LEONARDO E I TESORI DEL RE a cura di Angela Griseri ed Eliana A. Pollone
LEONARDO E I TESORI DEL RE Biblioteca Reale di Torino 30 ottobre 2014 - 15 gennaio 2014 La mostra è realizzata nel nuovo spazio espositivo progettato e realizzato con il sostegno di
2A, Alleanza Assicurazioni, Armando Testa, Banca Fideuram, Buffetti, Burgo Group, Buzzi Unicem, C.L.N., Compagnia di San Paolo, Costruzioni Generali Gilardi, Deloitte & Touche, Ersel, Exor , Fenera Holding, Ferrero, Fiat, Fondazione Crt, Garosci, Geodata, Gruppo Ferrero-Presider, Intesa SanPaolo, Italgas, Lavazza, Martini & Rossi, Megadyne, M. Marsiaj & C., Reale Mutua Assicurazioni, Reply, Rockwood Italia, Skf, Unione Industriale di Torino, Vittoria Assicurazioni, Zoppoli & Pulcher Coordinamento generale Mario Turetta, Direttore Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Piemonte Giovanni Saccani, Direttore Biblioteca Reale di Torino Mario Verdun di Cantogno, Consulta per la Valorizzazione dei Beni Artistici e Culturali di Torino Organizzazione della mostra Giovanni Saccani, Antonietta De Felice, Angela Griseri, Eliana A. Pollone, Maria Luisa Ricci Segreteria organizzativa Claudia Macchi Catalogo Angela Griseri ed Eliana A. Pollone Contributi scientifici al catalogo Pier Franco Chillin, Antonietta De Felice, Mario Epifani, Andreina Griseri, Roberto Pagliero, Eliana A. Pollone, Maria Luisa Ricci, Giovanni Saccani, Stefano Trucco, Mario Verdun di Cantogno, Roberto Vincenzi Referenze fotografiche Biblioteca Reale, Archivio fotografico - Ernani Orcorte - Maria Luisa Ricci NUOVA SALA ESPOSITIVA Supervisione tecnico scientifica Elena Frugoni, Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici per le provincie di Torino, Asti, Cuneo, Biella, Vercelli Progetto architettonico Roberto Pagliero e Roberto Vincenzi con la collaborazione di Stefano Trucco Direzione lavori opere edili Roberto Vincenzi Progetto e direzione lavori opere impiantistiche Massimo Rapetti Coordinatore della sicurezza Roberto Mortarino Impresa esecutrice Zoppoli & Pulcher, Paolo Zola, Direttore di cantiere Coordinamento organizzativo Mario Verdun di Cantogno e Angela Griseri, Consulta Comunicazione e Stampa Domenico Papa, Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Piemonte Carla Piro Mander, Capo Ufficio Stampa e Luisa Cicero, Ufficio Stampa Città di Torino Maria Cristina Lisbona, Consulta Silvia Lanza, Turismo Torino e Provincia La gestione della mostra è stata resa possibile grazie al contributo di Ringraziamenti Il personale della Biblioteca Reale e in particolare Barbara Armaroli, Paolo Calvetto, Gaetano Di Marino, Claudia Macchi, Sabrina Russo, Vincenzo Terracino
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a Biblioteca Reale, istituita nel 1831, raccoglie quanto rimasto delle raccolte librarie dei Savoia notevolmente ridotte sia per la donazione di Vittorio Amedeo II all’Università di Torino sia a seguito delle spoliazioni dell’età napoleonica, a cui il re Carlo Alberto aggiunse i propri libri (arricchiti da diversi acquisti – librari e non - sul mercato antiquario eseguiti da persone di sua fiducia), e tutti i volumi che gli venivano da varie parti donati. Il tassello più prestigioso che Carlo Alberto si assicurò fu l’acquisto della collezione di disegni di Giovanni Volpato comprendente il notissimo nucleo di 13 fogli di Leonardo da Vinci, fra i quali il celeberrimo Autoritratto. La Biblioteca Reale vanta oggi circa 3.000 disegni di maestri italiani e stranieri, di cui almeno quattrocento capolavori assoluti tra cui quelli di Michelangelo, Raffaello, Rembrandt, Carracci, Giulio Romano, Guido Reni, Poussin, Tiepolo, Guercino, Canova. Grazie al finanziamento della Consulta per la Valorizzazione dei Beni Artistici e Culturali di Torino, nel novembre 1998, è stata inaugurata la prima Sala Leonardo, un nuovo spazio espositivo realizzato con le più moderne tecnologie museali, capace di valorizzare l’importante collezione. Attraverso la nuova sala, la Biblioteca ha potuto far conoscere al pubblico il proprio patrimonio, attraverso l’allestimento di mostre tematiche ed eventi speciali. La riapertura dello scalone alfieriano, avvenuta nell’aprile 2013, e il ripristino del passaggio, chiuso nel 1961 nell’ambito di una serie di interventi legati al Centenario dell’Unità d’Italia, ha permesso il collegamento tra l’Armeria Reale e la Biblioteca Reale. Nell’occasione è stato possibile inoltre ricollocare la collezione delle lapidi paleocristiane nell’antica posizione voluta da Carlo Alberto. Nel 2014 è iniziato l’ambizioso progetto per la realizzazione di una nuova galleria espositiva, a integrazione della Sala Leonardo, sempre grazie al determinante contributo della Consulta, di Compagnia di San Paolo e della Fondazione CRT. L’inaugurazione dei nuovi spazi consente perciò alla Biblioteca Reale di mostrare ai visitatori del Polo Reale i suoi magnifici tesori, ma anche di ospitare eventi espositivi con opere provenienti da istituzioni culturali diverse, arricchendo ancora di più l’offerta culturale del Polo Reale di Torino. La mostra Leonardo e i Tesori del Re che si apre il 30 ottobre, grazie alla collaborazione della Città di Torino e Turismo Torino e Provincia, dà inizio ad una nuova stagione di valorizzazione e promozione del Polo Reale di Torino e della Biblioteca Reale in particolare presentando al pubblico una selezione di oltre ottanta capolavori assoluti del importante patrimonio artistico custodito. Un’occasione unica per promuovere l’immagine internazionale del Polo Reale e della Città di Torino. Mario Turetta Direttore Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Piemonte
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a Biblioteca Reale è inserita nel complesso museale del Polo Reale di Torino e fu istituita da Carlo Alberto che, nel 1831, nomina come primo bibliotecario il conte Michele Saverio Provana del Sabbione con il compito, non facile, di raccogliere quanto rimasto delle raccolte librarie dei Savoia, notevolmente ridotte dalla donazione di Vittorio Amedeo II all’Università di Torino e a seguito delle spoliazioni dell’età napoleonica. Al patrimonio librario rimasto, Carlo Alberto aggiunge i propri libri (arricchiti da acquisti sul mercato antiquario) e i volumi che gli venivano da varie parti donati. L’interesse sempre costante del Re ad accrescere le raccolte, portò ad acquisizioni importantissime come la collezione di lapidi paleocristiane, da molti considerata la più notevole collezione urbana del nord-ovest d’Italia. Naturalmente il tassello più prestigioso è l’acquisto della collezione di disegni di Giovanni Volpato, con il notissimo nucleo di fogli di Leonardo da Vinci. Nell’acquisto gioca un ruolo fondamentale il bibliotecario Domenico Promis, nominato nel 1837, lo stesso anno in cui il re autorizza la nuova sistemazione nell’ala del Palazzo Reale sottostante alla Galleria del Beaumont. La collezione – che oggi vanta circa 3.000 disegni di maestri italiani e stranieri – porta la Biblioteca a essere uno dei Gabinetti dei disegni più importanti al mondo: oltre ai 13 fogli di Leonardo, fra i quali il celeberrimo Autoritratto, si contano almeno 400 capolavori assoluti, tra cui quelli di Michelangelo, Raffaello, Rembrandt, Carracci, Poussin, Tiepolo e Guercino. Sotto la direzione del Promis, le acquisizioni importanti, anche in campo librario, rendono lo spostamento quanto mai necessario, infatti nel 1840 si raggiungono i 30.000 volumi. La Biblioteca, con la volontà ferrea del re e l’azione infaticabile di Promis, si trasforma in vero e proprio Gabinetto delle meraviglie, racchiuso nello scrigno progettato dal Palagi, che disegna anche gli arredi. Le collezioni si arricchirono negli anni, anche quando la corte fu spostata prima a Firenze e poi a Roma, trasformando la Biblioteca in una vera e propria Wunderkammer ricca di manoscritti, di incunaboli, di cinquecentine, di disegni, di incisioni, di cimeli, di carte nautiche, di fondi archivistici (con più di 1.500 pergamene a partire dal IX secolo), di album fotografici di grande importanza in quanto fonti del costume, del paesaggio e di avvenimenti storicosociali, ma anche di oggetti (spesso doni) e di ricordi personali, che potrebbero ricomporre una biblioteca familiare. I manoscritti sono conservati nei fondi Storia Patria, Militari, Orientali, Storia d’Italia, Miscellanea Patria, Vernazza, Saluzzo, Casa Savoia, Pergamene patrie e nel multiforme fondo Varia, in cui si conservano il Codice sul volo degli uccelli e manoscritti miniati come i famosissimi Codici Sforza, di cui il Varia 124 con le miniature di De Predis rappresenta l’esempio più prezioso. La Biblioteca custodisce inoltre gli archivi Luserna d’Angrogna, Scarampi, Promis, Pallavicino-Mossi, Begey, ma anche archivi meno noti, da studiare e valorizzare, come
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quello di Maria Clotilde di Savoia, di Margherita di Sardegna e di un nucleo dell’archivio Carabinieri del periodo carlo-albertino. Attualmente la Biblioteca conserva circa 200.000 volumi, 4.500 manoscritti, 3.055 disegni, 187 incunaboli, 5.019 cinquecentine, 1.500 pergamene, 1.112 periodici, 400 album fotografici, carte geografiche, incisioni e stampe. A partire dal 2012, la Biblioteca Reale, partecipando al progetto della Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Piemonte, ha realizzato interventi di ampliamento della propria capacità espositiva che, già nel 1998, grazie al finanziamento della Consulta per la Valorizzazione dei Beni Artistici e Culturali di Torino, contava sulla Sala Leonardo, un caveau realizzato con le più moderne tecnologie museali. Oggi, a distanza di circa 15 anni, il progetto trova uno straordinario ampliamento. Il progetto, cofinanziato dalla Consulta, dalla Compagnia di San Paolo e dalla Fondazione CRT, ha previsto una complessiva ristrutturazione dei magazzini interrati della Biblioteca per consentire il raddoppio della capacità espositiva attraverso la creazione di una nuova Sala, con la ristrutturazione del magazzino di fronte alla Sala Leonardo e un’omogeneizzazione degli spazi di collegamento tra i due locali; ciò consentirà anche l’utilizzo del caveau già esistente come sala di consultazione riservata. Con la nuova sala espositiva, la Biblioteca potrà valorizzare al meglio il proprio patrimonio. La natura poliedrica delle sue collezioni, la sua stessa collocazione all’interno del Polo Reale esaltano quella vocazione museale, creata dalla perseveranza collezionistica perseguita da Carlo Alberto, e la mostra inaugurale mira a mostrare i gioielli di questo ‘scrigno’ di tesori. Giovanni Saccani Direttore della Biblioteca Reale
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ell’ultimo ventennio la Compagnia di San Paolo ha sostenuto numerosi enti e progetti nell’ambito del recupero e della valorizzazione del patrimonio culturale, cercando di garantire una rotazione di soggetti e realtà, al fine di distribuire i contributi equamente. La nostra Fondazione ha tuttavia reiterato il proprio sostegno a favore di alcune iniziative e istituzioni particolarmente meritevoli di un supporto continuativo: è il caso, fra gli altri, del Polo Reale e della Consulta di Torino. Rispetto al primo – recentemente inserito tra i 20 siti di interesse nazionale dotati di autonomia speciale – è intervenuta a partire dal suo fulcro, Palazzo Reale, prendendone in considerazione sia l’involucro sia le collezioni, occupandosi poi della Manica Nuova stramucciana con il progetto di trasferimento presso la stessa della Galleria Sabauda; ha nel contempo promosso una prima riqualificazione del suggestivo Palazzo Chiablese a di alcuni ambienti del Museo di Antichità, ove si è spesa a favore dell’allestimento del percorso espositivo del Papiro di Artemidoro. La Compagnia non ha poi tralasciato i beni religiosi ivi collocati che necessitavano di intervento – la Cappella della Sindone, il Museo del Duomo e la sua Torre – e nemmeno quelli che si trovano nelle immediate vicinanze, come San Lorenzo; la nostra fondazione non ha neppure omesso il riconoscimento all’importante ruolo svolto nella valorizzazione del Polo dagli Amici di Palazzo Reale. Fin dal 1997, la Compagnia ha operato per istituire un distretto dei musei nel centro storico di Torino, convinta che l’insieme di tutti questi luoghi tracciano un itinerario coerente d’arte e di storia in grado di svolgere un ruolo di primo piano nel contesto culturale europeo. Analogo discorso si può adattare al rapporto instaurato con la Consulta per la Valorizzazione dei Beni Artistici e Culturali di Torino, che la Compagnia affianca sin dalla propria nascita e sia in qualità di socio, sia nella realizzazione di attività specifiche mirate al recupero e alla rifunzionalizzazione di luoghi significativi del nostro passato. È riconducibile alla forte stabilità di questo legame l’accoglimento della richiesta di cooperazione giunta nel 2013 dalla Consulta quando quest’ultima ha sottolineato la necessità di duplicare il cosiddetto caveau della Biblioteca Reale, luogo destinato ad accogliere un numero sempre maggiore di visitatori rispetto alle esposizioni dedicate alle magnifiche collezioni conservate. Due percorsi, quello di Consulta in quanto ente e quello che si articolerà a breve nel Polo Reale rinnovato e restituito al pubblico, entrambi di inestimabile valore e di grande respiro, allo snodarsi dei quali la Compagnia intende essere presente come primo attore, con gli oltre 30 milioni di euro deliberati, e la messa a punto di un quadro d’insieme i cui singoli elementi poco varrebbero a prescindere dal loro vicendevole completarsi. Luca Remmert Presidente Compagnia di San Paolo
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a Fondazione CRT è lieta di aver contribuito a rendere possibile l’ampliamento degli spazi espositivi della Biblioteca Reale, operazione che si inquadra nell’ambito del più vasto progetto del Polo Reale coordinato dalla Direzione Regionale del MiBACT, che consentirà la completa fruizione da parte del pubblico di un complesso storico, architettonico e culturale di rara integrità. L’intervento della Fondazione CRT affianca, in completa sinergia, il paritetico impegno della Compagnia di San Paolo e della Consulta per la Valorizzazione dei Beni Artistici e Culturali di Torino, di cui la Fondazione è socio fondatore, e a cui garantisce costante sostegno: fare sistema, specie in un momento storico non facile come l’attuale, si configura come una strategia vincente a garanzia dello sviluppo del territorio. Un ulteriore elemento che rende particolarmente significativa questa nuova iniziativa culturale per la Fondazione CRT, è l’accesso al nuovo spazio espositivo attraverso lo Scalone alfieriano che collega la Biblioteca e l’Armeria Reale. La Fondazione CRT ha garantito in passato determinanti contributi al recupero e alla valorizzazione dell’Armeria. Negli anni, l’intervento della Fondazione ha reso possibile il restauro degli ambienti monumentali e il recupero dell’allestimento storico del Museo custodito all’interno della Galleria Beaumont, voluto nel 1832 da Carlo Alberto. L’ampliamento della Biblioteca Reale, così come gli interventi a favore dell’Armeria Reale, si inseriscono nel vasto e articolato progetto di recupero del sistema delle Residenze e delle Collezioni Sabaude, nel quale la Fondazione CRT è da sempre profondamente impegnata. Antonio Maria Marocco Presidente Fondazione CRT
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el 1998 la Consulta per la Valorizzazione dei Beni Artistici e Culturali di Torino, in modo pionieristico, investiva risorse economiche e progettuali, non solo nel settore del restauro e della conservazione del patrimonio storico-artistico, ma anche in quello della valorizzazione e fruizione; la struttura della Biblioteca Reale, infatti, non aveva le caratteristiche per accogliere, contemporaneamente, gli studiosi e i visitatori. Si realizzava così la nuova Sala Leonardo, inaugurata con la mostra Leonardo e le meraviglie della Biblioteca Reale di Torino. Le esposizioni continuano, nel 1999, con Le Magnificenze del XVII-XVIII secolo alla Biblioteca Reale di Torino e nel 2007 con Terrae Cognitae. La cartografia nelle collezioni sabaude, organizzata per presentare il restauro di un gruppo di preziosi portolani delle collezioni di Casa Savoia. Nel 2012 sosteneva l’allestimento dei nuovi spazi espositivi e multimediali della Biblioteca, volti a valorizzare il nuovo assetto museale: i preziosi capolavori possono, ora, essere ammirati e consultati da tutti in versione digitale, visibili sui monitor touchscreen; in quell’occasione Consulta finanziava il restauro del Globo Terrestre realizzato da Robert de Vagoundy nel 1824, collocato nell’aulico Salone Palagiano. Allo scopo di migliorare la fruibilità delle rarissime collezioni, grazie al paritetico contributo finanziario della Compagnia di San Paolo e della Fondazione CRT, la Consulta ha progettato e realizzato un nuovo spazio espositivo, al piano interrato, ideale raddoppio della Sala Leonardo che ospita, nella mostra Leonardo e i Tesori del Re, più di ottanta capolavori. Consulta è nata nel 1987 per collaborare con le istituzioni al fine di migliorare la tutela e la valorizzazione dei beni culturali della città, all’epoca in forte degrado. I Soci, dai dodici fondatori, sono oggi trentatrè e hanno realizzato più di sessanta interventi, investito più di 25 milioni di euro e oltre 2,5 milioni di ore di lavoro di tecnici e restauratori. Maurizio Cibrario Presidente Consulta per la Valorizzazione dei Beni Artistici e Culturali di Torino
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Indice
Orizzonti della memoria
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Andreina Griseri
La Consulta per la Biblioteca Reale . . . . . . . . . . . . . . . » 21 Mario Verdun di Cantogno
Il nuovo spazio espositivo . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 25 Roberto Pagliero Stefano Trucco Roberto Vincenzi
Schede delle opere Sezione I. Sala Leonardo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 27 Sezione II. Nuova Sala Espositiva . . . . . . . . . . . . . . . . » 65 Sezione III. Salone Palagiano . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 143 Bibliografia
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Orizzonti della memoria Andreina Griseri
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egno avvolgente, chiara grandiosità – carisma di affinità elettive dinamiche – la Biblioteca Reale rivive due grandi temi, la cattedrale e il giardino. Le scelte del neoclassico europeo avevano indirizzato il progetto di Carlo Alberto, al trono dal 1831: spazio aperto dedicato al libro, paradigma di organismo vivente, universo classico per scalfire le punte sofisticate dell’educazione vissuta a Ginevra, e procedere, con altra prospettiva, altre sorprese, confrontando le linee di cultura internazionale avvertite in Toscana alla corte del Granduca Ferdinando, sposandone la figlia Maria Teresa d’Austria Asburgo Lorena, 1871. Il risultato si profila quando, lasciato Racconigi e il parco, a Torino l’idea di nuova funzionalità per l’antica Biblioteca Reale apre il rinnovamento delle arti: avrebbe ampliato la comunicazione, lievito emblematico. Piedistallo decisivo, per irrobustire l’identità di quel pensiero legittimista, il messaggio orchestrato tra il Re e l’artista scelto, Pelagio Palagi, architetto, scultore, ornatista – amato da Stendhal per la realtà puntuale dei suoi ritratti, lo ricorda La Certosa di Parma – dal 1834 «regio pittore preposto alla decorazione dei Reali Palazzi»; qui, profilo parallelo, la mediazione costruttiva avviata da eruditi, intellettuali, storici ‘maestri’ del gotico, Luigi Cibrario e Domenico Promis protagonisti, dal 1832-1834 viaggi in Svizzera, Savoia, Francia e Germania, alla ricerca di medaglie e sigilli sabaudi, passione nutrita dalla conoscenza sperimentale di studi sull’economia del Medioevo, chiara la devozione per l’antica storia dinastica, lo sguardo costante per il Piemonte come paese europeo, oltre le frontiere. In questo clima si valuta il patrimonio librario, sottolineando le forze primarie dell’antica committenza ducale: così per il Messale di Felice V, l’Apocalisse di Savoia, miniato da Peronet Lamy, Luigi Cibrario lo commenterà nel 1842, e il manoscritto è ora esposto nel nuovo caveau; altro tesoro il Libro d’ore di Margherita di Savoia, sposa del Duca Emanuele Filiberto. Il profilo dell’antico fondo, innervato con le allegorie vibranti di Carlo Emanuele I, la ‘gran mente’, con le nevralgiche prospettive del Marino, del Tasso, la mostra ne offre gli autografi, era certo una nicchia alchemica, autentico labirinto, teatro intrecciato della memoria rivolto ad itinerari specchio di mutamenti politici con Cristina di Francia e il cardinale Maurizio. Così emerge il gusto dei balletti di corte; li conosciamo dai Codici del Borgonio, calligrafo, coreografo, costumista, attento dal 1640 al 1681 a trasmettere i ritmi stratificati, agganci alle antiche imprese della Casa di Savoia: per il Carosello, 1650, gli azzurri sabaudi ornamento eloquente dei cavalieri, e tra questi il Principe Tommaso, figura di Beroldo, rievoca le glorie Sassoni per gli sposi Adelaide di Savoia, figlia di Cristina di Francia, e Ferdinando di Baviera; il libretto di Filippo d’Agliè firmato per il divertimento che legava Torino alle corti europee. Chiaro l’omaggio di questi codici, dosato con bravura ed ésprit de finesse, intenso l’impegno politico filtrato con il gioco, alternando parodie e sfumature erotiche; nelle pergamene spazio luminoso, celebrativo in trasparenza dell’assolutismo. Filo stupendo le legature oro e maroc-
