BEATO ANGELICO Compianto sul Cristo morto A cura di Andrea Gianni
BEATO ANGELICO AL MUSEO DIOCESANO DI TORINO 16 aprile – 30 giugno 2015
L’esposizione è stata promossa da:
Museo Diocesano di Torino Associazione Sant’Anselmo-Imago Veritatis Consulta Valorizzazione Beni Artistici e Culturali Torino 2a, Armando Testa, Banca Fideuram, Buffetti, Burgo Group, Buzzi Unicem, C.L.N., Compagnia di San Paolo, Costruzioni Generali Gilardi, Deloitte & Touche, Ersel, Exor, Fenera Holding, Ferrero, Fiat Chrysler Automobiles, Fondazione Crt, Garosci, Generali Assicurazioni, Geodata, Gruppo Ferrero-Presider, Huntsman, Intesa SanPaolo, Italgas, Lavazza, Martini & Rossi, Megadyne, M. Marsiaj & C., Società Reale Mutua di Assicurazioni, Reply, Skf, Unione Industriale di Torino, Vittoria Assicurazioni
Direttore Museo Diocesano di Torino Don Luigi Cervellin
Catalogo Maggioli Editore
Curatore Monsignor Timothy Verdon, Museo del Duomo di Firenze e Associazione Sant’Anselmo-Imago Veritatis
Trasporto e Assicurazione Crown Fine Art
Restauri L’Officina del Restauro, Firenze; Relart, Firenze Progetto di allestimento Maurizio e Chiara Momo Coordinamento organizzativo Mario Verdun di Cantogno e Angela Griseri, Consulta Coordinamento generale Andrea Gianni, Associazione Sant’Anselmo-Imago Veritatis Ufficio stampa, Consulta Maria Cristina Lisbona Allestimenti Berrone Livio & C.; Elettro-Sì; Ilti Luce; Piermatteo Reviglio; Mario Accornero
Con il Patrocinio di: Ufficio Nazionale per i Beni Culturali Ecclesiastici, Regione Piemonte, Città di Torino, Comune di Firenze Hanno contribuito per la Comunicazione Osservatore Romano, Avvenire, Luoghi dell’Infinito, 24 Ore Cultura, Copat-Human inside, Heritage, Agd news Partner Banca C.R. Asti. Contributo di Reale Mutua Assicurazioni e di Gruppo Bancario Credito Valtellinese Media Partner La Stampa
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’è nel nostro cuore un senso di gratitudine al Signore e alle tante persone che hanno curato l’evento straordinario dell’Ostensione della Sindone e a chi l’ha ulteriormente valorizzato con l’esposizione della tavola del Beato Angelico con l’immagine del «Compianto su Cristo morto». L’opera d’arte è collocata in una teca protetta del Museo Diocesano e il luogo non poteva essere più idoneo: il «Compianto» si trova esattamente sotto la Sindone esposta in Cattedrale. Ovviamente non c’è alcuna relazione diretta tra il dipinto e l’immagine del Telo, ma l’uno e l’altra richiamano con forza l’Amore più grande, l’Amore che vince il mondo: l’amore di Gesù che offre la sua vita per la salvezza dell’umanità. La tavola del Beato Angelico, lontana dall’esaurire con la sua potenza evocativa il dolore di una madre per un figlio morto e dei discepoli più intimi per la perdita dell’amico e del maestro, diventa nondimeno una parabola delle sofferenze umane: delle tante determinate dalla natura e da quelle causate dagli uomini. Il Figlio di Dio morto rimanda alla cattiveria e alla stupidità degli uomini; le figure di contorno evocano la solidarietà di tanti che non si accontentano della mera e, a volte sterile, commiserazione ma che compiangono, cioè piangono con, e compatiscono, patiscono con, di quelli, insomma, che si fanno carico delle sofferenze dei fratelli. La coralità del dolore espressa nell’opera del pittore diventa immagine della solidarietà nel patire. Alle spalle del gruppo si delineano le mura di Firenze, simbolo di Gerusalemme, la città degli uomini, dove si realizzano i più alti gesti di solidarietà e dove le persone abbandonate trovano nel sostegno dei fratelli l’unica speranza del loro vivere, ma simbolo anche della città come luogo dell’indifferenza e dell’ostilità in cui si consumano i più atroci delitti. Il «Compianto su Cristo morto» è un invito a contemplare la Passione e la Morte di Gesù non come un momento di mera devozione o di fruizione estetica, ma come momento evocativo, dove i personaggi principali della
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tavola dell’Angelico non debbono essere lasciati soli; noi, infatti, come i personaggi del dramma, entriamo nella scena, facciamo corona e narriamo, ognuno a suo modo, un particolare di quella che si potrebbe definirebbe tragedia, ma che tragedia non è. Sono lieto di presentare nel contesto dell’Ostensione il dipinto del Beato Angelico, a me molto caro, che narra «l’Amore più grande», sottolineando il profondo legame tra l’amore di Dio per noi – per ciascuno di noi! – e l’amore, la carità che siamo chiamati a vivere nel servizio ai fratelli.
Cesare Nosiglia Arcivescovo di Torino, Custode Pontificio della Sindone
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’impegno delle Aziende Socie della Consulta di Torino per il restauro e l’esposizione del Compianto sul Cristo morto del Beato Angelico, si inserisce pienamente nel programma di valorizzazione e fruizione dei beni artistici e culturali, al fine di evidenziare la vitalità attuale di autentici capitoli storici. In occasione dello straordinario evento dell’Ostensione della Santa Sindone, in punta di piedi e con un profilo devotamente rispettoso, abbiamo voluto offrire ai visitatori l’ultima sequenza della Passione, dipinta da mano umana, prima che l’epifania sindonica trascini l’anima nella contemplazione del Mistero divino. L’idea del Compianto, ripresa dalle tradizioni processionali, è qui attuata mirabilmente dal Beato Angelico in una stupenda luce solare, in un concerto di colori ora reintegrati, mentre la pluralità delicata delle mani, attente alla disposizione del telo bianco, quasi preannunciano il lenzuolo sindonico. L’opera del frate domenicano, nominato da Giovanni Paolo II protettore degli Artisti, è presentata nel catalogo da studiosi di chiara fama, che ringraziamo vivamente per le loro pagine preziose.
Maurizio Cibrario Presidente della Consulta Valorizzazione Beni Artistici e Culturali di Torino
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on gioia il Museo Diocesano di Torino espone in occasione dell’Ostensione della Santa Sindone (19 aprile-24 giugno2015) il prezioso dipinto raffigurante Il Compianto sul Cristo morto (1436) di fra Giovanni da Fiesole, detto Beato Angelico, conservato nel Museo Nazionale di San Marco a Firenze. La Chiesa, infatti, ha sempre considerato l’arte quale veicolo privilegiato per esprimere le principali verità di fede: dalle prime testimonianze pittoriche nelle catacombe, raffiguranti i motivi della speranza cristiana, ai grandi cicli degli affreschi medievali, ai solenni Pantocrator dei mosaici bizantini, alle numerose opere di pittura e scultura rinascimentale e barocca che decorano le nostre chiese. Questo ricorso all’immaginazione per rappresentare il Mistero, che caratterizza e contraddistingue in modo originale l’Evento cristiano, trova il suo fondamento nell’evento stesso dell’Incarnazione. In Gesù, dice San Paolo, si è svelato il volto di Dio, l’immagine [visibile] del Dio invisibile (Col 1, 13). Da questa premessa nasce quel fecondo dialogo tra la Chiesa e l’arte che ha prodotto la maggior parte del patrimonio storico e artistico del nostro Occidente, con manifestazioni di assoluta eccellenza, come testimonia l’opera che qui viene presentata. Questo dialogo, a volte faticoso, a volte riuscito tra Chiesa e arte ci stimola a prestare una speciale attenzione alla “via della bellezza”, come auspica papa Francesco: «Annunciare Cristo significa mostrare che credere in Lui e seguirLo non è solamente una cosa vera e giusta, ma anche bella, capace di colmare la vita di un nuovo splendore e di una gioia profonda, anche in mezzo alle prove. In questa prospettiva tutte le espressioni di autentica bellezza possono essere riconosciute come un sentiero che aiuta ad incontrarsi con il Signore Gesù. Non si tratta di fomentare un relativismo estetico che possa oscurare il legame inseparabile tra verità, bontà e bellezza, ma di recuperare la stima della bellezza per poter giungere al cuore umano e far risplendere in esso la verità e la bontà del Signore Risorto … Dunque si rende necessario che la formazione nella via pulchritudinis sia inserita nella trasmissione della fede» (Esortazione apostolica Evangelii gaudium 167).
