SHORELESS Opere di Güler Ates per il MAO
SHORELESS
Opere di Güler Ates per il MAO MAO Museo d’Arte Orientale 4 ottobre 2019 - 6 gennaio 2020 a cura di Domenico Maria PAPA Coordinamento e organizzazione Delia MALFITANO Giulia VITELLARO Assistenza allestimento Squadra Tecnica della Fondazione Torino Musei
Presidente Maurizio CIBRARIO Consiglio Direttivo Luca ANGELANTONI Sara BONINI BARALDI Roberto CODA Anna Maria POGGI Segretario generale Elisabetta RATTALINO Staff di Fondazione Torino Musei
Traduzioni Simon TURNER Grafica in mostra Fabbricanti d’Immagine snr Ringraziamenti speciali Mia LANDI Eva MORANDO Roberta VERGAGNI
Direttore Marco GUGLIELMINOTTI TRIVEL Conservatrice Claudia RAMASSO
Catalogo Teca edizioni
Ufficio mostre e eventi Delia MALFITANO
A cura di Domenico Maria PAPA
Segreteria e protocollo Marika MARONE
Testi di Marco GUGLIELMINOTTI TRIVEL Claudia RAMASSO e Roberta VERGAGNI Domenico Maria PAPA Guler ATES
Servizi educativi Mia LANDI Eva MORANDO
Redazione Monica PRASTARO Emanuela FAIAZZA
Informazioni e prenotazioni Tiziana NOSEK
Progetto grafico e impaginazione Museumstudio s.r.l.s
Ufficio tecnico e sicurezza Patrizia BOSIO
Risorse umane Veronica MANTOVANI Simona TROMBETTA
La Consulta di Torino ha promosso e sostenuto il progetto didattico per gli studenti dell’Accademia Albertina e la realizzazione del catalogo della mostra Shoreless. Presidente Adriana ACUTIS I Soci 2A Ferrero Armando Testa Fiat Chrysler Automobiles Arriva Fondazione Crt Banca del Piemonte Garosci Banca Fideuram Gruppo Ferrero-Presider Banca Passadore & C. Intesa Sanpaolo Buffetti Italgas Buzzi Unicem Lavazza C.L.N. Martini & Rossi Chiusano & C. Megadyne Compagnia di San Paolo M. Marsiaj & C. Costruzioni Generali Gilardi Reply Deloitte & Touche Skf Ersel Reale Mutua Fenera Holding Unione Industriale di Torino Vittoria Assicurazioni Progetto didattico a cura di Maria Cristina LISBONA
Presidente Paola GRIBAUDO Direttore Salvatore BITONTI Consiglio di Amministrazione Paola SPEZZAFERRI Roberto VILLA Referente per il progetto didattico Laura VALLE
SHORELESS è nel programma di
I LUOGHI DELL’ARTE
un progetto dell’associazione
con il patrocinio di
e il sostegno di
La Fondazione Torino Musei presenta oggi negli spazi del Museo D’Arte Orientale la mostra Shoreless. Opere di Güler Ates per il MAO. La mostra celebra il lavoro della fotografa turca Güler Ates, la cui opera riesce a combinare suggestioni, colori e sensibilità artistiche da tutto il mondo. I suoi scatti sono eseguiti nell’ambito di performance che riecheggiano il teatro danza: il movimento di queste figure irreali consente loro di immergersi e staccarsi a proprio piacimento dallo spazio concettuale in cui vengono fotografate. Questo modo di interagire con l’ambiente circostante diventa il linguaggio dell’artista, un linguaggio visuale che dà voce a ciò che non è visibile. I luoghi in cui le performance si svolgono non sono solo meri fondali, ma veri e propri veicoli semiotici. Si è dunque scelto di distribuire i lavori dell’artista nel percorso museale del MAO, per instaurare un dialogo silenzioso tra opere e fotografie, suggestioni e culture, distanze e contatti. Il dialogo spirituale tra opere d’arte e luoghi che le ospitano è un concetto dominante del festival ART SITE che ha promosso questa mostra e altre iniziative che valorizzano le dimore reali del Piemonte. Nel lavoro di Güler Ates il MAO non svolge il solo ruolo di contenitore: tra le sue gallerie si è svolta una performance con una danzatrice che si è tradotta nella produzione di opere fotografiche e in un’opportunità formativa per alcuni allievi dell’Accademia Albertina di Torino. Il nostro ringraziamento va dunque alle istituzioni che hanno lavorato in rete a questa iniziativa e alle persone che hanno messo a disposizione competenze e professionalità. Un ringraziamento speciale va ai soci della Consulta per la Valorizzazione dei Beni Artistici e Culturali di Torino, che hanno promosso e sostenuto il progetto.
Elisabetta RATTALINO Segretario Generale Fondazione Torino Musei
Le Imprese che costituiscono la Consulta per la Valorizzazione dei Beni Artistici e Culturali di Torino sono desiderose di offrire a giovani studenti dell’Accademia Albertina un’esperienza destinata ad arricchire il loro curriculum accademico e fare la differenza nella loro vita e nel loro futuro lavoro. Gli studenti hanno collaborato attivamente accanto all’artista Güler Ates nella creazione di opere ambientate nello stimolante contesto del Museo d’Arte Orientale di Torino, un lavoro che ha permesso loro di sperimentare una creatività di rinomata eccellenza che interpella temi attuali di contrasto e dialogo sociale e culturale. Arte e cultura potenziano identità e dialogo, comunicazione che si radica nella diversità. La Consulta di Torino da oltre 30 anni investe fondi e progettualità a favore della vitalità artistica del territorio, al fine di risvegliare l’eredità culturale del territorio, fonte di attrattività e forza in grado di stimolare il tessuto torinese ad aprirsi ed entrare sempre più a fare parte attiva di un contesto che superi i propri confini. Tale sforzo ha indotto Consulta ad investire a favore dell’Accademia Albertina in numerose occasioni da oltre 20 anni. Il progetto oggetto del presente catalogo rientra in un filone di crescente importanza per l’Associazione: la didattica. Favorire il risveglio di talenti e sensibilità nel settore dell’arte e della cultura è potenziale energia, oro policromatico in un paese conosciuto nel mondo per il proprio inestimabile tesoro ereditato dalla storia. L’auspicio è che tale impegno di Consulta stimoli l’inserimento degli studenti nel mondo del lavoro a beneficio della creatività imprenditoriale. Grande gratitudine va alle Imprese ed Enti che collaborano con costanza e impegno sia finanziario che di ricchezza professionale, assieme alle Istituzioni pubbliche, per la realizzazione di progetti mirati ad un bene comune offerto alle generazioni presenti e future.
Adriana ACUTIS Presidente Consulta per la Valorizzazione dei Beni Artistici e Culturali di Torino
Con grande piacere la Presidenza e la Direzione dell’Accademia Albertina salutano la realizzazione di un’iniziativa così stimolante e formativa per gli studenti della nostra istituzione come il workshop realizzato nello scorso giugno con l’artista turca Güler Ates. Si è trattato del risultato di una felice collaborazione con il Festival Art Site Fest 2019, il museo MAO, Fondazione Torino Musei e la Consulta di Torino che ha visto un gruppo molto motivato di studenti impegnati, nelle sale del Museo d’Arte Orientale, a coadiuvare l’artista nella realizzazione delle fotografie per la mostra. L’esperienza però è stata molto di più: il rapporto di scambio con Güler, la cui arte contiene echi di oriente e occidente, passato e contemporaneità, ha permesso loro di vedere direttamente le fasi di elaborazione di un progetto di arte contemporanea site specific, di apprendere particolari tecniche esecutive e di ripensare quindi il proprio linguaggio artistico. E proprio da questo percorso nascono i loro lavori ispirati dall’esperienza, qui riprodotti in catalogo e che saranno esposti come progetto speciale dell’Accademia Albertina all’interno della seconda edizione del Festival Internazionale delle Scuole d’Arte e Design, Fisad, che si terrà dal 14 ottobre al 17 novembre 2019. In conclusione ringraziando tutti i soggetti che hanno contribuito affinchè sia stato possibile realizzare questa virtuosa sinergia, ci si augura che ulteriori fruttose collaborazioni future tra istituzioni possano continuare a connettere gli studenti d’arte con artisti già affermati per favorire la formazione ma anche l’esplorazione di potenziali percorsi lavorativi nel campo dell’arte.
