesso dimenticare l’uso di antiche verdure in cucina, che mai come d’inverno soddisfano palato e organismo, dall’altro, la loro riscoperta coincide anche con la ricerca continua del nuovo sui piatti. Basta pensare ad esempio al cardo, coltivato fin dai tempi degli antichi romani ma caduto in disuso ai nostri tempi per via della preparazione che richiede qualche mezz’ora di tempo prima che le coste, morbide e carnose possano trovare la loro migliore fine gastronomica attraverso la semplice bollitura o, ancora più ghiotta, la cottura al forno con abbondante besciamella oppure, assolutamente da provare, impanate e fritte. A livello

Il cardo, coltivato fin dai tempi degli antichi romani è una verdura depurativa e disintossicante, ricca di fibre e magnesio. Caduto in disgrazia per via dei suoi lunghi tempi di cottura è stato riscoperto dagli chef

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di proprietà è una verdura depurativa e disintossicante, ricca di fibre e magnesio. Altro ortaggio poco noto ma non meno gustoso e utile al nostro organismo per reagire convenientemente agli attacchi invernali, è la pastinaca sativa, detta anche carota bianca. Un ortaggio antico, diffuso in tutta l’Europa dagli antichi colonizzatori romani che fa parte della famiglia delle ombrellifere e sviluppa la radice commestibile nel sottosuolo con foglie a ciuffo come parte aerea. È un ortaggio che si consuma cotto come verdura a pasta morbida e gusto dolce, che ricorda quello della patata e della carota. Altra varietà orticola, quest’ultima, che non manca nel periodo invernale grazie all’accortezza degli ortolani che hanno ben imparato a coltivare questa apiacea. Tanto che attorno al 1600, quelli olandesi, sono riusciti addirittura a cambiarne il colore, in origine di colore scuro (in genere viola) in onore alla dinastia degli Orange. Oggi le carote arancioni si sono tanto diffuse da essere la norma, mentre quelle viola sono state recuperate e si trovano come una rarità che in verità rarità non era e ben si accompagnava in gustosi matrimoni con tutte le altre verdure citate per dare vita a zuppe o minestre che riscaldavano, ieri come oggi, lo spirito e il corpo, rallegrando i palati.


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RISTORANTE E PIZZERIA CON PASSIONE Esperienza, materie prime selezionatissime e grande varietà sono i punti di forza sia del listino delle pizze che del menù della cucina

Tutte le selezioni di pizza possono essere anche da asporto, comprese le preparazioni del ristorante

6 per sempre coniuga due grandi passioni: il Milan di Franco Baresi e la ristorazione. Il segreto di un nome così originale per il rinomato ristorante-pizzeria di Maserà di Padova è racchiuso nel cuore del suo titolare Mauro Zilio, pizzaiolo con un’esperienza maturata in quarant’anni di attività e dal 2014 impegnato assieme alla sua famiglia nella conduzione del nuovo locale. Conduzione, è giusto precisarlo perché si tratta del punto di forza dell’offerta, tutta incentrata sulla qualità delle materie prime. Sia per il reparto pizzeria che per il ristorante i prodotti sono figli di un’attenta selezione che premia sicuramente le materie prime locali, secondo la stagionalità, per portare in tavola genuinità, freschezza ed evitare gli spechi. In questo modo i buoni palati ringraziano e quelli più esigenti trovano pane per i loro denti, perché le pizze in listino sono più di 150, tutte realizzate con farine di primissima scelta, anche light, integrale e grano khorasan, lievito madre per fermentazioni che durano dalle 70 alle 130 ore, in maniera che amidi e zuccheri vengano eliminati quasi completamente a vantaggio di una pasta croccante, leggera e ad alta digeribilità. Lo stesso scrupolo viene usato nei piatti del ristorante dove è possibile trovare sia i piatti veloci della ristorazione moderna che tutto il gusto della cucina tradizionale, dalla “fiorentina di manzo” alla “frittura di pesce”. Piatti sempre a chilometri zero, perché la carne è padovana e il pesce è quello della nostra laguna. Piatti da degustare accompagnati dalle ottime etichette di cui è fornita la cantina, da dove non mancano le bottiglie più importanti di Veneto e Friuli e tra le birre c’è solo l’imbarazzo della scelta: dalle birre d’abbazia elle trappiste e dalle weizen alla birra Italiana servita alla spina. La cura dell’offerta si estende al dopo pasto con ricca selezione di caffè monorigine che, a differenza delle comuni miscele, provengono esclusivamente da una singola piantagione e berli in purezza permette di ritrovare in tazza le caratteristiche uniche e peculiari di ogni terreno d’origine.

Il locale è aperto tutti i giorni dalle 18.30 alle 24.00 tranne il lunedì Piazza del Donatore, 6C - Maserà di Padova - Tel. 049 8860023 6persempre


PANORAMA GASTRONOMICO di Mauro Gambin e Maurizio Drago

PIATTO GIOCOSO DEL CARNEVALE In realtà è l’aspetto salvifico degli gnocchi a renderli uno dei piatti più popolari in tutta Europa. Il basso costo e il valore nutrizionale sono stati veri “salvagenti” alimentari, nel corso dei secoli della storia

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PANORAMA GASTRONOMICO

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imbi inappetenti e vecchi dalla masticatura incerta, adolescenti svogliati e adulti incupiti: davvero difficile restare indifferenti davanti a un piatto di gnocchi fumanti, comfort food per eccellenza. Impossibile servirli in porzioni risicate, mangiarli con sufficienza, lasciarli a metà. Perché gli gnocchi nutrono e appagano, sono economici e digeribili, si cuociono in un attimo e acquistano cento sapori diversi. Ed è tutto questo a renderli vincenti sulle tavole di tutta Europa, fin dalla notte dei tempi. Gli gnocchi li conoscevano già i romani “globulos” venivano definiti, il nome “gnocco” invece deriva dal longobardo “knohha”, cioè nodo, nocca, ma ovviamente erano molto diversi da quelli che conosciamo noi, non erano di patate. Ancora nel primo Cinquecento Teofilo Folengo potteva definirli come “quel qualcosa che rotolava giù da una montagna di formaggio grattugiato, facendosi grosso come una panciuta botte” ma nel tempo questa nobile forma ebbe a corrompersi, specialmente alle nostre latitudini dove proprio in quegli anni al frumento veniva preferito il mais e la farina iniziò a scarseggiare. Fu l’umile patata a prendere il

Gli gnocchi li conoscevano già i romani “globulos” venivano definiti, il nome “gnocco” invece deriva dal longobardo “knohha”, cioè nodo, nocca, ma ovviamente erano molto diversi da quelli che conosciamo noi, non erano di patate suo posto. Umile certo perché fino al XVIII secolo la patata veniva usata come pianta ornamentale o al più come cibo per gli animali. Divenne buonissima però proprio nel corso di questo secolo che portò lunghissime guerre, come quella “Dei 7 anni” che coinvolse tutto il continente, ne divenne l’alimento simbolo grazie anche a ricercatori come Antoine-Augustin Parmantier, che conobbe questa coltivazione mentre era prigioniero dei prussiani e fece grandi sforzi per diffonderne la coltivazione e l’utilizzo alimentare e culinario. In un periodo di tempo relativamente breve, la patata, divenne così l’alimento fondamentale nell’alimentazione delle classi umili in gran parte dell’Europa centrale e settentrionale, soppiantando in parte i cereali. Fu una fortuna per le patate, meno per gli gnocchi che

Gli gnocchi dolci a Montagnana stanno per diventare una De. Co. cioè protetti da una denominazione concessa dall’Amministrazione Comunale per tutelarne e valorizzarne la natura assolutamente nostrana

diventarono un piatto “del popolo”. Così come gli antichi sovrani mantenevano forma e colore argenteo delle monete, riempiendole però di rame, sotto una sottile patina di metallo nobile, allo stesso modo la patata si era scoperta un più economico sostituto della farina. Esternamente il prodotto si presentava allo stesso modo, affidato alla soffice leggerezza delle dita incaricate di scivolarle sulla grattugia. Dentro però il suo valore era più basso. Mutato nella sostanza, lo gnocco era quindi diventato per il popolo una sorta di immagine. E lo è ancora. Quanti sono i detti, appunto popolari, che si legano allo gnocco? Celebri ad esempio sono quelli del giovedì, perché un tempo, quando le prescrizioni della chiesa avevano una certa presa sul popolo, i digiuni del venerdì potevano avere qualche conseguenza se il giorno prima non si fosse fatto il pieno di calorie. Un piatto “salvifico” del resto gli gnocchi, un piatto di esuberanza, che rimpinza e sfama, ed è per questo che la sua storia si lega anche a quella della carnevale di Verona. La tradizione popolare vuole attribuito a TommaUn tempo, quando le prescrizioni della chiesa avevano una certa presa sul popolo, i digiuni del venerdì potevano avere qualche conseguenza se il giorno prima non si fosse fatto il pieno di calorie

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PANORAMA GASTRONOMICO

Papà Gnocco: barbuto, una specie di Babbo Natale vestito di broccato nocciola e mantello, con una tuba rossa a cui sono attaccati dei sonagli. Come scettro ha una grande forchetta dorata, su cui è infilzato uno gnocco

so Da Vico la fondazione del Baccanale del Gnocco, avendo egli distribuito a sue spese tra la popolazione viveri di prima necessità, come pane, vino, formaggio e soprattutto gnocchi in seguito alla fame causata dalla rotta dell’Adige e alla discesa dei Lanzichenecchi nei primi decenni del ‘500. Davanti al sagrato della Basilica di San Zeno sarebbe ancora visibile la “pietra del gnocco”, su cui venivano cotti. Per il resto della provincia lo gnocco è semplicemente il Re del Carnevale, o Papà Gnocco: barbuto, una specie di Babbo Natale vestito di broccato nocciola e mantello, con una tuba rossa a cui sono attaccati dei sonagli. Come scettro ha una grande forchetta dorata, su cui è infilzato uno gnocco. Perché lo gnocco è anche divertimento. Fare gli gnocchi è semplice, molto di più che fare le altre paste fatte in casa, la gestualità è giocosa: la manipolazione dell’impasto deve aver anticipato per i bambini del passato l’equivalente del “Pongo” e del “Didò” e poi c’è il gesto, quello fatto con la forchetta o la grattugia per imprimere sul dorso dello gnocco quella rugosità che gli consente di prendere bene il sugo. Tra uno gnocco spiaccicato per troppa foga e un altro inspiegabilmente uscito senza solchi, gli gnocchi sono passati di mano in mano tra le generazioni come piatto passe-partout, a seconda delle declinazioni: con poco olio/burro o salsa di pomodoro per un primo piatto facile e leggero; con legumi, carni o formaggi per addizionare proteine; impastato con farina di castagne e accompagnato da cioccolato fuso per il più infantile, inusuale e goloso dei dessert. Chi ha conservato memoria del palato fatica a farsi piacere la maggior parte dei prodotti industriali. Rispetto alla ricetta-madre degli gnocchi più popolari (con le pa-