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Sotto questo profilo il Compianto sul Cristo morto del Beato Angelico, che viene esposto per la prima volta nel Museo Diocesano di Torino, può svolgere un’importante ed efficace opera di educazione alla fede mediante il linguaggio dell’arte, favorito anche dalla sua collocazione eccezionale, nel cuore della Città, come coronamento del percorso di visita alla Santa Sindone. Un cordiale ringraziamento a quanti hanno collaborato per la realizzazione di questa straordinaria iniziativa e a quanti l’hanno sostenuta economicamente con l’augurio che numerosi visitatori possano scoprire questo cammino di verità e di bellezza.
don Luigi Cervellin Direttore Museo Diocesano di Torino
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acconta il Vasari che il Beato Angelico aveva «egli in consuetudine di non ritoccare alcuna sua pittura, ma lasciarle sempre in quel modo che erano venute la prima volta, per credere che così fusse la volontà di Dio … che non avrebbe preso i pennelli se prima non avesse fatto orazione. Non fece mai crocifisso, che e’ non si bagnasse le gote di lacrime». Non ci sono parole più efficaci per esprimere quell’unità di essere e di agire che è il lascito delle opere di questo straordinario pittore ed anche la ragione dell’iniziativa di portare il suo Compianto a Torino durante l’Ostensione della Sindone 2015. L’Associazione che rappresento ha ideato e perseguito questo evento per contribuire a ritrovare questa unità che forse è il desiderio profondo della nostra umana avventura, nella quale andiamo cercandola «come a tentoni, benché non sia lontano da ciascuno di noi», come dice san Paolo. L’abbinamento del grandioso Compianto all’altrettanto sconvolgente telo della Sindone, è un’occasione eccezionale per cogliere quello sguardo unitario con cui l’artista mette assieme realtà e rappresentazione. Lo sguardo del Beato Angelico era anche l’abbraccio commosso dell’evento che dipingeva, l’evento che ha cambiato la storia; uno sguardo che invita chi si accosta alla sua opera ad un movimento della propria coscienza verso quel Mistero che ci fa guardare anche il mondo con occhi diversi. Un’occasione per ricordare che l’incontro con l’arte è sempre un’esperienza umana integrale. Un’iniziativa come questa non si fa senza l’aiuto di molti, enti e persone, che voglio ringraziare: innanzitutto S.Ecc. l’Arcivescovo di Torino mons. Cesare Nosiglia che ci ha dato il suo autorevole sostegno, e poi la Consulta per la Valorizzazione dei Beni Artistici e Culturali di Torino che ha aderito per prima, grazie alla sensibilità del suo Presidente dr. Maurizio Cibrario, rendendo possibile la realizzazione dell’iniziativa; un ringraziamento va anche allo staff della Consulta, dr.ssa Angela Griseri, arch. Mario Verdun di Cantogno e dr.ssa Maria Cristina Lisbona; inoltre al Museo Diocesano di Torino il cui direttore don Luigi Cervellin, all’inizio di tutto, ha voluto affidarci questo difficile incarico; un grazie anche a tutti i collaboratori e sostenitori che si leggono all’inizio di questo catalogo. Infine un ringraziamento particolare va anche a S.Em. il Card. Severino Poletto a mons. Giuseppe Ghiberti. Andrea Gianni Presidente Associazione Sant’Anselmo-Imago Veritatis
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Indice dei Saggi
Il Compianto sul Cristo morto del Beato Angelico Mons. Timothy Verdon
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Sindone e Compianto Giuseppe Ghiberti
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Beato Angelico, Volti Santi e Sindone Pierluigi Baima Bollone
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L’opera, il restauro, il Museo di San Marco Magnolia Scudieri
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L’allestimento Chiara Momo
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Il ‘Compianto su Cristo Morto’ in Piemonte Natale Maffioli
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Il Compianto sul Cristo morto del Beato Angelico Mons. Timothy Verdon, Curatore dell’esposizione del Compianto al Museo Diocesano di Torino Direttore del Museo dell’opera del Duomo di Firenze Membro del Direttivo dell’Associazione Sant’Anselmo-Imago Veritatis
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er l’ostensione della Sacra Sindone del 2015, Il Museo di San Marco di Firenze ha prestato al Museo Diocesano di Torino un’opera nata dalla stessa fede intensa che caratterizza il pellegrinaggio sindonico: il Compianto su Cristo morto del Beato Angelico. Realizzato tra la fine del quarto e l’inizio del quinto decennio del XV secolo, il dipinto appartiene al periodo in cui la Sindone cominciò a essere conosciuta fuori della Francia, e infatti fa vedere sotto il corpo del Salvatore un telo bianco finissimo che forse allude ad essa. Eseguito su tavola, il Compianto era in origine una pala d’altare, e sotto questo telo dobbiamo immaginare la tovaglia della mensa eucaristica, come sotto il corpo di Cristo raffigurato dobbiamo immaginare l’ostia e il calice di vino: il Corpus Christi sacramentale in cui la fede vede realmente presente il Figlio di Dio e di Maria. Celebre tra i teologi del Sacramento fu il domenicano Tommaso d’Aquino, la cui idea viene tradotta qui in immagine da un altro domenicano, famoso anche lui, frate Giovanni da Fiesole noto, già nel Quattrocento, come il “pittore angelico”. Chi era l’Angelico? Lo storico cinquecentesco Giorgio Vasari lo presenta come modello per “gli ecclesiastici”: un religioso di “somma e straordinaria virtù”, “di santissima vita”, “semplice uomo e santissimo ne’suoi costumi”, “umanissimo e sobrio”, il quale “non arebbe messo mano ai pennelli, se prima non avesse fatto orazione” e “non fece mai crocifisso che non si bagnasse le gote di lagrime”. Sempre secondo il Vasari - tanto più attendibile in questo caso, quanto meno era abituato a parlare in simili termini, che deve aver attinto dalla tradizione interna del convento del frate –, l’Angelico soleva affermare “che chi faceva quest’arte, aveva bisogno di quiete e di
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vivere senza pensieri; e che chi fa cose di Cristo, con Cristo deve stare sempre”. Chi fa cose di Cristo, con Cristo deve stare sempre: ecco una chiave di lettura fondamentale. L’Angelico, che faceva solo soggetti sacri – ‘cose di Cristo’ – stava sempre con Cristo. Membro del ramo riformato del suo Ordine – la così detta ‘Osservanza’ - e presbitero, la sua santità è stata riconosciuta dalla Chiesa, che nel 1984 lo ha dichiarato formalmente e non solo popolarmente ‘beato’. Dipingeva ‘cose’ – eventi, persone, soprattutto la persona Cristo – in base all’intima conoscenza di chi cerca di ‘stare sempre’ con il promesso Sposo del cuore umano, l’atteso delle nazioni, l’Agnello di Dio che è anche il Sole di Giustizia. Per capire l’Angelico, infatti, bisogna rientrare in queste categorie, in questo linguaggio esprimente nel contempo intimità e universalità, mitezza e grandezza. Per dare un giusto peso ai colori solari, alla bellezza purissima, agli sguardi carichi di brama mistica, bisogna riscoprire l’ardore e l’innocenza del contemplativo. Nel caso del Compianto su Cristo morto, Angelico metteva la propria “innocenza” a servizio di uomini ritenuti colpevoli di gravi crimini. L’opera fu eseguita per una confraternita laicale, la Compagnia di Santa Maria della Croce al Tempio: specificamente per la loro chiesa presso una delle porte urbiche di Firenze, detta Porta della Giustizia perché al suo esterno venivano giustiziati i condannati a morte. Il pio sodalizio si dedicava al conforto spirituale dei condannati, che i confratelli scortavano dal carcere lungo la via cittadina conducente alla Porta della Giustizia, e poi – oltrepassata la Porta - al patibolo allestito a qualche centinaio di metri dalle mura. Mentre camminavano ai lati del condannato, i ‘confortatori’ tenevano davanti agli occhi del condannato piccole tavolette dipinte con scene della Passione di
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Cristo, così che l’uomo che stava per morire non vedesse la folla inferocita ma solo Gesù, pure Lui giustiziato come un comune criminale fuori le mura della sua città. L’unica sosta in questa via crucis era presso l’oratorio della confraternita nei pressi della Porta della Giustizia, il cosiddetto ‘tempio’, demolito nel XIX secolo, dove il prigioniero ascoltava la Messa. Ed ecco sull’altare dell’oratorio il dipinto dell’Angelico, che fa vedere Gesù deposto da una croce a ‘tau’ (con la forma cioè di una forca), a qualche centinaia di metri dalle mura di Firenze che l’artista ha raffigurato in maniera inconfondibile sullo sfondo, con una grande porta urbica aperta: proprio quella attraverso la quale il ‘povero Cristo’ condannato doveva passare. Come sempre poi nell’arte angelichiana, una luce silenziosa avvolge figure ed oggetti, così che le mura raffigurate brillano, e Firenze sembra quasi una Gerusalemme celeste; l’immagine, in effetti, aveva la funzione non solo di confortare il condannato, invitandolo ad identificare le proprie sofferenze con quelle di Cristo, ma anche di riconciliarlo alla comunità – alla città – che l’aveva espulso e che stava per togliergli la vita, ma che nel dipinto viene presentata con una bellezza trascendentale. Tra gli ultimi dipinti del lungo periodo di maturazione ed affermazione professionale dell’Angelico, il Compianto sul Cristo morto fu commissionato dal monaco benedettino Don Sebastiano di Jacopo di Rosso Benintendi il 13 aprile 1436 per conto della confraternita. La Compagnia di Santa Maria della Croce del Tempio era infatti gestita dai benedettini, e Don Sebastiano, ex-frate domenicano monacatosi, era il nipote della santa contemporanea raffigurata nel Compianto – la penultima figura a destra di chi guarda -, Beata Villana delle Botti, morta nel 1361 e venerata nella chiesa domenicana fiorentina di Santa Maria Novella. Donna sposata dalla vita dissoluta, Beata Villana s’era convertita a Cristo sulla cui passione amava meditare, e l’Angelico la rappresenta mentre contempla il Salvatore morto e pronuncia le parole che le escono dalla bocca: XP [IST]O YH [ES]U LAMOR MIO CRUCIFISSO - “Cristo Gesù, l’amor mio crocifisso”.