Paola Gribaudo Presidente Salvo Bitonti Direttore Accademia Albertina di Torino
Il MAO Museo d’Arte Orientale, inaugurato nel dicembre 2008, è uno dei più importanti in Italia e tra i maggiori in Europa per la conoscenza e lo studio dell’arte orientale. È ospitato nello storico Palazzo Mazzonis, un edificio monumentale del XVII-XVIII secolo sottoposto a un raffinato e accurato restauro, che ne ha valorizzato le antiche strutture e decorazioni e ha permesso un’esposizione ottimale delle opere del Museo. Il Museo offre un ampio panorama dell’arte delle antiche culture dell’Asia. Le gallerie, disposte sui quattro piani dell’edificio presentano opere dell’Asia meridionale e Sud-est asiatico (subcontinente indiano e penisola indocinese), la più importante collezione di arte funeraria cinese presente in Italia che copre il periodo dal Neolitico all’epoca Tang (X sec d.C.), opere d’arte giapponese religiosa e profana, arte della Regione himalayana (Tibet, Nepal e Bhutan) e una significativa collezione di arte islamica. Al piano terra, oltre ai suggestivi giardini giapponesi, si trova uno spazio dedicato alle mostre temporanee. Con una programmazione continua di esposizioni, il Museo intende approfondire e presentare a un pubblico più ampio temi e aspetti particolari del mondo e delle civiltà orientali. Il Museo inoltre organizza esposizioni tematiche dedicate a particolari nuclei di opere presenti nelle proprie collezioni, seminari e conferenze, concerti e altri spettacoli, attività didattiche e laboratori. Il MAO quindi, oltre a essere un riferimento culturale per la conoscenza dell’arte orientale, vuole rappresentare per il pubblico italiano ed europeo una finestra sull’affascinante e complesso mondo delle culture dell’Asia.
Marco GUGLIELMINOTTI TRIVEL Direttore
Maestri millenari, quotidianità immortali, mondi fluttuanti e geometrie fiorite: segni d’Asia al MAO Claudia RAMASSO e Roberta VERGAGNI
Il percorso espositivo relativo all’Asia Meridionale ha inizio con la produzione artistica nota come scuola di Mathurā. Sotto il dominio della dinastia centroasiatica Kuṣāṇa (I-III secolo d.C.) la città di Mathurā, sita sulle rive del fiume Yamunā a sud di Delhi, divenne un importante centro economico e politico. A partire dal I secolo si sviluppò un’importante scuola artistica dove furono elaborate le prime immagini antropomorfe legate alle tre grandi religioni dell’India, induismo, buddhismo e jainismo, delle quali
regione si affermò un’arte buddhista in scisto e stucco policromi e dorati – di cui purtroppo solo rarissime tracce permangono - caratterizzata dalla compresenza di elementi ellenistico-romani, indiani, iranici e centro-asiatici. Al MAO, tra le altre sculture che compongono la collezione del Gandhāra, sono conservati parti dei rilievi provenienti dagli scavi della valle dello Swāt, condotti a partire dalla fine degli anni ’50 da una missione archeologica italiana. Durante il periodo Gupta (IV-VI secolo
FIG. 1: arte dell’Asia meridionale, scuola di Mathurā
la galleria presenta importanti esempi di raffigurazioni scultoree in arenaria rossa maculata [fig. 1]. Contemporaneamente alla più antica arte di Mathurā, si sviluppò l’arte del Gandhāra, nell’area nord-occidentale del Subcontinente indiano, in una regione posta a cavallo fra gli stati moderni del Pakistan e dell’Afghanistan. In questa
d.C.) l’esperienza artistica maturata nel periodo precedente sfociò in uno stile raffinato, pervaso da un naturalismo idealizzato. La figura del “Buddha stante” del V secolo, si impone al contempo per eleganza e trascendenza. Dopo la caduta dell’impero Gupta, in ambito religioso si andò affermando la dimensione diretta del rapporto fra la divinità e il fedele, sia
FIG. 2: Saptamātṛkā. India centro-settentrionale, XI secolo d.C. Arenaria beige scolpita
in termini devozionali, con il movimento della bhakti, sia in termini di pratiche psico-fisiche, con la tradizione esoterica tantrica contraddistinta da insegnamenti e rituali segreti. Da un punto di vista stilistico, la straordinaria ricchezza della decorazione scultorea, esaltata dalla sempre più accentuata sensualità delle forme, erompe attraverso la moltiplicazione degli arti, dei gesti simbolici (mudrā) e degli attributi delle divinità. Come testimoniato dalle diverse sculture presenti in Museo, durante questo periodo si sviluppò il culto delle maggiori divinità hindū: Viṣṇu, dio dell’ordine cosmico, con la consorte Lakṣmī, dea della fortuna e della ricchezza; Śiva, signore della trasformazione e del tempo, affiancato dalla sposa Pārvatī, la benevola figlia della montagna, e dai figli Gaṇeśa, il dio dalla testa d’elefante, e Kārttikeya, il dio della guerra. La Dea, espressione della śakti, la potenza della forma divina, è venerata sia quale manifestazione benevola sia sotto l’aspetto terrifico: le “Saptamātṛkā”, le sette piccole madri, controparti femminili e simbolo della potenza delle divinità maschili, in uno dei due rilievi presenti nella galleria, risalente all’XI secolo, mostrano tutta la loro primordiale energia attraverso l’accenno di un passo di danza che preannuncia la loro azione terrifica e trasformatrice sul cosmo [fig. 2]. Il Subcontinente indiano è da sempre legato ad un’altragrande macroregione, quella del Sudest asiatico. Via di transito tra l’Oceano Indiano e il Pacifico, tra l’India e la Cina, quest’area fin dall’antichità è stata un centro d’attrazione per il com-
mercio e un punto d’incontro di culture. L’influenza della civiltà indiana, attraverso le sue tradizioni religiosee la sua produzione artistica, ha interessatosignificativamente parte di questo territorio, dando tuttavia origine a linguaggi peculiari nati dall’incontro con la poliedrica realtà di culture locali. Il Museo ospita opere d’arte prevalentemente a carattere religioso provenienti dalla Cambogia, dal Myanmar, dalla Thailandia e dal Vietnam. L’arte Khmer - la cui fama è legata agli straordinari monumenti dell’area di Angkor - vide il suo massimo splendore tra la seconda metà del IX e l’inizio del XIII secolo. Il carattere principale della religiosità Khmer è la celebrazione della figura del sovrano quale anello di congiunzione fra il cielo e la terra, nella sua funzione di deva-rāja, il dio-re. Le ieratiche raffigurazioni delle principali divinità hindū, Śiva e Viṣṇu – di quest’ultima divinità nella galleria sono presenti due raffinati esemplari scultorei in arenaria beige del X e XI secolo - riportano i tratti somatici dei grandi sovrani di Angkor. Il territorio nazionale noto un tempo come Birmania (dal 1989 stato del Myanmar) è probabilmente il paese del Sudest asiatico ad avere stretto i più antichi rapporti commerciali con il vicino Subcontinente indiano (V secolo a.C.). La propagazione della cultura indiana comprende sia elementi della religiosità brahmanica, sia le tre forme della dottrina buddhista elaborate dalle scuole theravada (una delle antiche scuole buddhiste), mahāyāna (il “grande veicolo” che diede impulso al culto dei Bodhisattva) e vajra-
yana (via basata sulle pratiche esoteriche tantriche). Con l’affermazione del primo grande regno della storia Birmana, quello di Pagan (1044 – 1287), il buddhismo theravada divenne la principale forma religiosa del paese. I numerosi monumenti di Pagan (stūpa e templi) testimoniano la ricca produzione artistica del periodo, definita epoca d’oro dell’arte birmana. Questo linguaggio iconografico è pertinente a una scultura in legno laccato con parti di doratura che rappresenta la “Figura stante di Buddha coronato”, ornato con le insegne regali. Tale elemento sarà ripreso in seguito dalla produzione in bronzo dell’Arakan, rappresentata nella galleria da una statua di “Buddha coronato” del XVIII secolo. Allo stesso periodo risale una scultura in bronzo laccato e dorato di una delle consuete raffigurazioni del “Buddha in bhūmisparśamudrā”, ovvero del Buddha seduto nel gesto che indica il momento dell’illuminazione. Infine, al periodo di Mandalay (XIX secolo) appartiene la scultura in legno laccato e dorato “Buddha sdraiato in parinirvāṇa”, che mostra l’Illuminato sdraiato sul fianco destro prima della morte e della suprema estinzione [fig. 3]. Contraddistinta da fasi diverse sia nello stile, sia nelle fonti d’ispirazione, l’arte thailandese, fin dagli inizi dell’influenza culturale esercitata dall’India (II-III secolo d.C.), si è ispirata sostanzialmente al buddhismo. L’immagine del Buddha, come attestato dalle sculture in bronzo laccato e dorato, è quella di un essere soprannaturale distaccato dalla condizione terrena,