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Tra uno gnocco spiaccicato per troppa foga e un altro inspiegabilmente uscito senza solchi, gli gnocchi sono passati di mano in mano tra le generazioni come piatto passe-partout tate), infatti, la quota di farina, che costa molto meno (oggi il valore si è capovolto rispetto al ‘600), cresce a dismisura insieme alla standardizzazione di forma e gusto. Risultato: piccoli sassi indigeribili e impermeabili al condimento, che resta immancabilmente in fondo al piatto. Va un poco meglio nelle versioni pret-à-manger di pastifici artigiani - quei pochi che resistono - e gastronomie, soprattutto quando vengono scelte le patate giuste: vecchie, farinose, sane. In questa ricerca degli gnocchi “di una volta”, naturalmente, anche il prezzo ha smesso di essere quello di un alimento povero, per assumere lo status di gourmandise. Ma forse è giusto così, è arrivato il tempo della sua reintegrazione nel grande menù della storia, ma resta ancora un nodo da scioglie: cioè se la versione dolce degli gnocchi, con zucchero, cannella e uvetta sultanina, sia un lascito ai veneti della dominazione austriaca o sia piuttosto un sicuro piatto della “venecità”, visto che le spezie un tempo erano un “affare” che riguardava esclusivamente la piazza di San Marco? Magari ne parleremo la prossima volta, perché proprio in questi giorni a Montagnana si sta lavorando per farli diventare un prodotto De.Co., cioè protetto da una denominazione concessa dall’Amministrazione Comunale per tutelarne e valorizzarne la natura assolutamente nostrana.


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PIZZE VAL POMARO, PER IL GAMBERO ROSSO TRA LE MIGLIORI D’ITALIA Da febbraio nella carta dello storico locale di Arquà Petrarca la “pizza a fermentazione spontanea”, ossia senza lieviti ma con fermenti ottenuti dalle parti zuccherine di frutta e verdura La Guida del Gambero Rosso colloca le pizze del Ristorante Val Pomaro tra le migliori d’Italia. Pizze ovviamente “Gourmet” ossia con topping, o farcitura che dir si voglia, realizzato con i prodotti della cucina. Già questo sarebbe un punto di forza, perché in dispensa ci sono solo i migliori prodotti del territorio, ma l’asso nella manica è la passione per le lavorazioni lievitate di Andrea Cesarone e della moglie Lazzarina Bonello, che con i suoceri Orazio e Anna, ha portato lo storico ristorante ad essere un punto di riferimento per gli appassionati di paste croccanti, leggere e ad alta digeribilità. Sono ben 15 le specialità in menù, divise in tre tipologie: la Classica, tonda e stesa, la Vaporosa alta e assimilabile alla "pizza in teglino" e la Mezzafarina, rettangolare croccante e alveolata sulla tipologia della "pizza alla romana". Tutte hanno come comune denominatore le farine biologiche del Molino Grassi di Parma, una multicereali per la Classica e la Vaporosa e una Farina del Miracolo per l’ultima, ovviamente lievito di birra, ma in percentuali ridottissime che vanno dallo 0,5% all'1%, e 36 ore di lievitazione. Il risultato non può dar torto agli esperti del Gambero Rosso, è veramente il “top”. Il giusto compendio è offerto dalle birra artigianale di Matthias Müller: la ricca selezione inserita nella carta condivide con le pizze la natura biologica, perché la “naturalezza” del prodotto è sempre una qualità. La novità per l’anno che va ad incominciare è la “pizza a fermentazione spontanea” ossia senza lieviti ma con fermenti ottenuti dalle parti zuccherine di frutta e verdura. Quindi ancora più leggera e adatta anche a chi finora è rimasto lontano dalla pizza a causa dell’intolleranza ai lieviti. L'impasto viene preparato, lasciato riposare, poi viene fatta la pezzatura e fatto lievitare fino al raddoppio del volume, viene steso e ancora fatto lievitare e poi cotto. Solo in un secondo momento la pizza viene farcita con gli ingredienti scelti. È questo il segreto di una pizza gourmet croccante, leggera e ad alta digeribilità

Andrea oltre ad essere un grande chef, partecipa ai grandi master per il settore delle paste lievitate e offre consulenze a pizzerie

Aperto: A pranzo 12:00 - 14:30 A cena 19:30 - 22:30 Chiuso: Lunedì tutto il giorno Martedì a pranzo

RISTORANTE VAL POMARO Via Scalette, 19 - Arquà Petrarca (PD) - Tel. 0429 718229 - Cell. 320 6650364 www.ristorantevalpomaro.it - valpomaro@gmail.com


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Villa Momi�s ristorante ∙ pizzeria

BEAUTIFUL DAY Villa Momi's è il luogo ideale per matrimoni, cresime ed ogni altro tipo di ricorrenza. Per gli sposi e i loro invitati è riservata un'ospitalità particolare, con aree e intrattenimenti privati. Villa Momi's permette anche cene e pranzi di lavoro, con la massima tranquillità e distensione per i propri colloqui d'affari. Alla sera i locali sono destinati anche a chi desidera un po' di intimità, con un armonia che solo il lume di candela riesce a creare Due sale separate in due piani. Giardino estivo. Oltre 300 posti a sedere Locale rustico in chiave moderna unico nel suo genere, immerso nel verde

Cavarzere (VE) Loc. Santa Maria, 3/B - Tel. 0426 53538 - Chiuso il Lunedì - www.villamomis.it


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IPPOTERAPIA,

LA RIABILITAZIONE ATTRAVERSO IL CAVALLO Gli amici a quattro zampe stimolano l’attività ludica, oltre che l’esercizio fisico, e permettono di sostenere e raggiungere quegli obiettivi che fanno parte della rieducazione per persone che presentano problemi a livello sensoriale, cognitivo e comportamentale Il Centro Equestre Scuderia In Bloom di Maserà, un bellissimo centro sportivo immerso nel bel verde della campagna di Maserà di Padova, ci offre la possiblità di parlare di “Ippoterapia”, o “Terapia del cavallo”, qui portata avanti con profitto da qualche anno da un’equipe di psicologi e psicoterapeuti del Centro Clinico Stella Polare di Padova insieme agli istruttori del Centro. Ne parliamo con la dottoressa Ornella Mario. Intanto che cos’è l’ippoterapia? “Si può considerare come un complesso di tecniche rieducative rivolte a tutte quelle persone che presentano problemi a livello sensoriale, cognitivo e comportamentale. Si tratta di applicare le tecniche standard di riabilitazione con un mezzo particolare, il cavallo. Si avvale cioè delle competenze di psicologi, medici, fisioterapisti, psicomotricisti, terapisti occupazionali che, in collaborazione con pedagoghi ed istruttori d’equitazione, impostano il loro protocollo di riabilitazione e rieducazione abituale. Non si tratta quindi di una forma di equitazione, è invece una terapia”.

Da quando è una terapia riconosciuta? Nei paesi del Nord Europa il cavallo venne inserito nei programmi di riabilitazione già dopo la fine della Prima Guerra Mondiale, in Italia invece bisognò attende gli anni ’70 per vedere riconosciuta all’ippoterapia un valore curativo”. Perché il cavallo e non un altro animale? “Perché con il cavallo serve instaurare un rapporto, ci si affida a lui avendo però le redini del controllo in mano. Funziona appunto se si instaura un legame, una comunicazione, un modo comune di intendere lo spazio, il tempo, gli oggetti. E poi l’andatura del cavallo è quello più simile all’uomo, sì: è anche una questione di ritmo, il cavallo ci assomiglia. Bisogna però trovare il cavallo giusto”. E anche il modo giusto… “Innanzi tutto serve un avvicinamento graduale per superare tutte le paure e le diffidenze che un animale così grande e così autonomo può generare. Poi il cavallo stimola l’attività ludica, oltre che l’esercizio fisico, e permette di sostenere e raggiungere obiettivi. Le continue richieste di attenzione da parte

dell’animale autorizzano l’individuo a prendersi cura di un altro essere vivente, incitandolo verso incarichi e responsabilità favorendo i contatti interpersonali e contrastando l’isolamento. La fiducia, inoltre, riduce notevolmente lo stato ansioso e stimola l’individuo ad avere un atteggiamento sicuro, tranquillo, aperto alla relazione con altri esseri umani”. Che tipo di attività vengono svolte? Per ogni utente viene predisposto uno specifico piano d’intervento in ragione ai tempi e ai modi della terapia riabilitativa. Si tratta di diverse attività motorie, sul piano cognitivo, anche svolte a terra, fino all’occuparsi degli animali, al loro benessere. Si lavora in gruppo o individualmente, l’importante è raggiungere gli obiettivi”. Ci si riesce sempre? “Sempre. I miglioramenti sono progressivi a patto che venga portata avanti con costanza, come uno sport o un hobby: di fatto è un’attività ludica da fare una due volte la settimana e che accompagna le altre “cose” della vita di tutti i giorni. Gli studi e le analisi dimostrano che la terapia a cavallo trova la sua indicazione, oltre che nelle patologie conseguenti alla paralisi cerebrale, all’autismo e alla sindrome di Down, anche alle patologie conseguenti a traumi per infortuni stradali o sul lavoro. Ma fa bene a tutti”.

Il Centro Equestre Scuderia in Bloom è anche scuola di equitazione per lezioni individuali o di gruppo, sia per principianti che per esperti per le discipline “ostacoli”, “dressage” e “completo”. Centro Equestre Scuderia in Bloom: Consuelo 347 7974056 - Alessia 380 7184432 Dott.ssa Ornella Mario 347 4257865

CENTRO EQUESTRE SCUDERIA IN BLOOM - Via Pola, 11 - 35020 Maserà Di Padova (PD)


INGIROPIEDANDO di Martina Toso

Nona Edizione

DELLA CENA DEGLI SFOGETI, CON SORPRESE E COOKING SHOW Flavio Colantuoni si aggiudica la prima edizione del Premio “Sfogeto Sgajo”

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lavio Colantuoni ha aperto la serie. È stato lui il primo premiato con lo “Sfogeto Sgajo”, riconoscimento creato dalla Confraternita dei Sfogeti che riunisce un centinaio di giornalisti enogastronomici del Nord Italia. Colantuoni è stato scelto dalla giuria del premio, presieduta dal giornalista Renato Malaman, per la sua invidiabile carriera, costellata di successi. L’ultimo dei quali è la conquista della Stella Michelin da parte del ristorante “Il Refettorio”, che fa parte del Monastero Santa Rosa, resort di Conca dei Marini che Colantuoni dirige dall’apertura - avvenuta nel maggio del 2012 - e che attualmente è segnalato da molte guide internazionali come una delle soste più belle del mondo. Di recente Forbes lo ha segnalato come il 36° nella classifica mondiale.