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chino rosso, metafora visualizzata per la percezione. Continuava a crescere il pensiero ossessivo per la capitale, da trasmettere con lucidità e misura, per competere senza imprudenti esibizioni con le regge europee. L’assolutismo aveva capito che l’architettura era l’immagine del potere, il Palazzo Reale nuova cattedrale, il libro figurato e inciso nuova Bibbia. Così il Theatrum Sabaudiae, 1682, ritratto politico della città in crescita con i nuovi modi di vita, ritmo chiaro, forte, per le incisioni firmate da incisori scelti, maestri del mestiere, e Voltaire ricorda nel suo Secolo di Luigi XIV che l’incisione in rame «una delle arti più gradevoli e più utili…trasmette con facilità ai posteri ogni spettacolo della natura e dell’arte»; tour de force stressante dal 16571672 per rilevare Torino e i paesi del Piemonte: attenti ai caratteri della città, fisionomia di più generazioni, molti venuti di fuori, radici pronte a puntellare lo sradicamento dalle province, cercando decoro e confort. Nel segno nuovo della veduta, strettamente legata alla cartografia, nessuna periferia, spazio ampio, teso, ombre senza luci fittizie; il bulino, l’inchiostro, restituiscono l’architettura nelle dimensioni del Barocco severo, lontano dagli arazzi, attento al vero di Molière, la Cour et la Ville come un tutto unico, la noblesse de robe e l’honnêtes gens, di fronte alla febbre inventiva del letterato Emanuele Tesauro, principe della metafora, maestro di persuasione con la retorica, per Palazzo Reale e per la Corona di Delitie, dal Castello di Rivoli al Valentino, dalla Vigna di Cristina di Francia alla Venaria Reale; l’orizzonte a volo d’uccello, traiettoria calcolata, autentico potere, rileva il dialogo che crescerà tra il Sette e l’Ottocento. Continuità creativa, e lo dirà Cesare Pavese, da Brancaleone Calabro, nel suo diario nel 1935, «comincio a inventare (frequentativo di invenire) una funzione condizionatrice dell’arte proprio in Piemonte e centralmente in Torino. Città della fantasticheria, per la sua aristocratica compiutezza composta di elementi nuovi ed antichi; città della regola, per l’assenza assoluta di stonature nel materiale e nello spirituale…città esemplare, per la sua pacatezza ricca di tumulto». E si approderà con Filippo Juvarra: la Biblioteca Reale conserva un nucleo di disegni – progetto didattico – e in più due segnali di un vedutista del suo primo tempo a Roma: si tratta di due fogli di Gaspar van Wittel e dell’insieme della Galleria Architettonica. Siamo di fronte alle giornate di studio alternate con le soste nello studio dell’architetto Carlo Fontana, e si ripensa alle passeggiate che Roma riservava dalle rovine magnifiche del Colosseo e al Campidoglio, toccando la campagna romana fino ad Ariccia, di qui la grafia tenera dei ‘pensieri’ che Juvarra porterà a Torino, riuniti nel suo taccuino datato 1707, ora alla Biblioteca Nazionale, dossier prezioso, colloquio continuo, chiarezza commossa di fronte all’orizzonte, scavalcando certo Claude Lorrain e soprattutto i paesisti tanto attivi allora per le case patrizie; piuttosto una percezione attenta agli esempi di Gaspar van Wittel, orientato con la tradizione fiamminga alla ricerca del lume naturale, intravvisto da Juvarra con sicurezza; per lui nessun richiamo dal paesismo arcadico alla Blomaert, sua la risposta per una veduta sensibile, un orizzonte che entrava nei suoi disegni con empito fiammeggiante, omaggio alle passeggiate nella Roma classica, alle giornate al lavoro per le scenografie teatrali destinate al teatrino del cardinal Ottoboni. Tutto passerà nell’itinerario a Torino, dal 1713 con Vittorio Amedeo II e poi con Carlo Emanuele III, un Settecento europeo che riconosciamo nel dopo Juvarra nei progetti di Benedetto Alfieri e della nuova aristocrazia. L’Ottocento, passione critica schietta, oltre il Romanticismo, attrezzava le punte nobiliari, sem-
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pre in viaggio, prefiguranti l’età del cosmopolitismo cavouriano. Si guardava al teatro, alle varianti in musica, toccando nodi inediti. Tra questi, vincente, la cultura di Pelagio Palagi, al lavoro dopo il trasferimento nel 1831 delle raccolte bibliografiche al primo piano del Palazzo Reale, artefice di scaffalature e palchetti, qualità e identità prestigiosa; e perché non ricordare quei legni raffinati, il ritmo delle colonne corinzie, modularità elegante, omaggio all’illuminismo dell’Alfieri, misura dei valori ideali della natura amata da Carlo Alberto per il giardino, l’albero protagonista nel rapporto con il classico, sottolineato da Goethe per il suo mondo, dove «la bellezza è sempre l’ospite più gradita». E si passa all’estrema finitura dei ferri, lavorati per le balconate, memori della cultura del milanese Albertolli, forti della percezione degli esempi francesi e inglesi, il funzionalismo di Augustus Pugin, di Charles Barry. Altro risultato spettava al mobilio regio, creato dal Palagi con il bravissimo Gabriele Capello per le stanze del Re, per la Sala Regia in Palazzo Reale. Nell’elaborato circuito storico-artistico celebrativo si profila il progetto della volta per la nuova Biblioteca; su disegno del Palagi, è affidata per l’affresco ai pittori Angelo Moia milanese, pittore scenico e decoratore al Teatro Regio, e Marco Antonio Trefogli, ticinese; sarà conclusa nel 1842, ammirato il soggetto neoclassico, e ne restano i disegni del Palagi ora a Bologna; ai margini cornici decorative con effigi di protagonisti piemontesi ed europei per la Celebrazione di scienze e arti, al centro tondi allegorici. Su consiglio di Roberto d’Azeglio, negli stessi anni si intensificano acquisti sul mercato antiquario, così nel 1832 da Venezia i disegni del Piazzetta, la Bibbia, le Rime del Petrarca, nel 1834 gli autografi dell’Algarotti. E per gli acquisti molte sfumature dell’entusiasmo di Carlo Alberto, nel 1843: per il manoscritto miniato dal De Predis nel 1476 per Galeazzo Maria Sforza, esprime al Promis, mon cher Promis, «autant d’intéret que de plaisir… J’en ferai l’acquisition pour notre bibliothèque avec beaucoup de satisfaction…». Svolta protagonista nel 1839: la definizione per l’acquisto della collezione di disegni italiani e stranieri dal Quattro al Settecento, capolavori di Leonardo e di Rembrandt, riunita da Giovanni Volpato di Riva di Chieri (Torino), personaggio avventuroso, di esperienze cosmopolite, esperto di opere d’arte, individuato come aggancio di trattative dell’area aristocratica. Per Carlo Alberto autentica presa del potere, messaggio etico-politico-mediatico, rispetto al Globo, il Monumento consacrato a Dio ideato da Cesare Benevello nel 1845, dedicato a Carlo Alberto rispecchiandone le tendenze religiose, e in parallelo chiaro l’illuminismo di Boullé e di Ledoux. Entrano con la collezione nuovi valori, per il sovrano fulcro esaltante, centrato dal modello utopico del Bello, conforto per la sua inquietudine mistico-religiosa, canale articolato per commentare il deismo, l’occhio portato all’universo aperto alle risposte dell’artista. Si fissava concretamente il gusto per l’arte, curiosità inarrestabile nutrita da exempla eloquenti: si poteva riflettere sui maestri del disegno, sui risultati di aree diverse, sui percorsi aperti al Piemonte paese europeo. Di fronte all’acquisto, come per un rito, si afferma il potere politico, colto, dell’aristocrazia ereditaria: pagamenti meditati, discussi, tempi giusti, nessuna accelerazione; nodo prioritario il riserbo, segretezza, riservatezza, impegno di una sfera politica di intellettuali nutriti dalla cultura dei viaggi a Londra, a Vienna, così con Domenico Promis e Roberto d’Azeglio. Si delineava una nuova sociologia, prima di Cavour. Di fronte al profilo iper-tecnologico ora inaugurato alla Biblioteca Reale, la mostra attuale
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segna un risultato inedito, prezioso per i manoscritti e soprattutto i disegni. Prova decisiva la percezione per il nucleo di Leonardo, campo di forze, universo offerto non solo all’occhio: incatena la vitalità che scavalca le certezze e le perfezioni del Quattrocento, apre il nuovo tempo dell’età moderna, prefigurato in modo incalcolabile. Avvalorato dall’esattezza delle lastre sperimentate, il segno di Leonardo: ha l’urgenza e la potestà del ritmo mentale, filo per la sottile «speculazione», lo dice nel Trattato della pittura: «necessità costringe la mente del pittore a trasmutarsi nella propria mente di natura e a farsi interprete infra essa natura e l’arte»; scegliendo punti cardine, Vasari puntualmente fisserà la «gagliardezza», «la maestria incredibile che egli mostrò nelle forme e lineamenti de’ cavagli: i quali meglio d’altro maestro non fece, di bravura, di muscoli e di garbata bellezza»; così emergono sorprendenti gli Studi di arti del cavallo, giungendo ai Carri d’assedio, 1485 circa, così con i fogli al British Museum, a Windsor, riferimenti alla lettera di Ludovico il Moro, l’impegno a Milano di Leonardo per questi ordigni «spesso furono non meno dannosi a li amici che ‘a nemici», lampi intrecciati con inchiostro e acquerello; il dinamismo alterna esattezza scientifica per le frecce mortali, preparano la storica, grandiosa pittura murale progettata da Leonardo nel 15031504 per la Sala del Gran Consiglio a Palazzo Vecchio, i «Nudi per la Battaglia di Anghiari», dove il nudo è eroico sostegno dell’idea di libertà della rinnovata repubblica fiorentina; sullo stesso motivo vitale biologico, nel foglio alla Biblioteca Reale la ricchezza di paradigmi per i nudi femminili, con il putto, motivo classico dell’Ermes, tema della maternità, avvallato dal particolare della bocca, attinente alla virilità, con aperture che toccano la realtà dinamica dei nudi a cavallo, fortuna perdurante nella tipologia monumentale, i nudi virili motivo significante, su tutti per Michelangelo, e ancora per Cellini e il Bandinelli. Percezione filtrata da incanto di fronte al Ritratto di fanciulla, 1483 circa, probabile umanissimo ritratto di Cecilia Gallerani, amata da Ludovico il Moro; supera ogni valore della «linea assoluta», celebrata a Firenze come conquista, fissa «la linea circumferenziale che forma le proporzionali bellezze d’un angelico viso», e il Vasari annoterà la ricchezza espressiva della creatività di Leonardo, «disegno perfetto e gratia divina… dette veramente alle sue figure il moto e il fiato». La punta d’argento modella lo sfumato, costruito nei rilievi del volto, ombre quasi insensibili per la bellezza dei capelli segnata dal lume, meditato nei pensieri di Leonardo per la «grandissima grazia di ombre e di lumi», e con «l’aumentazione di ombre e di lumi ’l viso ha gran rilievo». Il viso, quel viso, dominato dall’affondo dello sguardo, altra verità rispetto all’Angelo della Vergine delle rocce; quel respiro esistenziale avvia alla Gioconda. Linguaggio espressivo unitario per la resa del naturale, fin dal 1480, negli Studi di insetti l’inchiostro intenso, per niente esornativo, acquista realtà luminosa nella «carta bianca», che trova funzione unica nel dilatare i termini della «prospettiva aerea». Intensità, esattezza, legano gli studi di Leonardo dall’ottica all’anatomia, dalla botanica alla geologia, alla meccanica, alla fisica, mirando ad un centro unico. La ricerca affronta una «nuova scienza» in rapporto con la realtà universale, espressione di vita diramata; l’osservazione scientifica elemento per la comprensione della forza interiore trova espressione radicale nel Codice sul volo degli uccelli, 1505 circa, natura emergente nel segno che affronta il senso di un macrocosmo proliferante e unisce studi sul diluvio, sul vento. Il Codice è stato analizzato in ogni fibra, nove fogli, diciotto carte recto e verso, da Luigi Firpo,
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1976. In quella vigile ricognizione, emergono i problemi connessi al sostentamento nell’aria, il centro di gravità, l’equilibrio di pesi collegati e in diversa inclinazione, la portanza dell’ala, il comportamento di varie specie di pennuti, e qui «immediate trasposizioni di quelle esperienze, attraverso una penetrante decifrazione razionale alla vagheggiata ed esaltante avventura del volo umano». Leonardo si preoccupa di «fuggire il pericolo della ruina…cadendo così in acqua come in terra», e profetica conclusione: «piglierà il volo il famoso uccello ch’empirà il mondo di sua gran fama». Nella dinamica espressiva a ritrarre le attitudini in movimento, inarrestabile per Leonardo l’animazione psichica: l’Autoritratto segna il filo sapiente della memoria, «con questa si riserva le bellezze, le quali il tempo e la natura fa fuggitive, con questa noi riserviamo le similitudini degli uomini famosi». Nodo sublime della sua pensosa volontà autobiografica, identificazione dilatata verso l’immagine paterna riconosciuta da Vasari, assunta da Freud come prima componente, ritorna il ricordo del Lomazzo: «pareva la vera nobiltà dello studio». L’interpretazione dell’aspetto fisico di Leonardo come filosofo, con rimandi a Platone o Aristotele, si riconquista con altri fogli qui presenti, Studi di proporzione del volto e dell’occhio, autoritratto ideale secondo il Pedretti, per continuare con Studi di testa di vecchio, ora a Windsor, dove ancora il senso del Tempo, paradigma incombente, per cui Leonardo annotava «o tempo, consumatore delle cose, e o invidiosa antichità… e consumi tutte le cose da duri denti della vecchiezza…». Il senso vitale della sanguigna emerge con respiro naturale, sofferto, commentato dallo sguardo, dalla verità sensitiva del labbro, misura dell’autoanalisi. E per il capitolo dei disegni di Leonardo una fetta di storia spinosa. Nel 1946, quando alla fine del conflitto mondiale era previsto il rientro dell’eccezionale nucleo, compreso il Codice sul volo degli uccelli, emigrato a Roma al Quirinale; dure le resistenze del Ministero degli Interni, fermissime le richieste della Biblioteca Reale, appoggiata dall’opinione pubblica e allarmata per la sua stessa area istituzionale, dopo il referendum, l’abdicazione del re Umberto II di Savoia, la gestione provvisoria dei Beni demaniali già della Corona. Di qui l’impegno per evitare decisioni improrogabili, e telefonate sul filo d’acciaio di fronte ai messaggi urgenti, insufficienti, clima rovente in Biblioteca. Era stata aperta per gli studiosi, con lettere di presentazione, ero entrata per la tesi di laurea sul pittore regio Claudio Francesco Beaumont, fissata dalla professoressa Anna Maria Brizio. La sala studio provvisoria, sobria ripresa del dopo guerra, vetri e tendaggi in disarmo, era gestita da intellettuali legati alla dinastia, puntuale lo studioso Mario Zucchi, l’accueil affidato ad una gentile orgogliosa dama della corte; come primo usciere un cameriere deluso, irato, e con lui il cane al guinzaglio, divertito, riconosceva l’erba e il fango del giardino reale dai miei sandali, menu plaisirs senza stemmi. Decideva la Brizio, studiosa raffinata, stile alla Katherine Hepburn, immersa a confrontare il Trattato della pittura, al telefono con la Bersano Begey e il Generale Adriano Alberti sosteneva l’impresa per il rientro dei fogli di Leonardo: arriveranno a fine novembre del 1950, in cassetta blindate, e d’accompagno altra cassetta, con otto codici miniati, che avevano seguito lo stesso itinerario; documenti poi riuniti da Giovanna Giacobello Bernard, 1994. E arriveranno studiosi e conoscitori, l’attenzione rivolta ai timbri antichi dei fogli, per il Cinquecento e il Seicento italiano e olandese. E si può scegliere. Indirizzandoci a Mantova, la Testa femminile di Giulio Romano apre verso le svolte della valle padana: l’erotismo gioco-
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so, sostenuto dalla corte d’Este segna incontri ravvicinati per il disegno con la Festa nuziale di Amore e Psiche, affrescata da Giulio Romano in Palazzo del Tè a Mantova; la matita nera, puntinata su carta bianca, è infatti per il riporto, altri studi rari, a Vienna, a Londra, a Parigi; come Raffaello anche Giulio, nello studio per i particolari, come maestro precisava i prototipi prima della trasposizione su parete, così ha avvertito la Béguin nel 1989. Per il clima del Cinquecento, il Studio di giovane attribuito a Raffaello, fissa la qualità del lume costruttivo elaborato con la squisita raffinatezza evidente nel profilo protagonista e nella stessa volumetria del liuto. Il nucleo della decorazione eseguita ad affresco da Annibale Carracci dal 1598 al 1601 nella volta della Galleria Farnese, è pienamente rispecchiato nei fogli che preparano la cornice ornamentale, partito modulato sul ritmo del visibile fascinoso per introdurre le scene. Ed è lo Studio per un’erma, carboncino morbido, a trasmettere il senso vivo per la memoria della scultura classica, prototipo di sensibilità moderna, colta. Sono i fogli di Annibale Carracci a segnare le percezioni della natura come spettacolo in divenire, dilatazione accesa per la prospettiva del classicismo evocato, antefatto decisivo per il Barocco, la mitologia come teatro in grande, risultato magnifico attinente ai disegni per il Trionfo di Bacco e Arianna, Diana e Endimione. Nuovissima idea di natura con la svolta di Guercino: alterna atmosfere osservate nei profili di un vero luminoso, appunta con ductus libero l’inchiostro bruno, nel colore uso della macchia, trasparenze e acquerellature magistrali, atmosfera naturale che rivede Tiziano e Rubens, protagonista il lume, conquistato con tecnica prestigiosa. Di fronte al laboratorio avanzato dell’Accademia dei Carracci, tanto più inconfondibili le voci di committenti pronti a far sentire risultati nuovi. La svolta con Cassiano del Pozzo, patrono dei francesi, profila il modo di Poussin, dal 1624 a Roma, presenza e originalità assoluta. Contempla i marmi antichi, i grandi temi investiti dal senso del mito e della natura, nodo della sua riflessione, lucidità «clairvoyante et inductive»; e lo affermava dividendo le frequentazioni presso il cardinale Aldobrandini e la collezione dei Baccanali di Tiziano, con le soste nella campagna romana, con lui il Duquesnoy, scultore fiammingo. Chiara la sua ricerca nel disegno, Apollo e Dafne, la ricchezza del segno, trepido, lega nella costruzione di nudi e rocce il filo della contemplazione, bellezza di forme felici e sicure, toccate dalle passioni. Un foglio unico di Van Dyck segna il primo Seicento, con il pensiero intenso per un’opera di punta dedicata al ciclo di pittura per i Misteri del Rosario, a cui partecipò Rubens con altri maestri nella la chiesa di San Paolo dei domenicani ad Anversa: protagonista la croce, centrata e meditata, polo emergente lo sguardo del Cristo verso la madre, costruita con inchiostro bruno, nucleo opposto alla figura acquerellata che apre gruppo e area prospettica. Ad una data precoce, Van Dyck era arrivato nel 1622 alla corte di Torino con la contessa di Arundel, occasione non a misura dei Savoia, attenti al manierismo severo e fiammingo dei ritratti celebrativi; il filo del mestiere magnifico di Van Dyck toccava Torino nel 1635 con il Ritratto dei figli di Carlo I d’Inghilterra, inviato dalla regina Enrichetta Maria alla sorella Cristina, duchessa di Savoia, per far conoscere i nipoti, nel variare delle sete, esempio indicibile di eleganza friabile. Nucleo di primo piano l’insieme dei disegni olandesi riservati alla Biblioteca Reale. Tra le prove di Rembrandt emerge il foglio con l’Adorazione dei Magi, esigenza primaria l’esistenza stessa; Rembrandt affonda nel divenire della sensibilità del Barocco con voce moderna,
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rottura completa con la tradizione; medita la storia sacra sentita come storia dell’umanità, l’uomo anima del mondo, il Vecchio e il Nuovo Testamento discussi con amici intellettuali e frange dei gruppi religiosi attenti ai problemi della cultura ebraica, calvinisti, mennoniti, ipotesi sperimentate nell’area viva tra religione e devozione. Si riconosce uno dei momenti decisivi, rigore del segno e umanità resa storia, l’hic et nunc che l’umanità raccolta nell’offerta di doni, occhi della Vergine preveggente il dramma sacro, su tutto il dialogo che accomuna le genti. Per il foglio con l’Imperatore romano, è la casa di Rembrandt, descritta nel 1656 nell’Inventario per la vendita dei beni al momento della bancarotta che lo tocca in primo piano, a dire molto: nell’ingresso sedie spagnole in pelle rossa, l’androne pieno di quadri piccoli, paesaggi di lui e di Lievens, e opere di genere di Brouwer; altri quaranta quadri mella stanza laterale, artisti prediletti, e dietro quella piccola galleria si apriva il salotto, per ricevere gli ospiti, qui «tre statue antiche» e ancora altro arredo, candelabri, portalampade d’ottone, specchi in cornice intarsiata. Ma il vero sito personale era al primo piano, nella Kunstkammer, la stanza del pittore, fucina e laboratorio, incredibili oggetti, armi antiche e indiane, giade e giavellotti, conchiglie e coralli, enciclopedia reale di sapere classico e scientifico, sculture antiche originali e copie, pronte per la vendita! C’erano i dodici Cesari romani, Seneca e un Laocoonte, filo di una vastità di cultura che era entrata nei quadri e nei disegni, aprendo il rapporto con la scuola, molto presente a Torino. Il Settecento alla Biblioteca Reale è illuminato dai disegni di Giambattista Tiepolo, la Sacra Famiglia e un foglio bizzarro con un Pulcinella. Sua la luce fertile, solare, costruisce i panneggi di una conversazione religiosa e con la stessa materia liberatoria rafforzerà le prospettive utopiche per le volte di regge europee; quell’orizzonte rapinoso non toccherà Torino, campo aperto per Crosato e gli ornemanistes governati da Juvarra: con lui ossessivo il gusto del disegno, e prima dell’Illuminismo la perfezione dei mestieri parlanti, trait d’union per le capitali moderne.