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Beata Villana fa parte del gruppo di quattordici santi che piangono il Cristo morto, dieci donne e quattro uomini, tra cui san Domenico, in piedi a sinistra, fondatore dell’ordine a cui apparteneva il pittore. Tra le donne l’angelico da grande importanza a Maria, la madre di Gesù, che contempla il volto del figlio che abbraccia, e Maria Maddalena che gli bacia i piedi insanguinati. Questi personaggi, ognuno dei quali esprime una diversa qualità ed intensità di dolore, diventano per Angelico una sorta di laboratorio delle emozioni, che qui ed in altre opere egli analizza con esattezza scientifica. Fra i temi del coevo umanesimo fiorentino vi era infatti quello della struttura psicofisica della persona, e quindi anche delle emozioni, per cui l’essere umano esprime con l’espressione del volto e con i gesti corporei i “moti della mente”, come Leonardo da Vinci chiamerà poi i sentimenti. Le implicazioni per l’arte della ricerca in questo campo vengono chiarite da un personaggio poliedrico, l’umanista, esperto di antichità, medaglista, trattatista e architetto Leon Battista Alberti. L’Alberti, giunto a Firenze nel 1434 e colpito dalla nuova arte fiorentina, nel suo Della pittura – trasferendo in arte la lezione ciceroniana sul buon oratore - definì come supremo compito dell’artista la narrazione (“istoria”), insistendo sulla finalità morale dell’immagine, la quale deve toccare chi la vede così profondamente da influire sulla sua vita. A questo scopo invitò gli artisti a dare ai loro personaggi reazioni fisiche ed emotive naturali, perché, dice, “moverà l’istoria l’animo quando gli uomini ivi dipinti molto progeranno suo proprio movimento d’animo”. E spiega: “Interviene la natura, quale nulla più che lei si truova rapace di cose a sé simile, che piagniamo con chi piange, e ridiamo con chi ride, e doglianci con chi si duole”. La parole dell’Alberti, stilate pochi anni prima del Compianto, fotografano un indirizzo già allora in corso, tant’è vero che l’umanista dedica il suo trattato ai grandi dell’avanguardia di allora: Brunelleschi insieme a Lorenzo Ghiberti, Donatello, Luca della Robbia e Masaccio. Le “regole” albertiane segnalano anche la rottura con quell’estetica dell’icona in cui l’elemento narrativo aveva un ruolo secondario, come
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pure l’emozione. Citando esempi antichi, Alberti elogia piuttosto la penetrazione psicologica degli artisti greco-romani, e la frase appena citata, in cui afferma che “interviene la natura…”, infatti deriva dalla De amicizia di Cicerone. Menziono queste cose perché Beato Angelico, anche se non nominato dall’Alberti, apparteneva al ristretto gruppo di artisti fiorentini che si proponeva i traguardi successivamente articolati nel Della pittura, come suggerisce un suo capolavoro di alcuni anni prima del Compianto, la Deposizione di Cristo, pure questa oggi al Museo di San Marco, dove l’artista anticipa il ‘catalogo’ dei sentimenti delle donne e degli uomini presenti che vediamo nel Compianto; con i sei angeli nelle zone alte, similmente espressivi, le drammatis personae raffigurate in quest’opera arrivano a venticinque, senza contare Cristo, sul cui volto vi è pure un’espressione commovente! Ambo i sessi, tutte le età: una dimostrazione dei “movimenti dell’animo” enciclopedica, corale e senza paralleli nella coeva pittura fiorentina. In queste come in altre opere dell’Angelico sentiamo un rapporto col dramma sacro rinascimentale e specificamente con le sacre rappresentazioni della Passione, la cui scena culminante era sempre il Planctus Mariae o ‘Gran pianto’. Nei testi superstiti, come nei dipinti del Frate, l’appello all’emozione è esplicito: nel prologo di un ‘mistero’ della fine del Quattrocento, ad esempio, troviamo una frase straordinaria, pronunciata da un attore che dopo aver accennato alle scene della Passio che verrebbero in seguito si rivolge al pubblico, o meglio, ad ogni singolo spettatore, e dice: “Si tu non piangi quando questo vedi, non so se a Yesu Cristo vero credi”. Tra esortazione e minaccia, l’ammonimento viene ribadito poco dopo, alla conclusione del prologo, quando l’attore esorta il pubblico, “quando el vedrete poi levar di croce, ciascuno divotamente alzi le mani rendendo grande addio cola sua voce”. Più tardi nello stesso testo, la Madonna ripete l’invito: durante la conclamatio al piede della croce, in mezzo al lamento corale dei personaggi che descrivono le loro reazioni alla morte di Gesù, Maria dice al pubblico: “homini e donne, voi non siate lenti alo gran pianto, hor me accompagniate [...] essendo qui in croce morto il vostro creatore, ciascum pianga e strida con dolore”.
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Un simile appello allo spettatore a farsi partecipe della Passione si trova in altri testi del periodo dove, oltre ad essere una conferma di fede religiosa, la compartecipazione diventa anche prova di sensibilità umana. Ad esempio, in una quattrocentesca Vita di Cristo conservata nella Biblioteca Laurenziana a Firenze, dopo una descrizione delle sofferenze di Gesù l’autore afferma che, “ben se può reputar haver el chore de pietra colui che a questo passo non ha compassione al suo signore o per pianto o per altri segni”; e in un Pianto della Vergine dello stesso fondo troviamo ciò che sembra addirittura una formula per l’isterismo di gruppo: “Pianga ciascuno che giusto si trova, sicché ciascuno allagrimar si mova”. Questo tipo di emotività guidata fa parte della tradizione in cui Angelico era formato. L’idea base - che la fede dev’essere esternata con fortissime reazioni emotive - riprende certi temi del razionalismo scolastico. Con Aristotele, gli scolastici ritenevano che la volontà umana riceve e si nutre di ‘informazioni’ fornite dai sensi, e che la libertà dell’uomo e la sua nobiltà come creatura sono legate all’uso che consciamente fa dell’esperienza sensoria. Così san Tommaso, nella sua analisi della contrizione, elabora il concetto aristotelico di due livelli di razionalità: la ratio superior e quella inferior, che insieme determinano il carattere del dolore sperimentato dal peccatore penitente. “In contritione est duplex dolor”, dice: nella contrizione c’è un doppio dolore. Una parte è nella volontà, e questa è la contrizione nella sua essenza, il dispiacere che proviamo per i peccati che abbiamo commesso. Ma c’è un altro dolore, quello dei sentimenti (“in parte sensitiva”), che può scaturire o dalla riflessione sui peccati, che porta a una reazione spontanea (“ex necessitate naturae”), o da una libera scelta per cui l’uomo che ‘fa penitenza’ ecciti il dolore in se stesso, affinché possa sentirlo emotivamente (“vel ex electione, secundum quod homo poenitens, in se ipso hunc dolorem excitat, ut de peccatis doleat”). Questa affermazione verrà divulgata da altri scrittori domenicani del tardo Medioevo - il fiorentino Passavanti, ad esempio, che la riassume dicendo che “il dolore procede nella mente e nella sensualitade” -, e ha un’importanza fondamentale per la storia della spiritualità e per quella dell’arte. Significa che la ragione la ratio superior per cui prendiamo le decisioni che definiscono la nostra libertà può e deve servirsi delle emozioni, eccitando nei sensi una predisposizione a compiere ciò che è percepito come dovere morale. La forte espressività dell’arte tardogotica riflette questo principio, e ne sentiamo l’impatto anche nell’appena citato Della Pittura, quando
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Leon Battista Alberti insiste sull’uso coerente, da parte dell’artista che fa un ‘istoria’, di tutta l’esperienza fisica (ottica, spaziale, anatomica), emotiva (il gaudio, il dolore) ed esistenziale (giovinezza, vecchiaia) dello spettatore. Le ‘opere’ in cui questa voluta eccitazione dei sentimenti ebbe il maggior sviluppo furono gli esercizi penitenziali, e soprattutto i riti di quelle compagnie e confraternite laiche fondate sotto la direzione dei predicatori mendicanti appunto per aiutare i fedeli a sentire in modo tangibile e personale la penitenza “vera, frequens, nuda et lacrimabilis” di cui parlano i manuali popolari come lo Specchio de’ Peccati di fra Domenico Cavalca. Ma anche le opere d’arte servivano a stimolare reazioni emotive, offrendosi come scuole di compassione davanti all’umana sofferenza che Dio ha condiviso in Cristo.