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A consegnare il premio a Colantuoni è stato Emanuele Boaretto, presidente di FederAlberghi Abano Montegrotto e presidente nazionale di FederAlberghi Terme. “Un professionista unico - lo ha definito - capace di coniugare il lusso alla semplicità”. A rendere suggestiva la premiazione, inoltre, la schiera di quasi cento “penne” dell’enogastronomia, richiamate dalla nona edizione della “cena degli sfogeti”, e la bellezza del ristorante Tavern di Villa Cornèr che da ben nove edizioni accoglie questo singolare evento enogastronomico. Ne è uscita una serata da incorniciare, a partire dagli antipasti: con gli show cooking di Fabio Legnaro dell’ Antica Trattoria Ballotta, con raclette irrobustita dai salumi Bazza e la girolle di Tête de Moine farcita di marmellata Luxardo, di Roberto Zanca di


INGIROPIEDANDO AcquaSalata dello stabilimento balneare Sabbia&Sale (notevole la sua tartara di tonno selezione A.Mare) e di Marco Volpin del ristorante Le Tentazioni di Villatora di Saonara, che ha preparato un mini hamburger di crostacei con i gamberi e le granseole forniti da C.a.m-Ittica. A tavola l’Impepata di cozze, preparata dagli chef del Tavern con il pomodoro Pera d’Abruzzo e Olio Aprutino Pescarese DOP; a seguire il risotto con il Vialone nano Melotti allo zafferano d’Aquila DOP e seppie al nero. Infine gli attesissimi sfogeti fritti, ma anche “moletti” (merlani), patarace (zanchette), “schie” e “sardée” del vicino mare di Chioggia. Il tutto accompagnato da prestigiose etichette di note aziende del Triveneto e Lombardia: il Lessini Durello 36 mesi metodo classico Gianni Tessari, Soave Classico e Pinot Nero Gianni Tessari , Villa Parens di Giovanni ed Elisabetta Puiatti, Bèlon Du Bèlon bollicine di Franciacorta, il rosso ideale di Giorgio Salvan, il Prosecco Terre di San Venanzio, il recioto Tommasi, e, oltre al Serprino, il Moscato Giallo Docg dei Colli Euganei. Dulcis in fundo i dolci di Loison (panettone e macarons) e la millefoglie con gocce di cioccolato dell’Antica Trattoria da Ballotta. Nata come un momento tra pochi amici giornalisti, la “cena degli sfogeti” è diventata una vera e propria istituzione e oggi anche un evento la cui autorevolezza permette l’assegnazione di un premio ad una figura di spicco del grande mondo del bien-vivre internazionale.

Foto di Valentina Galimberti Ballarin

Colantuoni vanta un’invidiabile carriera nell’ambito dell’hotellerie internazionale di alto livello. Partito tanti anni fa dalla natia Montegrotto, ha collezionato soddisfazioni di rilievo in ogni contesto turistico importante, come Parigi, St. Moritz, Londra, Venezia, Terme Euganee e infine Costiera Amalfitana, al Monastero Santa Rosa, dove il suo primo ospite è stato il principe Alberto di Monaco

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Macelleria, gastronomia e ristorante La scelta si fa solo in ragione al tempo a disposizione, perché la qualità è la stessa e la linea dell’offerta e dettata dalla tradizione Il vivere moderno è sicuramente caratterizzato dal rapporto con il tempo. Non ce n’è mai. Neanche per cucinare, ma soprattutto per cucinare bene. La carne, tra l’altro, è un prodotto pregiato e delicato: poca cura molto spesso significa mortificare una spesa e avvilire un prodotto di qualità. A meno che per i propri acquisti di carne non ci rivolga alla macelleria Le Carni di Borsea, perché qui l’offerta è organizzata proprio in ragione del tempo e per permettere a chiunque di portare in tavola piatti genuini preparati come tradizione raccomanda. Perché a fianco di un banco carni che raccoglie il meglio delle produzioni locali, selezionate personalmente dal patron Marco Verza che di macelleria si occupa da ben quarant’anni, esiste una linea di prodotti già pronti per essere portati in tavola. E per chi non avesse neanche il tempo di stendere la tovaglia, il tavolo lo trova già apparecchiato qui sia a mezzogiorno che a cena.

Tutto il sapore delle tradizione, solo da portare a tavola:

Per completare la spesa, tanti marchi d’eccellenza:

stinco, nervetti, trippa, musso, sughi già pronti

il riso del Delta, la giardiniera di Morgan, paste artigianali

Tutto preparato dalla cucina del ristorante

dei pastifici locali, le migliori selezioni di formaggi, conserve e prodotti per la dispensa

OSTERIA VINERIA LE CARNI via Savonarola, 60/C - 45030 Borsea (RO) - info@lecarniborsea.it -

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Mulini natanti,

STORIA E DINTORNI di Mauro Gambin

PER SECOLI CENTRI DELL’ECONOMIA DELL’ACQUA Il mugnaio era un artigiano considerato, tra i popolani era sicuramente tra i più agiati. La sua “arte” veniva trasmessa da padre in figlio e per questo erano preferiti i matrimoni tra persone appartenenti alla categoria: una vera e propria casta

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a leggenda narra che la celebre “pinza alla munara” sia stata involontariamente inventata da un mugnaio che, rimasto isolato a causa di una piena sul suo mulino galleggiante, non poté essere rifornito dalla famiglia dalla solita sporta con i viveri e dovette arrangiarsi. Per non morire di fame prese della farina, fece una sfoglia, la unse con l’olio del lumino che ardeva davanti all’immagine di Sant’Antonio Abate, la ripiegò e la pose sulla fogara, l’unica fonte

Nella foto Albano Bettagno di Masi, la sua famiglia deteneva un mulino sull’Adige. Anche dopo la cessazione di questa attività Albano si spese molto per mantenerne viva la memoria. Costruì molte riproduzioni, modellini ma anche copie a grandezza naturale

di calore nelle notti di burrasca per il mugnaio. Cosa ci sia di vero è difficile dirlo, ma è così che il Polesine racconta la genesi di uno dei suoi piatti più caratteristici. Questa storia o questa focaccia possono essere anche lette con la capacità di adattamento degli uomini e delle donne del passato alla vita difficile, a fronteggiare le emergenze con senso pratico e trovare soluzioni anche nelle circostanze più disperate. In questo senso, il ritratto al territorio è alla sua storia rimane comunque fedele. Autentico. Del resto sarebbe stato un paradosso che proprio il mugnaio fosse morto di fame! Uomo scaltro, “all’astuzia del munaro no gh’è mai nessun riparo”, capace di “magheggiare” con pesi, tare e “volativa” (la parte che andava inevitabilmente persa durante la molitura) difficilmente il cambio tra grani conferiti e farine era a suo svantaggio. Tra i popolani era sicuramente tra i più agiati, un artigiano si direbbe oggi considerato e, visto che l’arte si trasmetteva di padre in figlio, erano preferiti i matrimoni tra persone appartenenti alla categoria: una vera e propria casta. I “munari” si occupavano non solo della macina dei cereali, ma trituravano terre coloranti, zolfo, calcina e corteccia di quercia per la concia delle pelli. La professione era caratteristica nelle aree attraversate dai grandi fiu-

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STORIA E DINTORNI

Sui due o tre scafi, detti sandoni, con la prua orientata contro corrente, poggiava la costruzione incatramata di legno d’abete o pioppo a pianta quadrata, i cui lati misuravano da 10 a 13 metri. La rota idraulica a pale era larga anche 5 metri e col diametro di 4

mi, dove i mulini erano diffusi per sfruttare la forza della corrente dell’acqua, necessaria a imprimere il movimento rotatorio delle possenti macine in pietra. Uomo anfibio, diviso tra terra e acqua, la sua vita era condotta in totale dipendenza dal suo opificio galleggiante, dove a fianco della cabina di lavorazione, vero intrico di ingranaggi e cinghie di trasmissione, aveva la sua abitazione. La legislazione ottocentesca del Regno Lombardo-Veneto, infatti, imponeva che il mulino fosse sempre custodito, soprattutto nei momenti più critici del fiume, ma così deve sempre essere stato a cominciare dai secoli centrali del Medioevo, quando si hanno le prime notizie di queste piccole industrie fluviali. È la giurisprudenza, non a caso, a restituire il maggior numero di informazioni: liti tra mugnai, abusi, ingorghi di natanti tanto da occludere lo spazio al resto del traffico fluviale, sanzionati assai severamente soprattutto nei momenti di maggior concentrazione. Nel 1480 i documenti storici attestano la presenza di 7 mulini na-

I “munari” si occupavano non solo della macina dei cereali, ma trituravano terre coloranti, zolfo, calcina e corteccia di quercia per la concia delle pelli 42

tanti fra Boara Polesine, Lusia e Concadirame, mulini che si moltiplicarono negli anni fino a raggiungere i 42 esemplari nel 1575 e i 52 nel 1584. Nel 1590, nella parte padovana dell’Adige se ne enumeravano 40, mentre gli esemplari nel Polesine erano 25. La scelta della localizzazione di un mulino natante, del resto, derivava dalla necessità di trovare il sito perfetto: dove la corrente del fiume aveva la giusta forza per alimentare le pale, dove fosse possibile ancorare il mulino alla riva, dove la morfologia delle rive permettesse l’abbassamento e l’innalzamento delle strutture di ancoraggio del mulino in base alle fluttuazioni del fiume, un luogo comodo non solo per i fornitori di materia prima, ma anche per i consumatori. Il mulino era: bottega, casa e imbarcazione e il mugnaio era spesso anche il “maestro d’ascia”, cioè costruiva da se il proprio mulino, compresa la complessa congegneria di ingranaggi, fibbie, buratti o setacci, e i meccanismi moltiplicatori dei giri dell’albero motore con le quali si perfezionava la molitura. Sui due o tre scafi, detti sandoni, con la prua orientata contro corrente, poggiava la costruzione incatramata di legno d’abete o pioppo a pianta quadrata, i cui lati misuravano da 10 a 13 metri. La rota idraulica a pale era larga anche 5 metri e col diametro di 4. Era collegato alla riva dalla “peagna”, una passerella percorribile a piedi, ma per