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La Consulta per la Biblioteca Reale Mario Verdun di Cantogno
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ra i molti tesori d’arte che Torino ospita in istituzioni prestigiose, ma poco note al grande pubblico, un posto di tutto riguardo lo occupa la Biblioteca Reale, situata all’interno del complesso di Palazzo Reale, nel piano terreno del fabbricato che delimita, a levante, la Piazzetta Reale. Nella magnifica Galleria realizzata dall’architetto di corte Palagio Palagi nel 1837, per volere del re Carlo Alberto per ospitare le raccolte di libri, stampe, disegni, incisioni ed oggetti collezionati nell’arco dei secoli dai duchi e re sabaudi, è custodito un corpus di opere di Leonardo da Vinci tra cui il Codice del volo ed il celeberrimo Autoritratto a sanguigna. La missione affidata alla Biblioteca era quella di custodire, conservare e rendere fruibile agli studiosi il vasto patrimonio storico ed artistico della dinastia. Gli spazi architettonici concepiti dal Palagi erano pensati ed articolati per queste finalità, mentre più limitata era la possibilità di rendere visibili questi tesori ad un pubblico più ampio. In alcune particolari occasioni i documenti venivano sì esposti, ma sovente in sedi diverse dalla Biblioteca. La Consulta per la Valorizzazione dei Beni Artistici e Culturali di Torino, alla metà degli anni Novanta, cominciò a ragionare, in accordo che le istituzioni competenti del Ministero dei Beni Culturali, sulla possibilità di dotare la Biblioteca di nuovi spazi, adatti sia ad una miglior conservazione dei materiali che ad una possibile loro esposizione in condizioni di massima sicurezza. Dopo un faticoso e lungo iter burocratico per un diverso utilizzo dei locali del piano interrato, condiviso con l’altro Ente ospitato della medesima ala del Palazzo e cioè l’Armeria Reale, si giunse alla individuazione di un locale ipogeo situato in diretto contatto con la Biblioteca, da destinare a conservazione ed esposizione delle parti più preziose delle collezioni sopramenzionate. Nel 1998 questo locale, denominato Sala Leonardo, fu ristrutturato per le parti murarie ed impiantistiche ed attrezzato con vetrine destinate ad una doppia funzione conservativoespositiva, rispondente ai più aggiornati standard di massima sicurezza e di ottimale ambiente microclimatico. Negli oltre quindici anni di attività, questo ambiente ha risposto positivamente alle attività programmate con grande soddisfazione del personale della Biblioteca, sia per quanto riguarda la custodia e consultazione degli studiosi, che per l’allestimento di alcune importanti mostre temporanee: si poteva così cominciare a far conoscere al pubblico la varietà e la qualità delle collezioni. Nel 2013 Consulta avviava, in stretta collaborazione con la Direzione Regionale del MiBACT ed in accordo con la Città di Torino, un ambizioso programma volto a far conoscere meglio, a livello nazionale ed internazionale, la ricchezza ed importanza del patrimonio storico artistico cittadino e a migliorare la potenzialità di interesse per un turismo di qualità. Nell’ambito di questo programma il Polo Reale, in fase di costituzione soprattutto con la prospettiva del trasferimento a fine 2014 della Galleria Sabauda in una apposita manica del Palazzo Reale, veniva individuato
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come uno degli asset più significativi dell’offerta culturale di Torino. Era spontaneo rilevare come la Biblioteca, integrandosi nel Polo, avrebbe potuto incrementarne l’attrattività del complesso a condizione di poterne aumentare gli spazi destinabili ad esposizioni temporanee. Prende così avvio nel 2013 il progetto di una nuova Sala, collocata di fronte a quella originaria, che ha visto coinvolto a pieno titolo il personale della Biblioteca, affiancato da diverse professionalità esterne (architetti, ingegneri strutturisti, impiantisti, maestranze) per impostare correttamente la complessa progettualità, a cominciare dalla necessità di liberare alcuni spazi inizialmente adibiti a depositi che dovevano essere convertiti per ospitare la nuova Sala. Al termine di una fase propedeutica di analisi dei vincoli e delle opportunità alternative, si è giunti alla definizione della fase progettuale vera e propria per la realizzazione della Sala, prendendo a modello le caratteristiche della sala preesistente, che ha consentito di più che raddoppiare gli spazi destinati a conservazione ed esposizione. In sede di impostazione generale dei percorsi di accesso ai nuovi spazi di esposizione, venne affrontato un tema di grande rilevanza: la possibile integrazione dei percorsi di visita alla Biblioteca, nelle sue due missioni, di studio scientifico e di contemporanea fruizione delle collezioni, nel complesso intreccio dei flussi all’interno del Polo Reale e delle altre realtà museali. La soluzione più razionale ipotizzata prevedeva, per la Biblioteca, un percorso unidirezionale, sviluppato a partire dal piano terreno, connesso dalla nuova riapertura della scala alfieriana di collegamento con l’Armeria Reale, situata al piano primo in adiacenza agli appartamenti del Palazzo, da sviluppare al piano interrato nelle due Sale Leonardo, con successiva uscita nel piano interrato del Palazzo. L’ostacolo era rappresentato dalla mancanza di continuità di detti spazi interrati, proprio in corrispondenza del torrione di levante. E’ stata quindi impostata una campagna di rilievi e sondaggi per verificare la possibilità di individuare una possibile connessione, che si è rivelata praticamente non percorribile per la presenza di alcuni ambienti completamente riempiti di macerie e materiale di risulta, ivi stipati in epoca non precisata, forse databile alla fine dell’Ottocento. In alternativa si è studiata la possibilità di ricavare il collegamento mancante aprendo un nuovo ambiente interrato nella Piazzetta Reale, nell’angolo tra il corpo principale del Palazzo e quello di levante ospitante Armeria e Biblioteca. Questa soluzione si dimostrava fattibile ed adeguata a realizzare il collegamento di uscita dalla Sala Leonardo, evitando di dover tornare indietro sull’unica scala, per di più di ridotte dimensioni, esistente tra i due livelli della Biblioteca. Questo possibile percorso unidirezionale sfocerebbe, nell’interrato del Palazzo, in corrispondenza di una bella scala esistente che, con necessari interventi di ristrutturazione, consentirebbe ai visitatori delle mostre in Biblioteca di uscire nel grande portico attraverso il quale erano entrati nel Palazzo. Si è dovuto rinviare questa proposta per mancanza di risorse economiche in questa fase, perchè totalmente assorbite dai lavori della nuova Sala: si presume tuttavia di poterla riprendere prossimamente, al fine di completare un significativo tassello nell’integrazione dei flussi di visitatori nel Polo Reale. In subordine è stata anche individuata una seconda possibilità di percorso unidirezionale, che prevede l’uscita dalle sale espositive ipogee attraverso una scala che conduce al piano terreno nei giardini di Palazzo Reale, di prossimo restauro, che sono uno dei fattori più importanti della connettività generale dei flussi dei visitatori. Tornando all’oggetto principale di questa trattazione, è opportuno segnalare subito che la
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ristrutturazione degli ambienti destinati alla nuova sala espositiva è stata resa possibile da una partnership che ha visto coinvolte la Direzione Regionale del MiBACT e la Direzione della Biblioteca Reale, con il sostegno finanziario paritetico di Compagnia di San Paolo Fondazione CRT e Consulta. Quest’ultima si è preso anche in carico lo sviluppo, sempre in accordo con gli enti sopracitati, della progettualità e del coordinamento operativo di un progetto che, come si è potuto rilevare da queste brevi note, era connotato da particolari complessità tecniche ed organizzative. Il progetto esecutivo di opere edili-impiantistiche e di allestimento vetrine è stato sviluppato nel 2013 e, dopo l’approvazione delle istituzioni competenti, l’appalto e la realizzazione della complessa opera hanno richiesto solo otto mesi. Le caratteristiche tecniche sono illustrate in dettaglio nelle relazioni dei progettisti: si vuole qui solo sottolineare l’impiego delle più aggiornate tecnologie, soprattutto impiantistiche, che hanno fatto tesoro della positiva esperienza maturata in tanti anni di gestione della Sala Leonardo realizzata nel 1998 e l’efficace allestimento espositivo delle vetrine, realizzate con componenti metalli e lignei, che consente un articolato e flessibile utilizzo sia per conservazione che per esposizione. Si ritiene di poter sostenere come il risultato di questo intervento riesca a coniugare alta tecnologia, ben dissimulata, e piacevolezza visiva adeguata alla preziosità delle ricche collezioni d’arte e storia conservate nella Biblioteca Reale. Per celebrare degnamente l’inaugurazione di una così rilevante opera si è pensato di proporre al pubblico la mostra Leonardo e i Tesori del Re che si articola in tre sezioni: la prima, nella Sala Leonardo, incentrata sui disegni di Leonardo da Vinci, tra i più significativi l’Autoritratto e il Ritratto di fanciulla, e sul Codice sul volo degli uccelli; completano la Sala alcuni disegni di leonardeschi, Perugino, Raffaello e Giulio Romano. La seconda sezione è allestita nel nuovo spazio espositivo e propone preziosi disegni di maestri del Cinquecento, del Seicento e del Settecento - da Annibale Carracci a Guercino, a Poussin, da Van Dyck a Rembrandt, per finire con Tiepolo e Guardi - accanto a Libri d’ore, album e antichi portolani. L’esposizione si conclude nel Salone Palagiano con una significativa scelta di incunaboli, legature, cinquecentine e opere di architettura. Nel 1998 la nuova Sala Leonardo veniva inaugurata, grazie al contributo della Regione Piemonte per la gestione, con la mostra Leonardo e le meraviglie della Biblioteca Reale di Torino. Le esposizioni continuano, nel 1999, con Le Magnificenze del XVII-XVIII secolo alla Biblioteca Reale di Torino e nel 2007 con Terrae Cognitae. La cartografia nelle collezioni sabaude, realizzata per presentare il restauro di un gruppo di preziosi portolani delle collezioni di Casa Savoia, tra questi il cosiddetto Planisfero di Torino, la geocarta nautica universale del 1523 opera di Giovanni Vespucci, nipote del famoso navigatore Amerigo. Accanto ai tradizionali interventi di restauro, la Consulta ha approfondito numerose attività volte a migliorare la fruizione al pubblico delle principali realtà museali cittadine. Così, nel 2012, ha realizzato l’allestimento dei nuovi spazi espositivi e multimediali della Biblioteca Reale, volti a valorizzare il nuovo assetto museale. I dispositivi, installati nelle sale d’ingresso, permettono di navigare attraverso le collezioni e di promuovere, anche attraverso contributi video emozionali, i beni culturali piemontesi. L’intento è stato quello di dar nuova vita al progetto di Wunderkammer voluto dal re Carlo Alberto e perseguito con importanti acquisti; i preziosi capolavori custoditi presso la Biblioteca possono
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così essere ammirati e consultati da tutti in versione digitale, visibili sui monitor touchscreen; in quell’occasione le Aziende e gli Enti Soci della Consulta hanno finanziato il restauro del Globo Terrestre realizzato da Robert de Vagoundy nel 1824, collocato presso l’aulico Salone Palagiano.
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Il nuovo spazio espositivo Roberto Pagliero, Stefano Trucco, Roberto Vincenzi
Q
uando la Consulta per la Valorizzazione dei Beni Artistici e Culturali di Torino ci ha affidato l’incarico di progettare una nuova Sala espositiva della Biblioteca Reale, ci siamo chiesti se l’allestimento dovesse essere pensato in modo nuovo e differente rispetto al lavoro effettuato nel 1998, oppure come prolungamento della sala preesistente, riproponendo le stesse tipologie di vetrine e materiali. Spesso si visitano musei nei quali coesistono sale con allestimenti molto differenti tra loro, realizzati da progettisti diversi, in tempi diversi; ma, nel nostro caso, sia il committente che i progettisti erano i medesimi che avevano realizzato il caveau nel 1998. La nostra scelta si è orientata verso l’idea di ricreare una continuità di tempo e di spazio tra le due sale; per questo abbiamo proposto ai nostri committenti di allestire, nella nuova sala, una sorta di doppio del primo caveau di Leonardo, evitando di inserire materiali e elementi formali nuovi che potessero attrarre l’attenzione dei visitatori a discapito, anche solo per poco, dell’osservazione dei disegni esposti. La duplicazione non è stata solo stilistica, ma si è cercato di ripartire lo spazio con una cadenza di moduli, la più possibile vicina a quella della prima sala, utilizzando i medesimi materiali, ottone brunito, legno di noce, cristallo acidato, ma soprattutto cercando di riproporre quell’atmosfera di classicità e atemporalità che, nelle nostre intenzioni, costituiva l’idea progettuale della prima sala e che ritenevamo ancora adatta a rappresentare l’idea di una Wunderkammer moderna. Al di là delle molte analogie, le uniche differenze tra le due sale sono costituite, nel nuovo ambiente, dalla diversa dimensione di alcune vetrine verticali e dalla presenza, al centro del locale, di due vetrine orizzontali. Differenze motivate, da un lato dall’esigenza, da parte della Direzione della Biblioteca, di poter esporre documenti di più ampie dimensioni rispetto a quanto le attuali vetrine potevano contenere e, dall’altro, dalla necessità di ricollocare la grande Geocarta Universale che, attualmente esposta in una teca appoggiata sul tavolo centrale della Sala Leonardo, di fatto impediva l’uso di quest’ultimo per la consultazione e lo studio delle rare opere, funzione per la quale era stato pensato nel progetto originale. Ciò ha condotto, vista anche la maggiore estensione della nuova sala, verso la realizzazione di due grandi vetrine orizzontali, adatte all’esposizione di oggetti e opere rare di significative dimensioni, quali appunto quelle della Geocarta. La gestazione di questi tavoli è stata piuttosto complessa: l’altezza è stata studiata e variata numerose volte mentre i lati, nella parte più alta, sono stati vetrati per alleggerire, il più possibile, l’impatto visivo. Queste grandi vetrine prevedono la possibilità di aprire le parti laterali, in modo tale da consentire l’allestimento dei disegni da esporre e l’orientamento delle fibre ottiche, senza dover sollevare il cristallo di chiusura, pesante oltre cento chili, mentre, nella parte inferiore, sono presenti dei grandi cassettoni estraibili, che permettono di conservare disegni di notevoli
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dimensioni. Inoltre ogni vetrina, sia orizzontale che verticale, è dotata di un apposito strumento per il controllo delle condizioni termoigrometriche. La nuova sala prevede tre modalità di illuminazione; la prima è una luce d’ambiente, diffusa sulla volta e realizzata mediante corpi fluorescenti posti in sequenza. La seconda è una luce di sicurezza, posta sulla sommità delle vetrine che, in caso di emergenza, garantisce il grado di illuminamento necessario per raggiungere le vie di esodo. La terza è l’illuminazione delle vetrine, realizzata mediante fibre ottiche regolabili e dotate di generatori posti esternamente alle vetrine, al fine di eliminare qualsiasi produzione di calore interna e vicina alle opere. Anche il locale che funge da collegamento tra le due sale è stato oggetto di un ridisegno, razionalizzando ed eliminando il più possibile quanto di segnaletica e comandi impiantistici e di sicurezza si erano aggiunti nel tempo, in maniera caotica. Al contempo, abbiamo immaginato questo locale non come semplice corridoio bensì come una sorta di ‘anticamera semioscura’, atta a preparare l’occhio alla visione con luce ridotta delle sale, e ad anticiparne l’atmosfera, un po’ magica di ‘sala delle meraviglie’. Per questo abbiamo rivestito pareti e soffitto con lamiere rivettate in ottone brunito, e appeso a soffitto un sottile pannello luminoso, per creare la sensazione di accedere all’interno di un grande scrigno prezioso. Prima di entrare nelle sale, a lato delle due porte blindate, due targhe in ottone indicheranno ai visitatori i nomi degli enti e delle società che, riunite nella Consulta per la Valorizzazione dei Beni Artistici e Culturali di Torino, hanno reso possibile la realizzazione di questi due interventi, lontani fra loro più di quindici anni. Doveroso citare infine i colleghi che hanno lavorato con noi, l’architetto Roberto Mortarino per la sicurezza, l’ingegnere Massimo Rapetti per gli impianti, e le ditte che hanno portato a termine i lavori: Zoppoli & Pulcher per la parte edile, con un grazie particolare all’ingegnere Paolo Zola, Novaimpianti e Pierre per la parte impiantistica, Antiqua Restauri e Berrone per gli allestimenti.
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SE Z ION E I
Sala Leonardo
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1.a. Leonardo da Vinci Studio della muscolatura degli arti anteriori del cavallo
1480 circa
Punta metallica su carta preparata di verde oliva chiaro, mm 217x287. Dis. It. 1/23; n. inv. 15579 D.C.
1.b. Leonardo da Vinci Studi delle zampe anteriori del cavallo
1490 circa
Punta metallica e lumeggiature di biacca su carta preparata di azzurro scuro, mm 154x205. Dis. It. 1/24; n. inv. 15580 D.C.
1.c. Leonardo da Vinci Studi delle zampe posteriori del cavallo
1508 circa
Sanguigna con qualche tocco a matita nera su carta, mm 201x133. Dis. It. 1/25; n. inv. 15582 D.C.
Dei 13 disegni di Leonardo posseduti dalla Biblioteca Reale, 3 sono inerenti lo studio dei cavalli, a dimostrazione del grande interesse che il maestro riservava alla fisionomia di questo animale nelle sue opere pittoriche e scultoree. Le tre opere abbracciano un periodo che va dall’ultimo ventennio del Quattrocento fino al 1508 circa. Probabilmente si tratta di disegni preparatori per i monumenti equestri a Francesco Sforza duca di Milano, voluto dal figlio Ludovico il Moro, e a Gian Giacomo Trivulzio, nemico degli Sforza, che costrinse Ludovico alla fuga dopo aver conquistato il Milanese nel 1499 per conto del re di Francia Luigi XII; entrambi i monumenti non vennero però mai realizzati (Leonardo e le meraviglie 1998; Pedretti 2006). Lo Studio della muscolatura degli arti anteriori del cavallo risulta cronologicamente il più antico della collezione dei disegni di Leonardo posseduti dalla Biblioteca Reale. Sono visibili particolari delle gambe anteriori visti lateralmente, di tre quarti e una parziale veduta frontale. Come è evidente dalla piega centrale, il disegno in origine era composto da due fogli separati, uniti tra di loro. Negli Studi delle zampe anteriori del cavallo, realizzati su carta preparata azzurro scuro, con una visione delle gambe rappresentate di fianco, alzate e piegate al ginocchio e in veduta frontale, Leonardo esamina il modello del cavallo al passo, con gli arti anteriori in flessione. Carlo Pedretti colloca questo disegno tra quelli appartenenti alla serie di studi per il monumento equestre a Francesco Sforza, ora conservati a Windsor (Pedretti 2006, p. 58). Gli Studi delle zampe posteriori del cavallo, opera realizzata a sanguigna su carta, totalmente ripassata da Francesco Melzi (Pedretti 2006, p. 60), pittore e pupillo di c
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Leonardo, che seguì nel 1517 il maestro in Francia, ereditandone alla morte tutti gli scritti e i disegni, mostrano gli arti in diverse vedute e posizioni, con inclusa la muscolatura della coscia fino all’attaccatura del tronco. È probabile che il disegno, che mostra la potenza e lo slancio del corpo del cavallo in movimento, abbia riferimenti con la serie di studi per la Battaglia di Anghiari (cfr. scheda n. 5; Salvi 2014, p. 42). Bibliografia: Pedretti 1990, nn. 10, 11; Carlo Pedretti in Da Leonardo a Rembrandt 1990, n. 15; Leonardo e le meraviglie 1998, nn. II.10, II.11, II.22; Carlo Pedretti in Leonardo da Vinci 2006, nn. I.11, I.12, I.13; Paola Salvi in Leonardo. Il genio 2011, nn. 1.11, 1.12, 1.13; Paola Salvi in Leonardo da Vinci 2014, nn. 4, 5.
Antonietta De Felice
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titolo corrente del volume
2. Leonardo da Vinci Studi di proporzioni del volto e dell’occhio, con note
1489-1490 circa
Punta metallica e penna e inchiostro bruno su carta, mm 277x197. Dis. It. 1/20-21; nn. inv. 15574 e 15576 D.C.
Il disegno è composto da due fogli, riuniti per l’esposizione del 1975, Disegni di Leonardo da Vinci e della sua scuola alla Biblioteca Reale di Torino, curata da Carlo Pedretti e tenutasi in Biblioteca Reale. I due frammenti sono sempre stati riproposti, dopo il 1975, come un foglio unico. A destra, sono visibili le proporzioni dell’occhio e della testa, a sinistra le proporzioni dell’occhio. Il disegno è un tipico esempio del metodo scientifico che Leonardo applicava all’osservazione della natura umana, uno studio analitico teso a cogliere i valori universali dell’anatomia del volto umano. La testa è rappresentata in tratti essenziali, in veduta frontale, con linee di proporzione su tutto il viso. L’occhio sinistro ha dei punti di riferimento, illustrati nella nota accanto. Sulla destra compaiono alcune operazioni aritmetiche. Anche l’occhio nel frammento di sinistra, con una porzione di naso, è corredato da note che mettono in rapporto le varie parti del volto (Pedretti 1990). Nello stesso frammento in alto a destra troviamo lo schizzo di un occhio. L’opera è un esempio di studi di proporzioni del corpo umano che Leonardo condusse intorno al 1490, attraverso misurazioni che coinvolgono il corpo nel suo insieme e la struttura della testa (Salvi 2011). Il disegno è poi da porre in relazione a una serie di studi di proporzioni, conservati a Windsor, e databili 1490, nei quali si riscontra il proposito di misurazione del corpo umano (Pedretti 2006). Leonardo studiò a fondo l’anatomia umana per poterla meglio raffigurare nelle sue opere, ma, sin dall’inizio, l’interesse nutrito nei confronti dell’anatomia andò ben oltre quanto necessario ad un artista. Egli non si limitò al solo studio dell’anatomia artistica di superficie, dei muscoli e delle ossa, ma si interessò anche agli organi interni, all’apparato muscoloscheletrico, al sistema riproduttivo, alle vie nervose, alla struttura del cervello, non esitando nei suoi studi a sezionare cadaveri. Il vasto interesse per il corpo umano è documentato dalla raccolta di disegni anatomici conservata a Windsor. Sul verso del disegno, sono individuabili schizzi tecnologici che si riferiscono con una certa probabilità al progetto di una macchina, disegnata sui due pezzi ricomposti, che danno ulteriore prova all’ipotesi che i due frammenti fossero parti di un unico foglio. Bibliografia: Pedretti 1990, n. 4; Carlo Pedretti in Da Leonardo a Rembrandt 1990, n. 12; Leonardo e le meraviglie 1998, n. II.5; Carlo Pedretti in Leonardo da Vinci 2006, n. I.6; Paola Salvi in Leonardo. Il genio 2011, n. 1.5; Paola Salvi in Leonardo da Vinci 2013, n. I.2.