con lo sguardo assorto nella meditazione e un’alta fiamma o un bocciolo di loto (“Buddha Sakyamani sul trono dei leoni”, stile di Lan-na, XVI secolo) che svetta sulla protuberanza cranica quale simbolo della coscienza illuminata. Fra le tipologie iconografiche – assiso, stante e sdraiato appare preponderante la raffigurazione del “Buddha in bhūmisparśamudrā”. L’arte dei paesi himalayani presenta come tratto unificante la comune versione tantrica del buddhismo da cui emerge una visione del mondo che investe di sé le architetture, le statue, i dipinti, i libri e gli strumenti rituali.Quest’area è stata da sempre sede di intensi scambi con le correnti culturali provenienti dall’India, dalla Cina e dal mondo delle steppe. Il buddhismo tantrico del Tibet, noto come vajrayanarappresenta un particolare sviluppo del mahāyānaaffermatosi in India nei primi secoli della nostra era. Del mahāyāna -espressione del buddhismo che oltre alla figura dell’Illuminato contempla innumerevoli figure di Bodhisattva e divinità -conserva quindi tutti i tratti essenziali ai quali aggiunge l’apporto della teoria e della pratica del tantrismo. Le pratiche esoteriche illustrate nei testi denominatiTantra si svilupparono fra asceti buddhisti e praticanti dello yoga come concentrazione e distoglimento della mente dai fenomeni sensoriali. Elementi essenziali che caratterizzano il tantrismo sono rappresentati dal ricorso a suoni sacri (mantra) ea diagrammi psico-cosmogonici (maṇḍala), dall’esecuzione di rituali segreti con gesti sacri (mudrā) e dalla trasmissione segreta
FIG. 3: arte del Myanmar
di specifiche tecniche psicofisiche da maestro a discepolo.I seguaci del tantrismo tibetano si distinguono per il loro macabro bagaglio fatto di trombe ricavate da ossa umane, di kapāla (calotte craniche usate come recipienti), di tamburelli a clessidra realizzati con due calotte craniche contrapposte, di scettri magici culminanti in teschi e teste mozze, elementi che si ritrovano nelle raffigurazioni di Buddha, Bodhisattva, divinità e praticanti della via. Il termine thang-ka è la parola tibetana impiegata per definire un dipinto su un tessuto che può venire arrotolato. Per la maggior parte le thang-ka riproducono l’immagine di una particolare figura di Buddha, Bodhisattva o divinità circondata dal suo seguito ultraterreno e dai maestri religiosi che ne hanno diffuso il culto. In altri casi mostrano la complessa natura dei maṇḍala o presentano diversi soggetti narrativi. Un’essenziale connotazione del tantrismo buddhista è la presenza di divinità feroci e mostruose,espressioni della capacità di mobilitare le forze contenute nelle pulsioni istintive anche più negative dell’uomo, trasformandole in energie rivolte alla conquista della liberazione dal ciclo delle rinascite, come nella raffigurazionedi “Mahavajrabhairava” del XVII-XVII secolo. Queste diversi elementi iconografici sono presenti nelle collezioni del MAO,oltre che nei dipinti tibetani, bhutanesi e nepalesi datati tra il XVe il XX secolo, nelle sculture in legno – tra cui un’importantissima
FIG. 4: arte dell’area himalayana, dipinti e sculture in bronzo dorato
scultura nepalese risalente al VI secolo di “Avalokiteśvara” - o in bronzo, prevalentemente dorato, di cui immagine sublime è la raffigurazione del “Buddha Śākyamuni” proveniente dal Tibet centrale risalente al XIII secolo [fig. 4]. Uno degli apici della produzione di sculture in lega metallica dorata è legata al monastero di Densatil. Dal 1351 al 1481 il monastero di Densatilfu la principale sede del potere temporale e spirituale in Tibet. I suoi tesori artistici erano famosi in tutto il mondo buddhista e particolarmente famosi erano i suoi diciotto grandi stūpa rivestiti di piastre e statue di rame dorato. Oggi, dopo le distruzioni operate durante la Rivoluzione Culturale, restano soltanto rovine a testimoniare l’anticosplendore di questa fase storica e artistica. Èquindi straordinario che nella Galleria himalayanadel Museo siano conservati alcune sculture e frammenti di rilievi in metallo dorato del XV secoloprovenienti da questo monastero, comel’eccezionale statua di “Virūḍhaka”, il re celeste guardiano del Sud. Fra i rilievi si distingue la straordinaria piccola piastra dorata “Quattro ḍākinī” [fig. 5]. Le quattro figure, esseri celesti femminili che assistono i praticanti tantrici come consorti mistiche,sono raffigurate quali “danzatrici celesti”. La collezione cinese del MAO abbraccia un arco cronologico molto esteso, dal IV millennio a.C. al X secolo d.C., ed è incentrata soprattutto sulle manifestazioni dell’arte funeraria in ceramica, bronzo, legno e pietra. Il percorso del Museo inizia con un’importante raccolta di vasi
neolitici, che offre un ricco spaccato sulle terrecotte dipinte e monocrome delle culture settentrionali. Si procede poi con le manifestazioni artistiche della Cina preimperiale: non solo armi, finimenti e piccoli ornamenti degli Shang (ca. 1600-1046 a.C.) e dei Zhou (1046-256 a.C.), ma anche i bronzi rituali, che tanto peso rivestivano nel sistema magico-religioso di queste dinastie [fig. 6]. La sezione pre-imperiale si conclude con una grande vetrina che ospita oggetti in legno dipinto e laccato, espressione originale dell’arte del regno meridionale di Chu tra il VI e il III secolo a.C.: oggetti preziosissimi che hanno attraversato due millenni di storia. Le due grandi sale successive sono dedicate al periodo Han (206 a.C. – 220 d.C.) con opere che provengono dai corredi funerari ritrovati in tombe ipogee e che ci illustrano vari aspetti della società e della vita materiale della prima dinastia: tra questi, statuine di guerrieri, una raffinata figura femminile danzante, animali reali e fantastici, cinque elementi lapidei di un portale della tomba del II secolo d.C., modellini di edifici e oggetti simbolici, tra cui un fragile “albero delle monete”. Tali oggetti avevano l’intento di fornire al defunto una dimora eterna che riproducesse le condizioni godute in vita e rivelavano l’esistenza di un culto dell’immortalità secondo credenze d’ispirazione taoista. La selezione di grès con vetrina verde oliva del III-IV secolo, tra cui emerge un bell’esempio di “urna dell’anima”, simbolico ricettacolo per lo spirito del defunto, è rappresentativa del “periodo di transizio-
FIG. 5: Quattro ḍākinī, Tibet, XV secolo Fusione in lega di rame, doratura, turchesi e pietre semipreziose
FIG. 6: arte della Cina pre-imperiale
ne” tra la caduta degli Han e la restaurazione imperiale della dinastia Sui (581-618). Con il secondo impero si entra nel mondo cosmopolita del periodo Tang (618-907), caratterizzato da un grande sviluppo economico e culturale dello Stato unitario multietnico e una forte intensificazione degli scambi con altri paesi - non solo economici ma anche politici, culturali e religiosi - che favorirono il fiorire delle arti. La civiltà dei Tang, assimilando tratti culturali di numerosi altri popoli, impartì un formidabile sviluppo alla cultura cinese e influenzò profondamente quella dei paesi confinanti. Tra le opere di pregio esposte al MAO, vi sono le creature teriomorfe zhenmushou, i minacciosi guerrieri tianwang – realizzati in terracotta “a tre colori” (sancai) - e il misterioso “Straniero dal volto velato”, un sacerdote zoroastriano intento a officiare un rito del fuoco o più probabilmente uno degli anonimi cammellieri che marcarono nei secoli le Vie della Seta. La brocca con ansa a forma di drago e coperchio a testa di fenice di epoca Sui (581-618) è eccellente [fig. 7]: i medaglioni incorniciati da perline, i fili di perle, le palmette e le foglie d’acanto che la decorano appartengono al repertorio sasanide; le figure di danzatori, invece, sono legate ai modelli dell’Asia Centrale, i quali a loro volta si ispiravano forse a prototipi indiani. Il corridoio al termine della Galleria cinese costituisce un ponte ideale verso il Giappone e le due sale ad esso dedicate. La collezione giapponese del MAO comprende opere che vanno dall’XI al XIX
FIG. 7: brocca con coperchio a forma di testa di fenice, Cina settentrionale, inizio VII secolo Grès porcellanoso bianco-grigio rivestito da coperta verde-gialla