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ProprietĂ Arcidiocesi di Torino
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Sindone e Compianto Giuseppe Ghiberti Presidente Onorario della Commissione Diocesana Sindone
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a delicatissima tempera dell’Angelico unisce nella sua nitida trasparenza quanto tradizione e attualità suggerivano per una composizione scenica di espressività unica. Il cadavere di Cristo è disteso su un lenzuolo (che potrebbe bene essere quello sindonico), schiena e capo appoggiati alle ginocchia della madre (sulla sommità del velo, sul capo, porta la stella, probabilmente della verginità), mentre Giovanni (molto giovane e pur maturo) e una figura femminile reggono le mani e le braccia del crocifisso. Solo tre le altre figure maschili, collocate all’estrema sinistra della scena: si indovina in alto San Domenico, col mantello nero e il bastone fiorito con gigli (secondo l’iconografia tradizionale che ne ricorda la castità), padre della famiglia domenicana a cui apparteneva Giovanni da Fiesole, il nostro Beato Angelico, e altri due che dovrebbero indicare Nicodemo (con la barba e il berretto del maestro del popolo; tra le mani il grande vaso degli unguenti per preparare il corpo di Gesù per la sepoltura) e Giuseppe di Arimatea. Più numerose le figure femminili e non tutte facilmente identificabili. Oltre alla madre, che sorregge il capo di Gesù senza vita, all’estremità opposta la Maddalena bacia ancora una volta i piedi a Gesù. Dietro la Maddalena, all’estremità destra, la figura di una santa incoronata portante la palma (una nobile contemporanea o una martire antica, come Caterina o Orsola o Barbara…?) e, in abito di penitente domenicana, la Beata Villana, morta giovane a Firenze un’ottantina d’anni prima della composizione del Compianto. A mo’ di aureola questa porta una corona di raggi di luce, presente anche attorno ad altri due volti femminili,
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mentre le ultime tre donne portano la comune aureola dei santi: fra di loro, non chiaramente identificabili, le tre Marie dei racconti evangelici della crocifissione, della sepoltura e dell’andata al sepolcro di Gesù. Scarsissime le scritte, almeno nella condizione attuale di conservazione (dopo la perdita del piede del quadro, a causa della grande inondazione dell’Arno del 1966): alcune lettere o numeri nel bordo del manto della Madonna e una scritta a bandiera a partire dalla bocca della Beata Villana, con la sua invocazione preferita: “Cristo Jesu lamor mio crucifisso”. In contrasto col movimento discreto degli altri personaggi sta l’immobilità di Gesù, già raggiunto dalla rigidità cadaverica. Lo sfondo prossimo mostra la croce da cui è stato deposto Gesù, ma il suo braccio orizzontale coincide con il lato superiore del quadro, e pertanto non è visibile un “titulus crucis”. Nitido il disegno delle mura della città santa (occupa due terzi dell’orizzonte e prende a modello probabilmente Firenze) e, nell’ultimo quarto a sinistra in alto, un paesaggio collinare che è, comprensibilmente, più fiorentino che gerosolimitano. E’ assente ogni richiamo al luogo della sepoltura, come invece descrive dettagliatamente l’altro Compianto dell’Angelico (?) nella cella n. 2, sempre nel convento di San Marco: con l’orientamento opposto (il capo di Gesù è a destra) e la quasi totale assenza di panorama, completamente esaurito nella grande grotta sepolcrale e nel sarcofago ancora aperto in attesa del cadavere (ma con un movimento delle curve delle rocce, che si rincorrono quasi a disegnare la linea di un uovo); anche il numero delle persone è ridotto: oltre a Gesù solo la Madonna, San Domenico, un uomo (Giuseppe di Arimatea o Giovanni?) e due donne. Si direbbe che nel primo compianto l’Angelico si è fatto guidare dall’evangelista Giovanni e nel secondo da qualcuno dei sinottici. Cielo e terra, passato e presente convengono attorno al Redentore morto; nessun elemento di disturbo, né folla ostile né autorità ebraiche né soldati romani portano segni di contrasto, nessuna presenza del mondo demoniaco; solo più la scala appoggiata al palo della croce ricorda di dove è stato deposto il cadavere. Volti affranti ma non scomposti rispecchiano la dolorosa meraviglia per la misteriosa volontà che viene accolta dall’alto, con pena. Solo Giuseppe di Arimatea si intrattiene con Nicodemo, perché a loro spetta l’incombenza di comporre Gesù nel sepolcro: è l’unico che sembra parlare. Non si vedono lacrime.
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Il movimento della piccola folla è quasi sospeso, come in attesa di qualcosa di ignoto e che pur deve avvenire. Guardando la Sindone e leggendo i vangeli, inizia spontaneo il confronto. La Sindone conosce solo il Crocifisso, che è stato privato della vita e di ogni possibilità di relazione. E’ rigido, in totale solitudine, a disposizione di qualsiasi intervento. Il corpo è spoglio, come è uscito dalle mani del Creatore, come lo aveva generato la mamma. Pensiamo che la mamma ci fosse, quando la Sindone incominciò il suo cammino; e poi quanta gente si è succeduta nel rincorrersi degli anni. Ma nel momento in cui nacque, la sindone era sola e non fu interessante finché non fu destinata a quel compito luttuoso. E di solitudine continua a dare testimonianza, perché la sindone è un indumento funebre e dopo la cerimonia della sepoltura l’indumento rimane solo col suo ospite. Non stupisce che i vangeli ci dicano così poco della sua vicenda, per scarsità di informazione o di interesse. Nessuno di essi è curioso sulla sua preistoria: compare solo al momento dell’uso, “comprata” apposta, come ci dice Marco (15,46), “pulita” (o nuova di zecca), come dice Matteo (27,59); si presta per contenere il cadavere. Non vengono nominati indumenti funebri nemmeno in sepolture celebrate nei racconti biblici. La sepoltura è tema frequente nella Bibbia, a cominciare dai patriarchi: Gn 23,1 per Sara, moglie di Abramo; 25,810 per Abramo stesso; 35,29 per Isacco; soprattutto 49,5350,14 per Giacobbe, col pianto e il bacio da parte del figlio Giuseppe, che porta a seppellire il padre nel luogo dove sono sepolti i suoi padri, facendo un “lamento molto grande e solenne” e celebrando ancora un lutto di sette giorni; 50,23 per Giuseppe, che viene imbalsamato. Durante l’esodo muore ed è pianta Maria, sorella di Mosè (Nm 20,1), mentre il grande condottiero muore alle porte della Terra promessa e “gli Israeliti lo piansero nelle steppe di Moab per trenta giorni, finché furono compiuti i giorni di pianto per il lutto di Mosè” (Dt 34,58). Classico è diventato il compianto di Davide su Saul e Gionata, caduti sui monti di Gelboe (2 Sm 1,1727), il “canto dell’arco”: “O Saul e Gionata, amabili e gentili…figlie di Israele, piangete su Saul… una grande pena ho per te, fratello mio Gionata”. All’estremità opposta di questa lunga storia è ricordato il compianto su Giuda Maccabeo, erode della rivolta contro Antioco IV Epifane: “Tutto Israele lo pianse: furono in gran lutto e fecero lamenti per molti giorni, esclamando: come è potuto cadere l’eroe che salvava Israele?” (1 Mac 9,1921). Nel Nuovo Testamento le sepolture non
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sono accompagnate da vero compianto: così per il Battista (Mc 6,29: i suoi discepoli vengono a prenderne il cadavere e lo pongono in un sepolcro), mentre per Lazzaro l’espressione del cordoglio da parte di Gesù è tardiva (Gv 11,3338: Gesù si commuove e piange, ma Lazzaro è sepolto ormai da quattro giorni); la morte di Stefano è accompagnata da grande lutto di uomini pii, ma Saulo la approva (At 8,12). Una piccola indicazione sulla scena del compianto si ha in occasione della risurrezione della figlia dell’arcisinagogo Giairo, quando Gesù arriva alla casa della ragazza morta e vi trova flautisti e folla tumultuante, piangente e “si battevano il petto” (Mt 9,23 e paralleli); quando incontra il corteo funebre che porta al sepolcro il figlio della vedova di Nain, è registrata solo la “grande compassione” di Gesù (Lc7,13). Mai però in quelle occasioni è ricordata la presenza di un indumento funebre, con eccezione per Lazaro (Gv 11,44), di cui si ricordano il sudario e i legacci che tenevano fissati mani e piedi, ma non una sindone (sindòn) o teli (othonia). A partire dalle narrazioni bibliche si è pensato di mettere in relazione l’uso del compianto con una ancora imperfetta fede nella risurrezione (si farebbe compianto perché manca una prospettiva di esistenza futura), ma l’affermazione non è certamente esauriente, perché alcuni dei casi richiamati si verificano in contesti in cui le fede nella risurrezione è certamente presente. Del resto proprio quella fede, se ha un’efficacia consolatoria, non estingue la sofferenza di una separazione, che è comunque perdita di un rapporto che faceva parte delle coordinate dell’esistenza umana. A maggior ragione in occasione della morte di Gesù, quando i suoi aderenti sono ben lontani dal pensare alla sua risurrezione, il compianto poteva essere spontaneo. Ma le circostanze non dovevano essere favorevoli a una scena un po’ teatrale: il bisogno di concludere in fretta la triste cerimonia, la povertà e debolezza dei presenti, che non sono protetti di fronte alle autorità e sono partigiani di un morto per condanna infamante, fa pensare che non si sia dato molto sfogo ai sentimenti che agitavano i cuori dei presenti. Non sono i sentimenti più intimi e sofferti quelli che si prestano maggiormente a dimostrazioni teatrali. Proprio questo, invece, ha sentito il nostro pittore, con l’espressione dell’estrema compostezza soprattutto delle donne sofferenti. Certo a questo momento si impone la domanda: di quale “sindone” parliamo, di quella dei vangeli o di quella che veneriamo oggi, nella
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nostra terra? Il Compianto del Beato Angelico lavora con la “sindone” dei vangeli; ma la nostra “sindone” non dice nient’altro che la sindone dei vangeli, non si comporta in altro modo. Nelle manifestazioni dell’immagine e nel messaggio esse sono totalmente coincidenti, al punto che l’interscambio avviene spontaneamente. La varianti fra i tre racconti sono evidenti: nei vangeli alla morte di Gesù è presente una moltitudine, ridotta a poche persone nella sepoltura e il Compianto del Beato Angelico raggruppa poche persone, in contemplazione orante. La Sindone invece presenta un silenzio totale, nel quale trovano posto i pochi che di volta in volta vi si affacciano, ma con una potenzialità di appello che si rivolge a una moltitudine senza limiti. Sempre però risuona l’invito ad affacciarci con attenzione intensa, senza lasciare spazio a distrazioni, l’invito a prendere parte anche noi al compianto. Il panorama della città ci avverte del coinvolgimento di tutta la realtà umana in questo dramma, mentre la prospettiva cosmica del paesaggio ci ricorda che questa vicenda ha come confini l’intero creato.