Antonietta De Felice
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3. Leonardo da Vinci Testa virile di profilo incoronata di alloro
1506-1510 circa
Sanguigna, contorni e sfondo ripassati a penna su carta bianca, mm 168x125. Dis. It. 1/29; n. inv. 15575 D.C.
La Testa virile di profilo incoronata di alloro raffigura uno studio di volto dal notevole profilo, girato verso sinistra e cinto da una corona di alloro le cui foglie si confondono con i capelli ricci, con il collo taurino dalla forte muscolatura, il sopracciglio sporgente e il busto visto di tre quarti. È stato accomunato dagli studiosi ai modelli eroici della classicità; sul petto si nota lo schizzo di una probabile testa di leone. Il disegno, eseguito a sanguigna, mostra un ritocco a penna che è stato ritenuto non di mano di Leonardo, ma aggiunto posteriormente, anche se l’elegante rifinitura, perfettamente integrata con il disegno, può far pensare ad un ripasso dello stesso Leonardo (Salvi 2011). Pedretti considera l’autenticità del disegno fuori discussione, mentre il ritocco potrebbe essere attribuito all’allievo di Leonardo, Francesco Melzi (Pedretti 1990). L’opera è, probabilmente, uno studio per un eroe classico idealizzato, confermato anche dalla presenza della corona di alloro sul capo. L’aspetto fiero, la dettagliata muscolatura ci riportano ai modelli anatomici dei guerrieri che Leonardo compose nei disegni preparatori per il dipinto murale di Palazzo Vecchio a Firenze, la Battaglia di Anghiari (Pedretti 2006; cfr. scheda n. 5). Disegni analoghi alla Testa virile torinese, conservati a Windsor e al British Museum, potrebbero invece far pensare a un’opera preparatoria per un ritratto di Gian Giacomo Trivulzio, conquistatore del Milanese nel 1499 per conto del re di Francia Luigi XII (Leonardo e le meraviglie 1998). Bibliografia: Pedretti 1990, n. 6; Leonardo e le meraviglie 1998, n. II.6; Carlo Pedretti in Leonardo da Vinci 2006, n. I.7; Paola Salvi in Leonardo. Il genio 2011, n. 1.17; Annalisa Perissa Torrini in Leonardo da Vinci 2013, n. V.3.
Antonietta De Felice
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4. Leonardo da Vinci Ercole con il leone nemeo
1506-1508 circa
Carboncino e punta metallica su carta bianca, mm 280x190. Dis. It. 2/58; n. inv. 15630 D.C.
Il disegno raffigura il corpo muscoloso e potente di Ercole, visto da tergo, con una clava tra le mani e con il mostruoso leone mitologico della valle Nemea, ucciso dall’eroe greco nella prima delle sue dodici fatiche, accovacciato ai piedi, in portamento mansueto. Le famose e incredibili imprese che Ercole dovette affrontare nelle sue dodici fatiche sono ben note: l’idra dalle molteplici teste, il leone dalla pelle impossibile da scalfire, uccelli in grado di lanciare piume affilate come lame e molti altri mostri che l’eroe, sia per coraggio che per astuzia, riuscì sempre a sconfiggere. Ercole e le sue fatiche sono state molto rappresentate nella pittura, nella scultura, nel cinema. L’Ercole della Biblioteca Reale ha avuto a lungo problemi di attribuzione a causa di un ricalco a punta metallica, creato per permettere il trasferimento della figura su un altro supporto, che ne ha compromesso il segno originale. Carlo Pedretti, direttore dell’Armand Hammer Center dell’Università della California, ha sostenuto nel corso degli anni l’attribuzione del foglio a Leonardo da Vinci, mettendolo in relazione con un analogo disegno conservato a Windsor. Ulteriore conferma dell’autografia del disegno torinese è il confronto con un foglio di Leonardo acquistato dal Metropolitan Museum of Art di New York nel 2000, anch’esso raffigurante un Ercole con clava, ma visto di fronte (Salvi 2011, che a riguardo menziona i lavori di Carmen C. Bambach). L’Ercole torinese, benché possa far pensare ai Nudi per la “Battaglia di Anghiari” (cfr. scheda n. 5), è stato tradizionalmente riconosciuto come disegno per un progetto di una scultura di Ercole, una statua gemella a quella del David che Michelangelo realizzò intorno al 1500. In un articolo su «Repubblica.it» del 17 settembre 2000, Carlo Pedretti sostiene che, davanti a Palazzo Vecchio a Firenze, era prevista una maestosa statua di Ercole di Leonardo da Vinci; il David di Michelangelo sarebbe stato ideato solo in seguito al fallimento di Leonardo, che, per motivi ignoti, non riuscì a realizzare il progetto che gli era stato assegnato nel 1500. La convinzione di Pedretti deriva da un’attenta analisi di un foglio di Leonardo contenente studi per una gigantesca statua raffigurante Ercole, recentemente acquistato da un anonimo collezionista svizzero, che potrebbe riferirsi alla statua in marmo a cui fa cenno Giorgio Vasari nella sua opera, Vite de’ pittori, in cui vi è testimonianza della scultura non portata a termine da Leonardo. La statua di Ercole, collocata vicino al David, venne in seguito realizzata dallo scultore fiorentino Baccio Bandinelli, che la completò nel 1533. Bibliografia: Pedretti 1990, n. 8; Leonardo e le meraviglie 1998, n. II.8; Carlo Pedretti in Leonardo da Vinci 2006, n. I.9; Paola Salvi in Leonardo. Il genio 2011, n. 1.15; Paola Salvi in Leonardo da Vinci 2014, n. 8.
Antonietta De Felice
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5. Leonardo da Vinci Nudi per la “Battaglia di Anghiari” e altri studi di figura
1505 circa
Penna, inchiostro bruno e tracce di carboncino su carta, mm 254x197. Dis. It. 1/28; n. inv. 15577 D.C.
Il disegno è un foglio preparatorio per la Battaglia di Anghiari, la pittura murale progettata da Leonardo nel 1503 per Palazzo Vecchio a Firenze. A causa dell’inadeguatezza della tecnica, il dipinto venne lasciato incompiuto e mutilo; Giorgio Vasari, circa sessant’anni dopo, fu incaricato di decorare la parete del Salone; non si sa se i frammenti leonardiani furono distrutti o solo nascosti sotto il nuovo intonaco o una nuova parete. Il famoso affresco avrebbe dovuto rappresentare un episodio della guerra fra fiorentini e milanesi del 1440, in una parete del Salone dei Cinquecento, contrapposto al dipinto murale della Battaglia di Càscina contro i pisani, affidato a Michelangelo, da realizzarsi sulla parete opposta, ma mai compiuto. Numerose sono le opere relative al combattimento di Anghiari, sculture, disegni, pitture, che riportano immagini di una battaglia molto cruenta. Il più famoso disegno della battaglia è quello di Rubens, realizzato nel 1603, che potrebbe essere una copia di una parte dell’originale o dell’eventuale cartone preparatorio di Leonardo. Altrettanto famosa è la Tavola Doria, copia da Leonardo, ritrovata nel 2012 grazie all’azione investigativa dei Carabinieri del Comando Tutela del Patrimonio Culturale, che rappresenta solo la parte centrale della celebre opera pittorica (Perissa Torrini 2013, p. 180). Il disegno torinese mostra una sequenza di immagini di combattenti ignudi e schizzi vari: in primo piano a destra, in posizione più prominente e con maggiore definizione, un corpo di guerriero visto di schiena, disegnato dalle scapole in giù, la cui potenza muscolare è messa ben in evidenza. La seconda figura rappresenta un corpo in torsione, anch’esso visto di schiena, mentre impugna una spada con il braccio destro. Seguono altre figure, sommariamente tracciate, poco identificabili e probabilmente non in relazione con gli schizzi sulla Battaglia di Anghiari: una donna nuda con bambino, vista di tre quarti, mentre posa la mano sulla testa di un altro bambino che le tende le braccia e, all’estrema sinistra, una figura di donna, anch’essa nuda, vista di fronte, con le braccia allungate di fianco; in alto a sinistra, una sensuale e delicata bocca socchiusa. Sono ancora riferibili alla Battaglia di Anghiari i quattro schizzi di combattenti nudi, nella parte inferiore del foglio, di cui tre appena definiti e uno, meglio tracciato, nella parte centrale che raffigura un combattente con mantello svolazzante, rappresentato nell’atto di colpire. Alla base tre cavalli in corsa con cavalieri: il primo schizzo, a sinistra, mostra un cavaliere con cavallo in corsa, al centro un cavallo e cavaliere al passo, e l’ultimo schizzo, a destra, un cavallo impennato senza cavaliere (Pedretti 1990; Salvi 2011). Bibliografia: Pedretti 1990, n. 7; Carlo Pedretti in Da Leonardo a Rembrandt 1990, n. 14; Leonardo e le meraviglie 1998, n. II.7; Carlo Pedretti in Leonardo da Vinci 2006, I.8; Paola Salvi in Leonardo. Il genio 2011, n. 1.14; Annalisa Perissa Torrini, La Battaglia di Anghiari «Incominciata con una grandezza incomparabile», in Leonardo da Vinci 2013, pp. 176199; Paola Salvi in Leonardo da Vinci 2014, n. 7.
Antonietta De Felice
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6. Leonardo da Vinci Ritratto di fanciulla, presunto studio per il volto dell’angelo della “Vergine delle Rocce”
1483-1845 circa
Punta metallica, lumeggiata di biacca su carta preparata, mm 181x159. Dis. It. 1/19; n. inv. 15572 D.C.
Il Ritratto di fanciulla è, dopo l’Autoritratto, il più celebre disegno di Leonardo posseduto dalla Biblioteca Reale di Torino, divenuto logo ufficiale dell’Istituto. Nel 1952, in occasione del V Centenario della nascita di Leonardo, lo storico dell’arte Bernard Berenson durante una conferenza definì il ritratto «il disegno più bello del mondo». Per gli studiosi quest’opera è un esempio degli esperimenti di Leonardo sul tema del cosiddetto ritratto di spalla, con la veduta di schiena e il volto rivolto verso l’osservatore, frutto degli insegnamenti del maestro di Leonardo, Andrea del Verrocchio, su come ritrarre una figura in movimento, riprendendola da vari punti di vista (Pedretti in Da Leonardo a Rembrandt 1990). L’immagine ci mostra un giovane volto con aria assorta e con espressione intensa, i capelli, raccolti e coperti da un copricapo, rivelano ciocche mosse che scendono lungo il viso, gli abiti appena accennati, la linea del seno visibile a sinistra, un’immagine diafana, ma allo stesso tempo corposa, che trasmette all’osservatore un alto senso di grazia (Pedretti 1990, p. 84). I tratti semplici e poco distinti nelle parti esterne del ritratto si sostituiscono al complesso chiaroscuro del volto, molto fitto e accurato. Databile intorno agli anni 1483-1485, è probabilmente uno studio preparatorio per l’angelo della Vergine delle rocce, opera pittorica la cui prima versione è conservata al Louvre di Parigi, la seconda alla National Gallery di Londra. La fanciulla è stata anche identificata con Cecilia Gallerani, la giovane amata da Ludovico Sforza e rappresentata nel dipinto conservato a Cracovia, La dama con l’ermellino. Paola Salvi riconosce nella forma del mento, del volto, degli occhi una maggiore somiglianza del disegno con l’angelo della Vergine delle rocce; inoltre i capelli, che scendono liberi dal copricapo della fanciulla, riportano più a una figura di popolana che all’immagine aristocratica di Cecilia Gallerani (Salvi 2014, pp. 60 e 63). Nel verso del disegno vi è uno schizzo ornamentale ad intrecci, considerato uno studio per un’impressione sulla coperta di un libro. Bibliografia: Pedretti 1990, n. 2; Carlo Pedretti in Da Leonardo a Rembrandt 1990, n. 11; Id. in Biblioteca Reale 1990, pp. 106-107; Leonardo e le meraviglie 1998, n. II.3; Carlo Pedretti in Leonardo da Vinci 2006, n. I.3; Paola Salvi in Leonardo. Il genio 2011, n. 1.1; Paola Salvi in Leonardo da Vinci 2014, n. 1.
Antonietta De Felice
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7. Leonardo da Vinci Autoritratto
1515-1516 circa
Sanguigna su carta bianca ingiallita con minuscole ossidazioni, mm 333x213. Dis. It. 1/30; n. inv. 15571 D.C.
L’Autoritratto, l’unico riconosciuto dell’artista, fa parte, insieme ad altri 12 disegni autografi di Leonardo da Vinci, della ricca collezione di disegni italiani e stranieri dei secoli XV-XIX della Biblioteca Reale di Torino, acquistata da re Carlo Alberto nel 1839 dall’antiquario Giovanni Volpato. Leonardo, morto nel 1519, lasciò i suoi manoscritti e il suo corpus di disegni e appunti al fedele collaboratore Francesco Melzi. Gli eredi del Melzi dispersero in seguito la collezione vinciana e di questo foglio non si seppe più nulla. La prima notizia dell’Autoritratto si ebbe solo agli inizi del XIX secolo a Milano, quando venne riprodotto da una copia a stampa come antiporta al volume di Giuseppe Bossi sul Cenacolo. Ricomparve nuovamente nel 1839, quando Giovanni Volpato – collezionista originario di Riva di Chieri che, viaggiando per l’Europa, aveva messo insieme un’interessante collezione di disegni – lo vendette a re Carlo Alberto, assieme ad altri disegni di maestri italiani e stranieri come Raffaello, Michelangelo, Rembrandt, Poussin. In particolare la collezione Volpato, oggi patrimonio della Biblioteca Reale, è composta da circa 700 disegni italiani e da più di 400 fogli di maestri stranieri. Datata 1515-1516, l’opera, capolavoro della maturità dell’artista del suo periodo francese al servizio di Francesco I, mostra, con tratto preciso e cura del particolare, un volto di una straordinaria intensità. Sul margine inferiore, in scrittura non leonardesca, compare la scritta: «Leonardus Vincius Ritratto di se stesso assai vechio». Per quanto una ricca bibliografia riconosca nel ritratto l’immagine di antichi filosofi, da Pitagora a Demostene, o il volto del padre di Leonardo, Piero da Vinci, il volto dell’Autoritratto identifica Leonardo in ogni parte del mondo. Il disegno manifesta il viso di un uomo canuto, con lunghi capelli e lunga barba, calvo alla sommità della testa. Lo sguardo corrucciato è rivolto a destra, con un’espressione seria e leggermente severa. I dettagli molto curati del volto lasciano il posto a poche linee nella parte alta della fronte, creando l’effetto di un cranio calvo. I segni del tempo sono manifesti nel viso, che presenta rughe profonde sulla fronte, attorno agli occhi, sulla bocca, lungo le guance. Nel 2012 le immagini dell’Autoritratto e del Codice sul volo degli uccelli sono giunte, a bordo del rover Curiosity, sul pianeta rosso, Marte, affrontando un viaggio sicuramente non immaginato dal loro creatore, considerato universalmente, per i suoi molteplici interessi nel campo della fisica, delle scienze naturali, della meccanica, dell’ottica, dell’urbanistica, il precursore della scienza moderna. Bibliografia: Pedretti, n. 1; Carlo Pedretti in Da Leonardo a Rembrandt 1990, n. 10; Id. in Biblioteca Reale 1990, pp. 102-104; Leonardo e le meraviglie 1998, n. II.1; Carlo Pedretti in Leonardo da Vinci 2006, n. I.1; Paola Salvi in Leonardo. Il genio 2011, n. 1.19.
Antonietta De Felice
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8. Leonardo da Vinci Codice sul volo degli uccelli
1505-1506 circa
Ms. cart., cc. 18, mm 213x153. Varia 95; n. inv. 1506 P.I.
Il Codice sul volo degli uccelli, che ora costituisce il manoscritto Varia 95 della Biblioteca Reale di Torino, è un quaderno di piccolo formato, in cui Leonardo da Vinci scrisse e illustrò i suoi studi sul volo. Donato, incompleto, nel 1893 al re Umberto I dal collezionista russo Fiodor Sabachnikoff, fu ricomposto dopo il 1920 con l’omaggio del ginevrino Henri Fatio alla Regina Margherita dei tre fogli mancanti. La collezione leonardiana dell’Istituto era iniziata nel 1839 con l’acquisto da parte del re Carlo Alberto di tredici autografi, tra cui il celeberrimo Autoritratto, dal collezionista Giovanni Volpato. Le vicende dell’opera sono ben note: dalle mani di Francesco Melzi, allievo e erede di molte opere del maestro, il Codice passò nel XVI secolo nelle mani di Pompeo Leoni, scultore e noto collezionista, responsabile dello smembramento di molti codici vinciani. Nel XVIII secolo il Codice giunse alla Biblioteca Ambrosiana di Milano, da dove fu trasferito, su ordine di Napoleone, all’Institut de France di Parigi. Nella metà dell’Ottocento, il manoscritto venne trafugato da Guglielmo Libri, matematico ed esperto bibliofilo, e diviso in due parti per poi essere ricomposto e donato a Casa Savoia. Il titolo del codice è convenzionale, anche se ormai universalmente riconosciuto. La copertina, sul cui piatto posteriore esterno si legge, in grafia non leonardesca, «Ucelli et altre cose», racchiude un quadernetto composto da 38 pagine dal momento che Leonardo occupò anche le due facciate interne della copertina stessa. Mancino e sinistrorso, egli iniziò ad usare il quaderno partendo dal fondo, descrivendo le sue osservazioni sul volo e i movimenti in 167 disegni, con una scrittura che corre in senso contrario al normale. Il sogno del volo ha, da sempre, affascinato l’uomo, ma nessuno l’ha perseguito con più intensità e perseveranza di Leonardo da Vinci. Egli basa i suoi studi sull’osservazione del volo degli uccelli e a differenza di tutti i suoi predecessori elabora una vera e propria scienza del volo dalla quale sviluppa e progetta le sue macchine volanti. L’analisi del volo degli uccelli è condotta con rigoroso approccio meccanico: progetti, appunti e disegni sul volo, sulla fisionomia degli uccelli, sulla resistenza dell’aria, sulle correnti. Indubbiamente l’epoca in cui visse Leonardo non era ancora pronta per la progettazione di aerei funzionanti. La scienza ha però oggi tributato al maestro un grande dono, portando in volo nello spazio, se non Leonardo, almeno il suo genio. Grazie alla collaborazione della Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Piemonte, della Biblioteca Reale, del Tg3 della Rai Leonardo e del Centro Ricerche Nasa, un chip contenente la copia digitale del Codice sul volo degli uccelli e dell’Autoritratto ha affrontato, nel novembre 2011, un viaggio a bordo del rover Curiosity durato più di otto mesi e concluso nell’agosto 2012 su Marte. Bibliografia: Il codice 1976; Pedretti 1990, Appendice 1, pp. 109-114; Giuseppe Dondi in Biblioteca Reale 1990, pp. 108-113; Il codice 1991; Leonardo e le meraviglie 1998, n. II.2; Luigi Firpo in Leonardo da Vinci 2006, n. I.2; Paola Salvi in Leonardo. Il genio 2011, n. 1.22; Paola Salvi in Leonardo da Vinci 2014, n. 9.
Antonietta De Felice
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9. Leonardo da Vinci Studi di carri d’assedio muniti di falci
1485 circa
Penna e inchiostro bruno acquerellato con tracce di punta metallica su carta, mm 210x292. Dis. It. 1/18; n. inv. 15583 D.C.
Era del tutto naturale che un genio eclettico come Leonardo, avvicinatosi all’arte, all’anatomia e all’ingegneria civile, finisse per interessarsi anche di ingegneria militare. Questo disegno mette in evidenza le grandi capacità meccaniche di Leonardo nella realizzazione di macchine da guerra: due carri falcati, disegnati uno sopra l’altro, trainati da una coppia di cavalli al galoppo con cavaliere, dotati di un sistema di lame non solo collegate alle ruote, ma anche in rotazione orizzontale frontalmente al traino di cavalli, in grado di aprirsi completamente la strada tra i nemici. Una macchina micidiale, studiata per il taglio degli arti inferiori e in grado quindi di annientare, o almeno di rendere innocui, gli avversari. Le scritte di mano di Leonardo spiegano il funzionamento del carro, che può muoversi con quattro o sei cavalli, con i due carri che procedono in senso opposto. Al di sopra del primo carro si legge: «Questo carro vuole essere tirato da sei corsieri con tre cavalcatori. E una delle due rote del carro vuole voltare la rocca la quale arà in sé 25 fusi, e detta rota 100 denti, e dall’una punta all’altra delle falci sia braccia 12 il più». E al di sotto del secondo carro si legge: «Questo carro vuole essere tirato da quattro corsieri, e lo spazio da una punta all’altra delle falci sia braccia 8 il più; e i due cavalli che stanno dinnanzi non hanno a avere addosso persona acciò che sostenghino meglio le falci dinnanzi a loro». Il disegno mostra la complessa macchina in ogni particolare, con i meccanismi di incastro, le ruote, i perni, le falci, mettendo in evidenza sia la complessità e la perfezione dell’invenzione, che la crudeltà della sua azione che miete vittime spargendo intorno gambe mozzate. L’uso dell’inchiostro acquerellato e l’uso di macchie d’ombra e di bagliori di luce, infondono movimento a tutta la scena (Pedretti in Biblioteca Reale 1990). Lo stile preciso dell’opera, la chiara grafia con cui Leonardo cura le note fanno pensare a un modello da mostrare ad altri, forse per provare a Ludovico Sforza le sue capacità di ingegnere militare (Perissa Torrini 2013, p. 124). Il periodo migliore quindi per progettare tali macchine da guerra non poteva che essere quello trascorso a Milano (1482-1499) al servizio dell’ambizioso duca Ludovico, al quale Leonardo intendeva offrire tali strumenti. È un’opera molto famosa, studiata a fondo dagli specialisti e molto amata dai visitatori, che hanno avuto la possibilità di ammirarla in esposizioni passate, compresi i più piccoli, sedotti da questa macchina strana e crudele. Bibliografia: Pedretti 1990, n. 14; Carlo Pedretti in Da Leonardo a Rembrandt 1990, n. 16; Id. in Biblioteca Reale 1990, pp. 104-105; Leonardo e le meraviglie 1998, n. II.14; Pedretti in Leonardo da Vinci 2006, n. I.4; Paola Salvi in Leonardo. Il genio 2011, n. 1.3; Annalisa Perissa Torrini, Leonardo ingegnere militare. «Carri coperti, sicuri e inoffensibili», in Leonardo da Vinci 2013, pp. 118-125, in particolare scheda n. IV.2.