secolo, sia a carattere religioso, sia profano. La prima sala ospita un’importante raccolta di statue buddhiste in legno hinoki, che offre una ricca panoramica della produzione scultorea buddhista dal periodo Heian (794-1185) al primo secolo del periodo Edo (1603-1868). La più sensazionale è la grande statua del guardiano del tempio buddhista Kongo Rikishi (fig. 8): realizzata assemblando diverse sezioni di legno secondo la tecnica yosegi-zukuri e alta oltre 230 cm, offre un sorprendente colpo d’occhio nella saletta a lei dedicata, restituendo a chi la ammira il vigore tipico dell’arte del periodo Kamakura (1185-1868). Come preziosa scenografia per le sculture, alle pareti sono esposte due coppie di grandi paraventi a sei ante, che vengono cambiate ogni anno. La sala al piano superiore, dedicata alla produzione del fervente periodo Edo, ospita al centro una grande vetrina con tre armature complete di samurai di fine XVII, XVIII e inizio XIX secolo; il tema marziale prosegue con una selezione di lame tradizionali katana, wakizashi e tantō con i rispettivi foderi. Completano la galleria manufatti che, per la delicatezza dei loro materiali, sono oggetto di periodiche rotazioni conservative e che permettono altresì al visitatore di conoscere opere sempre diverse: i mantelli rituali buddhisti kesa, i dipinti su rotolo verticale kakemono, le xilografie policrome ukiyo-e, i libri stampati illustrati ehon, i biglietti augurali surimono. Il percorso di visita termina con la ricostruzione di una stanza tradizionale giapponese, nella cui nicchia trovano
FIG. 8 Kongo Rikishi, Giappone, seconda metĂ XIII secolo Legno di cipresso dipinto
FIG. 9: ricostruzione di una stanza tradizionale giapponese
FIG. 10: arte dei paesi islamici dell’Asia, ceramiche e bronzi
posto utensili per la cerimonia del tè, una composizione di ikebana e un prezioso kakemono a tema stagionale [fig. 9]. La collezione di arte islamica del MAO illustra la produzione artistica di tessuti, vasellame, piastrelle ornamentali, bronzi e manoscritti provenienti da Turchia, Siria, Iraq, Iran e dalle repubbliche ex-sovietiche dell’Asia Centrale, abbracciando un arco temporale che va dall’VIII al XVIII secolo. Il percorso espositivo si apre con la sezione dedicata alla collezione di velluti ottomani e di tessuti. Nelle due grandi vetrine centrali [fig. 10] si snoda la collezione di ceramiche e bronzi, a partire dalla produzione di epoca abbaside (750-1258 d.C.). In epoca selgiuchide si assiste a un ampio impiego della tecnica del lustro: spicca una base di candelabro (Anatolia, XII-XIII secolo) in bronzo inciso e ageminato, la cui decorazione presenta il “lavoro dei mesi”. L’apice della produzione selgiuchide è raggiunto dal vasellame mina’ì, ottenuto con la tecnica della pittura a smalto sopra vetrina: gli esempi del MAO ne mostrano i motivi iconografici più diffusi, quali scene di corte e di caccia tratte dal repertorio sasanide e dalle miniature persiane. I piatti e le piastrelle provenienti da Iznik, con la brillante policromia e la ricchezza delle composizioni floreali e vegetali, esemplificano la fioritura della produzione ceramica ottomana (XV-XVII secolo). Il vasellame dipinto in bianco e blu sotto vetrina trasparente del periodo safavide (XVI-XVIII secolo) trae ispirazione dai motivi decorativi cinesi, diffusisi grazie all’imponente presenza di artigiani giunti
dalla Cina presso le lussuose corti imperiali. Di particolare effetto per la lucentezza cromatica sono le piastrelle colorate che rivestivano interi edifici; al MAO spicca il pannello di nove mattonelle del XVII secolo proveniente da Damasco, che riproduce la sezione trasversale stilizzata della moschea del Profeta a Medina [fig. 11]: vi si leggono i nomi “Allah”, “Muhammad” e quelli dei quattro “Califfi ben guidati”, mentre un cartiglio centrale reca la scritta “Gloria ad Allah” e tre lampade da moschea scendono sospese dal centro degli archi. L’ultima sezione, dedicata ai manoscritti, illustra i più importanti stili calligrafici della scrittura araba, attraverso pagine del Corano su pergamena, volumi finemente decorati in oro e pigmenti ed eleganti raccolte di poesie persiane impreziosite da delicate miniature.
FIG. 11: Pannello di nove mattonelle, Siria (Damasco), XVII secolo Terracotta, decorazione policroma, invetriatura trasparente
Altri sguardi a Oriente: il MAO ospita il contemporaneo
Marco GUGLIELMINOTTI TRIVEL
La prima volta che ho visto uno scatto di Güler Ates non ho collegato la donna velata a un ambito islamico, alla copertura integrale del burqa o a quella parziale del hijab. Pur avendo incontrato l’artista più volte nel corso dello sviluppo di questo progetto al MAO, pur avendo scambiato numerose email, non le ho mai chiesto che cosa significassero per lei quelle enigmatiche ed intriganti figure. E non perché io non sia una persona curiosa. Ho l’impressione però che tutte le opere, soprattutto quelle più astratte e concettuali dell’arte contemporanea, una volta uscite dallo studio dell’artista e diventate di dominio pubblico comincino a vivere di vita propria, accumulando emozioni ed interpretazioni. Spesso, come accade coi figli, finiscono per diventare qualcosa di diverso da quanto l’artista aveva in mente quando le aveva concepite. Chi scrive non si intende molto di arte contemporanea: facendomi scudo di questa premessa mi sento di poter esprimere pensieri anche ingenui e intuitivi, che non derivano dalla competenza analitica di un critico d’arte. La prima sensazione che ho avuto vedendo le foto di Güler è stata, al di là di una evidente bellezza formale, quella di una certa tensione mista a solitudine nell’interazione tra vivi drappi lucenti e statiche architetture auliche. Le donne delle sue foto mi rimandavano piuttosto a figure femminili della narrativa poeiana, agli spettri nel castello delle mie fantasie da bambino, ma senza risultare spaventose. Nella loro preziosità serica le identi-
fico in una sorta di benefico genius loci, di nume tutelare imprigionato tra le mura stesse che rappresenta e che lo rappresentano. Ho poi avuto occasione di vedere Güler al lavoro al MAO, e le percezioni si sono arricchite. Ho scoperto che le modelle non sono in posa statica mentre le fotografa, bensì in “posa dinamica”: vengono fatte muovere lentamente e sotto sforzo, anche in posture innaturali, quasi stessero lottando per liberarsi dei loro preziosi sudari. Ecco, quella tensione che percepivo da fruitore delle fotografie senza conoscerne il processo creativo è dunque ricercata dall’artista e si trasmette nella sua opera. Cominciando a conoscere meglio Güler Ates e le sue opere, le sensazioni hanno cominciato a lasciare il passo alle riflessioni: un’artista di origini turche che ritrae donne velate; altre sue opere dove il richiamo alla tradizione islamica è evidente1; un sottofondo femminista; scelta di molti siti con caratteristiche orientali o dove sono esposti oggetti del Vicino e del Medio Oriente. Forse a ben vedere l’opera di Güler è meno metafisica di quanto la mia fantasia voglia attribuirle, e ha invece dei risvolti di tipo sociale e “politico” più marcati di quanto possano apparire di primo acchito. Ma qui mi fermo perché sta ad altri sottoporre ai lettori di questo volume interpretazioni supportate da elementi oggettivi. In questa sede vorrei piuttosto tentare di capire che cosa può aver significato per Güler questo progetto al MAO e cosa signi-
fica il suo progetto per un museo come il nostro. Non conosco tutta la sua opera nel dettaglio, ma credo che sia la prima volta che i suoi scatti ritraggono un ambiente palesemente museale, con oggetti all’interno di vetrine moderne e in un caso addirittura con le corsie per i faretti in bella vista. Altri progetti (Museum Van Loon ad Amsterdam e Leighton House Museum a Londra, solo per citarne due) hanno avuto luogo in contesti di “casa museo”, con opere esposte come in una residenza nobiliare dei secoli passati. Qui al MAO la sfida è stata a mio avviso più complessa: riuscire a integrare Oriente e Occidente, antichità e modernità, sacro e profano. Gli scatti risultanti credo che attestino il successo dell’esperimento, almeno dal punto di vista formale. Dal punto di vista contenutistico, l’idea che appassiona Güler è quella del flusso di popoli e di idee che porta interazione tra conoscenze e culture, e come tali movimenti trovino manifestazione materiale nelle opere e nel percorso museale. Motivi stilistici, iconografie, soggetti che viaggiano nello spazio e nel tempo. Un caso lampante è la trasmissione/trasformazione della figura del Buddha dal subcontinente indiano al Giappone: nel II secolo d.C. sculture in arenaria rossa dal nord dell’India dialogano con coeve raffigurazioni in scisto grigio dal Gandhāra, dove peraltro è evidente l’influsso ellenisticoromano. Nella galleria dedicata all’Asia meridionale è possibile seguire l’evoluzione della figura del Buddha sia nella storia dell’India sia nella diffusione nei paesi del