STORIA E DINTORNI

La vita del mugnaio era condotta in totale dipendenza dal suo opificio galleggiante, dove a fianco della cabina di lavorazione, vero intrico di ingranaggi e cinghie di trasmissione, aveva la sua abitazione

legge doveva essere fissato mediante un palo conficcato nell’acqua o con una corda o catena all’argine. Le distanze erano importanti, dovevano essere collocati in modo da lasciare intravedere il fiume 500 metri a valle e 500 metri a monte, da mulino a mulino non dovevano esserci meno di 12 metri e la stessa distanza doveva essere rispettata dalla riva, per non danneggiare la sponda. Verso il centro del fiume invece, lo spazio lasciato libero non poteva essere inferiore agli 80 metri, in modo che la navigazione non ne venisse intralciata. Sul tetto del mulino, inoltre, dovevano essere fissate delle barre che permettessero lo scorrimento delle funi dei “cavalanti” che dalla “banca” dell’argine trainavano le imbarcazioni per farle risalire controcorrente. Era questo il traffico del tempo, un traffico diverso: su strade di acqua dove la stessa sostanza era via e motore, forza motrice, elemento della vita e base di un’economia possibile. Con la diffusione delle rete elettrica la corrente del fiume divenne inevitabilmente fuori corso, la modernità richiese i suoi sacrifici e per i mugnai si trattò di abbandonare i loro opifici. Per secoli erano stati elementi portanti dell’economia dell’acqua, ma bastò una legge e non vennero più riconfermate le concessioni per le “poste” nei fiumi. Questo articolo, nelle parti relative agli aspetti tecnici dei mulini, cita quello di Angelo Montagnolo, pubblicato nel trimestrale “L’Adese” anno II, n. 2 - settembre 2001 - pp 1 -2

Ricostruzione di un antico mulino galleggiante, in esposizione al Museo dei Barcari di Battaglia terme

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La Chianina Veneta, A Stanghella niente da invidiare alla Toscana ALLEVAMENTO E VENDITA DIRETTA DI CARNI DI ECCELLENZA GARANTITE E CERTIFICATE CCBI, ANABIC ECCELLENZA ITALIANA 2018 La chianina è l’eccellenza delle carni e a Stanghella questo nobile bovino viene allevato dal 1999 con tecniche rispettose del benessere dell’animale e orientate al più alto livello di sicurezza qualitativa per il consumatore. Chianina Veneta, infatti, significa che è nata e allevata qui, ma soprattutto che l’alimentazione necessaria al suo accrescimento è stata prodotta in azienda. Il controllo della qualità infatti si estende dalla campagna alla stalla fino al bancone della macelleria da parte del Consorzio della Chianina, questo per il consumatore si traduce in qualità per la propria spesa e tracciabilità certa sulla provenienza della carni da portare in tavola. La carne di Chianina non si presta solo per essere fatta alla griglia ma è ottima per ogni impiego in cucina. Grazie al basso contenuto di colesterolo e all’alta presenza di Omega 3 ha alti valori nutrizionali e poi c’è tutto il valore di una carne elegante, dalla grana fine, la cui morbidezza è garantita da un grasso di superficie naturale favorito La macellazione avviene in stabilimenti selezionati e la frollatura in azienda, in modo da controllare nelle cinque settimane di procedimento la perfetta morbidezza delle carni da un’alimentazione sana.

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LA FORMA DEL LATTE di Michele Grassi

QUANDO LA PERDITA DELLA TRADIZIONE NON È UN TABÙ Nella produzione casearia l’igiene oggi viene prima di tutto, perché in un settore “battericamente” delicato come questo è garanzia della qualità del risultato. Per questo oggi alcuni dei vecchi sistemi caseari sono del tutto anacronistici

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a conservazione del latte è da sempre un’azione di grande importanza, che nel tempo ha mutato la sua finalità. Anticamente l’unico modo di mantenere il latte era quello di trasformarlo in formaggio solitamente a pasta dura, in quanto più durevole e facile da stagionare, utilizzabile soprattutto nel periodo invernale durante il quale gli animali, le pecore e le capre, non venivano munti per lasciare loro il tempo di riprendersi dalle fatiche del pascolo e prepararsi al parto. Era quindi essenziale preoccuparsi di non sprecare il primario alimento dei mammiferi.

Non tanto lontano dai nostri tempi, basta pensare al vicino XIX secolo, fare formaggio aveva un solo significato, quello di provvedere al fabbisogno famigliare raccogliendo il latte dopo la mungitura e, senza alcun riscaldamento, coagularlo con l’utilizzo di caglio preparato in casa. Le tecniche utilizzate erano di estrema semplicità, era sufficiente una pentola o un paiolo, spesso di rame, e uno spino di legno ricavato da un pollone di biancospino o di pero selvatico che, anche oggi, cresce diritto alla base dei tronchi, composto da rametti che

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LA FORMA DEL LATTE

Le differenze tecnologiche rispetto a 100 anni fa sono molte e sono influenzate dalla consapevolezza delle mutazioni chimiche e fisiche che avvengono nel latte, ma soprattutto dalla conoscenza della microbiologia spuntano in modo alternato. Un attrezzo che la natura dona al casaro per rompere la cagliata. Il pastore che si occupava di fare formaggio non era a conoscenza di quanto, queste semplici attrezzature, fossero determinanti per le mutazioni che avvenivano al latte durante la trasformazione. Ma la scarsa, se non nulla, conoscenza delle azioni microbiche, impediva di capire il perché molto spesso i formaggi assumevano difetti, a volte irrimediabili, che forse non erano considerati tali. Quindi le fermentazioni che s’innescavano nel latte potevano essere utili o dannose alla trasformazione casearia. Oggi, diversamente, conosciamo a fondo le implicazioni che gli attrezzi di legno possono portare durante la lavorazione e di conseguenza durante la maturazione del formaggio, causate da quella carica batterica originaria che promuove le fermentazioni nel latte. Non ci è data la possibilità di conoscere la qualità del formaggio ottenuto cent’anni fa, non c’eravamo e, sicuramente il metodo di giudizio era diverso da quello di oggi, che spesso è critico, costruttivo. Oggi, le differenze tecnologiche rispetto a 100 anni fa, o anche meno, sono molte e sono influenzate dalla consapevolezza delle mutazioni chimiche e fisiche che avvengono nel latte in caldaia, ma soprattutto dalla conoscenza della microbiologia, importan-

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te scienza che studia gli esseri viventi microscopici. Queste attuali cognizioni portano a considerare l’aspetto prioritario nelle trasformazioni alimentari e in particolare in quelle casearie, l’igiene. Il latte è sensibilissimo alle contaminazioni, sia esse positive, ovvero quelle che consentono corrette fermentazioni, che negative spesso anti casearie e, per fortuna molto raramente, patogene. Le fermentazioni anti casearie sono quindi le responsabili dei difetti dei formaggi e vanno contrastate per evitare, soprattutto nei formaggi a pasta molle freschi, l’insorgere di patologie. Tutto ciò non vuole essere allarmistico e non toglie che le normative vigenti consentano di lavorare latte crudo, ovvero quel latte che non subisce risanamento determinato dalla pastorizzazione. È propio qui il bello della conoscenza moderna, poter lavorare in sicurezza un latte dalle importanti caratteristiche nutrizionali, chimiche, e batteriologiche, proprio come si faceva tanti anni fa. Lavorare latte crudo oggi non è più un’azione affidata al caso, i controlli igienico-sanitari degli organismi di controllo consentono al pastore come al casaro artigianale o industriale, di trasformare la materia prima in formaggi dal sicuro risultato, sia organolettico sia sanitario. Sono tante le mutazioni tecnologiche avvenute negli ultimi anni, e sono sicuramente di grande importanza


LA FORMA DEL LATTE

Rottura della cagliata: per la rottura della cagliata un tempo si usava uno spino di legno ricavato da un pollone di biancospino o di pero selvatico che cresce diritto alla base dei tronchi, composto da rametti che spuntano in modo alternato. Oggi invece si usano uno strumento analogo ma in acciaio

Oggi abbiamo la capacità di operare con controllate azioni per ottenere starter naturali, come il “lattoinnesto” o il “sieroinnesto”, agenti microbici autoctoni, che emulano la carica batterica nelle attrezzature di un tempo anche se spesso hanno portato all’abbandono delle tecniche antiche per quelle moderne soprattutto nelle attrezzature come le caldaie che un tempo erano riscaldate dal fuoco a legna o come lo spino di legno, oggi di acciaio. Queste mutazioni hanno determinato un profondo cambiamento delle caratteristiche organolettiche del formaggio, che in molti casi possono essere considerate del tutto migliorative. Per meglio comprendere quest’aspetto di cambiamento radicale legato alla trasformazione casearia, è bene sapere che la sua fase più importante è quella dell’innesto di batteri lattici nel latte, che è causa principale delle fermentazioni anche successive nel formaggio. Oggi abbiamo la capacità di operare direttamente in caseificio, con controllate azioni, per ottenere starter naturali come il “lattoinnesto” o il “sieroinnesto”, agenti microbici autoctoni, che emulano la carica bat-

terica intrisa nello spino di legno, capaci di concedere fermentazioni utili e di conseguenza risultati positivi. Da tutto ciò si evince che le tecniche tradizionali antiche possono essere ancora attuate se il latte utilizzato detiene caratteristiche chimiche e batteriche di elevata qualità, magari con l’utilizzo d’innesti naturali e naturalmente con la capacità del casaro di guidare correttamente il processo di trasformazione. I valori di un tempo, le tradizioni, le tecniche antiche, insieme alla conoscenza che oggi abbiamo sia per ottenere latte di qualità che per trasformarlo, ci portano a considerare che è grande la responsabilità degli attuali operatore del settore caseario, in quanto non solo devono salvaguardare la tipicità dei formaggi tramandataci dai nostri padri, ma lasciare in eredità quelle tecniche che possono migliorare qualitativamente il formaggio, proprio per la consapevolezza di ciò che avviene durante la trasformazione. Tradizione, tipicità, conoscenza, non possono quindi viaggiare separati, il tempo l’ha dimostrato e proverà che anche lo spino di legno da sempre utilizzato può seguitare a concedere valori positivi ed elevate caratteristiche organolettiche al formaggio che, proprio per questi valori, continuerà a essere espressione della nostra storia.