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Santa Sindone Particolare del volto, positivo sindonico
Santa Sindone Particolare del volto, negativo sindonico
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Beato Angelico, Volti Santi e Sindone Pierluigi Baima Bollone Professore emerito di Medicina Legale nell’Università di Torino
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ualche anno addietro, eravamo nel 2009, si è tenuta a Roma, nei Musei Capitolini, l’importante mostra Beato Angelico. L’alba del rinascimento che, per la prima volta dopo più di mezzo secolo, ha raccolto ed esposto per il visitatore le miniature, i dipinti ed i disegni più importanti del Beato Angelico. Ci ritornai molte volte. Come osservatore della Sindone ero stato colpito dall’attenzione del Beato per la struttura corporea umana ed in particolare per alcuni suggestivi riferimenti a quella dell’Uomo della Sindone, nel quadro di una conoscenza assai precisa dei Volti Santi. La mia attenzione era magneticamente attirata da una miniatura, in prestito da Vallombrosa, con il Crocifisso ormai spirato, Maria e Giovanni. In quest’opera la croce, saldamente infissa sul Golgota, ha riportato alla luce il cranio di Adamo, secondo la tradizione sepolto esattamente in quel punto. Nulla di nuovo se l’Angelico ed il suo collaboratore non avessero dipinto, con precisione quasi fotografica, una larga ferita da punta e taglio a metà della parete costale destra, da cui schizza uno zampillo di sangue. Non è un esempio isolato, ma questa rappresentazione colpisce l’esperto perché corrisponde esattamente al punto ove la Sindone reca una ampia chiazza di sangue cadaverico. In questa ed in altre analoghe raffigurazioni, spicca l’infissione alla croce dei due piedi sovrapposti con un unico chiodo ed una colatura di sangue aperta in due linee divergenti, esattamente come quella che si osserva sulla Sindone sgorgare dalla ferita da inchiodamento al polso destro. In realtà c’era molto di più. La mostra presentava altri Crocifissi, uno dei quali da una collezione privata della nostra città, in cui sono rappresentati i rivoli di sangue fuorusciti dagli inchiodamenti dei polsi lungo i margini dei due avambracci, con un disegno decisamente sindonico. Prima del Beato Angelico nessun artista aveva raccolto insieme tanti particolari e si era mostrato così aderente a quanto si vede sulla Sindone, al punto da farne presumere una conoscenza dettagliata.
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Anzi, quel punto risultava veramente difficile negare che, per esperienza diretta o magari soltanto su base documentale, il Beato Angelico conoscesse la Sindone, vista appunto la tendenza a riprodurre ed interpretare correttamente alcuni tra i particolari più fini delle sue immagini. Persuaso di tutto ciò raccoglievo le mie idee in un pezzo pubblicato da La Stampa del 24 luglio 2009 ed oggi devo constatare che quell’ipotesi è stata accolta acriticamente da alcuni colleghi che nelle loro conferenze, ravvivate dalla attuale prospettiva della prossima Ostensione ritengono di citarmi. La questione della conoscenza della Sindone tra il 1400 e il 1450 da parte di un artista attivo in Italia richiede tuttavia alcune precisazioni. La Sindone è un lenzuolo funerario recante le immagini del cadavere di un crocifisso che non sono dipinte sul tessuto, visto che mancano di contorni, di ogni traccia di pigmento in quantità visibile e di direzionalità. Non sono neppure prodotte da una strinatura mediante una statua o un bassorilievo riscaldato, perché non hanno le caratteristiche fisiche determinate dal danneggiamento da parte delle azioni urenti. Anche recentissime, suggestive e promettenti esperienze con luce laser, ancora alla fase iniziale, sono riuscite ad agire soltanto su piccoli campioni di stoffa. Per tutte queste ragioni le valutazioni scientifiche attuali sono indirizzate a confermare l’autenticità materiale del lenzuolo così come sostenuto da oltre un secolo di ricerca specializzata. Reperto autentico o contraffatto che sia, la Sindone in ogni caso è un originale irriproducibile con alcun mezzo o sistema messo a disposizione dalla scienza moderna. Poiché contiene le immagini di un cadavere è oggetto di studio della medicina legale più classica. La Sindone insomma è un originale e non ne sono oggi conosciute copie tanto risalenti nel tempo. Si impone quindi una ricognizione della sua presenza “al di là dei monti” prima della seconda metà del sec. XV, vale a dire prima del suo trasferimento permanente a Torino nel 1578. All’epoca del Beato Angelico la Sindone è ancora esposta in rare occasioni nella collegiata di Lirey nella regione francese della Champagne, dopo la morte del legittimo proprietario Goffredo II di Charny avvenuta nel 1398. Delle precedenti ostensioni ci resta un preciso riscontro iconografico in un medaglione di piombo ritrovato nella Senna a Parigi nel 1885, ora
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conservato nel museo di Cluny. Vi si vede la Sindone spiegata, con le due impronte di corpo umano disposte in maniera da tenere quella anteriore a sinistra rispetto all’osservatore, che da allora diventa la disposizione tradizionale. Per ragioni di sicurezza, in tempi diventati assai difficili, l’8 giugno 1418 i canonici di Lirey la riconsegnano agli eredi, al conte Umberto de la Roche, secondo marito di Margherita di Charny, figlia del defunto Geoffroy II e ultima discendente della casata, con l’accordo che sarebbe stata restituita in tempi più favorevoli. Questa restituzione non avverrà mai. Umberto trasferisce il lenzuolo nel suo castello di Montfort vicino a Montbard, poi a Saint Hippolite, nella valle del Doubs, e riprende le ostensioni con esposizioni annuali in un punto delle sponde del fiume ancor oggi conosciuto come Pré du Seigneur. Umberto muore nel 1438. D’ora in poi la Sindone resterà nelle mani della vedova Margherita, accompagnandola sempre nei suoi spostamenti. In realtà Margherita è inseguita dai canonici di Lirey che vogliono recuperare il lenzuolo e riescono a farla scomunicare. Nonostante ciò Margherita continua a spostarsi. Nel 1449 è a Chimay nella contea dell’Hainaut, oggi parte in Francia parte in Belgio. Una cronaca di Cornelius Zantiflet ricorda che ella reca con sé «un pezzo di tela su cui è meravigliosamente dipinta la forma del corpo di Nostro Signore». Nonostante la diffidenza espressa dal cronachista, si sparge la voce che si tratta della vera Sindone di Gesù e ciò determina l’accorrere di grandi moltitudini di fedeli. Nonostante le difficoltà legali, Margherita continua ad esporre ovunque il santo lenzuolo. L’ultima esposizione documentata avviene nel castello di Germolles in Borgogna nel 1452. L’anno successivo è a Ginevra alla corte di Ludovico, duca di Savoia, che il 22 marzo 1453 la acquisisce verosimilmente a titolo oneroso. Solo da quel momento la Sindone diventa la prova che la dinastia sabauda ostenta al fine di dimostrare la predilezione divina nei suoi confronti. La notizia dell’acquisizione si sparge rapidamente. Nel 1462 la riferisce Francesco della Rovere, frate francescano, in un dibattito pubblico a Roma davanti a papa Pio II, il grandissimo umanista Enea Silvio Piccolomini e a tutta la corte papale. Francesco della Rovere diverrà cardinale nel 1467, sarà eletto papa nel 1471 col nome di Sisto IV e avrà un atteggiamento di particolare apertura nei confronti della Sindone e del suo culto. Ma per il Beato Angelico è troppo tardi perché si è spento a Roma nel febbraio del 1455. Prima di quella data la pubblicità della Sindone e delle sue immagini era stata tale che la sua conoscenza culturale è scontata.
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Certamente nei soggiorni a Roma il Beato Angelico è venuto a contatto con una ben diversa ed all’epoca culturalmente più importante tradizione, quella dei Volti Santi. Il catalogo e i commentatori della Mostra del 2009 avevano chiaramente percepito che nella maturità il Beato sembra ispirarsi a tali volti tra cui la celebre Veronica. Questo è un oggetto storico certamente presente a Roma dal secolo XII. Papa Innocenzo III (1198-1216) ne promuove in particolare il culto, istituisce una processione annuale e concede indulgenze a quanti piamente vi partecipino. Il Senato Romano (1400-1450) prima e papa Niccolò V (1447-1455) poi dagli inizi del sec. XV la imprimono in piccole monete d’argento a larghissima diffusione. Ma è Paolo II (1464-1471) a battere un ducato d’oro con la Veronica che ebbe larghissima diffusione. Ancor oggi non è raro trovarla nei medaglieri dei collezionisti di monete papali di tutto il mondo. Racchiusa in una cornice dorata, dono di tre generosi veneziani, è stata esposta per decenni in San Pietro durante le maggiori festività e in particolare durante gli Anni Santi del 1300 e del 1350. A queste ostensioni accenna anche Dante Alighieri (1265-1321) rispettivamente nella Vita nuova e nel Paradiso. Il Volto di Cristo dipinto dall’Angelico nel Duomo di Livorno, si stacca dalla serie dei Volti Santi e riproduce specificamente le più significative caratteristiche della Sindone, che sono ben codificate da oltre un secolo di ricerca scientifica. Tra le altre, spiccano i lunghi capelli alla nazzarena su cui corrono rivoli di sangue, la fronte corrugata con altre colature ematiche in parte ad angolo aperto in basso, le ampie arcate sopracciliari, il viso a grande sviluppo verticale, il lungo naso rettilineo, l’incavo della guancia destra e la tumefazione di quella sinistra, la marcatura del solco tra naso e labbra e la mancanza di parti al centro e sul lato sinistro della barba. Tutti questi particolari sono spinti al massimo in una tempera su pergamena dell’altro “Volto” coronato di spine, attribuito ad un collaboratore del Beato, proveniente dal Sacro Convento di San Francesco di Assisi. Qui l’artista ha anche dipinto un serto di rami spinosi che solca orizzontalmente la fronte, anticipando l’interpretazione scientifica moderna delle ferite puntiformi che vi si vedono. Dove il Beato Angelico sorprende è nel Volto di Cristo ben più giovane, a Palazzo Venezia. I tratti fondamentali sono rispettati, ma ringiovaniti conferendo una diversa tonicità alle gote, un diverso assetto alla barba ed un diverso rapporto tra il margine delle labbra socchiuse e la fisionomia.