Sud-est asiatico. Ritroviamo poi questa immagine sacra dal linguaggio potente su un vaso funerario cinese alla fine del III secolo d.C., ridotta tuttavia a un semplice stampino ripetuto sulla pancia del vaso e scevro, probabilmente, di un preciso significato religioso; e sempre nella galleria cinese, dei bronzetti votivi dal VI all’VIII secolo attestano invece una devozione buddhista ormai consolidata. Nella prima sala dedicata al Giappone dominano sculture lignee dall’XI al XVIII secolo: un periodo di maturità della statuaria buddhista, ormai affrancata dai modelli inizialmente importati da Cina e Corea, dove però si ritrovano caratteristiche stilistiche e formali trasmesse dall’India di mille anni prima. Proseguendo oltre, nella galleria dedicata alla regione himalayana vediamo modalità espressive ancora diverse nella raffigurazione del Buddha e delle innumerevoli divinità contemplate nel buddhismo tantrico. Nell’ultima sezione del museo, dedicata all’arte islamica, non troviamo ovviamente figure del Buddha che arricchiscano questo quadro. Però, ad esempio, le ceramiche della prima epoca abbasside (750-945 d.C.) richiamano immediatamente alla mente le terrecotte invetriate policrome della dinastia cinese dei Tang (618-907 d.C.) incontrate al primo piano del museo: il viaggio di scambi e di influenze che può continuare all’infinito, senza approdo, come il titolo di questo progetto di Güler Ates. Per capire cosa ha significato il progetto della Ates per il MAO, conviene forse spiegare prima a grandi linee che cosa è
il museo e come si è sviluppato nel corso del tempo. Inaugurato alla fine del 2008 per volontà delle istituzioni e delle fondazioni bancarie che costituiscono la Fondazione Torino Musei, e da questa gestito a livello organizzativo e amministrativo generale, il Museo d’Arte Orientale è stato concepito nell’ambito delle politiche di rivalutazione generale di Torino come città culturale tra la fine del ‘900 e l’inizio del nuovo millennio. Oltre ad ampliare e diversificare l’offerta culturale della città, esso rispondeva e risponde ancora oggi all’esigenza di conoscere e comprendere culture diverse in un epoca in cui Torino diventa sempre più multietnica, con l’obiettivo di allargare gli orizzonti degli italiani e di favorire l’integrazione dei nuovi cittadini. Nell’ottica del suo fondatore e primo direttore, il Prof. Franco Ricca, attraverso la comprensione storico-culturale e l’emozione estetica indotta dal contatto con opere di arte asiatica il museo “intende ispirare nel visitatore nuove forme di pensiero e di rappresentazione fino alla piena consapevolezza di quanto sia preziosa ogni espressione del sapere umano”2. Pur fondato sui capisaldi dell’arte antica orientale come principale obiettivo istituzionale, il MAO per sua natura si è aperto fin dall’inizio ad altre manifestazioni culturali delle civiltà asiatiche e non solo: il cinema e la musica, con rassegne di ampio respiro come Darbar ad esempio; la fotografia e la stessa arte contemporanea, che a partire dal 2010 è stata presente con una media di una installazione all’anno; e altri
ambiti ancora. La vocazione del MAO alla diversificazione delle proposte e all’avvicinamento di nuovi pubblici si è intensificata con il mio predecessore, Dott. Marco Biscione, che è giunto al MAO con un nuovo spazio per esposizioni temporanee pronto da utilizzare. Intensificando le attività espositive è aumentata l’attenzione per il dato etnoantropologico e si sono proposte aperture alla cultura pop. “Abbiamo voluto offrire al pubblico un’esperienza della grande ricchezza e diversità delle culture asiatiche, cercando di diventare una sorta di finestra sul mondo orientale, inteso nel senso più ampio, raccontando come l’Asia interagisce con noi”3. I numeri del MAO sono cresciuti con il moltiplicarsi delle mostre, attestandosi attorno ai 100.000 visitatori annui, che lo rendono il museo di arte asiatica attualmente più visitato in Italia. Chi scrive, in veste di conservatore, ha contribuito alla formazione e alla crescita del MAO da prima ancora che fosse inaugurato, e l’anno scorso ha ereditato come direttore un museo poliedrico e vivace. Il MAO ha una densa programmazione di mostre eterogenee; collabora con istituzioni nazionali e straniere a progetti condivisi; conduce un’attività didattica intensa e interagisce con varie comunità di immigrati secondo criteri di accessibilità, inclusione e integrazione; si fa promotore di proposte espositive di alto livello in un’ottica di esportazione e internazionalizzazione. Compatibilmente con le risorse umane e finanziarie disponibili, mi piacerebbe riportare contestualmente
l’attenzione dei visitatori sulle collezioni permanenti e sul percorso museale, che rappresentano una grande ricchezza della nostra Città/Regione da valorizzare e diffondere. La vocazione principale del museo rimane quella dell’arte asiatica antica. L’arte contemporanea continuerà quindi ad essere proposta con la media del decennio precedente: una installazione all’anno, che coincida possibilmente col periodo autunnale di grandi manfestazioni come Artissima e Art Site Fest. Torino vanta numerose e prestigiose istituzioni deputate all’arte contemporanea, che hanno le competenze giuste per trattare fenomeni che sono sempre più globali e sempre meno legati alle culture di origine degli artisti. L’originalità del progetto di Güler Ates per il MAO è molteplice. Per la prima volta il museo diventa un set fotografico e un progetto di arte contemporanea si sviluppa al suo interno; per la prima volta le opere del MAO entrano a far parte di altre opere d’arte; per la prima volta un’installazione di arte contemporanea si estende su tutte le gallerie dell’esposizione permanente, in dialogo con le opere di arte antica. Anche questo è un modo per riportare l’attenzione sulle collezioni del museo, arricchendole nel contrasto tra antico e moderno, stimolando così nuovi pubblici a scoprire un mondo che fino ad ora magari non avevano considerato. Per chi scrive l’opera di Güler al MAO ha ancora due elementi degni di attenzione, che scaturiscono da una visione personale del museo e delle opere in esso custo-
dite. Sento ancora qualcuno considerare i musei come luoghi dove oggetti ed opere una volta vivi e dotati di significato nei contesti originari vengono deprivati di vita e di significato. Considerata la mia formazione da archeologo non posso non concordare sul senso di impoverimento di un oggetto che ha perduto il suo contesto originario. Tuttavia, dopo oltre dieci anni di lavoro museale ho finito per considerare la questione da un’altra prospettiva, quella dell’opera stessa. Prendiamo un oggetto antico che a un certo punto della sua vita perda la destinazione d’uso originaria e venga dismesso, in qualche caso distrutto o depredato, altre volte entrando quietamente in qualche collezione. Nel corso di secoli o di decenni, dopo innumerevoli traversie, approda ifinalmente a un museo che lo conserva, lo ripara, lo valorizza, tenta di spiegarne il senso e la natura a donne e uomini lontani da esso nello spazio e/o nel tempo. Io voglio credere che cominci a rivivere di una nuova vita, e che la sua storia si arricchisca di significati altri da quelli originali – ormai purtroppo irrimediabilmente perduti – ma pur sempre validi e utili in sé. Poi a un certo punto arriva Güler Ates e immortala quell’oggetto in una fotografia: l’opera entra a far parte di una nuova opera, si arricchisce ulteriormente di significato e potrà diffondersi liberamente fuori dai confini del museo, almeno virtualmente, in un processo senza conclusione: shoreless. Mi capita ogni tanto di aggirarmi tra le sale del MAO quando il museo è chiuso, o di recarmi da solo nei depositi. In questi
momenti, nel rapporto intimo che si crea con gli spazi e gli oggetti, percepisco chiaramente quanto essi emanino dell’esperienza dei secoli e delle persone che, dalla creazione alla musealizzazione, si sono avvicendate. Bisogna essere un po’ animisti a mio avviso per lavorare con passione nei musei. Con l’opera di Güler il MAO sembra aver trovato una rappresentazione adeguata del suo genius loci, una figura che rimanda a contesti asiatici senza esserlo fino in fondo, muta testimone di un rapporto complesso e mai veramente risolto tra le etichette Oriente/Occidente in un’ottica di superamento della dicotomia: che è in fin dei conti lo scopo ultimo del museo che dirigo. La prossima volta che percorrerò da solo la penombra del museo chiuso andrò alla ricerca di questa diafana presenza, con la speranza di comprendere qualcosa in più del senso di quanto mi circonda. Al di là delle fantasie interpretative, credo che una volta pubblicato questo scritto mi deciderò a chiedere finalmente a Güler che senso hanno le modelle velate per lei...