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LA RECENSIONE di Renato Malaman

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PERCHÈ

Recensione

SMARRIRSI NEL “BOSCO” FRA SAPORI E RICORDI

Renato Malaman, noto enogastronomo padovano, visita per la nostra rivista i ristoranti della Bassa Padovana, dell’area euganea e dei territori limitrofi più ricchi di tradizione, per raccontare storie, personaggi e piatti che nel tempo li hanno resi celebri. Esprimendo anche una sua valutazione sulla qualità attuale della proposta

L’antica trattoria di Montegrotto Terme da 36 anni è un punto di riferimento nella ristorazione euganea d’autore. La famiglia Tasinato, forte di una storia con richiami internazionali, ha trovato la giusta sintesi fra eleganza, gusto e idee nuove

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rancesco Tasinato non ama i riflettori, eppure la sua passione è far star bene i suoi clienti. È un personaggio che va scoperto un po’ alla volta, con discrezione. Di storie da raccontare ne ha tante. Come quando al Palace di Gstaad, in Svizzera, (dove allora Francesco faceva il maitre) Ted Kennedy, fratello di John e Robert, gli regalò una sua foto con dedica. Si fidava di lui. Il passato fulgido di Francesco Tasinato, famoso anche per essere tuttora un esperto allevatore di cavalli da ippodromo (Belanda e altri campioni sono passati dalla sua scuderia), è una premessa per capire da dove nasce il progetto dell’Antica trattoria Al Bosco, locale che sorge su un’amena altura da cui si gode un bel panorama sulle terme e che la famiglia Tasinato ha aperto 36 anni fa. La passione di ieri è quella di oggi. Quella di Francesco e della moglie Giovanna e pure quella di Daniele, il figlio laureato in legge che ha deciso di dare continuità all’avventura imprenditoriale del “Bosco”. Il ristorante di Montegrotto Terme oggi fa della versatilità la sua forza, in quanto è anche un’apprezzata sosta per banchetti e meeting (c’è pure un piccola sala congressi). Ma il valore al centro di tutto è sempre la tradizione, rispettata anche quando la cucina del locale ha fatto un salto di qualità, in termini di gusto e di raffinatezza. Conosciamo il “Bosco” da anni e diciamo subito che l’upgrade è evidente. Una crescita che riguarda sia gli ambienti, oggi particolarmente belli, che i contenuti dei

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“Un risotto con seppie al nero e marinate dal piacevole equilibrio di sapori e di consistenze”


LA RECENSIONE “Del buon baccalà alla Vicentina che in un locale di tradizione non deve mancare mai”

piatti. Nel corso della nostra visita abbiamo innanzitutto apprezzato la leggerezza e l’eleganza dell’allestimento delle sale, nonché l’accuratezza del servizio diretto dallo stesso Daniele, pure lui passato dopo la laurea attraverso esperienze significative in realtà importanti dell’hotellerie internazionale. La cena. Abbiamo assaggiato un delicato consommé aromatizzato al Porto (servito su una stoviglia adeguata), una bella composizione di pregiati scampi crudi, del salame di casa scottato (dopo le feste natalizie è la sua stagione giusta) servito con il radicchietto, un risotto con seppie al nero e marinate (che piacevole equilibrio di sapori e di consistenze!), del buon baccalà alla Vicentina che in un locale di tradizione non deve mancare mai e una mini porzione di quella carne alla brace di bovino piemontese che resta il must del locale, per qualità della materia prima e cottura magistrale. Auspichiamo che anche quel risotto con le seppie rimanga a lungo nella proposta del ristorante, perché è buono, semplice e originale. Tra i piatti che hanno celebrato il locale figurano anche la selvaggina, la gallina padovana (quella vera, con il ciuffo, recuperata da alcuni allevatori padovani), la faraona ripiena e le cotolette d’agnello. Sempre presenti in menu anche la pasta fatta in casa con il ragù del Bosco, che è fatto con pancetta, porcini, olive e peperoni. I cuochi sono tutti locali: Donato Braggion, Claudio Maniero e l’oriundo Massimiliano Lapenna. L’amore per il territorio di appartenenza lo si nota anche nella carta dei vini dove le proposte legate ai Colli Euganei sono numerose. Lo si vede anche nella disponibilità dei Tasinato a ospitare molti eventi curati da associazioni del posto, come l’Amira (che riunisce i maitre) e l’Ais. L’Antica trattoria Al Bosco è molto affollata anche d’estate per effetto dell’ampio spazio sotto le stelle che permette di godere di un microclima fresco e arieggiato. L’ideale per fuggire Il giornalista Renato Malaman con la famiglia Tasinato e gli chef dall’afa del Ferragosto.

La Pagella

di Con i piedi per terra

⊲ Uso delle materie prime del territorio

⊲ Piatti in menù che seguono la stagionalità ⊲ Rielaborazione dei piatti della tradizione secondo fantasia e creatività ⊲ Accoglienza ⊲ Abbinamento vini ⊲ Rapporto qualità-prezzo


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VIGNE AL COLLE, il temperamento vulcanico dei colli euganei Del resto qui è il territorio che può dire la sua ad alta voce, ossia esprimere quella mineralità e sapidità, provenienti da un suolo composto da antiche argille e rocce vulcaniche, che caratterizza l’intera produzione, divisa tra Doc e Docg, ma che nei bianchi rappresenta l’autentico valore aggiunto La cura dei vigneti che dal dolce promontorio di Rovolon affacciano verso Nord è una pratica che all’azienda Vigne al Colle viene trasmessa di padre in figlio da ben tre generazioni. Nonno Grazioso fu l’antesignano di un certo modo di produrre vino, in questa parte dei Colli Euganei, e ancora quella filosofia resta valida, ancorata al valore delle terra, al rispetto della Natura, alle pratiche che in cantina distinguono l’antica arte del fare vino da quelle del chimico industriale. Non a caso l’azienda è affiliata alla Federazione Italiana Vignaioli Indipendenti, ossia la certificazione di una produzione ancora artigianale ed ecosostenibile. Del resto qui è il territorio che può dire la sua ad alta voce, ossia esprimere quella mineralità, proveniente da un suolo composto da antiche argille e rocce vulcaniche, che caratterizza l’intera produzione, divisa tra Doc e Docg, ma che nei bianchi rappresenta l’autentico valore aggiunto. Valore pienamente rispettato dalla vinificazione, improntata nel salvaguardare la qualità prodotta dal campo. Anche questa e maestria e appunto opere d’arte sono le bottiglie che escono dalla cantina: La Prima Volta: il Serprino tradizionale, la bollicina euganea sur lies

Baccari: Colli euganei bianco DOC fresco, dai profumi floreali

Passo delle Streghe: Bianco aromatico, il moscato secco dell’Azienda

Serprino: Colli Euganei Serprino millesimato Doc Extra Dry

Crea: Pinot Bianco, l’ultimo nato della casa

Fior d’Arancio Docg: l’immagine dolce dei Colli Euganei

Rose Mary: il rosato frizzante dall’animo femminile

La cantina è aperta dal lunedì al sabato: dalle 9:00 alle 12:00 e dalle 15:00 alle 19:00 Domenica e festivi: dalle 9:00 alle 12:00 Tutti i giorni, ma esclusivamente su prenotazione, la cantina offre la possibilità di visite guidate e degustazioni delle proprie bottiglie in abbinamento a saporiti “spunciotti”, rigorosamente della casa AZIENDA VITIVINICOLA VIGNE AL COLLE DI BENATO MARTINO & C S.S. Via Palazzina, 98 - 35030 Rovolon (PD) info@vignealcolle.com - M. 348 0139109 - T. 049 5227009


Il Pinello

DIVINO PARLAR

di Silvano Bizzaro - Sommelier s.bizzaro@alice.it

L’AUTOCTONO DEI COLLI EUGANEI RISCOPERTO

U

n vino da un vitigno autoctono, l’uva Pinella, dei più rari dei Colli Euganei, rivalorizzato in purezza fino ad ottenere un vino semplice, beverino, simpatico e leggermente frizzante. Come tante altre varietà era scomparso verso la metà dell’Ottocento a causa della “filossera”, il terribile insetto che attacca le radici della pianta, ma fortunatamente è stato recuperato e riportato in auge agli inizi degli anni ’80. Una delle cantine che ha reso possibile questo recupero è proprio quella di cui ho deciso di parlarvi in questo numero: Antichi Reassi, dell’infaticabile Francesca Callegaro di Carbonara di Rovolon. Reassi del resto significa legame profondo con il territorio, essendo il termine stesso un’indicazione della natura del territorio in cui si trovano i vigneti. Reassi significa franoso. Tuttavia il loro Pinello è bello piantato a terra in tutti i sensi. Dalla natura del territorio euganeo, caratterizzato da depositi alluvionali e rocce vulcaniche disgregate, riceve vivacità, finezza e piacevolezza gustativa. Di colore giallo paglierino, il

profumo è molto fruttato e il gusto decisamente fresco. Il suo piacevole petillant è ideale con aperitivi, pietanze di pesce e formaggi delicati. Utilizzato come vino da taglio tra gli anni ‘70-‘80, oggi viene vinificato in purezza nei territori comunali di Rovolon, Vo’ e Cinto Euganeo, nelle versioni Frizzante e Spumante Charmat (con la modifica al disciplinare nel 2011). Viene prodotto anche in versione base fermo sfuso anche da alcuni produttori.

La Scheda di Con i piedi per terra ⊲ ANALISI VISIVA

Giallo paglierino con riflessi verdolini; brillante, luminoso e cristallino

⊲ ANALISI OLFATTIVA

Complesso con note floreali e fruttate: fiori di acacia, castagno, lievi note di gelsomino; una pera matura e lievi note esotiche (ananas) ne completano il corredo aromatico

⊲ ANALISI GUSTATIVA

Tipicamente acidulo e leggermente frizzante; discreta avvolgenza con buona freschezza e sapidità; graziato da una nota morbida. Nel complesso sufficientemente armonico ed equilibrato. Finale corto ma addolcito da una delicata nota mandorlata

⊲ ABBINAMENTO

Accattivante come aperitivo e ideale compagno di spuntini soprattutto a base di pesce e carni bianche. Primi piatti leggeri come risotti alle erbette di primavera, alle carni bianche; ideale con formaggi freschi e delicati

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A OGNUNO IL SUO CALICE… di Emanuele Cenghiaro

SOAVE

CHARDONNAY

ROSÈ

BONARDA

NERO D’AVOLA

MERLOT

PINOT NERO

PASSITO

PORTO

CHAMPAGNE PROSECCO

MOSCATO

BOTTIGLIA CHE TROVI, STORIA CHE INCONTRI Cinque etichette regionali da conoscere e da degustare

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orniamo a viaggiare per il Veneto con la nostra rubrica dedicata alla scoperta di etichette note e meno note, di vini da provare, di storie enologiche da conoscere. Dopo l’escursione natalizia tra le bottiglie delle feste, torniamo a proporre una Celebrità (i vini di cui avete forse sentito parlare e una vol-

ta almeno vi piacerebbe assaggiare), una Riscoperta (stavolta non un’uva bensì un metodo rivalutato), una Novità (curiosità), una Tradizione (andiamo sul sicuro!) e per finire una proposta per i Giovani (ma in realtà adatta a tutti).