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Senza entrare nella spinosa questione dell’albero genealogico dei Volti Santi oggetto ancor oggi di vivace dibattito scientifico, qui occorre ricordare che uno solo di essi ha i caratteri irriproducibili di un originale mostrato all’intero mondo civile da ormai quasi 1500 anni per volontà dell’imperatore bizantino Giustiniano II nelle monete, ed in particolare nel solido, nel semisse e nel tremisse battuti nel suo primo regno dal 685 al 695. Questo imperatore, a cavallo tra il 691 e il 692, indice a Costantinopoli il Concilio Quinisesto o trullano perché tenuto nella sala della Magnaura col tetto a trullo del Palazzo Imperiale di Costantinopoli. Vengono promulgati 102 canoni, soprattutto in materia di disciplina della Chiesa ma non solo, come la condanna di molte pratiche precristiane come quelle delle licenziose festività di Dioniso. Il canone 82 del concilio trullano dispone un netto distacco con l’arte paganeggiante fino ad allora in auge nell’Impero Bizantino, consente, favorisce ed auspica la riproduzione del volto di Cristo nella sua realtà umana, purché non si trovi su un pavimento calpestabile. La moderna ricerca sui Volti Santi non può prescindere dalla riproduzione del più antico di questi, quello della Sindone, riprodotto sulle monete di Giustiniano II intorno al 692 d.C. ed impone una attenta verifica della conoscenza del Beato Angelico non solo del Volto ma della intera Sindone.
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Restauro del supporto ligneo e disinfestazione anossica: Roberto Buda (Ditta Relart, Firenze) Restauro conservativo della pellicola pittorica: Elena Prandi e Marina Ginanni (Laboratorio della Soprintendenza SPSAE e per il polo museale della città di Firenze) Restauro pittorico della superficie pittorica e della cornice: Lucia e Andrea Dori (L’Officina del restauro, Firenze) Direzione dei lavori: Magnolia Scudieri
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L’opera, il restauro, il Museo di San Marco Magnolia Scudieri Direttrice del Museo di San Marco, Firenze Guido di Piero, poi fra’ Giovanni, detto il BEATO ANGELICO Vicchio di Mugello 1395/1400 – Roma 1455 Firenze, Museo di San Marco, inv. 8487
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a tavola fu dipinta per l’Oratorio della Compagnia di Santa Maria della Croce al Tempio, adiacente alla chiesa di San Giuseppe, non lontano dall’Arno. La Compagnia, detta anche dei Neri, aveva il compito di assistere i condannati a morte prima dell’esecuzione che avveniva fuori dalle mura della città. L’ambientazione scelta dal pittore, con la scena del Compianto subito sotto la croce in primo piano, in uno spazio deserto e arido, lontano dalle mura della città che si perdono in lontananza, sembra voler richiamare alla mente dei condannati, che guardavano il quadro prima di avviarsi alla morte in un luogo non dissimile da quello dipinto, il supplizio subito da Gesù per trarne la speranza di pace eterna. L’Angelico ha raffigurato la scena cogliendo l’attimo della deposizione del corpo di Gesù a terra, circondato da un gruppo di persone inginocchiate piangenti. Fra i più vicini a Lui si riconoscono Maria, Giovanni, Maria Maddalena e altre due pie donne. Il corpo di Gesù è stato appena rimosso dalla croce, a cui è rimasta ancora appoggiata una scala utilizzata per arrivare a Lui, ed è stato deposto a terra su un lenzuolo bianco, con le spalle e la testa appoggiate sul grembo di Maria e le gambe sulle ginocchia di un’altra pia donna. A ben osservare, tuttavia, l’azione non sembra ancora completamente conclusa. Lo si avverte dal gesto di Giovanni che, sorreggendo con due mani il braccio sinistro di Gesù, sembra concorrere dolcemente alla fase finale della deposizione a terra del corpo di Cristo, insieme ad una pia donna intenta a sorreggere il braccio destro, e a Maria Maddalena, che, tiene ancora sollevati i piedi di Gesù, apprestandosi a baciarli. Sul lato sinistro, due uomini inginocchiati, uno dei quali tiene in mano un barattolo con l’unguento, identificabili con Nicodemo e Giuseppe d’Arimatea.
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In secondo piano si trovano raffigurate altre figure muliebri, non tutte facilmente identificabili. Due sante – una più anziana con manto azzurro su veste violacea, a sinistra, e una giovane, sulla destra, con manto rosso e blu su veste scura – sono sempre riconducibili al gruppo delle Pie Donne; un’altra, inginocchiata all’estrema destra è facilmente identificabile dai suoi attributi – la corona regale, la palma del martirio in mano e la ruota dentata – con Santa Caterina d’Alessandria regina e martire, mentre restano ignote le due donne inginocchiate al centro, con la raggiera che le identifica come Beate. La raggiera circonda la testa anche di un’altra figura muliebre in abito monacale inginocchiata accanto a Santa Caterina. Si tratta della beata Villana delle Botti, vissuta a Firenze nel Trecento, identificata, oltre che dal nome dipinto in rosso sui raggi dorati anche dall’invocazione a Gesù CHRISTO GESÙ L’AMOR MIO CRUCIFISSO – che Le era propria. L’unica figura in piedi, che sulla sinistra contempla la scena pregando, è san Domenico, identificabile dalla stella sulla testa e dal giglio in mano, che potrebbe celare le sembianze del committente della tavola. Il nome di quest’ultimo, fra’ Sebastiano di Iacopo Benintendi nipote della beata Villana delle Botti, in onore della quale fu ordinato il quadro, ci è noto da fonti documentarie che indicano anche nel 1436 l’inizio della realizzazione del dipinto per l’altare dell’Oratorio della Compagnia di santa Maria della Croce al Tempio, consacrato verosimilmente entro il 1440, presso il quale fra’ Sebastiano faceva celebrare anche la festa di Santa Caterina, a cui era particolarmente devoto. Il dipinto dovette, comunque, essere terminato più tardi, probabilmente nel 1441 o 1442, data criptata nella decorazione del manto della Vergine Maria. Una simile cronologia diluita nel tempo offre anche una giustificazione alle rispondenze stilistiche individuabili sia in opere come la Deposizione di Santa Trinita, situabili nella prima metà del quarto decennio, sia in altre, come il Polittico Guidalotti di Perugia e gli affreschi di San Marco, databili verso la fine del decennio e oltre. Si avvertono chiari sentori di appartenenza a quella mirabile fase dell’attività dell’Angelico in cui la sua pittura, ben legata alla tradizione trecentesca e soprattutto agli esiti più squisitamente pittorici del giottismo, ma ormai sicura interprete di canoni spaziali, proporzionali ed espressivi di stampo rinascimentale, è capace di rinnovarla utilizzando la luce come elemento caratterizzante che intride i colori, modella i volumi, delinea gli ambienti, costruisce gli spazi, fa emergere sentimenti ed emozioni.
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Qui la luce non contribuisce a sottolineare la drammaticità dell’evento appena concluso, bensì a tratteggiare ogni figura nella sua dimensione tanto concreta quanto spirituale e ad indagarne lo stato d’animo davanti al compimento della Passione di Cristo. Il dramma umano della crocifissione e della morte ha trovato la sublimazione nel raggiungimento del percorso della salvezza, espressa dal volto diafano di Cristo ormai privo di sofferenza.
Note di restauro Il dipinto è arrivato a noi sostanzialmente nell’aspetto raggiunto con l’intervento di restauro condotto dall’Istituto Centrale del Restauro tra il 1950 e il 1953, ovvero con la metà inferiore fortemente danneggiata, segnata da estese aree di integrazione pittorica, a colmare le ampie perdite di colore originale seguite ai danni alluvionali occorsi nei secoli. Il margine inferiore, interessato da una perdita totale è stato semplicemente coperto con una “maschera” sagomata, ricoperta in pergamena, che cromaticamente voleva richiamare alla mente lo strato di preparazione del dipinto sotto il colore perduto. Oggi, a distanza di oltre sessant’anni da quell’intervento, è emersa una situazione di sofferenza del colore interessato da diffuse “crestine” lungo le fibre del legno, sintomo di una mancata adeguata funzionalità delle traverse, per cui è stato necessario intervenire sull’assetto del supporto ligneo. La tavola ha ripreso la sua naturale curvatura e, grazie al confronto con i risultati delle indagini deformometriche in corso da tempo sul retro del supporto ligneo a cura dell’Università degli Studi di Firenze (DEISTAF), è stato approntato un nuovo sistema di traversatura capace di permettere , ma anche di contenere, i movimenti del legno. Per quanto riguarda la superficie pittorica, dopo il necessario consolidamento, è stata effettuata, previa rimozione dello sporco superficiale, soltanto la reintegrazione del restauro pittorico eseguito nel corso dell’ultimo intervento sopracitato, dovendo risarcire dal punto di vista estetico i danni inferti dagli schizzi di pioggia che avevano colpito la superficie pittorica nel corso della tromba d’aria che, nel settembre del 2014, ha investito il Museo rompendo i vetri delle finestre dell’antico Ospizio dei Pellegrini dove il dipinto è abitualmente esposto. È stato quindi effettuato, anche grazie al contributo della Consulta per la Valorizzazione dei Beni Artistici e Culturali di Torino e dell’interessamento
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dell’Associazione Sant’AnselmoImago Veritatis, due degli organizzatori di questa mostra, un intervento “conservativo” sia del dipinto che del restauro, ormai storicizzato del 1953.