Antonietta De Felice
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10. Leonardo da Vinci Due studi di insetti
1480 circa (schizzo in alto); 1503-1505 circa (schizzo in basso)
Penna su due frammenti di carta preparata di rosso, ritagliati e incollati su un foglietto dello stesso colore, mm 129x118. Dis. It. 1/22; n. inv. 15581 D.C.
I due piccoli disegni, su frammenti di carta incollati su un altro foglio dello stesso colore, raffigurano due insetti, un cerambice (un coleottero abbastanza comune) visto di fronte, e una libellula o un formicaleone (insetto che si differenzia dalla libellula per il corpo più tozzo e le antenne più lunghe), rappresentati nella loro struttura morfologica, in assenza di movimento e descritti con una grande corrispondenza al vero. Sembrano disegni di entomologia, in cui l’attività del volo è soppressa e tutto il rilievo viene dato alla struttura dell’insetto, in cui sono visibili le venature delle ali, la membrana della struttura del corpo, la linea precisa delle zampe (Salvi 2011). Nell’opera, oltre a cogliere l’incredibile corrispondenza al reale, sono ben evidenti la grande ricchezza di particolari nella rappresentazione dei due insetti. È probabile che i due frammenti fossero uniti o almeno parte di uno stesso foglio (Pedretti 2006). Questo disegno è da collegarsi, secondo Paola Salvi, agli studi sul volo (Salvi 2014). Il volo ha sempre destato un interesse fortissimo in Leonardo da Vinci fin dagli anni giovanili e per tutto il corso della sua vita; lo studiò con passione e profondità per poi progettare le sue innovative macchine volanti: dalla libellula meccanica all’aliante, dallo studio sui meccanismi alari alla vite aerea. Nel corpus dei disegni leonardiani della Biblioteca Reale, lo Studio di insetti è indubbiamente il più trascurato dalla critica, che non lo ha mai studiato a fondo come gli altri fogli della collezione torinese, malgrado la raffinata fattura del disegno. Bibliografia: Pedretti 1990, n. 13; Leonardo e le meraviglie 1998, n. II.13; Carlo Pedretti in Leonardo da Vinci 2006, n. I.14; Paola Salvi in Leonardo. Il genio 2011, nn. 1.7; Paola Salvi in Leonardo da Vinci 2014, n. 3.
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11. Leonardo da Vinci Figura presso il fuoco e farfalle volanti, con commento poetico
1483-1485 circa
Penna e inchiostro bruno su carta, mm 157x140. Dis. It. 1/27v; n. inv. 15578 D.C.
Nel disegno Figura presso il fuoco e farfalle volanti, con commento poetico sono visibili in alto a sinistra uno schizzo di figura femminile seduta e vista di profilo, il corpo incurvato con le braccia che trattengono qualcosa in grembo, forse ramoscelli secchi, gettati a terra ad alimentare un fuoco sul quale svolazzano delle farfalle (Pedretti 2006, p. 54). Segue una spiegazione in versi della figura allegorica intesa come rappresentazione del desiderio di raggiungere la conoscenza, per acquistare la quale vale anche la pena morire: «la ciecha ignjoranza chosi ci chonduce / e choleffetto dellasscivj sollazzj / per non chonosciere la vera luce / per non chonossciere qual sia la vera luce // jgnjoranza / el vano splendor ci toglie lessere / vedj che per lo splendor nel fu[o] cho andjamo / ciecha ignoranza jn tal modo chonduce / e chome ciecha jgnoranza ci chonduce / che / o mjseri mortalj aprite liochj». Il disegno sul recto (Studi di gambe virili), se la datazione venisse posticipata di circa un quindicennio, potrebbe appartenere agli studi di guerrieri ignudi per l’affresco della Battaglia di Anghiari, così come sostenuto dallo storico dell’arte Bernard Berenson, mentre Pedretti riconosce nei tratti uno stile precedente e data l’opera tra il 1485-1487 (Pedretti 1990, p. 95). Il disegno analizza l’anatomia della parte inferiore di un corpo virile, il tracciato del bacino, la parte inguinale, le natiche, con le fasce muscolari delle cosce e delle gambe ben evidenti. I due schizzi sulla destra del foglio mostrano una coppia di gambe, una sinistra e una destra, in veduta speculare; il disegno centrale riprende la stessa figura del tracciato di destra con la linea di contorno del gluteo appena accennata; nella figura di sinistra si vede lo schizzo della parte inferiore di un corpo virile visto anteriormente, con i genitali ben evidenti frontalmente, con una gamba appoggiata in torsione e l’altra disegnata nel momento in cui sta per essere portata avanti nell’atto di camminare (Salvi 2011, p. 80).
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Lo studio degli arti inferiori del corpo umano fu un tema caro a Leonardo da Vinci. Nel corso della sua vita egli indagò i meccanismi che coinvolgono la forza del corpo umano esercitata dalle gambe, ne studiò l’anatomia, la morfologia, la potenza. L’interesse per gli arti inferiori fu continuativa, dai primi esercizi anatomici giovanili fino ai lavori della maturità. Bibliografia: Pedretti 1990, n. 9; Leonardo e le meraviglie 1998, n. II.9; Carlo Pedretti in Leonardo da Vinci 2006, n. I.10; Paola Salvi in Leonardo. Il genio 2011, nn. 1.8a, 1.8b; Paola Salvi in Leonardo da Vinci 2014, nn. 6a, 6b.
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12.a. Cesare da Sesto Studio per Gesù Bambino
1510 circa
Matita rossa su carta preparata di rosso-ocra, mm 380x275. Dis. It. 1/31; n. inv. 15988 D.C.
12.b. Cesare da Sesto (attribuito) Testa di vecchio
1515 circa
Sanguigna su carta preparata di rosso-ocra, mm 190x130. Cart. 19/24; n. inv. 15585 D.C.
I due pregevoli disegni sono da attribuire alla mano feconda e ispirata di Cesare da Sesto, pittore lombardo la cui attività è documentata nei primi due decenni del XVI secolo. Formatosi in ambito leonardesco, l’artista assorbe e fa propria la poetica del maestro vinciano, fonte di ispirazione in particolar modo per ciò che concerne la tecnica e il tratto. Non stupisce quindi che la Testa di vecchio nelle collezioni della Biblioteca Reale sia stata in passato attribuita alla mano dello stesso Leonardo da Vinci, per la stringente affinità con due disegni autografi leonardeschi conservati ora a Windsor e databili tra il 1508 e il 1510 (Pedretti 2011, pp. 42-44). Si accoglie qui la recente attribuzione al maestro di Sesto Calende proposta da Annalisa Perissa che, pur riscontrandovi una «indubbia matrice leonardesca», mette in evidenza come le evidenze tecniche e stilistiche riscontrabili nel disegno siano «espressioni tipiche del modus grafico di Cesare da Sesto» (Perissa Torrini 2014, pp. 191-192). Attraverso il sapiente utilizzo del tratto grafico d’ispirazione leonardesca, l’artista ci presenta il volto di un vecchio, la cui caratterizzazione fisionomica è costruita attorno ad un naso adunco e cadente, che quasi sfiora la linea delle labbra – non profilate da tratti che ne delineino i margini esterni – dagli angoli sensibilmente rivolti verso il basso in ragione dello slittamento in avanti della mascella inferiore dovuto alla plausibile b mancanza di dentatura. L’avanzata cal-
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vizie mette inoltre in risalto una fronte estremamente ampia e dalla superficie non interrotta da notevoli rugosità – ben visibili invece in tutta la parte inferiore del disegno – né da arcate sopracciliari. Fulcro della composizione sono gli occhi rivolti verso lo spettatore, con le iridi abbozzate da tratti leggeri e poco visibili. Per ciò che concerne invece lo Studio per Gesù Bambino, già il Bertini negli anni Cinquanta aveva ipotizzato che potesse trattarsi di uno studio preparatorio per la Madonna dell’Albero, oggi conservata presso la Pinacoteca di Brera, dello stesso Cesare da Sesto (Bertini 1958). Ma nonostante ciò, tra i numerosi dipinti raffiguranti la Madonna con il Bambino in grembo, le più stringenti analogie con il disegno della Biblioteca Reale sono riscontrabili nella Madonna con Bambino oggi al Musée des Beaux-Arts di Strasburgo, come segnalato di recente dalla Perissa che sottolinea come in questo disegno, su di una tecnica di evidente ispirazione leonardesca, si innestino suggestioni michelangiolesche e raffaellesche (Perissa Torrini 2014, pp. 192-196). Cesare da Sesto, infatti, dopo una prima formazione lombarda, intraprese nel 1506 un viaggio verso Roma, facendo ritorno a Milano solo nel 1517 dopo aver raggiunto anche il sud della penisola, arricchendo così la propria maniera pittorica alla luce degli esempi dei grandi maestri, primi fra tutti Michelangelo e Raffaello. Ed è proprio l’equilibrio formale delle opere di Raffaello che segnerà l’opera di Cesare da Sesto a partire dal secondo decennio del Cinquecento, e che si evidenzia anche in questo Studio per Gesù Bambino. Bibliografia: Bertini 1958, n. 115; Griseri 1978, n. 13; Carlo Pedretti, I disegni di Leonardo “ripassati” da allievi o seguaci, in Leonardo. Il genio 2011, pp. 41-50; Sara Taglialagamba in Leonardo. Il genio 2011, n. 1.28; Annalisa Perissa Torrini, Leonardo e la sua scuola. Il primato del disegno, in Leonardo da Vinci 2014, pp.187-190.
Maria Luisa Ricci
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13. Allievo lombardo di Leonardo Testa di fanciulla
1510 circa
Sanguigna e biacca su carta preparata di rosso-ocra, mm 222x175. Cart. 19/25; n. inv. 15586 D.C.
Il disegno raffigura la testa di una giovane donna, dal capo ruotato di tre quarti verso destra e leggermente inclinato verso il basso ed i capelli sciolti ad incorniciarne il viso con morbidi riccioli trattenuti, al livello dell’attaccatura, con un sottile nastro. Gli occhi risultano socchiusi, perché lo sguardo segue la rotazione e l’inclinazione del capo, inquadrati nella parte superiore da un’arcata sopracciliare poco pronunciata; il tratto che delinea l’arcata destra declina dolcemente verso il basso dando vita ad una naso proporzionato che sovrasta una piccola bocca chiusa, dalle labbra appena accennate. Questo elegante disegno eseguito a sanguigna su carta preparata di rosso ha avuto una storia critica complessa, ed è stato avvicinato ai nomi di Francesco Melzi, Cesare da Sesto nonché di Leonardo stesso. Carlo Pedretti, in un recente passato, ha segnalato la vicinanza del disegno della Biblioteca Reale con la leonardesca Madonna dei Fusi – ora in prestito alla National Gallery di Edimburgo, dopo essere stata trafugata nel 2003 dalla collezione Buccleuch e ritrovata solo nel 2007 – notandone l’affinità con un altro studio preparatorio presumibilmente eseguito per lo stesso dipinto, il disegno conservato nelle collezioni reali di Windsor RL 12514, recante lo stesso soggetto ed eseguito con la stessa tecnica. Ulteriore variante al tema della testa di giovane donna col capo ruotato di tre quarti verso destra è offerta da uno studio di Cesare da Sesto, oggi conservato presso il Gabinetto di Disegni e Stampe delle Gallerie dell’Accademia (n. 141). I tre studi preparatori sono accomunati non solo dall’uniformità della tecnica, dal momento che sono tutti eseguiti a sanguigna su carta preparata di rosso, e dagli indiscussi punti di contatto dello stile – attinenze che hanno dato modo di teorizzare, in passato, che i tre disegni fossero tutti ascrivibili a Leonardo da Vinci e ‘ripassati’ da Cesare da Sesto – ma anche dalla posizione che le spalle assumono rispetto all’attaccatura del collo, a livello della nuca. In particolare nel disegno torinese si nota come tale posizione sia stata modificata a posteriori, innalzandola di circa un centimetro. A tal proposito Pedretti ipotizza che il disegno potrebbe addirittura essere considerato un ritratto dal vero ascrivibile a Francesco Melzi, su cui Leonardo interviene per riportare le spalle ad un’altezza corretta, molto vicina a quella del già citato disegno di Windsor, accentuandone inoltre «il modellato sulla forma con tratteggio eseguito con la mano sinistra» (Pedretti 2006). Per la Perissa invece l’elegante Testa di fanciulla torinese, «superbo esempio di raffinata espressività raggiunta con estrema sapienza grafica» (Perissa Torrini 2014, p. 191), può evocare il nome di Leonardo da Vinci, ma non di meno quello di Cesare da Sesto. Bibliografia: Pedretti 1990, n. 17; Carlo Pedretti in Leonardo da Vinci 2006, n. II.3; Sara Taglialagamba in Leonardo. Il genio 2011, n. 1.29; Carlo Pedretti in Leonardo e l’idea 2012, n. 5; Annalisa Perissa Torrini, Leonardo e la sua scuola. Il primato del disegno, in Leonardo da Vinci 2014, pp. 183-203.
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14. Bottega di Andrea del Verrocchio Testa di giovane, studio dell’angelo nel “Battesimo di Cristo” del Verrocchio
1470-1480
Punta metallica, acquerello e biacca su carta preparata di ocra chiara, mm 231x171. Cart. 19/27; n. inv. 15635 D.C.
Questo pregevole disegno, dallo stato di conservazione purtroppo molto compromesso, è correntemente assegnato alla bottega di Andrea del Verrocchio, dal momento che si tratta di uno studio relativo all’angelo accovacciato alla sinistra di Gesù nella tavola dipinta con il Battesimo di Cristo oggi agli Uffizi, assegnato al Verrocchio stesso con la collaborazione del giovane Leonardo da Vinci. È il Vasari il primo a mettere in relazione con il maestro vinciano l’angelo del Battesimo di «Andrea del Verrocchio, il quale faccendo una tavola dove San Giovanni battezzava il Cristo, Lionardo lavorò a un angelo che teneva alcune vesti» (Vasari 1550, vol. IV, p. 19). In effetti gli esami radiografici condotti sulla tavola negli anni Cinquanta hanno permesso di portare alla luce le differenti tecniche utilizzate tra il gruppo dei due angeli a sinistra e il resto del dipinto, ed è quindi plausibile che Leonardo sia intervenuto almeno in parte sull’angelo che volge le spalle all’osservatore. Queste circostanze hanno fatto sì che in passato anche questo disegno – che prima di giungere a Torino aveva fatto parte delle collezioni del Conte di Bardi e di Giovanni Volpato, come attestato dai timbri posti agli angoli inferiori – venisse assegnato alla mano del maestro vinciano, fin dal XIX secolo (Müntz 1899, p. 43). Attualmente la critica vede in questo disegno – fortemente lacunoso nella parte superiore e la cui lettura risulta alterata da rimaneggiamenti successivi, specie nelle zone delle gote e del mento – un’espressione dell’arte espressa dalla bottega di Andrea del Verrocchio, una delle più importanti del Quattrocento toscano, senza però propendere verso attribuzioni specifiche ad uno dei suoi numerosi componenti. Non c’è dubbio che la qualità del tratto sia molto alta, ed è possibile ancora leggervi, nel trattamento della folta chioma definita da riccioli morbidi scolpiti con tocchi di biacca, il grafismo quasi cesellato del Verrocchio che, oltre ad essere pittore, era anche un pregevole scultore nonché un valido orafo. L’angelo è ritratto in una insolita veduta di schiena, con il volto girato di tre quarti verso destra e gli occhi rivolti verso l’alto, in quella che oggi ci appare quasi una visione estatica, ma che in realtà, nella costruzione piramidale del dipinto, era strettamente funzionale alla posizione centrale del Cristo che riceve il battesimo, evento a cui l’angelo sta assistendo. Purtroppo il disegno torinese risente di uno stato di conservazione precario, frutto di interventi e rimaneggiamenti subiti nel corso dei secoli. Tutta la parte superiore del disegno infatti è un’integrazione di restauro e numerose lacune e cadute di colore sono visibili su tutta la superficie. Non è, a tutt’oggi, nemmeno possibile stabilire se ci si trovi in presenza di uno bozzetto preparatorio per il dipinto degli Uffizi o, al contrario, di uno studio da esso, e ciò allarga la forbice della datazione a tutto l’ottavo decennio del XV secolo. Bibliografia: Vasari 1550; Müntz 1899; Bertini 1958, n. 232; Carlo Pedretti in Leonardo da Vinci 2006, n. II.1; Sara Taglialagamba in Leonardo. Il genio 2011, n. 1.23; Annalisa Perissa Torrini, Leonardo e la sua scuola. Il primato del disegno, in Leonardo da Vinci 2014, pp. 183-203.
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15. Giovanni Antonio Boltraffio Busto di giovane incoronato di spine e foglie di vite
1495 circa
Punta metallica su carta preparata di azzurro, mm 305x220. Dis. It. 1/33; n. inv. 15587 D.C.
Giovanni Antonio Boltraffio, seguace lombardo di Leonardo da Vinci, fu un originale pittore che riuscì a fondere la resa plastica e l’acuta percezione luministica, propria del Rinascimento di impronta lombarda, con le profonde novità impiantate nella regione dall’avvento di Leonardo. Artista singolare, riuscì a esprimere la sua originalità soprattutto nei ritratti, in cui fu in grado di bilanciare in una peculiare sintesi sia valori cromatici che plastici. Quasi alla stregua di un ritratto può essere considerato anche il disegno qui esposto, che raffigura un giovane con il busto visto di tre quarti ma con il capo rivolto verso l’osservatore, nei confronti del quale indirizza uno sguardo intenso e penetrante, sovrastato da sopracciglia corrucciate che danno luogo ad evidenti rughe d’espressione. Il viso è incorniciato da lunghi capelli riccioluti, che ricadono ai lati di un collo possente; tutti i lineamenti del viso sono estremamente marcati. Un serto di foglie di vite gli cinge il capo all’altezza dell’attaccatura dei capelli e, al di sotto delle foglie, si intravede una corona di spine. Il trattamento delle forme dal vigore alquanto insolito per un artista d’area lombarda e l’intensità «quasi michelangiolesca» degli occhi fanno pensare addirittura ad uno «studio per una scultura» (Pedretti 2006). Il disegno ha visto una tradizionale, ma poco convincente, assegnazione a Leonardo fino agli anni Cinquanta, quando Bertini ha proposto per il foglio l’attribuzione alla cerchia di Giovanni Boltraffio; Andreina Griseri nel 1978 ha confermato il legame con l’artista lombardo. Negli anni Ottanta la Zanuso ha proposto di riconoscere nel soggetto rappresentato un’immagine di Cristo, data la presenza nel foglio di due simboli cristologici, la corona di spine, simbolo della Passione, e le foglie di vite che – oltre ad essere un’emblema dionisiaco – possono far riferimento al mistero eucaristico. L’attribuzione a Boltraffio è stata ribadita in tempi più recenti da Sara Taglialagamba (Taglialagamba 2011), Annalisa Perissa (Perissa Torrini 2014) nonché da Carlo Pedretti (Pedretti 2006), il quale ritiene che il tocco di luce riflessa visibile al di sotto del labbro superiore possa essere un tratto distintivo di Giovanni Boltraffio, dal momento che si riscontra anche in un foglio oggi alla Morgan Library di New York raffigurante una testa femminile a sanguigna e attribuita allo stesso artista. Bibliografia: Bertini 1958, n. 60; Griseri 1978, n. 12; Susanna Zanuso in Leonardo: il codice 1985, p. 157; Carlo Pedretti in Leonard da Vinci 2006, n. II.4; Sara Taglialagamba in Leonardo. Il genio 2011, n. 1.30; Annalisa Perissa Torrini, Leonardo e la sua scuola. Il primato del disegno, in Leonardo da Vinci 2014, pp. 183-203.
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16. Pietro Vannucci detto il Perugino Giovane nudo accanto ad un vecchio con vesti all’orientale
1480 circa
Punta d’argento con lumeggiature di biacca, acquerellato con bistro su carta preparata di rosa, mm 201x119. Dis. It. 1/11; n. inv. 15775 D.C.
Tra il 1481 e il 1482 il pontefice Sisto IV commissiona ad un gruppo di pittori, per lo più fiorentini, la decorazione di una Cappella papale all’interno del Palazzo vaticano: artisti del calibro di Sandro Botticelli, Domenico Ghirlandaio e Pietro Vannucci detto il Perugino si ritrovano così a Roma per affrescare le pareti di quella che in seguito verrà chiamata Cappella Sistina in onore del papa che l’aveva ricostruita. Tra gli affreschi affidati al Perugino e ai suoi aiutanti, fra i quali spiccava il giovane Pinturicchio, c’è anche il Battesimo di Cristo sulla parete nord della cappella; il disegno raffigurante un Giovane nudo accanto ad un vecchio con vesti all’orientale della Biblioteca Reale è plausibilmente uno schizzo preparatorio di un dettaglio dell’affresco vaticano. Il gruppo, formato dal giovane in primo piano nudo e leggermente rivolto verso sinistra e l’anziano in secondo piano coperto da pesanti vesti e un copricapo orientale a sua volta rivolto verso il giovane, può essere facilmente individuato nel Battesimo di Cristo tra i personaggi in secondo piano all’immediata sinistra del Cristo. Non si può escludere che il gruppo dei due personaggi sia stato affrescato – su disegno del maestro – dai suoi validi aiuti. Nel disegno sono presenti poche varianti rispetto alla versione dipinta, nella quale, ad esempio, il personaggio nudo – probabilmente un giovane neofita che ha appena ricevuto il battesimo da Giovanni il Battista – reca un copricapo, di fattura diversa da quello indossato dal personaggio più anziano. La concezione spaziale intrisa di equilibrio compositivo – che il Perugino deriva non solo dall’assimilazione della poetica di Piero della Francesca ma anche dalla frequentazione della bottega del Verrocchio a Firenze – e la posa elegantemente leziosa del giovane, unite all’indubbia qualità del tratto rivelano nel disegno oggi a Torino la mano del Perugino, massimo esponente del Rinascimento umbro, come già asserito agli inizi del Novecento (Fischel 1917, p. 15) e ribadito in tempi più recenti da Luigi Grassi, che delle due figure ritratte sottolinea l’«inconfondibile vitalità, quale si esprime nelle forme ancora nel ricordo del Verrocchio e del Pollaiolo» (Grassi 1990). Bibliografia: Fischel 1917; Bertini 1958, n. 9; Luigi Grassi in Da Leonardo a Rembrandt 1990, n. 8.