Garment of Flowers and She (I), 40x60,5 cm, 2013 Archival Digital Print Nelle pagine seguenti: Mirrors, 75x51 cm 2013, Archival Digital Print, (particolare).
SHORELESS, un progetto di Güler Ates per il MAO Domenico Maria PAPA
Arnold Gehlen afferma che l’uomo inizia a produrre strumenti utili a modificare il proprio intorno, punte di selce, vasi o sculture, quando può esonerarsi dall’immediato, quando gli è concesso di sollevarsi dall’urgenza della realtà, di astrarsi dalla condizione del qui e ora che è propria dell’animale. Quando, cioè, mette una distanza tra sé e il mondo e in quella distanza fonda la propria specificità. Si tratta di una distanza che per Gehlen è propriamente umana in quanto favorisce il pensiero del futuro, della memoria e di un altrove, quest’ultimo presupposto necessario a ogni progettualità che demanda a un tempo a venire il compimento di un atto. Ogni contenuto culturale, dunque, necessita di uno scarto di dimensione temporale o spaziale che sia, verso quanto deve ancora accadere o quanto è già stato. L’istituzione del Museo, in età moderna si configura come luogo simbolico di quella distanza. Nasce, infatti, da uno spostamento, dal movimento di sottrazione al loro contesto originario di oggetti e manufatti, a sancire l’esonero dalla funzionalità immediata e dalla contingenza. A celebrare la memoria che si esercita nella distanza con il passato. Nel 1796, Antoine Quatremère de Quincy scriveva al generale Francisco de Miranda, a lamentare la spoliazione sistematica condotta dalle armate napoleoniche a danno del patrimonio artistico italiano, in favore delle raccolte museali francesi. Quatremère de Quincy rivendica la necessità del contesto fisico di significa-
zione che l’ideologia del Museo rischia di compromettere. L’idea del Museo poggia sull’universalità dei valori promossi dall’Illuminismo. Se, infatti, l’arte esprime valori comuni all’umanità intera, non è opportuno che rimanga espressione di un solo popolo e nella disponibilità di un solo luogo. A pochi anni di distanza dalle campagne napoleoniche che portarono al Louvre opere da tutta Europa, i marmi del Partenone iniziavano il loro viaggio verso il British Museum. Anche in quel caso, molte voci si levarono contro quello che senza mezzi termini fu dichiarato come un saccheggio a opera del Conte di Elgin. La polemica avviata da Quatremère de Quincy diviene ancora più aspra, quando le grandi esplorazioni tra XVIII e XIX secolo portano in Europa oggetti non più solo artistici, ma anche di uso comune, cultuale e religioso da regioni lontane, delle quali poco o nulla ancora si sapeva. La distanza, in quel caso, è non solo temporale, ma anche geografica, di sensibilità, tradizione, etica. La pretesa superiorità della cultura occidentale si voleva espressa anche nella sua disponibilità ad accogliere e assimilare altre culture. Oggetti, manufatti e opere d’arte di tutti i continenti passarono dalle numerose Esposizioni universali della seconda metà dell’Ottocento, prima di finire nelle raccolte etnografiche. La stessa etnografia classica sperimentò poi che la distanza neutrale dell’osservatore non è mai possibile e che l’elisione del contesto altera il significato autentico di un manufatto. Il dibattito sul rapporto
tra opera e contesto accompagna la vita stessa del Museo e la pratica della decontestualizzazione diviene un’abitudine dell’arte moderna e contemporanea. Si può dire, anzi, che l’arte moderna nasce per il Museo. Una prima opera paradigmatica che si offre come medium di decontestualizzazione è l’Olympia di Édouard Manet. La storia del dipinto è nota: rappresenta una prostituta che il pittore ritrae per il Salon del 1865. Lo scandalo fu tale che gli organizzatori si videro costretti a predisporre delle misure per tenere lontano dal quadro il pubblico inferocito. Ciò che i visitatori non sopportavano era vedere un quadro che avrebbe trovato più consono contesto in una delle tante case parigine, frequentate da quelli che si aggiravano tra i dipinti del Salon. La famosa fontana di Duchamp, del 1917, con la sua prolifica genealogia di readymade, non sarebbe stata pensabile se non in un movimento di rovesciamento di contesto e di definitiva assegnazione dell’opera a uno spazio neutro che, dal Salon di fine Ottocento, si trasformava nel withe cube dell’International Style modernista. Non è più il luogo, uno spazio fisico originario, dunque, che definisce il significato dell’opera, come accadeva, per esempio, per una Madonna ritratta su un altare. Il filosofo Arthur Danto ci ha aiutato a capire come il valore dell’arte contemporanea è dato da un sistema di relazioni costruito da una comunità e non tanto dal luogo nel quale è collocata. L’opera d’arte, per
riprendere Foucault, è un dispositivo, ossia un insieme assolutamente eterogeneo che implica discorsi, istituzioni, decisioni regolative, leggi, misure amministrative, enunciati scientifici, proposizioni filosofiche. In tutto ciò ha trascurabile importanza dove la si ammira. L’omologazione delle soluzioni espositive, tutte simili sotto ogni latitudine, grazie anche ai brand internazionali della progettazione museale, assegna a Francisco de Miranda un’ampia vittoria postuma, con buona pace di Quatremère. Accade, però, che con l’accumularsi di oggetti disparati e singolari nei magazzini dei musei, a seguire l’ipertrofia produttiva dell’arte attuale, forse per una naturale dinamica vichiana di corsi storici, torna a cresce il desiderio di riannodare il legame dell’opera con uno spazio e un tempo assegnati. Di rimettere in discussione una distanza che si è fatta tanto ampia, da non sostenere più alcun significato culturale. Di invertire la logica del ready-made. Da ciò origina, forse, l’attenzione crescente, verso progetti site specific, con i quali l’artista fa esperienza di un luogo, vivendolo quotidianamente e per il quale realizza opere che a quel luogo sono riconducibili. Non è sempre stato il ready-made, l’unico paradigma: la Land Art negli anni Settanta ha inteso recuperare con i luoghi un rapporto profondo. Si pensi, per esempio, all’opera di Robert Smithson, Walter De Maria o James Turrell, o su altri versanti, all’opera di Hamish Fulton. Anche
Untitled (Palazzo Madama), 39x99,5 cm, 2018 Archival Digital Print
la street art, negli anni Ottanta, nasce come espressione legata intimamente a un luogo, spazio urbano e periferia newyorkese. Di nuovo, allora, la polemica tra quanti vogliono l’opera assegnata a un contesto e quanti, invece, pretendono che a quello sia sottratta per l’universale fruizione torna a proposito di Bansky e delle discutibili mostre che ne celebrano il genio irriverente al chiuso di anodine sale espositive. Sul rapporto tra opera e contesto si muove la ricerca di Güler Ates, artista di origine turca, residente a Londra. Ates individua ambienti aulici o storicamente significativi e in quegli ambienti colloca figure abbigliate con vesti preziose, o a volte semplicemente colorate, mettendo in rappresentazione presenze enigmatiche che costringono lo spettatore a osservare da una diversa prospettiva, spazi e figure. Ates concepisce le sue opere come vere e proprie performance realizzate nei luoghi scelti e nel corso delle quali, allestisce un set fotografico. Chiede alle sue modelle di muoversi seguendo precise indicazioni sottoponendole, a volte, a sforzi e fatica fisica, sublimata nel disegno leggero delle stoffe che sembrano vivere di autonoma misteriosa vita. Gli shooting di Ates mirano ad avviare un dialogo rigoroso tra corpo, figura e luogo, per affrontare temi cogenti: come quello dell’idea di femminilità, nella dialettica tra oriente e occidente, per esempio, o del contrasto tra prezioso e ordinario, collocando materiali comuni in architetture