Il museo di San Marco a Firenze Il Museo di San Marco a Firenze nasce come Museo nazionale all’indomani delle Soppressioni definitive degli Enti religiosi del 1866 e apre al pubblico nel 1869. Esso coincide con la parte più antica e monumentale del convento domenicano di San Marco realizzato tra il 1436 e il 1452 da Michelozzo, l’architetto prediletto dei Medici, una delle famiglie più influenti della città. Cosimo il Vecchio e il fratello Lorenzo, che avevano caldeggiato presso il papa Eugenio IV la concessione del convento ai domenicani, in luogo dei frati Silvestrini accusati di cattiva condotta, avevano, infatti, deciso di finanziare il rifacimento del convento, allora ridotto in rovina. In breve tempo Michelozzo, utilizzando l’edificio preesistente e sopraelevandolo, costruì un convento nuovo con ambienti spaziosi razionalmente disposti intorno ai chiostri. La magnifica architettura, costruita con impostazione e misure rinascimentali, fu arricchita da uno straordinario ciclo di affreschi dipinti da uno dei confratelli, fra’ Giovanni da Fiesole, ora noto come Beato Angelico, già pittore rinomato prima di vestire l’abito domenicano. Il ciclo comprende una serie di affreschi nel chiostro, tra i quali una commovente immagine di San Domenico in adorazione del Crocifisso e la grande Crocifissione e Santi nella Sala Capitolare, e, al primo piano, nei corridoi del dormitorio – tra cui la famosissima Annunciazione e la Madonna delle ombre – e nelle 45 celle che lo compongono. Il Museo, dedito a celebrare i grandi personaggi dell’ordine domenicano che vi abitarono – Sant’Antonino, fra Giovanni Angelico, il Savonarola, fra’ Bartolomeo – è andato configurandosi come Museo monografico dell’Angelico solo nel 1924, quando vi furono raccolte quasi tutte le tavole del pittore e alcune dei suoi seguaci, affluite alle Gallerie fiorentine dalle chiese, i conventi e le compagnie del territorio fiorentino, con le soppressioni degli enti ecclesiastici. Tra queste opere, raccolte nell’antico Ospizio dei Pellegrini, si trova anche il Compianto sul Cristo morto della compagnia di Santa Maria della Croce al Tempio.
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L’ allestimento Chiara Momo
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l dipinto su tavola “Compianto sul Cristo Morto” del Beato Angelico è esposto, su progetto di Maurizio e Chiara Momo, nel Museo Diocesano di Torino all’interno della teca climatizzata esistente posizionata nella chiesa inferiore esattamente al di sotto del presbiterio della cattedrale dove è esposta la Sindone. Forte è quindi il legame fisico e spirituale con l’Ostensione. Il quadro, ottemperando a tutte le richieste di conservazione espresse dall’Ente prestatore, è collocato su un apposito basamento, realizzato con struttura portante in profilati di ferro e rivestimento in lamiera, color rosso scuro posizionato ad una distanza di cm 100 dal vetro e controventato in modo da dare massima sicurezza alla stabilità dell’opera. Lo stesso basamento ospita essenziali informazioni sull’opera. Il dipinto è posto in posizione di assoluto rilievo rispetto alle altre opere contenute nella teca climatizzata, dalle quali è separata mediante un fondale eseguito con voile garzato ignifugo e una riduzione dell’intensità luminosa sulle stesse. L’illuminazione è realizzata mediante l’uso di faretti museali a luce fredda, con particolare cura per la calibrazione al fine di valorizzare l’opera pur nel rispetto di tutti i vincoli legati alla perfetta conservazione. L’accesso dei gruppi di visitatori, 25-30 persone - che si trovano davanti al “Compianto” in ideale prosecuzione del pellegrinaggio alla Sindone è contingentato e avviene in un ambiente a luci soffuse, dove l’attenzione è concentrata sul dipinto. Ai lati della teca climatizzata sono collocati alcuni pannelli didattici con l’introduzione storico-critica all’opera e con testi spirituali e meditativi rivolti ai pellegrini e ai visitatori.
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Il ‘Compianto su Cristo Morto’ in Piemonte Natale Maffioli Curatore del Museo Diocesano di Torino
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“ peste, fame et bello, libera nos Domine”, “Dalla peste dalla fame e dalla guerra liberaci o Signore”, un tempo, questa intensa invocazione, era recitata con passione e, al di là dei particolari contesti liturgici, ha accompagnato per secoli le più accorate preghiere del popolo cristiano. La gente, istintivamente, sapeva che da queste calamità non c’era scampo: alla peste non c’erano rimedi umani; alla fame si poteva far fronte se il clima e la terra erano propizi, ma anche questo non dipendeva da volontà umana, e dalla guerra, catastrofe puramente umana, si scampava se i signori del tempo non erano presi dal desiderio di ricchezza e di potere. Nella mente della gente comune si era ingenerata l’idea che dalle calamità, naturali o provocate dall’uomo, non c’era salvezza. L’unico rimedio era quello di rivolgersi a chi aveva il potere di liberare dalle malattie endemiche, dare un corso favorevole alle stagioni e far nascere nel cuore dei potenti desideri di pace. Il ricorso alle preghiere indirizzate al Signore, alla Madonna e ai Santi era considerata un’ancora di salvezza per tante avversità. E la preghiera non era solo orale o fatta di gesti, ma pure di realtà tangibili, come le immagini dei potenti ‘avvocati’ celesti scolpite, dipinte su tavola o su tela, oppure sugli intonaci delle chiese e queste orazioni tangibili, restano tutt’oggi, come muti testimoni delle richieste, delle lacrime, delle lodi e della riconoscenza di tanti che a loro hanno fatto ricorso. Sulle pareti di tante chiese e non solo di quelle importanti, erano spiegate le gesta dei santi patroni, raffigurate scene bibliche, dove erano preponderanti i misteri della vita di Cristo. Fuori da ogni ‘continuum’ narrativo, tra le tante avevano, e hanno tutt’ora, forte rilevanza nel culto cristiano due immagini, isolate, episodiche: il Crocifisso e la Pietà, queste dicevano al cuore e alla mente del credente che il Figlio di Dio ha amato gli uomini fino a dare la sua vita. Da ciò nasceva il senso di partecipazione al dolore fisico di Gesù e tutto interiore di Maria; queste immagini dovevano far piangere gli uomini per muoverli, attraverso la forza del sentimento, verso la conversione. Il Crocifisso e la Pietà alimentavano nei credenti la certezza che il loro dolore non era solitario, ma condiviso dal Figlio di Dio e da Maria, e si creava un
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senso di solidarietà nel patire. Gli ultimi atti della vita di Gesù sono espressi nei Vangeli con laconicità, quasi con pudore; quello che viene narrato è l’essenziale per far conoscere l’amore di Dio per l’uomo: “Ai piedi della croce stava sua madre e il discepolo che lui amava” e il dopo morte è espresso con suprema essenzialità: “lo deposero dalla croce”. Ma dove lo hanno posto? Sulla pietra per ungerlo e prepararlo alla sepoltura? E qui entra in gioco la tradizione con una postilla affettiva: consegnarono il corpo esanime di Gesù a sua Madre perché lo piangesse, ed è grazie a questa ‘postilla’ che sono nate alcune delle immagini più amate della cristianità. L’affetto e la devozione che hanno circondato il cuore di questi eventi hanno fatto sì che fossero espressi con una impressionante pluralità di modalità: molte di queste non sono menzionate in alcun Vangelo, ma la loro verosimiglianza è talmente coinvolgente da avere una forza di persuasione quasi assoluta. L’immagine sobria che, da sempre, è definita come ‘Pietà’, mostra la Madonna con il Figlio morto, adagiato in grembo; il termine descrittivo deriva dal latino e non significa compassione, ma gratitudine per l’amore che il cristiano sente di ricevere dal Figlio di Dio con l’offerta della sua vita. Una variante di questa iconografia, denominata “Compianto su Cristo morto”, vede i due protagonisti non isolati, solitari, a volte con una sporadica croce che fa da sfondo, ma con una pluralità di presenze. Anche qui Gesù è disteso in grembo a sua Madre, ma i due sono accompagnati da numerosi personaggi che fanno corona come se facessero da sfondo di una rappresentazione teatrale; questi sono coloro che, come è descritto nei vangeli, sono stati testimoni delle ultime vicende di Gesù: l’apostolo Giovanni, “Maria di Magdala, Maria madre di Giacomo e di Giuseppe e la madre dei figli di Zebedeo” (Mt.27,56), Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo; a volte la scena vede presente un santo patrono o un donatore. Generalmente l’immagine è rappresentata sui più diversi supporti: su tavola, su tela o su muro. La pleiade di quelli che piangono la morte di Gesù e compiangono sua madre, hanno, in molti casi, un rapporto diretto con il corpo esanime di Gesù, Giovanni sostituisce la Madre nel sorreggere il capo di Gesù, Maria di Magdala, con un gesto di profonda umiltà, regge e bacia i piedi del Maestro, è quasi una reminiscenza del tradizionale racconto che la accomuna alla sorella di Lazzaro che unge i piedi di Gesù con del prezioso profumo (cfr. Gv. 12, 13) o alla peccatrice che in casa di Simone il fariseo