Maria Luisa Ricci
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17. Giulio Pippi detto Giulio Romano Testa femminile
1527-1528
Matita nera su carta bianca, mm 203x266. Banc. II/2; n. inv. 15658 D.C.
Giulio Pippi, conosciuto comunemente come Giulio Romano, è stato una grande personalità del primo Cinquecento italiano, epoca che l’artista ha attraversato imponendosi sia come pittore che come architetto. È stato attivo nel fecondo clima culturale romano dell’inizio del XVI secolo, e qui si è imposto come allievo prediletto di Raffaello nonché come suo prezioso collaboratore nella decorazione delle Stanze vaticane. L’insegnamento tratto dal maestro urbinate e i potenti stimoli compositivi derivatigli dalla concezione michelangiolesca dello spazio, danno luogo in lui ad una pittura nuova, maestosa e decorativa, dal vigoroso effetto scenografico. Nel corso del terzo decennio del Cinquecento, Federico II Gonzaga affida a Giulio Romano la creazione e la decorazione di Palazzo Te a Mantova, decorazione a cui il pittore attende con l’aiuto di diversi allievi, alcuni dei quali avevano condiviso con lui l’esperienza del cantiere vaticano. Le diverse sale del Palazzo sono affrescate con decorazioni derivanti per lo più dalla mitologia classica, secondo il gusto del tempo. In particolare le pareti della Sala da pranzo del Duca sono ornate con scene tratte dal mito di Amore e Psiche, tratto dalle Metamorfosi di Apuleio. Il disegno qui esposto è uno dei disegni preparatori per l’affresco sulla parete ovest della Sala, che riproduce la preparazione del banchetto nuziale; in particolare l’elegante testa torinese è perfettamente sovrapponibile con quella della ninfa posta dietro l’angolo sinistra del tavolo, accanto ad un satiro (Béguin 1990). Pressoché privo di varianti rispetto alla definitiva versione dipinta, il disegno presenta un supporto cartaceo dall’evidente puntinatura per il riporto, indispensabile per trasportare il disegno dalla carta alla parete intonacata attraverso la tecnica dello spolvero. Questa tecnica prevedeva la realizzazione di un disegno preparatorio in scala 1:1, la cui superficie veniva bucherellata con un’apposita punta sottilissima lungo le principali linee tracciate dall’artista. Il disegno veniva poi adagiato sulla parete da affrescare e delicatamente battuto con un sacchetto in tela contenente polvere di carbone che, infilandosi attraverso i buchi, si andava ad imprimere sull’intonaco preparato, in modo da lasciare una precisa traccia del disegno da riportare. La presenza della puntinatura per lo spolvero lega indissolubilmente il disegno alla sua redazione finale affrescata in Palazzo Te, e ci fornisce quindi elementi importanti anche per ciò che concerne la sua datazione, plausibilmente riferibile agli anni 1527-1528, anni in cui, secondo Oberhuber, sono documentati i lavori per la Sala di Amore e Psiche (Oberhuber 1989, p. 443). Bibliografia: Bertini 1958, n. 481; Oberhuber 1989; Sylvie Béguin in Da Leonardo a Rembrandt 1990, n. 32.
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18. Raffaello Sanzio Studio di giovane che suona il liuto
XVI secolo, primo decennio
Punta metallica, acquerello e biacca su carta preparata marrone-rosa, mm 170x212. Dis. It. 1/12; n. inv. 15736 D.C.
In questo disegno a punta metallica e acquerello, tradizionalmente attribuito a Raffaello, l’artista urbinate raffigura un giovinetto vestito secondo la moda del suo tempo, in abiti quotidiani. Il giovane si presenta chino, con il ginocchio sinistro poggiato sul terreno e la gamba destra piegata, mentre suona il liuto; la testa sporge lievemente in avanti rispetto al busto ed è ruotata, in modo che lo sguardo possa scorgere con facilità lo strumento musicale che sta suonando. Si tratta presumibilmente di uno studio, anche se non è possibile riconoscere la figura qui rappresentata in nessuna delle opere di Raffaello giunte fino a noi. Presenta un grado di accuratezza dei dettagli maggiore nella porzione centrale, perché probabilmente l’attenzione dell’artista era focalizzata sullo studio del liuto e delle mani intente a suonarlo, come dimostra altresì il particolare di studio delle sole mani presente nella parte alta del foglio, lungo il margine destro. È ragionevole pensare che si tratti di un semplice esercizio, ma non si può escludere che tale studio gli servisse come modello di massima da cui partire per la composizione di un angelo musicante, per il quale l’artista studia con esattezza la posizione nello spazio e la posa, e del quale si intravede la lunga tunica abbozzata dall’artista a punta metallica nella parte inferiore del disegno. Pubblicato per la prima volta dal Fischel nel 1917 con l’attribuzione al Perugino del periodo romano, quindi intorno al nono decennio del XV secolo – attribuzione in seguito ripresa dal Bode e dal Dussler – il disegno venne per la prima volta legato al nome di Raffaello dal Bertini negli anni Cinquanta, seppur con una attribuzione problematica. Il Bertini, pur non essendo in condizione di poter individuare l’opera per la quale Raffaello si sia avvalso del disegno qui esposto come studio preparatorio, propende per una datazione prossima ai primi anni del XVI secolo, in una fase ancora giovanile dell’artista, dal momento che il punto di stile raggiunto non è lontano da quello a cui perviene nella realizzazione dell’Incoronazione della Vergine, realizzata nel 1502-1503 per la Cappella degli Oddi in San Francesco a Perugia e oggi alla Pinacoteca Vaticana (Bertini 1958). L’assegnazione a Raffaello, in tempi più recenti, è stata confermata da John Gere, nel 1990; con tale attribuzione è stato esposto nel 2011 alla mostra Il teatro di tutte le scienze e le arti presso l’Archivio di Stato di Torino (Il teatro 2011). Tutta la prima produzione di Raffaello appare fortemente permeata dalla cultura del Perugino, suo primo vero maestro a partire dal 1497, anche se il giovane artista subisce ad Urbino una profonda impressione dell’arte e della ricerca spaziale di Piero della Francesca: le due diverse poetiche e la diversa concezione spaziale e formale lasceranno un segno profondo nell’arte del giovane urbinate, il cui linguaggio, pur nella peruginesca tendenza all’armonia compositiva e formale che talora sfora nel sentimentalismo, si inserisce nel solco della più alta tradizione quattrocentesca e si declina con modernità in un linguaggio pittorico nuovo, straordinariamente limpido, supportato da una mirabile padronanza dei propri mezzi tecnici. Bibliografia: Bode 1923; Dussler 1948; Fischel 1917; Bertini 1958, n. 372; John A. Gere in Da Leonardo a Rembrandt 1990, n. 28; Il teatro 2011, n. 399.
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Leonardo da Vinci e leonardeschi. Esposizioni dei disegni della Biblioteca Reale a cura di Antonietta De Felice Le esposizioni del corpus leonardiano della Biblioteca Reale (disegni di Leonardo e leonardeschi e Codice sul volo degli uccelli) si sono susseguite negli anni, a dimostrazione della vasta attività di valorizzazione volta a far conoscere il patrimonio leonardiano della Biblioteca Reale non solo in Italia, ma anche all’estero. Si offrono di seguito le tappe fondamentali (le notizie sulle esposizioni sono tratte dagli studi di Clara Vitulo; cfr. Vitulo 2012 e Saccani – Vitulo 2013). 1950 Torino, Biblioteca Reale, Prima mostra dei disegni italiani del-
la Biblioteca Reale. Furono esposti i disegni di Leonardo e della sua cerchia; 1975 Torino, Biblioteca Reale, Disegni di Leonardo da Vinci e della sua scuola alla Biblioteca Reale di Torino. Venne esposto l’intero corpus di disegni di Leonardo e leonardeschi; 1990 Torino, Palazzo Reale, Da Leonardo a Rembrandt. Disegni della Biblioteca Reale di Torino. Le opere di Leonardo esposte furono 7 (collocazioni: Dis. It. 1/30, 1/19, 1/20-21, 1/26, 1/28, 1/24 e 1/18), di leonardeschi 3 (Dis. It. 1/33, 1/31 e 1/17); 1991 Washington, National Gallery of Art, Circa 1492. Art in the Age of Exploration. Le opera concesse in prestito furono: Ritratto di fanciulla, Studi di proporzioni del volto e dell’occhio e Studi di carri d’assedio muniti di falci. L’esposizione intendeva commemorare i Cinquecento anni della spedizione di Cristoforo Colombo; 1992 Edimburgo, National Gallery of Scotland, Leonardo da Vinci. The Mystery of the Madonna of the Yarnwinder. L’opera concessa in prestito fu il disegno leonardesco Testa di fanciulla; 1998 Torino, Biblioteca Reale, Leonardo e le meraviglie della Biblioteca Reale di Torino. La mostra si svolse nel nuovo caveau costruito con il contributo della Consulta di Torino, che vide esposti nelle 19 vetrine tutti gli originali di Leonardo e i leonardeschi; 2001 Tokyo, National Museum of Western Art, Il Rinascimento in Italia. La Civiltà delle Corti, Le opere leonardiane concesse in prestito furono Testa virile di profilo incoronata d’alloro e Studi di carri d’assedio muniti di falci; 2002 Matsumoto (Giappone), City Museum of Art – Sapporo (Giappone), Museum of Contemporary Art, I disegni di tre grandi Maestri. Leonardo, Michelangelo, Raffaello. Le opere concesse in prestito furono Leonardo da Vinci, Due studi di insetti e Bottega del Verrocchio, Testa di giovane; 2003 Torino, Biblioteca Reale, Van Eyck, Antonello, Leonardo: tre capolavori del Rinascimento, mostra nata in collaborazione con il Museo d’Arte antica di Palazzo Madama di Torino. Per l’occasione furono esposti, oltre all’Autoritratto e al Codice sul volo degli uccelli, altri 5 disegni di Leonardo (Dis. It. 1/19, 1/20-21, 1/29, 1/18 e 1/22) e 3 di leonardeschi (Cart. 19/27 e Dis. It. 1/33); New York, Metropolitan Museum of Art, Leonardo da Vinci, Master Draftsman. Furono concesse in prestito le seguenti opere di Leonardo: Nudi per la “Battaglia di Anghiari”, Ercole con il leone nemeo e Studi delle zampe anteriori del cavallo; Parigi, Musée du Louvre, Léonard de Vinci, dessins et manuscrits. Opere concesse in prestito: Nudi per la “Battaglia di Anghiari” di Leonardo e Busto di giovane incoronato di spine di Boltraffio; 2006 Firenze, Galleria degli Uffizi, La mente di Leonardo. In via eccezionale venne prestato per un periodo limitato l’Autoritratto; Torino, Biblioteca Reale, Leonardo da Vinci. Capolavori in mostra, esposizione che venne creata in occasione delle celebrazioni
dei XX Giochi olimpici invernali di Torino 2006. Accanto al corpus delle opere torinesi di Leonardo, vennero esposti autografi e opere di Leonardo da Vinci provenienti da raccolte nazionali e internazionali; 2007 Torino, Biblioteca Reale, Capolavori digitali: il Codice sul volo degli uccelli e l’Autoritratto di Leonardo da Vinci, mostra digitale dedicata alle opere di Leonardo; Bruxelles, Koekelberg Basilica, Leonardo da Vinci. The European Genius, nell’anniversario del Cinquantenario del Trattato di Roma, con la concessione in prestito del Codice sul volo degli uccelli; 2008 Birmingham (USA), Museum of Art – San Francisco (USA), Fine Arts Museums, Leonardo da vinci. Drawings from the Biblioteca Reale in Turin. Venne concessa in prestito l’intera collezione leonardiana torinese, con l’eccezione di due disegni, l’Autoritratto e lo Studio di carri d’assedio muniti di falci; 2009 L’Aquila, Caserma della Guardia di Finanza “Vincenzo Giudice di Coppito”, L’arte del saper fare bene italiano, mostra nata a seguito del terremoto, in occasione del G8, e tesa a dimostrare la grandezza del patrimonio culturale italiano. La Biblioteca Reale concesse il prestito del Codice sul volo degli uccelli; 2011 Venaria Reale (TO), Reggia di Venaria, Leonardo. Il genio, il mito, per la celebrazione del 150° dell’Unità d’Italia. Venne esposto l’intero corpus di disegni leonardiani; 2012 Fukuoka (Giappone), Fukuoka Art Museum – Tokyo, The Bunkamura Museum of Art, Leonardo da Vinci e l’idea della bellezza con l’esposizione dei disegni leonardeschi Testa di fanciulla (Cart. 19/25) e Testa di giovane (Cart. 19/27); Parigi, Musée du Louvre, La Sainte Anne. L’ultime chef-d’oeuvre de Léonard de Vinci, prestito di Seguace di Leonardo, Busto di giovane donna con larga scollatura; Mosca, Museo Puskin, Mostra sui disegni italiani dalle collezioni del Museo Puskin, prestito del Codice sul volo degli uccelli; 2013 Washington, Smithsonian Museum, mostra dedicata interamente all’esposizione del Codice sul volo degli uccelli; Venezia, Gallerie dell’Accademia, Leonardo da Vinci. L’uomo universale. Le opere della Biblioteca in mostra furono: Dis. It. 1/28, 1/20-21, 1/18 e 1/29; New York, Morgan Library, Leonardo da Vinci. Treasures from the Biblioteca Reale, Turin, con l’esposizione del Codice sul volo degli uccelli, di 8 disegni di Leonardo (Dis. It. 1/19, 1/26, 1/22, 1/25, 1/24, 1/27, 1/28 e 2/58) e 7 di leonardeschi (Cart. 19/27, 19/24, 19/23, 19/25 e Dis. It. 1/33, 1/31, 1/32); 2014 Parigi, Musée Maillol, Les Borgia et leur temps. De Léonard de Vinci à Michel-Ange, con il prestito di Tre vedute di testa barbuta di Leonardo.
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SE ZION E ii
Nuova Sala Espositiva
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19.a. Annibale Carracci Sileno ebbro
1598-1599
Sanguigna su carta bianca, mm 298x232. Dis. Cart. 8/1/34; n. inv. 16060 D.C.
19.b. Annibale Carracci Studio per un’erma della galleria Farnese
1598-1599
Carboncino nero, gessetto bianco su carta azzurra, mm 472x363. Dis. It. 4/93; n. inv. 16076 D.C.
La Biblioteca Reale conserva un importante nucleo di disegni preparatori per gli affreschi commissionati sullo scorcio del Cinquecento dal cardinale Odoardo Farnese per il suo palazzo romano, eseguiti da Annibale Carracci in collaborazione col fratello Agostino e con un’équipe di giovani allievi. Si tratta di potenti studi in relazione sia con la figura di Ercole, su cui è incentrata la decorazione del «camerino», che con le scene narrative e l’impaginazione della volta della Galleria, su cui si dispiegano scene tratte dalle Metamorfosi di Ovidio e, al centro, il Trionfo di Bacco e Arianna. Quest’ultimo soggetto, che illustra in chiave neoplatonica l’unione tra la Venere celeste e la Venere terrena, va letto in riferimento alle nozze tra Ranuccio Farnese, duca di Parma e Piacenza e fratello del cardinale, e Margherita Aldobrandini, nipote di papa Clemente VIII, celebrate nel 1600. Gli affreschi della Galleria Farnese rappresentano uno snodo fondamentale nella storia dell’arte italiana: essi vennero consacrati dai teorici, dal Seicento fino a tutto l’Ottocento, come modello ideale della continuità tra la grande tradizione rinascimentale di Raffaello e Michelangelo e le allora nascenti istanze della pittura barocca. Gli affreschi della galleria furono preceduti da un’ampia serie di studi, sia a penna che a carboncino e gessetto su carta azzurra, spesso di grande formato e assai ricercati dai collezionisti europei fin dal Seicena
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to; gran parte di questi studi sono oggi conservati al Louvre e nella Royal Library di Windsor. Fa eccezione il disegno a matita rossa raffigurante Sileno, che si riferisce a una delle figure dipinte nel corteo di Bacco e Arianna. Lo Studio per un’erma fa parte di una serie di disegni in cui Annibale ideò le figure che costituiscono l’intelaiatura della volta, concepita come una finta architettura marmorea entro cui sono incastonate a mo’ di quadri le diverse scene, oltre a medaglioni dipinti a imitazione del bronzo, secondo il modello michelangiolesco della Cappella Sistina. La decisione del tratto, forte e sintetico, dichiara la prassi operativa del pittore, che a partire da un’attenta e spesso commovente osservazione della realtà – in questo caso, il torso e il volto vagamente malinconico di un giovane modello, copiati dal vero – arriva ad offrire un’interpretazione estremamente vitale dell’Antico. Nella versione ad affresco, il telamone ‘perde’ il braccio destro, per rafforzare l’illusione di una scultura mutilata dal tempo. L’uso sapiente del carboncino e del gessetto bianco rende già nel disegno l’impressione di un’illuminazione dal basso, studiata da Annibale fin dalla fase preparatoria con l’impiego di modelletti scolpiti. Bibliografia: Bertini 1958, nn. 94, 98; Griseri 1978, nn. 59, 60; Anna Ottani Cavina in Da Leonardo a Rembrandt 1990, n. 98b; Gail Feigenbaum in The drawings of Annibale Carracci 1999, n. 57; Catherine Loisel in L’idea del bello 2000, tomo II, pp. 240, 251; Silvia Ginzburg in Palazzo Farnèse 2010, nn. 110, 111.
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20.a. Giovan Francesco Barbieri detto il Guercino Conversione di San Paolo
1614-1617 circa
Penna, acquerello bruno, acquerello azzurro, mm 256x195. Iscrizione a penna e inchiostro bruno, in basso a destra: «guarchino». Dis. It. 4/105; n. inv. 16114 D.C.
20.b. Giovan Francesco Barbieri detto il Guercino Il Tempo e la Pace
1618-1620 circa
Penna, acquerello bruno, acquerello azzurro, mm 240x180. Iscrizione a penna e inchiostro bruno, in basso a sinistra: «guarcino». Dis. Cart. 8/1/5; n. inv. 16115 D.C.
I due disegni in mostra costituiscono un valido esempio della facilità creativa e dello stile grafico del Guercino. Il segno a penna, fluido e filante, delinea rapidamente le figure con una tendenza deformante che appare ancora debitrice del Manierismo emiliano. Il tratto leggero dei contorni è completato da netti contrasti di luce e ombra – ricercati dal Guercino anche nei suoi dipinti – ottenuti con l’impiego di acquerellature che creano pozze d’oscurità contro il bianco luminoso del foglio di carta. La ‘gran macchia’ del pittore di Cento, diversa dalla cruda luce caravaggesca che rivela la realtà, dichiara piuttosto una profonda sensibilità coloristica di matrice veneta: proprio nel 1618 il Guercino si recò in viaggio a Venezia, ove poté studiare direttamente le opere di Tiziano. La sua felicità inventiva – evidente nei numerosi disegni, per lo più eseguiti a penna – fece di lui un nome particolarmente ambito tra i collezionisti di disegni fin dal Seicento, al punto che ancora prima della fine del XVIII secolo un anonimo falsario mise in commercio un’ampia serie di fogli spacciati come autografi, ma in realtà derivati da incisioni (Bagni 1985 e 1990). La Conversione di San Paolo è ispirata alla tela dello stesso soggetto dipinta da Ludovico Carracci nel 1587 per la chiesa di San Francesco a Bologna. Come ricordano le fonti, Ludovico Carracci fu una delle principali fonti d’ispirazione del Guercino negli anni della sua formazione giovanile, prima a
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della partenza per Roma nel 1621: più precisamente, per questo disegno è stata avanzata una datazione agli anni tra il 1614 e il 1617. A quelle date, il pittore apriva una propria Accademia del nudo a Cento, il suo paese natale. Leggermente più tardo è l’altro foglio raffigurante Il Tempo e la Pace, eseguito dunque a ridosso delle grandi imprese romane del terzo decennio, quali la decorazione delle volte del Casino dell’Aurora Ludovisi, ove il Guercino dipinse L’Aurora e La Fama nell’anno stesso del suo arrivo a Roma. La figura della Pace – che corrisponde alla descrizione che di questa allegoria dà Cesare Ripa nella sua Iconologia, pubblicata nel 1593 – è in rapporto con un disegno a carboncino della Royal Library di Windsor. Il pittore andava verosimilmente elaborando un dipinto su questo tema, di cui però non è nota nessuna versione esistente. È stato ipotizzato (Ottani Cavina 1990) che la tenue acquerellatura azzurra dello sfondo, presente in entrambi i fogli, sia da ricondurre a un intervento ottocentesco da parte del collezionista Giovanni Volpato. Bibliografia: Bertini 1958, nn. 568, 569; Il Guercino 1969, nn. 177, 179; Griseri 1978, nn. 63, 64; Bagni 1985; Id. 1990; Anna Ottani Cavina in Da Leonardo a Rembrandt 1990, nn. 100, 101; Drawings by Guercino 1991, pp. 47, 65.
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21. Domenico Piola La Storia incide una lapide dettata da Mercurio
1670
Penna e inchiostro bruno acquerellato, matita nera su carta, mm 300x201. Sul piedistallo, iscrizione «Gio. 1722». Cart. 17/46; n. inv. 16216 D.C.