LA CELEBRITÀ (VALDOBBIADENE - TREVISO) “GIUSTINO B.” DELLA CANTINA RUGGERI Un Prosecco “differente” Non tutti i Prosecco sono uguali: nella sterminata offerta tra cui è a volte difficile capire cosa valga di più, ci sono tuttavia delle etichette che ti fanno andare sul sicuro. Una è il “Giustino B.” della cantina Ruggeri. Si tratta di un Valdobbiadene Prosecco Superiore Docg Extra dry, raggiunge i 12 % vol, e si può veramente bere lungo tutto un pasto, anche se è particolarmente indicato per accompagnare antipasti e primi piatti. Il nome è una dedica a Giustino Bisol, che nel 1950 fu il fondatore della cantina Ruggeri: non poteva quindi essere che un prodotto di fascia elevata, che nasce da un’accurata selezione delle uve, vendem-

Una dedica a Giustino Bisol, che nel 1950 fu il fondatore della cantina Ruggeri: non poteva quindi essere che un prodotto di fascia elevata 52

miate in ottobre, frutto di un’estrema attenzione alle fasi di cantina. Il Giustino B. attende la presa di spuma riposando fino alla primavera successiva alla vendemmia, quando subisce una lenta rifermentazione in grandi recipienti chiusi e poi sosta sui lieviti per circa tre mesi, acquisendo finezza e struttura. Imbottigliato a giugno, va bevuto dopo settembre. Insomma, un Prosecco “differente”.


A OGNUNO IL SUO CALICE… LA NOVITÀ (LONIGO - VICENZA) MERLOT in purezza De’ Besi, “Punto” La famiglia De’ Besi, padovana di origine, ha trovato nei colli Berici undici ettari di terreno dove fare partire una nuova storia del vino, la propria. L’ha chiamata Punto zero, ovvero il luogo da cui tutto inizia. E lo sta facendo con validi risultati e in modo originale, per ora con solo cinque vini. Non c’è il tai, classico di queste parti, ma si è scelto di puntare sui bordolesi cabernet e

merlot, e persino il syrah: una Bolgheri veneta, insomma, che guarda anche alla valle del Rodano. Ma di mezzo c’è la Valpolicella, grazie all’esperienza dell’enologo Celestino Gaspari, grande allievo di Giuseppe Quintarelli, e alla raccolta manuale con appassimento delle uve, che dà vita a prodotti potenti e di carattere che tuttavia non perdono di vista la finezza. Così è per “Punto”, il vino ambasciatore della casa, merlot in purezza dal colore rosso rubino intenso e ricco di profumi, che lascia la bocca pienamente soddisfatta. Da provare anche “Idea”, il Cabernet Sauvignon, e “Dimezzo”, il classico taglio bordolese (cabernet sauvignon e cabernet franc più merlot).

Gli 11 ettari sui Berici sono una Bolgheri veneta che guarda anche alla valle del Rodano

PER I GIOVANI (MEZZANE DI SOTTO - VERONA) MAGÒ DI MASSIMAGO, per andare oltre il solito Spritz È una sorpresa Massimago, la cantina gestita a Mezzane di Sotto, in un’incantevole tenuta, da Camilla Rossi Chauvenet, agronoma padovana trapiantata nel veronese: giovani sono lei e il suo approccio all’uva e al vino, che in questo caso è un gigante che si chiama Amarone, oggi da uve coltivate secondo i dettami dell’agricolturae bio. Lasciamo però il gigante al suo posto (vale comunque la pena assaggiarlo) e presentiamo invece Magò, il rosato dell’azienda, vino frizzante da uva 100% corvina: è infatti perfetto per un aperitivo che non sia il solito Spritz o Prosecco Doc. Il colore non inganni: rosa non è sinonimo di vino debole, facile o, come spesso si potrebbe pensare quando si parla di rosati, “femminile”.

È invece un prodotto secco e dotato di spiccata acidità, che fa otto mesi sui lieviti: è consigliato provarlo anche con antipasti e con la pizza e non disdegna piatti di pesce con il sugo. Se poi si vuole qualcosa di più impegnativo, ecco il Profasio: è un Valpolicella Superiore frutto di un leggero appassimento delle uve. La vera essenza del territorio.

Il colore non inganni: rosa non è sinonimo di vino femminile. Questo è per tutti e con tutti 53


A OGNUNO IL SUO CALICE… LA RISCOPERTA (DUE CARRARE - PADOVA) FIOR D’ARANCIO SECCO, quello de La Mincana stupisce La villa che fu dei Dolfin e dal 1914 passò alla famiglia Dal Martello si erge a pochi passi dal casello autostradale di Terme Euganee, attirando l’attenzione di viaggiatori e turisti. Nella sua barchessa l’azienda La Mincana, condotta oggi da Artenio, pronipote e omonimo del fondatore, si lavorano le uve dei 190 ettari coltivati a vigneto, in gran parte compresi nella Doc Colli Euganei. Della dozzina di etichette che i Dal Martello sfornano ogni anno scegliamo forse la più originale, un Fior d’Arancio (moscato giallo) in versione ferma e secca che solo con la vendemmia 2014 è entrato a far parte della produzione in bottiglia. Possiede i profumi agrumati e esotici del Fior d’Arancio così come il suo colore brillante con riflessi dorati; tuttavia stupisce perché, una volta portato alla bocca, ci si aspetterebbe la dolcezza dello zucchero: invece no, ci avvolge una cascata aromatica e molto

secca, di buona acidità, che ci porta ad abbinarlo a piatti di pesce oppure di verdure, risotti in particolare. Tra i rossi della casa, da non perdere i bordolesi e l’autoctono Friularo (antico clone locale di raboso del Piave) Doc Bagnoli, anche in versione passita.

Una volta portato alla bocca ci si aspetterebbe la dolcezza dello zucchero, invece no: ci avvolge una cascata aromatica

LA TRADIZIONE (TREVISO E VENEZIA) PIAVE MALANOTTE, vinificarlo con l’uva passita fa parte della storia Abbiamo scelto non una cantina ma un territorio dove si faceva vino fin dal tempo dei romani. È quello della Piave Malanotte (o Malanotte del Piave), Docg dal 2010, che prende nome dall’omonimo borgo in comune di Vazzola, non lontano da Conegliano, ma il cui areale arriva fino al basso Piave veneziano e lambisce la laguna. Al centro vi è un unico vitigno, il raboso detto appunto “del Piave” (abbinabile, da disciplinare, in parte minoritaria anche al raboso veronese), e una tradizione contadina: vinificarlo con una parte di uva passita, che offre corpo e alcolicità al prodotto, e allo stesso tempo ne addolcisce spigoli e

Non può essere immesso al consumo se non dopo un invecchiamento di 36 mesi, di cui almeno dodici in botte e quattro in bottiglia 54

asprezze. L’enologia attuale ne estrae finezza ed eleganza, nonostante la potenza; il colore è rosso rubino intenso con riflessi violacei; i profumi vanno dalle marasche alle spezie. Il Piave Malanotte non può essere immesso al consumo se non dopo un invecchiamento di 36 mesi, di cui almeno dodici in botte e quattro in bottiglia. Abbinamento perfetto per piatti di carne, anche ricchi e strutturati. Esiste poi anche la versione passita, che si abbina bene alle torte al cioccolato e alle crostate di frutta rossa.


messaggio pubbliredazionale

TERRITORIO, TRADIZIONE E UNA PASSIONE PER IL VINO

CHE NON È MAI VENUTA MENO NEI TANTI ANNI DELLA NOSTRA STORIA

La stagione fredda esalta i nostri vini Non temono confronti con i piatti impegnativi dell’inverno e sono perfetti per assecondare la pasticceria del carnevale

24° Selezione Consorzio Vini Rossi Doc Colli Euganei

LA MINCANA - Via Mincana, 52 - 35020 Due Carrare (PD) - Tel. 049 525559 - Fax 049 525499 www.lamincana.it - info@lamincana.it


LA MEMORIA DI CARTA di Roberto Soliman

MA CHE

freddo FA

E CHE FACEVA!

La “mùnega” con rispettiva “fogàra de brònze” veniva posizionata in mezzo al letto prima di coricarsi. Un lavoro da “grandi”, il rischio di incendiare lenzuola e coperte era molto alto

Gli inverni del ‘29, del ‘56 e del 1985, sono entrati negli annuari come i più freddi dello scorso secolo, ma il gelido e lungo gennaio del 1985 (- 20°C) è stato percepito dalla popolazione della Bassa come meno freddo dell’analogo gennaio-febbraio del 1956, che a sua volta fu paragonato al gelo del ‘29, grazie al riscaldamento diffuso in ogni edificio pubblico e in tantissime case. Ma come si sopravviveva al Generale Inverno? Ricordi e strategie di un tempo dimenticato

F

orse la gelata del 1929 può essere considerata un colpo di coda della “piccola era glaciale”, iniziata a metà XIV secolo e terminata verso metà del XIX, periodo in cui i nostri avi dovevano veramente combattere contro le avversità naturali con armi spuntate e senza cure mediche necessarie per contrastare le malattie invernali. Infatti l’età media di quei tempi lontani si attestava sui 30 anni, causata da un’elevata mortalità infantile e da una vita che si protraeva con difficoltà fino ai 50-60. Molti erano i decessi invernali causati da catarro, e dalla “Febbre maligna”, come si scriveva nelle cronache parrocchiali

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del tempo. Per i bambini nati nei mesi invernali, per inciso, la mortalità era del 20-30%, a conseguenza anche dei colpi di freddo patiti per l’usanza di battezzarli a pochissimi giorni dalla nascita, e poi rimaneva alta anche negli anni successivi. Se dell’inverno del ‘29 ne sentivo parlare in casa come di un episodio grave, dove anche le vigne morirono squarciate dal ghiaccio, dell’inverno del ‘56 ho vaghi ma diretti (aimè) ricordi! Facevo le scuole elementari, e per recarmi in paese a scuola, a messa e a dottrina, dovevo percorrere in bicicletta quasi tre chilometri di strada malamente inghiaiata. Al mattino uscire dal