ampiamente decorate. Güler Ates ha ambientato le sue opere in India, Gran Bretagna, Paesi Bassi, Sud America, scegliendo di volta in volta spazi rappresentativi, al tempo stesso, di una storia propria del luogo, non necessariamente “alta”, e del confronto tra culture e tradizioni. Nel 2018 è stata invitata a compiere un percorso attraverso alcune delle più note residenze reali sabaude: la Reggia di Venaria, Palazzo Madama, il Castello di Govone, la Palazzina di Caccia di Stupinigi. Nel corso della sua residenza, inserita nel programma del Festival Art Site Fest, Ates ha ipotizzato collocazioni, ha sperimentato tessuti e movimenti, provato posizioni e ha approfondito storia e produzioni tradizionali. Ates torna in Piemonte, per un progetto pensato e realizzato per il MAO, Museo d’Arte Orientale di Torino. Il MAO, inaugurato nel dicembre 2008, è uno dei più importanti in Italia e tra i maggiori in Europa per la conoscenza e lo studio dell’arte orientale. Offre un ampio panorama dell’arte delle antiche culture dell’Asia. Le gallerie, disposte sui quattro piani dell’edificio presentano opere dell’Asia meridionale e Sud-est asiatico, la più importante collezione di arte funeraria cinese presente in Italia che copre il periodo dal Neolitico all’epoca Tang, opere d’arte giapponese religiosa e profana, arte della Regione himalayana e una significativa collezione di arte islamica. Il progetto di Guler Ates per il MAO, consiste nell’esposizione di una ventina
di opere, allestite all’interno del percorso museale: una parte di queste sono opere recenti prodotte dall’artista in occasione di residenze in luoghi diversi e notevoli sono le fotografie realizzate in India; un’altra parte è costituita da scatti dedicati ad architetture europee e alle Residenze reali piemontesi. Infine sono presentate al MAO quattro opere, scelte tra quelle realizzate all’interno del museo stesso, nel corso della residenza torinese. Il lavoro dell’artista si completa in una proposta didattica rivolta agli allievi dell’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino. Un piccolo gruppo di giovani artisti ha seguito Ates in tutto il lavoro preparatorio e nella realizzazione del progetto. L’artista e gli allievi si sono incontrati poi in un workshop tenuto presso la stessa Accademia. La prima ragione che sottende il progetto di Güler Ates per il MAO sta nella riflessione circa la distanza della quale si diceva: distanza necessaria a un contenuto culturale, seguendo Arnold Gehlen, che però diviene la stessa distanza dalla quale origina la decontestualizzazione propria dell’istituzione museale, che legittima una parte consistente dell’arte moderna e contemporanea. Güler Ates, pur rimanendo nel tracciato di una assoluta contemporaneità, attraverso il suo lavoro, tenta di restituire un’orizzonte di realtà all’opera. Nel caso del MAO quella realtà sono le collezioni del Museo, elementi a loro volta sottratti alla loro origine. Il gioco, quasi un calembour visivo, indu-
ce a quello spiazzamento nello spettatore che è la finalità prima dell’artista. Una seconda chiave di lettura, coerente con la biografia dell’artista stessa, è nel rapporto tra Oriente e Occidente. L’intera ricerca di Ates evidenzia le falle sia dell’approccio universalista, che si ripropone oggi nella pretesa alla comprensione e all’inclusione generalizzata, sia dell’approccio relativista che del primo è speculare deformazione. Oriente e Occidente nei lavori di Ates, sono compresenti, si guardano, senza mai dissolversi l’uno nell’altro. Si fronteggiano, come è giusto che accada in un dialogo che, va ricordato, è possibile a partire dalla consapevolezza di una essenziale alterità. Dialogo, già nella sua radice etimologica, διά-λογος, implica uno spazio che sta in mezzo, διά è ancora una volta la necessaria separazione. Qui va cercato un passaggio fondamentale: il titolo stesso Shoreless, infatti, rimanda alla perdita di un approdo definitivo, inteso in senso ancora una volta fisico e insieme culturale. Rimarca l’impossibilità di colmare una volta per tutte la distanza che ci divide dall’arrivo, dal definitivo compimento del percorso, dal raggiungimento e dall’unione con l’altro. Qui, forse, troviamo la vocazione dell’Occidente, nascosta una volta ancora nell’etimo antico che dice del sogno della fine e dell’arrivo, del corso del sole, del viaggio o della storia. Un Occidente mai pienamente raggiungibile e che rimane sempre meta lontana.
The MAO project Güler ATES
Seeing Buddha in Hellenistic style cloth in Museum of Oriental Art, inspired me to make this research residency proposal. I am interested in researching the history and meaning of the objects and artefacts in MAO. When I visited MAO last September, I was very moved by the collection that was on display, which sensitively depicted the networks of influence between different cultures, through artistic, religious, and economic channels. The collection evoked strong personal connections for me. I am from Eastern Turkey and have been living in the UK for the past twenty years. Living in the West has allowed me to see my own history, and that of my country of origin, from different perspectives. It was actually in the British Museum, for example, that I first saw artefacts from the area in Turkey where I was born. And it was my extensive study of Venetian paintings in the National Gallery, which brought back memories of the fabrics in my homeland, influencing the palette I use in my works today. In 2008 and 2009, I drew upon these experiences in projects with the Victoria & Albert Museum and Leighton House Museum, in which I photographed ambiguously veiled women within the architecture of these historic spaces. In doing so, I sought to call attention to the multivalent ways in which museums have conjured images of ‘the East,’ and in doing so fostered a particular self-understanding of ‘the West.’ I would like to delve deeper into the theoretical and practical implications of museology with scholars and
curators from MAO and the V&A as dialogue partners. Just as I hope to learn from them, I hope that they will find that my approach to objects exposes counterhistories, which reveal and potentially challenge their own assumptions. Given the nationalist drift of politics in the UK, Italy, and Turkey, it is a propitious time to think critically about cross-cultural influences, destabilizing claims of cultural supremacy wherever they exist. As an immigrant, who draws together influences from multiple countries and traditions, I believe I am particularly well positioned to recognize and reveal histories of mutual influence.
About my practice
Güler ATES
I work with Video, Photography, Printmaking and Performance. At the heart of my work lies an exploration into the experience of cultural displacement. Manifestations of my work are realised through performance and site-responsive activities that merge Eastern and Western sensibilities. In the performances I make a commentary on the Western notion of Orientalism and the effects of the cross-pollination of cultures on female identity and architecture. By setting the ambiguously veiled woman within the architecture of the Victoria & Albert Museum and Leighton House Museum, I interrogated the relationships between, not simply the veil and the ‘West’, but also between the museum and the ‘East’. In my images, the viewer is presented with the image of a veiled woman, yet the veil prevents classification or knowledge of the figure. It is not necessarily a hijab, nor a niqab, but it could be part of a sari or a wedding veil. This openness of possible readings illustrates the multi-faceted nature of the garment. The positioning of the figure within the domestic European interior in some of my works, further complicates interpretation by referencing European traditions of veiled women, such as those found in the work of Vermeer and Rembrandt. I also consider the veil in its historical context, going as far back as Mesopotamian culture, where wearing the veil was a sign of belonging to the higher ranks of society. I use historical comparison to highlight
social and political issues, especially those surrounding gender politics and the veil. The architectural sites that I work within are of a particular era with specific links to colonialism, now post-colonialism, and the ‘East’, and I find that they are interesting to work in, in their own right. I conduct research into the history of these sites, which informs the source of the fabric that becomes a costume or veil for my performing model to wear. As part of the performance, the subject tells a story drawn from the history of the site, exploring my feeling of cultural duality.