Il disegno è preparatorio per la tavola incisa a bulino da George Tasnière che costituisce l’antiporta al testo di Emanuele Tesauro Inscriptiones quotquot reperiri potuerunt opera et diligentia D. Emanuelis Philiberti Panealbi, raccolta di scritti d’occasione stampata a Torino nel 1670. Due esemplari di questo testo sono conservati a Torino, uno nella stessa Biblioteca Reale (coll. I 57.65) e l’altro nella Biblioteca Civica; la lastra di rame che servì da matrice si trova anch’essa a Torino, presso il Museo Civico d’Arte Antica. Il disegno, già concepito per la stampa, è naturalmente in controparte rispetto all’incisione. Il letterato torinese Emanuele Tesauro (1592-1675), formatosi presso la Compagnia di Gesù, fu precettore e storico di corte dei duchi di Savoia e dei principi di Carignano. Autore di numerosi studi sulla storia locale, è celebre soprattutto per il Cannocchiale aristotelico, trattato sulla retorica barocca pubblicato nel 1654. Sempre nel 1670 Piola eseguì i disegni preparatori per i frontespizi di altre due opere di Tesauro, una nuova edizione del Cannocchiale e la Filosofia morale. All’ideazione di queste illustrazioni collaborò verosimilmente lo stesso Tesauro, che dovette fornire i temi allegorici, facendosi interprete del gusto del duca Carlo Emanuele II di Savoia. La collaborazione tra il pittore genovese e Tasnière proseguì fino al 1711, dando origine alla produzione di ventidue incisioni. La traduzione a stampa delle invenzioni di Piola da parte di incisori come Tasnière, Antonio de Penne e Martial Dubois contribuì indubbiamente a propagare la fama del pittore genovese presso la corte sabauda: nel 1675 egli fornì un progetto per la decorazione della Galleria di Palazzo Reale, poi dipinta da Daniel Seyter. Il disegno, assai finito, è del tutto fedele alla versione incisa, salvo l’aggiunta dell’iscrizione all’interno della targa collocata al di sopra del fornice dell’arco; la Storia è in atto di incidere su una lapide le parole I 57.65, antiporta
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«EMMANUELIS THESAURI LAPIDARIA». Nella rigorosa impaginazione architettonica dell’ambientazione classica, le due figure spiccano per l’effetto plasticamente mosso dei panneggi e la leggiadria delle pose e dei lineamenti, che rimandano allo stile del maestro di Piola, Valerio Castello. L’insieme appare comunque meno libero anche rispetto ad altri disegni di Piola preparatori per incisioni. Sono da considerarsi ritocchi successivi alcune ombre riportate sulla figura della Storia, eseguite con lo stesso inchiostro con cui fu riportata la data sul piedistallo «Gio. 1722», iscrizione sulla base della quale il disegno era stato anticamente attribuito a Paolo Gerolamo Piola (1666-1724), figlio di Domenico. Bibliografia: Bertini 1958, n. 590; Mary Newcome Schleier in Da Leonardo a Rembrandt 1990, n. 72; Sanguineti 2004, n. V.7.
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22. Nicolas Poussin Apollo che custodisce il gregge di Admeto
XVII secolo
Penna, tracce di matita nera su carta, mm 290x425. Dis. Str. IV/115; n. inv. 16295 D.C.
Nicolas Poussin, artista francese di nascita ma italiano d’adozione – dal momento che negli anni Trenta del Seicento si trasferisce a Roma – può a ragione essere considerato colui che ha dato vita ad un nuovo genere di pittura di paesaggio, che fonde in sé varie componenti, desunte dalla pittura dei maestri con i quali il pittore entra in contatto una volta giunto in Italia, primi tra tutti Raffaello, che lo affascina per il rigore compositivo e lineare, Tiziano, da cui trae l’intenso cromatismo, ma anche Annibale Carracci, Domenichino e Guercino. Le sue scene arcadiche, che spesso fungono da grandiosa ambientazione per raccontare scene mitologiche o eroiche, assurgono ad una dignità nuova, con un intrinseco valore talvolta anche di rievocazione archeologica, e resteranno per decenni modelli insuperati per i suoi imitatori. Il disegno esposto – appartenuto in passato alla collezione francese di Pierre-Jean Mariette e in seguito alla collezione Vivant Denon, prima di essere acquistato da Giovanni Volpato per poi finire nelle raccolte sabaude – può essere messo in relazione con Apollo e Dafne, l’ultimo dipinto realizzato dal maestro francese, lasciato incompiuto alla sua morte avvenuta a Roma sul finire del 1665. Il dipinto, che ora si trova nell’Ala Richelieu del Museo del Louvre, era già stato preso in considerazione dal Bellori che, nel 1672, annotava: «a questo componimento mancano l’ultime pennellate per l’impotenza e tremore della mano» (Bellori 1672, p. 444). Il Poussin infatti era ammalato già da diversi anni e la sua infermità gli provocava notevoli tremori alle mani; ma se, negli ultimi anni, il tratto si fa più indeciso e vibrante – come si può facilmente notare anche dal disegno in mostra – la malattia nulla toglie alla grande capacità dell’artista di realizzare composizioni in cui l’uomo e la natura si fondono in un perfetto equilibrio formale. Il disegno rappresenta la scena in cui Apollo – condannato da Giove a diventare un servitore sulla terra per scontare la colpa d’aver ucciso i Ciclopi – custodisce il gregge di Admeto, uomo pio e giusto presso il quale il dio aveva scelto di dimorare e pagare così il suo fio. Apollo custodisce a lungo il gregge del suo ospite che, grazie al suo intervento, prospera in maniera sorprendente. Il verso del disegno, non esposto per motivi allestitivi, presenta una scenografia architettonica non attribuibile alla stessa mano. Bibliografia: Bellori 1672; Gian Carlo Sciolla in I disegni dei maestri 1974, n. 288; Sylvie Béguin in Da Leonardo a Rembrandt 1990, n. 136; Rosemberg in Poussin y la Naturaleza 2007, n. 69.
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23. Charles Mellin I santi eremiti Paolo e Antonio Abate
XVII secolo, prima metà
Penna, acquerello e bistro su carta, mm 259x323. Cart. 25/2/39; n. inv. 16294 D.C.
Il disegno è stato riconosciuto da tempo come appartenente al catalogo delle opere del lorenese Charles Mellin, ed in particolare è stato collocato negli anni Trenta del XVII secolo, dal momento che la sua condotta grafica e stilistica appare affine a quella dei disegni preparatori che l’artista ha realizzato per il ciclo pittorico che fino al 1944 decorava il coro dell’Abbazia di Montecassino (Thuiller 1982, figg. 86-88): tali disegni infatti presentano analogie con l’opera esposta, dal momento che è riscontrabile una comune tipologia di personaggi, allungati e immersi nel paesaggio, oltre ad una analoga impostazione luministica, realizzata attraverso l’impiego di vigorosi contrasti luce-ombra (Bréjon de Lavargnée 1990). Mellin, tra il 1636 e il 1637, dopo aver lavorato a lungo a Roma come decoratore a partire dal 1622, fu chiamato a Montecassino a dipingere un ciclo di quindici scene tratte dalla vita di San Benedetto, fondatore dell’omonimo ordine, nonché dell’abbazia stessa; purtroppo il 15 febbraio del 1944, durante quella che viene denominata ‘Seconda battaglia di Montecassino’, l’aviazione angloamericana rase praticamente al suolo l’Abbazia, distruggendo completamente l’ingente patrimonio storico-artistico ivi conservato, compresi i dipinti del Mellin. Sono raffigurati i due santi eremiti Paolo e Antonio Abate immersi in un paesaggio naturale, la cui vivacità è ottenuta attraverso un sapiente utilizzo dei contrasti luministici. San Paolo, seduto su di un masso, occupa quasi il centro della composizione e con il braccio destro si sporge verso il grande albero frondoso che occupa tutto il lato sinistro del disegno, mentre Sant’Antonio Abate, chinato sul ginocchio destro, rivolge il capo verso San Paolo, che risulta così in posizione preminente. Il soggetto iconografico del dipinto si rifà all’antica tradizione agiografica di San Paolo di Tebe, il primo santo eremita della cristianità: nato in Egitto, da famiglia agiata, e convertitosi al cristianesimo, fu costretto a lasciare la propria casa per sfuggire alle persecuzioni di Decio e Valeriano. Rifugiatosi in una grotta tra le montagne del deserto, il santo si nutrì solo di datteri fino ai 43 anni, quando un corvo cominciò a portargli ogni giorno dei pezzettini di pane. Prossimo alla morte ricevette la visita di Sant’Antonio Abate, al quale chiese di essere sepolto con il suo mantello indosso (cfr. Sofronio, Vita Sancti Pauli primi eremitae, ms C.74 della Biblioteca Vallicelliana, cc. 1r-14v). Non è possibile collegare il disegno a nessun dipinto attualmente conosciuto ascrivibile al Mellin e non si sono conservati molti disegni con sfondi paesaggistici riconducibili a lui, anche se la sua abilità nello svolgere questo tema ha fatto sì che, in passato, la sua attività grafica venisse spesso confusa con quella di Nicolas Poussin, fino a quando negli anni Ottanta Jacques Thuillier ne ha ricostruito il catalogo. Bibliografia: Gian Carlo Sciolla in I disegni dei maestri 1974, n. 282; Thuillier 1981; Thuillier 1982; Arnauld Bréjon de Lavargnée in Da Leonardo a Rembrandt 1990, n. 134.
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24. Antoon van Dyck Salita al calvario
XVII secolo, secondo decennio
Penna e inchiostro bruno, acquerello e tracce di matita nera su carta, mm 154x202. Dis. Str. IV/103; n. inv. 16366 D.C.
Questo pregevole disegno, carico di un pathos che scaturisce non solo dallo struggente soggetto rappresentato, ma anche dalla maestria luministica che ne intensifica l’espressività, è l’unica opera delle collezioni della Biblioteca Reale di Torino ascrivibile alla mano di Antoon van Dyck, artista fiammingo allievo di Rubens, attivo per diversi anni anche in Italia, tra il 1621 e il 1627. Il disegno, un’intensa Salita al Calvario, è uno degli studi preparatori che l’artista realizzò in vista della composizione di un dipinto, dal medesimo soggetto, che gli era stato commissionato e che avrebbe fatto parte della serie dei quindici Misteri del Santo Rosario nella chiesa di San Paolo ad Anversa. Tale commissione è ascrivibile agli anni 1617-1618, quando van Dyck non era che un giovane non ancora ventenne, e che quindi doveva aver sentito molto il peso della responsabilità di dover portare a termine un dipinto parte integrante di un progetto di ampio respiro che coinvolgeva i maggiori artisti della città, tra cui spiccavano i nomi di Jacob Jordaens e di Pieter Paul Rubens. La consapevolezza dell’impegno assunto lo spinge a realizzare numerosi studi preparatori per l’opera, anche se solo sette di essi sono giunti fino ai giorni nostri. Tra i più significativi ricordiamo le versioni del Musée des Beaux-Arts di Lille, della Rhode Island School of Design di Providence, probabilmente la prima ad essere realizzata, e quella dello Stedelijk Prentenkabinet di Anversa, modello definitivo per il dipinto. Dal confronto degli studi preparatori, si evince che, in un primo tempo, l’artista opta per una composizione diagonale, da destra verso sinistra. Il disegno della Biblioteca Reale rientra in questa prima fase di studio, ma al contempo fornisce un’insolita quanto significativa variante alla tradizionale struttura della Salita al Calvario: anziché imperniare la composizione attorno alla Veronica che porge il sudario al Cristo, facendo al contempo risaltare l’empietà e la spietatezza dei personaggi che lo accompagnano verso il Golgota, van Dyck mette qui in primo piano l’incontro tra Cristo e la madre, lacerata dal dolore. Questa scelta compositiva, secondo Teréz Gerszi, può essere plausibilmente spiegata con la ricerca da parte dell’artista della creazione di un legame ancora più stringente tra la sua Salita al Calvario e il tema complessivo dei Misteri del Santo Rosario di cui il dipinto doveva far parte (Gerszi 1990). Tutto il corteo che tradizionalmente accompagna Cristo verso il luogo della crocifissione è concentrato sul lato sinistro del foglio, in posizione marginale, con la croce a far da cesura tra la calca degli uomini e l’ultimo struggente incontro di una madre con il proprio figlio. Il verso del foglio reca una diversa redazione dello stesso tema, ed è visibile uno schizzo attribuibile alla medesima mano: il corteo, però, in questa seconda versione, procede da sinistra verso destra, al pari di come l’artista comporrà sia gli studi preparatori successivi sia la versione finale del dipinto. Bibliografia: Horst Vey in Die Zeichnungen 1962, n. 8; Gian Carlo Sciolla in I disegni dei maestri 1974, n. 201; Teréz Gerszi in Da Leonardo a Rembrandt 1990, n. 140; Brown 1992; Gian Carlo Sciolla in I disegni fiamminghi 2007, n. 7; Anna Marie Logan in El joven Van Dick 2012, n. 17.
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25. Cerchia di Isaak van Ostade Interno con donna addormentata e bambino nella culla
1642 (?)
Penna e inchiostro bruno, pennello e inchiostro grigio, acquerello grigio, gouache, tracce di gessetto nero su carta, mm 159x275. Cart. 10/2/55; n. inv. 16623 D.C.
Isaak van Ostade è stato un valente pittore olandese, scomparso prematuraente ad Haarlem nel 1649, a soli 28 anni. Nonostante la sua breve carriera, è possibile distinguere nelle sue opere una fase giovanile, in cui l’artista si è dedicato soprattutto alla produzione di interni domestici, comparabili a quelli realizzati da suo fratello maggiore Adrien, dal quale Isaak imparò le basi del mestiere, assimilandone lo stile. I suoi lavori più maturi sono invece caratterizzati dalla rappresentazione di scene di vita campestre. Il disegno esposto raffigura una scena di genere, un ritratto di vita quotidiana del tempo: una donna riposa seduta davanti ad un camino, un neonato nella culla accanto a lei, un gatto accovacciato dinanzi al fuoco si gode il tepore che ne sprigiona. Se si osservano con più attenzione i particolari in secondo piano, si nota come sullo sfondo sia presente un personaggio steso in un letto, e, poco più avanti, una sedia rovesciata in terra. Secondo Gerdien Wuestman non si può escludere che la scena sia stata concepita per mettere in risalto un exemplum negativo: il personaggio disteso sul letto potrebbe essere la puerpera che ha da poco dato alla luce il bambino, affidandolo alle cure della balia che – anziché prendersi cura del bimbo, sveglio nella sua piccola culla – si addormenta davanti al focolare, forse per aver bevuto troppo vino dalla brocca che è ai suoi piedi (Wuestman 2006). Questa pregevole scena di genere mostra con evidenza la maestria dell’artista nell’ avvalersi dei giochi di luce ed ombra per creare un effetto vibrante e per niente monotono, grazie all’utilizzo del pennello e dell’acquerello accanto ai rapidi tratti di penna. Va però sottolineato che l’utilizzo del colore grigio steso a corpo su tutta la parte inferiore del foglio era funzionale alla copertura delle righe preesistenti sul foglio utilizzato dall’artista, presumibilmente un foglio tratto da un libro contabile; tali righe, ben visibili in trasparenza sul recto del foglio, sono maggiormente evidenti sul verso, anch’esso significativo, che reca un disegno a penna raffigurante un paesaggio montano con due figure, la data del 1642 ed un monogramma, «RVN». Non è possibile stabilire se si tratti della data a cui legare il disegno e se, dal monogramma, si possa risalire al nome dell’artista. Assegnato in tempi recenti dallo Sciolla a Quiringh van Brekelenkam (Sciolla 2007), viene qui genericamente assegnato alla cerchia di Isaak van Ostade, dal momento che può essere accostato ai numerosi interni abitati disegnati dal maestro che, al pari dell’esemplare qui esposto, sul verso recano degli schizzi di paesaggi. Bibliografia: Gian Carlo Sciolla in I disegni dei maestri 1974, n. 357; Gerdien Wuestman in L’età di Rembrandt 2006, n. 28; Gian Carlo Sciolla in I disegni fiamminghi 2007, n. 62.
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26.a. Rembrandt van Rijn Busto di imperatore romano
1646-1648 circa
Penna e inchiostro bruno su carta, mm 118x75. Dis. Str. 1/14; n. inv. 16449a D.C.
20.b. Rembrandt van Rijn (attribuito) Adorazione dei Magi
XVII secolo
Penna e inchiostro bruno, acquarello bruno su carta, mm 178x203. Dis. Str. 1/11; n. inv. 16441 D.C.
Durante il corso del XVII secolo, la parabola artistica di Rembrandt Harmenszoon van Rijn ha segnato profondamente la pittura olandese – di cui può a ragione essere considerato il più grande maestro – influenzando non solo i suoi contemporanei, ma anche le successive generazioni di artisti. Il suo percorso, però, non fu sempre sereno e lineare: numerose difficoltà familiari e personali costellarono la sua esistenza, lasciando un profondo segno anche nella sua produzione pittorica. Tra le contingenze spiacevoli della sua vita senza dubbio fu per lui molto greve subire l’onta del fallimento, dal momento che nel 1657 furono messi all’asta tutti i suoi averi per insolvenza, non solo i suoi dipinti e disegni, ma anche la sua folta collezione di opere e oggetti d’arte, nonché la sua stessa casa. Proprio l’inventario realizzato in occasione della vendita fallimentare ci fornisce una serie di notizie utili per collocare il disegno raffigurante un Busto di imperatore romano all’interno della sua produzione. a Infatti, da tale inventario sappiamo che facevano parte dei suoi averi «un pacco pieno di disegni di Rembrandt in stile antico», un piccolo libro «pieno di disegni di statue ritratte dal vero da Rembrandt» e «un altro simile al precedente» (nn. inv. 251, 261 e 262; Strauss – Van der Meulen 1979). Inoltre è registrata la presenza di dodici busti di imperatori romani nella collezione privata dell’artista. È plausibile quindi che il disegno esposto, in passato appartenente alla collezione di sir Joshua Reynolds, possa essere uno studio dal vero di uno dei busti in marmo in suo possesso, al pari degli altri due esemplari superstiti, verosimilmente nel novero di quelli menzionati dall’inventario fallimentare, il primo raffigurante Galba, allo Staatliche Museen di Berlino, il secondo, dall’identità non chiaramente riconoscibile, all’Albertina di Vienna. Anche il disegno della Biblioteca Reale non reca iscrizioni che possano essere utili ad un riconoscimento, ma in passato è stata messa in risalto la somiglianza con un
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busto di Giulio Cesare oggi al Museo Archeologico Nazionale di Napoli (Sciolla 2007). I tre disegni sono senza dubbio coevi e, per la «capacità di combinare fluidità e nitidezza con destrezza e brevità», vanno collocati in una fase stilistica corrispondente al biennio 1646-1648 (RoyaltonKisch 2006). L’Adorazione dei Magi, invece, presenta un’attribuzione problematica, che ha acceso un dibattito critico fin dagli inizi del secolo scorso. Infatti, se nel 1925 il Valentiner proponeva di accostare il disegno al nome di Rembrandt con una datazione intorno al 1634 (Valentiner 1925) e Aldo Bertini negli anni Cinquanta era concorde con tale ipotesi (Bertini 1951), in tempi più recenti non è stato possibile stabilire una valida assegnazione alternativa, benché dal confronto con i disegni certamente autografi di Rembrandt risulti evidente che il tratto e lo stile dell’esecutore del disegno di Torino si discostano da quelli del grande maestro, mentre l’impianto narrativo e l’impostazione realistica sono di chiara derivazione dai suoi disegni. Non si può escludere quindi che l’esecuzione sia da attribuire ad uno dei tanti giovani allievi che Rembrandt ospitava nel suo studio (Royalton-Kisch 2006). Bibliografia: Valentiner 1925; Aldo Bertini in Mostra dei disegni 1951, n. 14; Strauss – Van der Meulen 1979; Martin Royalton-Kisch in L’età di Rembrandt 2006, nn. 11, 12; Gian Carlo Sciolla in I disegni fiamminghi 2007, nn. 124, 125.
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27. Giambattista Piazzetta Armida invoca l’aiuto di Goffredo di Buglione
1740-1745 circa
Matita rossa su tracce a matita nera su carta, mm 277x216, ex libris del re Carlo Alberto. Varia 204, folio 8; n. inv. 14472 D.C.
La Biblioteca Reale conserva due codici in folio, con legatura originale veneziana in marocchino rosso e impressioni in oro, contenenti rispettivamente 90 e 131 disegni di Giambattista Piazzetta, eseguiti a matita rossa e raffiguranti soggetti diversi: ritratti di regnanti e pontefici, soggetti religiosi, allegorici e mitologici, paesaggi, scene pastorali campestri ed episodi della Gerusalemme liberata di Torquato Tasso. I disegni raccolti nei due volumi furono commissionati dall’editore veneziano Giambattista Albrizzi, amico del pittore, che per lui illustrò numerosi libri a stampa pubblicati tra il 1736 e il 1754, anno della morte dell’artista. Un analogo volume di disegni di Piazzetta – verosimilmente appartenuto anch’esso all’editore Albrizzi – si trova nella Pierpont Morgan Library di New York, mentre altri gruppi di fogli sciolti in rapporto con quelli di Torino sono conservati all’Ermitage di San Pietroburgo. L’edizione illustrata della Gerusalemme liberata, dedicata all’imperatrice Maria Teresa d’Austria, risale al 1745, ma già nel 1740 Johann Caspar von Goethe – padre di Wolfgang – descriveva entusiasticamente, in una sua lettera da Venezia, alcuni dei disegni preparatori di Piazzetta. Le venti tavole principali, collocate in apertura di ciascun canto, recano dediche a una serie di personaggi illustri; il pittore fornì anche i disegni per le testate, i finali e i capolettera. Le incisioni dai disegni di Piazzetta furono eseguite da un gruppo di validi incisori, alcuni dei quali rimasti anonimi in quanto non tutte le tavole recano l’indicazione di responsabilità. Esistono diverse copie del testo a stampa, che sembrano rimandare a due successive edizioni; l’esemplare della Biblioteca Reale (H 2.2) reca l’ex libris di Carlo Alberto, datato 1832, così come i due album di disegni, che dovettero entrare nelle collezioni sabaude insieme ad esso, probabilmente già nel Settecento, considerati i rapporti tra Venezia e la corte del re di Sardegna. Lo stesso tema della Gerusalemme liberata era peraltro stato scelto per la decorazione del pregadio nell’Appartamento della regina all’interno del Palazzo Reale di Torino, eseguita nel 1733 dal pittore nizzardo Charles-André van Loo. Il disegno qui esposto – che illustra il canto IV, in cui la maga musulmana Armida tenta di indebolire l’esercito cristiano comandato da Goffredo di BuH 2.2 glione, raccontando a quest’ultimo una storia fittizia
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per impietosirlo – corrisponde nel testo a stampa all’incisione dedicata al conte Ottolino Ottolini, nobile veronese. La raffinata tecnica a matita rossa su una leggera traccia a matita nera traduce in aggraziate composizioni arcadiche la poesia tassiana, accogliendo – in una fase ormai avanzata dell’attività del pittore veneziano – suggestioni della pittura bolognese e del Rococò francese. Bibliografia: White – Sewter 1969, n. 128; Griseri 1978, n. 73; Knox 1983; Piazzetta 1983, n. 77; Alessandro Bettagno in Da Leonardo a Rembrandt 1990, n. 117.