LA MEMORIA DI CARTA letto era un’impresa, bloccato come ero da un pesante strato di coperte e da un trapuntino sui piedi spesso una spanna per difendermi dal freddo che nella mia stanza da letto in tramontana era pungente. Le case contadine non avevano riscaldamento come quelle dei signori con un caminetto in ogni stanza; nelle nostre non c’era nemmeno il controsoffitto, ma semplicemente delle sottili tavelle e i coppi sopra, nient’altro! E alle finestre miseri balconi e telai pieni di spifferi con vetri sottilissimi. Una mattina, ricordo perfettamente, l’acqua del bicchiere che avevo sul comodino ghiacciata in superficie. Quindi dormivo a qualche grado sotto zero! La sera, per riscaldare artificialmente il letto, si sa, si ricorreva a la “mùnega” e alla “fogàra de brònze”, oggetti desiderati da collezionisti che evidentemente, per loro fortuna, non li hanno mai usati o se ne sono dimenticati. È come per gli appassionati dei vecchi trattori: è chiaro che non li hanno mai abbastanza usati e subiti come il sottoscritto! Gli oggetti da riscaldamento dovevano essere manovrati da mano adulta, pena l’incendio del letto e, una volta tolti da mia madre, saltavo sul caldo giaciglio coprendomi immediatamente mentre lei mi rimboccava le coperte, lasciandomi fuori solo gli occhi, a mò di mummia. Prima di coricarci, tutti facevamo la pipi nel vaso da notte, che veniva poi riposto nel comodino o sotto il letto. Nessuno si avventurava fuori di casa, nel cesso in fondo alla corte, con quelle temperature! Con l’amico Piero Dal Prà, una di queste sere, aiutati anche da un bicchiere di Cabernet contadino, abbiamo ricordato il suono che si generava nel vaso da notte in ferro smaltato quando noi maschietti orinavamo: sembrava una lunga nota di violino, con frequenza che partiva in alto e poi digradava man mano che il liquido cresceva nel vaso che faceva da cassa di risonanza. Cose che la modernità ha reso irripetibili! Il lavaggio degli occhi, al mattino, lo si faceva nel catino, con acqua intiepidita dalla cucina economica presente in ogni casa. Dopo la colazione c’era la cerimonia della vestizione! Già sotto avevo addosso le mutande lunghe e la flanella entrambe di lana felpata, oltre agli indumenti intimi; poi indossavo un paio di maglioni, i pantaloni grossi, i calzettoni di lana, le scarpe, la giacca, il pal-

Per i bambini nati nei mesi invernali la mortalità era del 20-30 %, a conseguenza anche dei colpi di freddo patiti per l’usanza di battezzarli a pochissimi giorni dalla nascita

L’inverno del ’29, fu tra i più gelidi del secolo scorso e l’ultimo in cui l’Adige gelò completamente, da sponda a sponda

tò, il passamontagna, la beretta, la sciarpa e i guanti! Da lì il detto: “Signore fame grande che grosso me fo mi!” La bicicletta era attrezzata con due specie di imbuti di pelo di coniglio rovesciato e fissati quasi agli estremi del manubrio dove mettevi le mani, per tenerle al caldo. Lo stesso arrivavo a scuola con i “diàoli” alle mani per il gran freddo, con le ciglia bianche e la sciarpa ghiacciata davanti alla bocca. Era il respiro che si condensava e congelava! Immagini che vediamo in TV di spedizioni ai Poli. Se nevicava, e succedeva ogni anno, eravamo in vacanza fino all’arrivo del “trajòn” comuD’inverno si viveva nale che sgombrava esclusivamente le strade coprendoin cucina, dove si le di una poltiglia di neve mista a ghiaia, faceva praticamente dove le ruote della tutto, tranne bicicletta affondavano specialmente il bagno settimanale al ritorno da scuola, il cui luogo deputato con il disgelo superera la stalla

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LA MEMORIA DI CARTA

Nelle cucine di un tempo non era raro trovare le pertiche con i salami appesi ad asciugare. Era questo l’unico spazio caldo della casa ed era quello in cui si viveva

ficiale dato dal pallido sole. Ma la vita continuava, se pur a rilento. A casa si approfittava del freddo come conservante per uccidere e macellare il maiale, ma anche le oche e le anatre facevano la stessa fine. La stufa, era accesa da mattina a sera scaldando l’unica stanza dove si svolgeva tutta la vita di quel periodo: la cucina! Li si cucinava, mentre il camino si accendeva alla sera per cuocere la polenta e per produrre “brònze”, li si mangiava, si pregava prima di andare a letto, si facevano gli gnocchi e le tagliatelle, si facevano e si asciugavano i salami che poi pendevano dalle pertiche attaccate alle travi, con gocce di grasso che colavano sul piatto fin che mangiavi la minestra. Li noi bambini facevamo i compiti, si giocava a tombola la domenica sera, si stirava con il ferro a “brònze” e la figlia da marito si cuciva la dote. Anche il dottore, se c’era qualche ammalato in famiglia, visitava al caldo in cucina e gli altri al fresco in tinello. Tutto accadeva

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in cucina! Ma, una volta alla settimana, sempre d’inverno, un’altra stanza veniva riscoperta come luogo indispensabile perché caldo: la stalla! Era li che, a turno tutti, fuorché i nonni che non si lavavano per evitare malattie invernali, facevamo il bagno nel mastello, con l’acqua riscaldata nella “lissiàra”. Il bagno settimanale si svolgeva sotto gli sguardi placidi e incuriositi delle vacche, alla luce di una fioca lampadina da 15 candele, e con la necessità, a volte, di risciacquarsi se qualche vacca muoveva energicamente la lunga coda spargendo spruzzi maleodoranti tutto intorno. Questo mondo era ritenuto immutabile, come lo è stato per i nostri genitori, per i nonni, per secoli, da sempre. Ma poi è arrivata la televisione, il mondo industriale è entrato anche nelle case contadine con le modernità che la ripresa degli anni ‘60 ha reso raggiungibili e in parte irrinunciabili. Le case dotate di servizi e di riscaldamento in ogni stanza, i trasporti con automobili sempre più diffuse e moderne; negli uffici pubblici è arrivato il “Signor venti gradi” per la necessità di quantificare la temperatura ideale per il genere umano senza sprecare. È nato il consumismo indotto e la globalizzazione, l’inquinamento che va di pari passo con il PIL che deve crescere continuamente altrimenti scendiamo in graduatoria mondiale, il denaro virtuale, i bitcoin; e domani cosa inventeremo per renderci la vita più complicata? E ci blocchiamo nelle città se scendono tre centimetri di neve e non sappiamo più come affrontare la vita dall’interno delle nostre potenti SUV 4 WD con navigatore, il meteo in tempo reale e smartphone connessi bluetooth al mondo intero!



Allocco, AMICI CON LE ALI

di Stefano Bottazzo e Aldo Tonelli

UN ANIMALE TUTT’ALTRO CHE TONTO

È tra i rapaci notturni il più ecclettico e aggressivo, cattura una grande varietà di prede: dagli uccelli ai rettili, dagli insetti agli anfibi. Arvicole e topi rappresentano i due terzi della sua dieta

G

eneralmente un uomo goffo e credulone che resta inerte con espressione instupidita di fronte a una situazione imprevista viene definito “allocco” ma il povero allocco, uccello rapace notturno, è ben lontano dall’essere quello che la tradizione tramanda. Tra i rapaci notturni più interessanti, ha occhi di un profondo color nero, grandi, rotondi e fissi che gli conferiscono un’espressione “simil” attonita sono decine di volte più sensibili di quelli dell’uomo. Durante il giorno la pupilla è contratta mentre al buio della notte si dilata enormemente per catturare più luce possibile e la retina è ricca di bastoncelli, i fotorecettori più sensibili alla luce e adatti per la visione notturna. Per lo più sedentario, predilige le aree boscate e meglio ancora con la presenza di alberi maturi, a differenza degli altri rapaci notturni più comuni e la colorazione può variare dal bruno-rossiccio al grigio, le dimensioni sono simili a quelle del gufo comune da

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Gli occhi dell’allocco sono decine di volte più sensibili di quelli dell’uomo. Durante il giorno la pupilla è contratta mentre al buio della notte si dilata enormemente per catturare più luce possibile cui si distingue facilmente per la diversa colorazione degli occhi e per l’assenza delle penne simili a cornetti sulla sommità del capo. Assai diffuso su tutti i Colli Euganei, lo si può trovare anche nei centri abitati di pianura dove ci siano giardini e parchi alberati. Più che vederlo lo si sente facilmente all’imbrunire e in particolare verso la fine dell’inverno, quando si formano le coppie riproduttive e i maschi segnalano sonoramente la loro presenza nel territorio, difendendolo tutto l’anno e per più anni successivi. Il legame di coppia può durare tutta la vita e la femmina depone le uova (da 1 a 6) in gennaio-marzo da cui si invola spesso un solo giovane, più raramente due o tre: è quindi uno dei più precoci uccelli nidificanti e sembra anticipare questa sua caratteristica negli ultimi anni, non essendo più raro vedere dei giovani uscire dal


AMICI CON LE ALI nido anche in dicembre-gennaio: segno anche questo dei cambiamenti climatici in atto? Molto eclettico e aggressivo, cattura una grande varietà di prede: dagli uccelli ai rettili, dagli insetti agli anfibi anche se arvicole e topi rappresentano i due terzi della sua dieta. Nidifica in grossi nidi abbandonati o più spesso nelle cavità di vecchi alberi o di antichi edifici. Un caso abbastanza insolito è stata la coppia che ha scelto come dimora la soffitta di una casa abitata di Arquà Petrarca, entrando da un lucernario dove ha deposto le uova per più anni di seguito, portando felicemente all’involo i piccoli. I giovani sono seguiti e alimentati dagli adulti anche nei giorni successivi all’involo, diventando autonomi dopo qualche mese quando si disperdono, allontanandosi anche di decine di chilometri, alla ricerca di un loro territorio. In provincia di Padova i rilievi effettuati dagli studiosi non lasciano dubbi circa una evidente diminuzione della popolazione e restano roccaforte della provincia per la specie i boschi del Parco Colli Euganei e il centro urbano del capoluogo, grazie ai suoi monumenti e ai grandi parchi alberati ancora esistenti al taglio dissennato in atto negli ultimi tempi: molti ricordano ancora gli Allocchi che nidificavano nei grandi alberi presenti in Prato della Valle e che predavano i numerosi piccioni. In campagna invece la scomparsa dei gelsi, dei numerosi sieponi interpoderali e di vecchi alberi limita la disponibilità di siti riproduttivi adatti. In dialetto il suo nome prende diverse forme come “Alocon”, “Loco”, “Soeton” e in passato, a causa della loro vita nottur-

Gufo comune e Allocco: Le dimensioni dell’allocco sono simili a quelle del gufo comune da cui si distingue facilmente per la diversa colorazione degli occhi e per l’assenza delle penne simili a cornetti sulla sommità del capo

na e del loro canto, sugli Allocchi se ne sono dette e fatte di tutti i colori. Associati alle streghe, qualcuno li inchiodava fuori dalla porta di casa per allontanare gli spiriti maligni ma c’era anche chi pensava che la loro carne avesse proprietà afrodisiache e che mangiarne gli occhi servisse a migliorare la vista. Assurde superstizioni di cui è rimasta ancor oggi qualche traccia e che accompagnano, come tutti i rapaci notturni, anche il povero Allocco.