Amer Fort and Orange Yellow, 41,5x64 cm, 2013 Archival Digital Print
SHORELESS Le opere in mostra
Blanket II, 60x90 cm, 2018 Archival Digital Print
Books and Yellow Veil, 105x48 cm, 2013 Archival Digital Print
Buddha and Woman in Blue I, 57,2x66 cm, 2019 Archival Digital Print
Dancer, 20x19,7 cm, 2013 Archival Digital Print
Depart Not Without Me, 25x25,4 cm, 2013 Archival Digital Print
Departure, 60x90 cm, 2010 Archival Digital Print
Eternal Maharana and She II, 55x80 cm, 2013 Archival Digital Print
Eton College Library and She III, 65,5x60 cm, 2017 Archival Digital Print
Garment of Desire, 85x60 cm, 2010 Archival Digital Print
Garment of Flowers and She II, 40x60,5 cm, 2013 Archival Digital Print
Gaze, 40x37,4 cm, 2013 Archival Digital Print Nella pagina seguente: Ruins of Eternal Maharana I, 23x26 cm, 2013 Archival Digital Print
Ruins of Eternal Maharana II, 23x26 cm, 2013 Archival Digital Print
The garden in Govone I, 25,5x32 cm, 2018 Archival Digital Print Nella pagina precedente: Song, 105x48,6 cm, 2019 Archival Digital Print
The light and the blue, 20,8x50 cm, 2018 Archival Digital Print
he Shoreless Flower (II), 60x90 cm, 2014 Archival Digital Print
The Whispering Garden I, 26x30 cm, 2017 Archival Digital Print
What Remains I, 51x75 cm, 2019 Archival Digital Print Nella pagina seguente: Whirled, 100x51,5 cm, 2019 Archival Digital Print
Nata in una regione orientale della Turchia, Güler Ates vive e lavora in Gran Bretagna. Si è laureata alla Royal College of Art con un MA in Fine Art. Attualmente è Print Tutor alla Royal Academy Schools. I suoi lavori sono nelle collezioni del Victoria & Albert Museum, dell’Oude Kerk, Museum Van Loon di Amsterdam, della Royal Academy of Art and the Museu de Arte do Rio (MAR) a Rio de Janeiro. Le sue opere sono state esposte alla Royal Academy e in una personale nel 2017 al Museum Van Loon; nel 2018 per la rassegna Art Site Fest, alla Reggia della Venaria, al Castello Cavour di Santana e al Castello di Govone. Nel 2016 all’Unseen Photo Festival di Amsterdam e al Salvation Army International HQ, a Londra; nel 2015 a Londra presso la House of St Barnabas e per Art First a Napoli, presso lo spazio Nea; nel 2014 presso il Marcelle Joseph Projects, a Londra, a Warmond Castle, Amsterdam con Marian Cramer Projects, Instituto Inclusartiz in Rio de Janiero, e alla Kubikgallery a Porto, Portogallo; in 2013 presso il Marian Cramer Projects, Amsterdam, e alla Royal Academy, Arts’s Café Gallery, a Londra; nel 2012 at the LOFT at the Lower Parel, Mumbai, Art First, Londra, e al Marian Cramer Projects, Amsterdam; in 2011 at Great Fosters, Egham, UK; nel 2010 at Leighton House Museum, London and Gallery Point-1, Okinawa, Japan. I suoi lavori sono stati esposti in numerose mostre collettive come: Unexpected: Continuing Narratives of Identity and Migration, Ben Uri Gallery Museum, Londra (2016); Journey, Jewish Museum, Londra (2015); Some
Schools are Cages and Some Schools are Wings, Museu de Arte do Rio (MAR), Rio de Janeiro (2014); and 2Q13: Women Collectors, Women Artists, Lloyds Club, London (2013); and 3rd International Canakkale Biennial, Turkey (2012). Ates ha partecipato a residenze quali Art Site Fest, Torino (2018), Eton College, Windsor (2015), Instituto Inclusartiz, Rio de Janeiro (2013-2014), Art Suites, Bodrum (2014), Space 118 & The Loft at the Lower Parel, Mumbai & Rajasthan (2012 & 2009) e alla Cite Internationale Des Arts, Paris (2007).
Il progetto didattico
Quando ho visto per la prima volta una foto di Güler Ates, il mio occhio ha percepito insieme presenza e assenza, leggerezza e consistenza, armonia e inquietudine, bellezza e dubbio, ma soprattutto la donna nella sua essenza. Una figura femminile fragile ma forte nel suo esserci. Ed è la forza di Güler, la passione della sua arte ma anche la capacità di trasmetterla alle generazioni più giovani, come ai nostri allievi in questo importante, in termini artistici e formativi, workshop. Far incontrare attraverso la pratica artistica artisti e studenti è da sempre un obiettivo prioritario della nostra istituzione e sempre fecondo di esiti immediati e/o tardivi ma non per questo meno significativi, anzi. Perciò saluto con gioia tutti i protagonisti di questa bella iniziativa raccomandando ai ragazzi di conservare dentro di sé ogni momento vissuto, il fruscio di un abito, la morbidezza di un tessuto, la parola di un artista che è cibo per altri artisti e come le figure di Güler, sta per scivolare via leggera ma poi tornerà. Laura VALLE Referente per il progetto didattico
Immagini di alcuni lavori degli allievi dell’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino che hanno partecipato al progetto didattico
Fabiola Spinetti
Lan Tianbaiyun (Nicoletta Lan)
Zhan Li
Federico Parente
Noi studenti dell’Accademia siamo sempre molto entusiasti quando abbiamo l’opportunità di partecipare a un progetto esterno all’Accademia perché, tra tutti gli atenei, il nostro è quello con il rapporto più complicato tra didattica e mondo del lavoro. Nel campo dell’arte il lavoro non è mai valorizzato quanto dovrebbe essere. È per questo che realtà come la Consulta sono di grande importanza sul nostro territorio. Abbiamo aderito al workshop per cercare un’esperienza diversa e cogliere l’occasione di assistere al progetto di un’artista come Güler Ates. Nel salone d’Onore dell’Accademia Albertina, Güler ci ha illustrato il suo metodo di lavoro e le sue opere, ripercorrendo alcune tappe della sua carriera. L’artista ricerca con la sua attivitá l’incontro e la coesistenza tra diverse culture e popoli del mondo, attraverso le sue immagini profonde e quasi oniriche in cui le modelle, ritratte in ambienti culturalmente contrastanti e avvolte nel mistero del loro drappeggio, emanano una luce eterea e quasi divina. Il risultato è un incontro tra Oriente e Occidente. Nel mostrarci le sue fotografie e precedenti lavori sperimentali con le stoffe, spunto e ispirazione per le sue maestose opere fotografiche,
Paola Cera
Tiana Bahnar
Bolognini Luisana
Deng Qipeng Luna Iemmola
Güler si è posta “al nostro livello”, come ha detto lei stessa. Non ci ha considerato “allievi”, ma artisti suoi pari, condividendo con noi i segreti del mestiere nel campo dell’arte con umiltà e franchezza. L’intento di Güler nei nostri confronti non era di tipo “didattico”, nel senso scolastico del termine. Non ci ha impartito una lezione come accade nel quotidiano dell’Accademia, ma ci ha invitato a condividere la nostra cultura e a discuterne, creando unione e dialogo in un gruppo di studenti che prima non si conoscevano. La stessa condivisione a cui mira tutto il suo progetto artistico si è realizzata tra noi allievi, in un workshop che non immaginavamo potesse darci così tanto.
Bahar Heidarzade
Crediti fotografici delle immagini del MAO p. 6-7, Roberto Cortese p. 15, Roberto Cortese p. 16-17, Bruna Biamino p. 19, Roberto Cortese p. 24-25, Roberto Cortese p. 26-27, Bruna Biamino p. 30-31, Roberto Cortese p. 36-37, Bruna Biamino p. 38-39 Bruna Biamino p. 42, Mariano Dallago p.47, Guido Fino
Your joy is here today what remains for tomorrow (III), 50x60 cm, 2007. Archival Digital Print,
Finito di stampare nel settembre 2019 presso la Tipografia Sosso, Via della LibertĂ , 36 10095 Grugliasco (TO) ISBN: 978-88-943388-9-8