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lava i piedi di Gesù con le lacrime, li asciuga con i capelli, li bacia e li unge con profumo (cfr. Lc.7, 1650). Giuseppe di Arimatea e Nicodemo esibiscono tenaglie e chiodi ad indicare la loro fattiva partecipazione alla liberazione del morto dal legno della croce, quale segno di presa di distanza dai correligionari che lo hanno ucciso. Lo stesso corpo di Gesù è connotato da una particolarità che è stata chiamata “il braccio della morte”: il braccio inerte, disposto pendulo e perpendicolare al corpo del Signore. È questa una ‘pathosformel’ che percorre trasversalmente tutta la produzione artistica del genere fino a debordare, in ambito laico, nel dipinto de ‘La morte di Marat’ del pittore francese Jaques-Louis David (1793). Un genere del tutto particolare, che gli storici dell’arte hanno definito come “Pietra dell’unzione”, e che, nella stragrande maggioranza dei casi, è composto da statue, vede la compagine dei personaggi ancora raccolta attorno al corpo di Gesù, ma questo è isolato, disteso sulla lastra di pietra, che suggerisce il nome alla composizione, in attesa di essere sepolto dopo essere stato trattato con unguenti profumati e avvolto in un lenzuolo. L’evidenza di questa immagine è la rigidità, una realistica interpretazione del rigor mortis, del corpo di Gesù. I circostanti, che anche qui formano un gruppo compatto, tutti sono stravolti dal dolore: per alcuni composto, per altri dimostrato con gesti che sfiorano il parossismo. È praticamente impossibile sapere quante siano in tutta Italia le raffigurazioni, sia dipinte che plastiche, di quanto è presumibilmente occorso al corpo di Gesù dopo la deposizione dalla croce e il Piemonte non viene meno a questa impossibilità. Anche nella regione pedemontana, ogni epoca ha avuto, al riguardo, le sue immagini significative di un gusto oppure di una religiosità. L’immagine della ‘Pietà’, intesa come Gesù adagiato in grembo a sua Madre, risale al XIV secolo ed è stata preceduta dalla ‘Imago Pietatis’, una forma questa che vedeva il solo Gesù ergersi dal sepolcro, morto, sovente accompagnato da due angeli che reggono una cortina e avendo come fondo, quasi un inventario da museo degli orrori, la raffigurazione di tutti gli strumenti che sono stati utilizzati durante la passione. Nella chiesa della Precettoria di Sant’Antonio di Ranverso, in un arcosolio scavato in una delle pareti laterali del presbiterio, è affrescata una commovente ‘Imago Pietatis’ (fig. 1), attribuita al pittore torinese Giacomo Jaquerio e realizzata attorno al 1410. Il corpo morto di Gesù si erge dall’apertura del sepolcro, con le mani incrociate all’altezza del ventre e il capo, segnato da rivoli di sangue, reclinato sulla spalla destra. Sullo sfondo scuro risalta la croce, con appesi molti degli strumenti utilizzati nella passione. Ci
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Beato Angelico (fig. 1) “Imago Pietatis” attribuita al pittore torinese Giacomo Jaquerio realizzata attorno al 1410
sono anche le mani anonime dei carnefici e quelle riconoscibili di Pilato, lavate dall’acqua di un’ampolla. L’efficace immagine aveva una funzione consolatoria per i tanti pellegrini, prevalentemente affetti dall’herpes zoster (comunemente chiamato fuoco di Sant’Antonio), che frequentavano la chiesa nella speranza di venire risanati con l’intercessione di Sant’Antonio. Altre due raffigurazioni, affini, fiancheggiano questa dell’arcosolio e sono collocate nelle lunette delle porte di accesso alla sacrestia: Gesù si leva dal sepolcro morto nell’una e glorioso nell’altra. Nella chiesa della Madonna di Missione a Villafranca Piemonte, sulla parete di fondo del presbiterio, il pittore Duxaymo (documentato tra il 1417 ed il 1444) ha realizzato ad affresco, attorno al 1429, uno straziante ‘Compianto sul Cristo morto’ (fig. 2). «La scena ha uno sviluppo orizzontale che il pittore accentua ponendola sotto ai bracci di una grande croce lignea (…) I dolenti si dispongono a semicerchio intorno al corpo di Cristo morto1». 1
A Cifani, F. Monetti, La cappella di Santa Maria della Missione di Villafranca Piemonte, Torino 2014, p. 30.
Beato Angelico (fig. 2) “Compianto sul Cristo morto” Duxaymo (1417 / 1444)
Le figure sono serrate attorno al cadavere, i gesti sono misurati, ma ‘veri’ come le lacrime che scorrono sulle loro gote. Il dolore è palpabile e pare che voglia ribadire le ultime parole di Gesù: «tutto è compiuto». La verità ultima di questo avvenimento è però proclamata dall’affresco che sovrasta il Compianto: una Annunciazione; colui che ha dettato il programma iconografico ha voluto accostare l’inizio e l’apparente fine dell’evento salvifico. L’incarnazione del Figlio di Dio per opera dello Spirito Santo indirizza verso il superamento del dolore con la gloria della risurrezione. Anche qui sono presenti gli strumenti della passione, muti testimoni dei patimenti sofferti dal Cristo. Alla metà del XV secolo appartiene un “Compianto su Cristo morto” (fig. 3), in arenaria dipinta, conservato nella chiesa di santa Maria della Scala a Moncalieri, e attribuito ad uno sculture di origine borgognona. Il gruppo tradizionale dei dolenti è al completo e si assiepano compatti su un lato della composizione come se avessero un ruolo da comparse; i sette personaggi sono accompagnati da due angeli che reggono l’uno una croce, l’altro la colonna della flagellazione, insolitamente coronata con una tiara papale. Alle estremità sono coricati, già preda del sonno, tre militari, incongruenti con l’insieme della struttura, sono coloro che avrebbero
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Beato Angelico (fig. 3) “Compianto su Cristo morto” attribuito ad uno sculture di origine borgognona
dovuto vegliare sul sepolcro sigillato. Il gruppo partecipa delle peculiarità della cosiddetta ‘Pietra dell’unzione’: il Signore è disteso irrigidito dalla morte, già preparato per la sepoltura con Giuseppe di Arimatea e Nicodemo pronti a rimboccare il sudario che lo avvolgerà nel sepolcro. La Madre è l’unica che manifesta il suo dolore anche con il corpo, piegato, sorretto da Giovanni e accompagnato da una delle dolenti. Il dolore è trattenuto, composto, manifestato con gesti misurati; non c’è qui neppure l’ombra del parossismo che abbonda in analoghe opere. Gli stessi volti, di eccezionale realismo, lasciano trasparire, mista al dolore, la certezza che la vicenda non è terminata. Nella cattedrale di Santa Maria Assunta ad Asti, è conservato un ulteriore esempio di ‘Pietra dell’unzione’; l’esemplare è in terracotta e conserva, parzialmente, la policromia originaria. Realizzato nel primo decennio del Cinquecento si rifà, come tipologia dei personaggi, a sculture di ambito lombardo. Presenta una caratteristica singolare: alcune parti del corpo nudo del Cristo sono frutto di un calco dal vero. In Piemonte si conservano affini gruppi plastici: uno dei più interessanti è conservato nel Museo Civico di Palazzo Madama a Torino; è di legno di pioppo intagliato e dipinto, attribuito a Domenico Merzagora e realizzato verso il 1480 in ambito ossolano. Nel duomo di Chivasso trovano posto due compianti, l’uno, il più antico, in terracotta policroma, l’altro è dipinto su tavola ed è opera di Defendente
Beato Angelico (fig. 4) “Compianto” Amedeo Lavy firmato e datato 1854
Ferrari (tra il 1480 e il 1485 1540 ca.), pittore chivassese che ha lasciato in patria solo questa testimonianza della sua arte. La prima opera partecipa della tipologia tradizionale della “Pietra dell’unzione”, mentre la tavola, collocata come pala su uno degli altari laterali è un caratteristico “Compianto”. L’opera in terracotta non ha la stessa forza persuasiva di quella di Moncalieri e pare sia una versione affatto popolare di un originale di tutt’altro piglio: il sembiante dei personaggi non è curato e, nonostante una certa ricercatezza, le vesti non sono indossate con disinvoltura. La tavola di Defendente, che conserva la cornice originale in legno intagliato e dorata, è stata dipinta nel primo quarto del Cinquecento, nella piena maturità artistica del maestro; la vigorosa composizione tardogotica, che si impone per l’incisività dei colori e per i preziosismi delle aureole in pastiglia dorata è collocata in primo piano con un realistico sfondo fatto di balze scoscese che costringono le tre croci del Calvario. I testimoni del dramma sono pochi: la Madre, le tre Marie e l’apostolo Giovanni che regge con affetto il capo del Maestro. Tre figure, con Maria al centro, sono separate da una sorta di arcuata balaustra umana fatta dall’apostolo, dal corpo di Gesù e dalla Maddalena che si piega a baciare la sua mano. Il braccio destro, pendulo, rimanda al tradizionale segno, inequivocabile, della fine del Maestro, una sorta di ‘certificato di morte’ figurato. Un caso a parte è rappresentato dalle statue del Cristo morto, adagiato, spesso con accanto una immagine plastica della sola Maria. Nella parrocchiale di Pino Torinese si conserva un bozzetto in terracotta, dello scultore Amedeo Lavy (1777-1864), firmato e datato 1854 (fig. 4). Immagini di questo genere, solitamente di dimensioni pari al naturale, erano portate in processione il venerdì santo, ed erano una sorta di “Compianti”, dove il
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cordoglio era demandato ai fedeli che la seguivano. Residuo delle sacre rappresentazioni, dove le comparse realizzavano, verosimilmente, la passione di Gesù e quanto seguiva la sua morte. La scultura del Lavy è di un efficace realismo temperato dalla politezza del modellato. Un “Compianto” (fig. 5), di indubbia provenienza nordeuropea, è esposto nella chiesa torinese di Sant’Agostino. L’opera, un olio su tela eseguito nella prima metà del ‘500, presenta una iconografia del tutto singolare. Non è una ipotesi peregrina l’identificare i possibili committenti in due dei personaggi rappresentati: uno, con il berretto in mano accanto a Giuseppe d’Arimatea che sostiene il corpo esanime del Salvatore e un amico, forse un parente, accanto al probabile Nicodemo, che esamina, con fare distaccato, la corona di spine. Il primo piano è occupato dal corpo esanime di Gesù, sua Madre, in atteggiamento supplice, lo guarda angosciata; il discepolo Giovanni è più discosto, mentre la Maddalena raccoglie la mano di Gesù e la bacia. Sul fondo, ai piedi della dura roccia su cui è stato elevato il patibolo, le figure delle due Marie stanno appartate, timorose di intromettersi a mitigare il dolore che permea tutta la scena. È un dipinto di grande interesse, realizzato con una tavolozza varia e preziosa, ricco di particolari e con una esemplare ricerca fisiognomica al punto che i diversi personaggi assurgono a dignità di ritratto.
Beato Angelico (fig. 5 pag.) “Compianto� provenienza nordeuropea
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