In provincia di Padova i rilievi effettuati dagli studiosi non lasciano dubbi circa una evidente diminuzione della popolazione

Nido Allocco: Forse proprio il cambiamento climatico in atto negli ultimi anni ha anticipato ulteriormente il periodo della nidificazione. Un tempo la femmina iniziava la cova da gennaio a marzo, oggi qualche esemplare inizia a dicembre

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ARTERRA di Loredana Pavanello

La festa dell ’inverno

SAN BIAGIO A LENDINARA E I SUOI TESORI D’ARTE Alla bellezza del rito giova senz’altro la bellezza purissima del tempio che lo ospita. Disegnato con linee slanciate ed eleganti, il tempio è dominato dal pronao della facciata, scandita da quattro imponenti colonne e dal frontone con le statue, è un magnifico esempio di stile neoclassico

A

ppena oltre l’Adige - fiume che più di tutti conferisce un carattere al nostro territorio e che per questo viene naturale considerare punto di rifermento nonché “naturale confine” - si affaccia la splendida cittadina polesana di Lendinara. Il nome, dal suono misterioso, riconducibile forse alla lingua celtica, è apparso nei documenti per la prima volta in età alto-medievale (870 d.C.) e più volte riaffiorato nel

corso dei secoli, a designare quell’“illustre Castello, arricchito di molte fabbriche e torri, colta popolazione” del Mille, come lo ricorda il celebre storiografo Ludovico Antonio Muratori. Dobbiamo quindi immaginare la città medievale - apparentabile alle altre città murate della Bassa padovana, come Este, Montagnana e Monselice - come un vivacissimo borgo, racchiuso tra il corso dell’Adige e l’Adigetto, naviglio

Chiesa San Biagio. Le notizie più antiche relative all’edificio risalgono al Duecento ma il suo aspetto attuale risale al restauro iniziato agli inizi dell’Ottocento da Giacomo Baccari, l’architetto era nato a Lendinara nel 1756 e faceva parte di una famiglia di sacerdoti-architetti. Fu finissimo studioso delle armonie palladiane

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ARTERRA che scorre su quello che un tempo era il letto principale del grande fiume. Extra moenia, fuori dunque dalla cinta fortificata, trovavano luogo la pieve di Santa Sofia e il convento di San Biagio, due edifici di culto che insieme al Santuario della Beata Vergine del Pilastrello tutt’oggi spiccano nel panorama artistico dello spazio urbano. Si tratta di tre importanti luoghi di riferimento religioso e civile per la comunità. Se Santa Sofia è infatti il duomo, centro di potere ecclesiastico, le altre due chiese sono legate a grandi feste che segnano precisi momenti del corso dell’anno: la fine dell’estate (8 settembre) con la Fiera dedicata alla Vergine del Pilastrello e il cuore dell’inverno (3 febbraio) con la festa di san Biagio. Quest’ultima ricorrenza è celebrata con una solenne cerimonia che vede la tradizionale benedizione della gola e delle arance, anticipata da un triduo di preparazione e, il giorno prima, dalla festa della Presentazione, con la sua suggestiva liturgia delle luci, nota come la Candelora. Alla bellezza del rito giova senz’altro la bellezza purissima del tempio che lo ospita. Disegnato con linee slanciate ed eleganti, il tempio di San Biagio, dominato dal pronao della facciata, scandita da quattro imponenti colonne e dal frontone con le statue, è un magnifico esempio di stile neoclassico. La chiesa - un vero e proprio scrigno d’arte - si affaccia sull’Adigetto, di fronte al Teatro Ballarin - il vecchio “granarazzo” usato, sotto la dominazione Estense, per depositare biade e vettovaglie e trasformato in teatro solo a inizio Ottocento - e la piazzetta antistante, l’antico scalo portuale, caratterizzato ancora dalla gradinata, dove un tempo giungevano dal Basso Polesine le barche cariche di verdura.

Il Teatro Ballarin sorge di fronte alla chiesa di San Biagio, fino agli inizi dell’Ottocento era il “granarazzo” usato, sotto la dominazione Estense, per depositare biade e vettovaglie. Qui si trova anche l’antico scalo portuale, caratterizzato ancora dalla gradinata, dove un tempo giungevano dal Basso Polesine le barche cariche di verdura

Lendinara vista dall’Angelo che sormonta la cuspide del campanile di Santa Sofia

Le notizie più antiche relative all’edificio risalgono al Duecento, quando la chiesa era già parrocchia ed era annessa a un convento affidato fino agli inizi del Quattrocento agli Umiliati, cui seguirono i Gerolamini Fiesolani, che nei primi decenni del XVI secolo trasformarono la piccola chiesa delle origini in una struttura più ampia ed ariosa, consacrata nel 1531. Con la soppressione dei Gerolamini (1688) l’edificio, divenuto di proprietà della Repubblica di Venezia, passò prima, nel 1669, ai Padri Minori Osservanti di San Francesco di Padova e più tardi, esattamente un secolo dopo, nel 1769, ai sacerdoti secolari, sotto il giuspatronato della nobile famiglia Minio. Fu allora che, constatata la grave situazione di degrado della fabbrica, si decise a inizio Ottocento di realizzarne il restauro, incaricando del progetto Giacomo Baccari. L’architetto, nato a Lendinara nel 1756, faceva parte

Al centro dell’inverno, il 2 e il 3 febbraio la tradizione colloca le due feste del ritorno della luce: la Madonna Candelora e San Biagio, il vescovo venerato dai contadini di una famiglia di sacerdoti-architetti: come i fratelli Francesco e Gaetano era anch’egli uomo del clero, e nondimeno finissimo studioso delle armonie palladiane. A lui si devono i progetti per la chiesa parrocchiale di San Barnaba a Saguedo (1789-1794), il disegno della navata e delle cappelle laterali della Cattedrale dei Ss. Apostoli Pietro e Paolo (inizio Ottocento) ad Adria e, nella cittadina, l’ampliamento del Santuario del Pilastrello (1794-1800). I lavori a San Biagio ebbero inizio nel 1803 e si protrassero fino al 1813, per essere poi riavviati nel 1829 con la collaborazione di Giuseppe Jappelli, fondamentale esponente del Neoclassicismo in Italia, che a Lendinara lasciò anche la singolare traccia del parco romantico di palazzo Dolfin Marchiori, punteggiato da grotte decorate, statue, torrette neogotiche, sentieri sinuosi e quant’altro di vago ed esotico, secondo uno stile potentemente evocativo.

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ARTERRA

“Visitazione” di Sebastiano Filippi (1525)

Il luminoso interno della chiesa di San Biagio, diviso in tre navate e scandito dal ritmo delle candide e imponenti colonne

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Una eco di suggestiva monumentalità è certo presente nell’intera fabbrica di San Biagio, che riscrive in termini “depurati” un’importante pagina del classicismo rinascimentale, offrendo una nuova interpretazione dei templi palladiani e, in particolare del Redentore di Venezia. Non delude infatti il suo luminoso interno, diviso in tre navate e scandito dal ritmo delle candide e imponenti colonne. Notevole è anche il patrimonio artistico conservato fra le sue pareti, come la suggestiva pala con la Madonna della Cintura (1690 ca.) di Antonio Zanchi, del gruppo dei “tenebrosi”, noto per la sua capacità di fondere il vivo cromatismo della tradizione veneta con i contrappunti chiaroscurali e il naturalismo di ascendenza neo-caravaggesca; altre opere interessanti sono la pala tardo-cinquecentesca con i Santi Nicola, Francesco d’Assisi, Antonio abate e Andrea apostolo di Andrea Vicentino, campione del tardo-manierismo veneto e ancora, più di tutti, la meravigliosa Visitazione, grande capolavoro datato 1525 e firmato “Sebastianus”. Nel corso degli anni quest’opera è stata attribuita a numerose mani; in origine si era pensato al grande Sebastiano del Piombo, pittore veneziano trasferito a Roma e diventato amico di Michelangelo. Negli ultimi tempi ha preso piede l’attribuzione proposta da Vittorio Sgarbi, che riconduce la pala a Dosso Dossi, spettacolare pittore attivo alla corte degli Estensi di Ferrara nella prima metà del Cinquecento. In realtà già negli anni trenta del Novecento, Giuseppe Fiocco aveva ricondotto l’opera ad un pittore lendinarese, anche se attivo principalmente a Ferrara e spesso in collaborazione con Dosso: si tratta di Sebastiano Filippi il Vecchio, fondatore di una dinastia di pittori. Il figlio Camillo fu infatti uno dei protagonisti del Cinquecento ferrarese ed ebbe anch’egli due figli artisti, Cesare, ma soprattutto Sebastiano, più noto come il Bastianino (per distinguerlo dall’omonimo nonno), che fu allievo diretto di Michelangelo a Roma, prima di tornare a Ferrara negli anni cinquanta del secolo, dove fu per più di vent’anni pittore di corte degli Este. A completare la decorazione della chiesa due possenti statue settecentesche, realizzate in legno massiccio raffiguranti san Gerolamo e san Biagio. Proprio questa statua, raffigurante il patrono della chiesa, è protagonista della festa patronale che si svolge il 3 febbraio e fino a pochi anni fa veniva rimossa dalla sua sede, una nicchia posta nel presbiterio a due metri circa d’altezza, per essere portata in solenne processione per le vie della città, in uno dei momenti “cruciali” dell’anno, formando una perfetta simbiosi fra arte e tradizione.


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