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28.a. Giambattista Tiepolo Sacra Famiglia
1740-1750 circa
Penna e inchiostro bruno acquerellato su tracce a matita nera su carta, mm 200x245. Dis. It. 5/121; n. inv. 15970 D.C.
20.b. Giambattista Tiepolo Pulcinella
Penna e inchiostro bruno acquerellato su carta, mm 203x281. Numero a matita semicancellato, in basso. Dis. It. 5/122; n. inv. 15974 D.C.
20.c. Giandomenico Tiepolo Zampognaro
Penna e inchiostro bruno acquerellato su carta, mm 237x159. Cart. 21/11; n. inv. 15976 D.C.
La Biblioteca Reale custodisce due intensi fogli di Giambattista Tiepolo e un piccolo gruppo di disegni del figlio Giandomenico, rappresentativi dei diversi generi cui egli si dedicò, dal capriccio alla caricatura ai ritratti di animali. Tutti sono eseguiti a penna e inchiostro acquerellato, tecnica prediletta dai due artisti, che con l’impiego di pochi segni liquidi e stesure trasparenti dell’acquerello dimostrano di a saper sfruttare magistralmente lo spazio vuoto del foglio bianco, che conferisce a questi disegni un’intensa luminosità. Nella Sacra Famiglia la luce proveniente da destra crea un accentuato contrasto con la zona in ombra, esaltando il dinamismo diagonale delle figure che sembrano attratte da qualcosa che accade fuori campo, in basso a sinistra, come se un personaggio esterno avesse appena distolto l’attenzione dei protagonisti in posa davanti al pittore. Caratteristiche dello stile di Tiepolo sono la deformazione del volto quasi satiresco del San Giuseppe e la stilizzazione dei tratti del volto della Madonna. Su basi stilistiche il foglio può essere datato al quinto decennio del Settecento, a ridosso della partenza di Giambattista per Würzburg, ove tra il 1751 e il 1753 egli affrescò diversi am-
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bienti della residenza del principe-vescovo Karl Philipp von Greiffenclau, ovvero all’apice di una sfolgorante carriera che fece del pittore veneziano uno degli artisti più richiesti su scala europea. Il Pulcinella è un disegno essenziale, asciuttissimo, intriso di luce e di bonaria malinconia nel volto caricaturale del personaggio, pervaso da un senso di rassegnata stanchezza che conferisce dignità perfino alla sua maschera grottesca. Questa versione può essere avvicinata ad altri fogli di Giambattista che raffigurano Pulcinella sia come figura isolata che insieme ad altri personaggi. La maschera napoletana della commedia dell’arte interessò anche Giandomenico, che ne fece il protagonista di una serie di affreschi nella villa di famiglia a Zianigo, caratterizzati da un tono amaramente sarcastico. L’esistenza di numerose raffigurazioni di questo personaggio – assai ricercate già dai contemporanei – ha spesso creato confusione nella loro attribuzione a Tiepolo padre o figlio. Più enigmatico è lo Zampognaro, presentato di spalle e reso con contorni sintetici e decisi che ricordano la grafica rembrandtiana. Bibliografia: Bertini 1958, nn. 677, 678, 681; Griseri 1978, n. 74; Alessandro Bettagno in Da Leonardo a Rembrandt 1990, nn. 119, 120, 122.
Mario Epifani
b
c
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29. Francesco Guardi Il Bucintoro davanti al Lido
1780 circa
Penna e inchiostro bruno acquerellato su carta, mm 298x602. Dis. It. 5/125; n. inv. 15963 D.C.
In questo foglio Francesco Guardi rappresenta, col suo tipico segno grafico rarefatto e vibrante, una delle più importanti celebrazioni annuali della Repubblica di Venezia, ovvero la cerimonia dello Sposalizio del Mare in occasione della festa della Sensa. Nel giorno dell’Ascensione, una solenne processione di imbarcazioni guidate dal Bucintoro, la galea dei dogi, usciva dalla laguna attraverso la bocca di porto del Lido; raggiunto il mare aperto, il doge lasciava cadere nelle acque un anello d’oro consacrato, ribadendo così il possesso di Venezia sull’Adriatico. Il disegno rappresenta il Bucintoro circondato da una flotta di gondole; a sinistra compare la sottile isola del Lido, su cui si staglia la chiesa di San Nicolò, mentre a destra fa da quinta il forte di Sant’Andrea. La sontuosa galea dorata settecentesca qui ritratta fu distrutta nel 1798, poco dopo la caduta della Repubblica. Analogamente al Canaletto, Francesco Guardi ci ha lasciato numerosi straordinari documenti della Venezia settecentesca. A differenza del suo più anziano collega e concittadino, tuttavia, Guardi predilesse una resa meno puntigliosa nelle sue vedute, sempre permeate da un estremo lirismo che soprattutto nell’ultima fase della sua attività lo portò ad allontanarsi dallo studio analitico ed obiettivo della realtà urbana. Nel disegno, le figure appaiono corrose dalla luce, resa semplicemente attraverso il bianco del foglio in gran parte lasciato libero; una lieve linea spezzata sullo sfondo segna il confine tra cielo e mare, che sembrano fatti della stessa sostanza. La fortuna delle vedute veneziane di Guardi presso i collezionisti otto-novecenteschi sollecitò una nutrita produzione da parte di imitatori nonché di veri e propri falsari. Questo disegno è accolto unanimemente dalla critica come opera autografa. Guardi ritrasse in diversi dipinti il Bucintoro, sia uscente verso il Lido che al ritorno in direzione del Palazzo Ducale. La visione quasi grandangolare della laguna, tipica della produzione più tarda del pittore veneziano, induce a datare il foglio verso il 1780, ovvero agli stessi anni in cui si ritiene sia stata dipinta una tela di dimensioni ridotte della National Gallery di Dublino, raffigurante la stessa scena con identica angolazione. Bibliografia: Bertini 1958, n. 645; Alessandro Bettagno in Da Leonardo a Rembrandt 1990, n. 124.
Mario Epifani
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30. Giovanni Tommaso Borgonio Gli Hercoli Domatori de Mostri, et Amore Domatore degli Ercoli. Festa à Cavallo per le Reali Nozze
1650 circa
Ms. cart., cc. 176, mm 440x565, ex libris del re Carlo Alberto. St. Patria 949; n. inv. 14344 D.C.
I ricchi codici allestiti dal calligrafo, segretario e cartografo di corte Giovanni Tommaso Borgonio (1628-1691) e dai suoi collaboratori offrono la possibilità di sfogliare una minuziosa e vivida documentazione a posteriori delle macchine e degli allestimenti scenici, dei testi integrali, dei costumi e, in qualche caso, delle musiche per alcuni eventi spettacolari messi in scena durante le complesse e magnifiche feste dell’epoca di Cristina di Francia, al contempo occasioni di svago e manifesti politici: tutto un mondo sorprendente quanto destinato all’effimero e all’oblio, se non fosse stato tramandato dai contemporanei attraverso relazioni, incisioni e, soprattutto, attraverso questo «repertorio unico nella storia degli spettacoli di corte (ma anche, infine, degli spettacoli tout court)» (Viale Ferrero 1999, p. 75). Il corpus è composto da 13 album di tavole miniate e calligrafiche – 3 custoditi in Biblioteca Reale e 10 presso la Biblioteca Nazionale di Torino – relativi a nove balletti, un dramma per musica, una festa e due caroselli. L’organizzazione di tutti era affidata al conte Filippo San Martino d’Agliè (1604-1667), che godeva della piena fiducia di Cristina per inventare argomenti sempre nuovi, testi impregnati di argute metafore e coreografie sorprendenti. Il carosello (o ‘festa equestre’) Gli Hercoli Domatori de Mostri ebbe luogo in piazza Castello, area chiave del potere sabaudo, il 15 dicembre 1650 in occasione del matrimonio della principessa Enrichetta Adelaide, figlia di Cristina e sorella di Carlo Emanuele II, con il principe Ferdinando Maria di Baviera. L’argomento, dal denso ma trasparente simbolismo, univa ammaestramento morale, celebrazione dinastica e augurio per il futuro degli sposi: mostri di varie specie, simboleggianti i Vizi, venivano affrontati e sconfitti da cinquanta valorosi Ercoli, simboli di Virtù, impersonati dal Duca e da altri importanti personaggi legati alla corte. Gli eroi erano divisi in quattro squadre rappresentanti le casate degli ascendenti degli sposi (Savoia, Francia, Baviera e Austria), visualizzazione di «quei nodi, ch’in più secoli già furono stretti per l’unione del sangue» (c. 2); i mostri, descritti e illustrati uno a uno, erano tutti di stampo mitologico e contavano, fra gli altri, la Balena alla quale fu esposta Andromeda e Cerbero, il Toro di Creta e l’Idra, un centauro e un ciclope. Ma il trionfatore finale era Amore, che soggiogava facilmente gli Ercoli imprigionandoli con una catena d’oro grazie ai cavalieri che ne personificavano i vari aspetti (Diletto, Desiderio, Arte, Ardore, Soavità e Allegrezza, rappresentata da due cavalieri il cui costume comprendeva «molti augellini vivi, che haveranno in capo e in mano», c. 136). L’apparato effimero era estremamente scenografico e comprendeva la «Reggia d’Amore» ideata da Carlo Morello (in mezzo alla piazza) e, fra loro affrontati, gli «alti Gioghi dell’Alpi» opera di Amedeo di Castellamonte (davanti all’odierno Palazzo Reale) e la «folta Selva Ercina», richiamo alla Baviera progettato da Francesco Lanfranchi (sul lato verso Porta Nuova). Bibliografia: Mercedes Viale Ferrero in Biblioteca Reale 1990, pp. 156-161; Ead., La memoria dell’effimero, in Le Magnificenze 1999, pp. 75-92; Clelia Arnaldi di Balme in Feste barocche 2009, nn. II.17, II.18.
Eliana A. Pollone
leonardo e i tesori del re
c. 115
c. 136
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31. Leonardo Marini Studi diversi di Decorazione Inventati Disegnati ed in gran Parte eseguiti (da) Leonardo Marini Disegnatore nel Gabinetto del Re di Sardegna Pittore e Professore della Reale Accademia delle Belle Arti
XVIII secolo, ultimi decenni
Ms. cart., 58 cc., 409 disegni di misure diverse, ex libris del re Vittorio Emanuele II. Varia 218; n. inv. 14509 S.M.
La scritta «Ex Bibliotheca Regis Victori Emmanuelis» documenta la provenienza sabauda; l’album consiste in 58 carte su cui risultano incollati 409 disegni. L’opera, databile agli ultimi decenni del secolo XVIII, è realizzata da Leonardo Marini, costumista al Teatro Regio fin dal 1769, documentato e studiato da Mercedes Viale Ferrero (Viale Ferrero 1963, 1974 e 1980); la Biblioteca Reale conserva ben 16 album del Marini, compresi quelli per i costumi teatrali. Il Marini aveva ottenuto, con patente di Vittorio Amedeo, anche l’incarico di «regio disegnatore per le militari occorrenze» (Vesme 1963); nel 1778 era stato nominato professore alla Regia Accademia di Pittura e Scultura. Il suo raffinato gusto di ornatista era attento ai suggerimenti dei francesi, in particolare di Jacques François Blondel e Jean Charles Delafosse (Colle 1987), a Torino influenzato dagli esempi dello scultore Francesco Ladatte e del minusiere
c. 5r
leonardo e i tesori del re
Pietro Piffetti. Per la decorazione attinge al gusto dell’esotismo, e lo si vede nel disegno Gabinetto alla cinese guarnito di Porcellane cinesi e conchilie. Il rimanente in Boesaggio verniciato: si tratta di una decorazione architettonica, impostata sulla linea juvarriana ripresa da Benedetto Alfieri, apprezzata dalla nuova aristocrazia. La parete si presenta campita da ottagoni a fondo azzurro intenso, altri riquadri alternano tempere rosse e nere, simulando pannelli in lacca, a conclusione figure di cinesi; una sovrapporta e un’angoliera con motivi di uccelli analoghi a quelli proposti da Christian Wehrlin, nel 1765, nella Sala da gioco della Palazzina di caccia di Stupinigi, evidenziati grazie a scelte cromatiche verdi, arancione e violette. Analoghe proposte decorative nei disegni delle altre due pareti, con alcune varianti: nella pagina di sinistra, al centro una scena arcadica incorniciata da ghirlande fiorite, scandita da motivi a cammeo, nel gusto raffinato dell’intagliatore Giuseppe Maria Bonzanigo, protagonista la sensibilità erudita dell’Illuminismo. Ancora suggestivo il risultato della parete, nel disegno in basso a destra, che propone un tondo con figure classiche, simile al disegno, nello stesso album, per il Casino del S. Marchese di Barolo, Camera di Ricevimento, gusto indirizzato non solo agli ornatisti francesi, ma anche a quelli viennesi e napoletani; grazie alle relazioni diplomatiche, erano stati avviati scambi con la corte russa: Torino e le sue ville erano entrati negli itinerari consigliati ai viaggiatori europei (Astrua 1987; Griseri 1990). Bibliografia: Baudi di Vesme 1963; Viale Ferrero 1963; Ead. 1974; Ead. 1980; Paola Astrua, Le scelte programmatiche di Vittorio Amedeo duca di Savoia e re di Sardegna, in Arte di corte 1987, pp. 65-100; Enrico Colle, L’elaborazione degli stili di corte, in Arte di corte 1987, pp. 185-198; Angela Griseri in Biblioteca Reale 1990, pp. 212-215.
Angela Griseri
c. 4v
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32. Publio Virgilio Marone Opera
XV secolo, seconda metà
Ms. membr., cc. 276, mm 348x245, ex libris del re Carlo Alberto. Varia 190, n. inv. 14469 D.C.
Questo pregevole manoscritto miniato risalente al XV secolo comprende, nelle sue 276 carte vergate in scrittura umanistica libraria, le opere di Virgilio – le Bucoliche, le Georgiche e l’Eneide, quest’ultima arricchita del XIII libro redatto da Maffeo Vegio – nonché l’Appendix Vergiliana, una raccolta di trentatre carmi in metri diversi, probabilmente composti tra il 44 a.C. e il 38 a.C. tra Roma e Napoli, accostati in antico al nome di Publio Virgilio Marone, e che, per consuetudine, erano copiati o stampati in appendice alle sue opere. Il manoscritto purtroppo è mutilo, dal momento che diverse carte sono state asportate: sono giunte fino a noi infatti soltanto tre carte miniate a tutta pagina, in corrispondenza degli incipit delle egloghe I, II e VII delle Bucoliche. Le emergenze stilistiche di tali miniature hanno fatto sì che il manoscritto venisse accostato al nome del miniatore dei re d’Aragona Matteo Felice (De Marinis 1947), attivo a Napoli tra il 1467 e il 1493; in anni più recenti la Daneu Lattanzi ha proposto un’assegnazione alla florida bottega formatasi attorno alla personalità di Matteo Felice, negandogli però la paternità diretta della decorazione del manoscritto torinese (Daneu Lattanzi 1973). In effetti la resa quasi ruvida e poco aggraziata dei personaggi e degli amorini che popolano le cornici del manoscritto torinese si discosta notevolmente dall’elegante effetto di armonia compositiva e formale rilevabile nei manoscritti ascrivibili con certezza alla mano di Matteo Felice (si cfr., ad esempio, il ms. Latin 495 In Isaiam expositio di San Tommaso d’Aquino della Bibliothèque Nationale de France di Parigi). La c.2r contiene l’incipit dell’egloga I delle Bucoliche e presenta una miniatura a pagina intera: entro una ricca cornice trapunta di fiori e abitata da amorini e animali fantastici si staglia una seconda più piccola inquadratura resa con colorati motivi vegetali, posta a delimitare lo specchio di scrittura del foglio; il testo, che comincia con il famoso verso «Tityre, tu patulae recubans sub tegmine fagi», è sormontato da una scena agreste che, incorniciata da una preziosa architettura, racconta per immagini proprio i versi iniziali dell’egloga, illustrando il dialogo tra i due pastori, dialogo che inizia con Melibeo che chiede a Titiro come mai stia componendo musica con uno zufolo all’ombra di un faggio. Nella parte inferiore della pagina è possibile vedere un leone rampante dorato in campo rosso, insegna di Geoffrey Carles – presidente del Parlamento del Delfinato e del Senato di Milano sotto Luigi XII – a cui, con ogni probabilità, il manoscritto appartenne già nei primi anni del XVI secolo (Pellegrin 1964). L’insegna di Geoffroy Carles è stata collocata in sostituzione di un originario stemma che è andato completamente perduto e che avrebbe potuto fornire maggiori informazioni sulla genesi del manoscritto, giunto in Biblioteca Reale a seguito della vendita della biblioteca del conte Caissotti di Chiusano (Giacobello Bernard 1998). Bibliografia: De Marinis 1947, p. 158; Pellegrin 1964; Daneu Lattanzi 1973; Giovanna Giacobello Bernard in Leonardo e le meraviglie 1998, pp. 94-95.
Maria Luisa Ricci
leonardo e i tesori del re
c. 3v
ďœšďœł
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33. Bibbia
1340-1345 circa
Ms. membr., cc. 550, mm 333x230, ex libris del re Vittorio Emanuele II. Varia 175; n. inv. 14494 S.M.
La Bibbia con segnatura Varia 175 è un poderoso codice interamente compilato in latino, in scrittura gotica italiana, e vanta numerose iniziali istoriate e fregi decorativi lungo i margini, oltre a più di 1.300 iniziali filigranate. La critica, a ragione, lo ha collocato a partire dai primi decenni del Novecento (Motta Ciaccio 1911) nell’ambiente napoletano del XIV secolo, ed in particolare nel fervido clima artistico sviluppatosi presso la corte angioina dopo la permanenza di Giotto a Napoli (1328-1332). Il codice è stato attribuito alla bottega del miniatore Cristoforo Orimina, senza dubbio la personalità più importante che Napoli abbia conosciuto in ambito miniaturistico nel XIV secolo (Bologna 1969). Assai poco si sa della committenza dell’opera, e l’unica traccia che al momento può esser significativa si trova nel piè di pagina della c. 1r contenente il Prologo di san Girolamo, in cui è presente un vescovo benedicente, con mitra e pastorale, seduto su un trono dorato con un alto schienale cuspidato. Questo personaggio è privo di aureola, quindi potrebbe non raffigurare un santo vescovo, bensì il committente o il destinatario dell’opera, così come ritiene il Bräm, arrivando ad identificare nel personaggio qui rappresentato Giovanni Orsini, arcivescovo di Napoli dal 1327 al 1358 (Bräm 2007). In realtà è poco plausibile che si tratti dell’Orsini, innanzitutto perché quello raffigurato alla c. 1r è un semplice vescovo, e non un arcivescovo, come è facilmente riscontrabile dai dettagli dell’abbigliamento: i finimenti pastorali, infatti, sono cuciti direttamente sulla veste stessa e non è possibile scorgere la presenza di un pallio arcivescovile al di sopra della casula; va poi ricordato che l’Orsini faceva parte di una famiglia aristocratica, circostanza che avrebbe richiesto la presenza dello stemma nobiliare o quantomeno dello stemma adottato dall’Orsini una volta divenuto arcivescovo all’interno del codice, che invece ne è del tutto sprovvisto. Alla luce di ciò, vagliando con attenzione i diversi vescovi entrati in contatto con la corte angioina per la quale l’Orimina lavorava, il personaggio che ha maggiori probabilità di essere il destinatario dell’opera è Paolino Minorita, vescovo di Pozzuoli dal 1324 al 1344 che, proprio a partire dal 1324, assume la carica di consigliere di re Roberto d’Angiò. Non si può escludere che lo stesso re Roberto abbia commissionato alla bottega di corte il codice per farne dono all’amico e consigliere. Queste circostanze sono avvalorate anche dal fatto che Paolino, a differenza dell’Orsini, era un francescano e all’interno del codice ricorre più volte la raffigurazione di San Francesco (cc. 1r, 4v e 289v); inoltre il vescovo ritratto alla c. 1r mostra chiaramente di indossare un saio francescano al di sotto dei paramenti vescovili. Probabilmente però il codice non è mai entrato in possesso del vescovo, dal momento che – a cavallo tra il 1343 e il 1344 – si susseguono i decessi di re Roberto prima, e poco dopo di Paolino stesso. Una conferma indiretta a questa ipotesi può essere data dal fatto che la Bibbia non appare completamente finita, come testimoniato da alcuni particolari decorativi lasciati solo a tratto di penna (ad es. nelle cc. 437v e 273r), e che non tutte le iniziali istoriate sono state completate (c. 330v). Bibliografia: Motta Ciaccio 1911; Bologna 1969; Perriccioli 1984; Bräm 2007; Giorgia Corso in Giotto e il Trecento 2009, n. 132.
Maria Luisa Ricci
leonardo e i tesori del re
c. 1r
ďœšďœľ
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34. Missale romanum
1439-1443 circa
Ms. membr., cc. 155, mm 328x234, ex libris del re Carlo Alberto. Varia 168; n. inv. 14459 D.C.
Questo prezioso messale, compilato in latino in scrittura gotica e riccamente miniato, è strettamente legato alla storia della dinastia sabauda, non solo perché è uno dei più preziosi codici delle collezioni reali, ma soprattutto perché la sua stessa genesi è legata ai duchi di Savoia. Infatti quando Amedeo VIII – in seguito al Concilio di Basilea – nel 1439 salì al seggio papale con il nome di Felice V, commissionò allo scriptorium di corte da lui creato diversi manoscritti, tra cui due messali contenenti il rito romano della chiesa cattolica, uno comprendente la liturgia per i giorni feriali, ora conservato presso l’Archivio di Stato di Torino, ed uno con la liturgia per i giorni festivi, nelle raccolte librarie reali a partire dal 1819 e confluito nelle collezioni della Biblioteca Reale. Il codice presenta un ricco apparato decorativo – il cui stile rivela una matrice francese – che si compone di 17 grandi iniziali istoriate, di una ricca quantità di ornamentazioni lungo i margini e all’interno dello specchio di scrittura, nonché di tre grandi miniature, a pagina intera, attribuite a Peronet Lamy per l’alta qualità della condotta stilistica; esse presentano notevoli affinità con le miniature poste a decorazione dell’Apocalisse dell’Escorial realizzate dallo stesso Lamy (Edmunds 1964), miniatore savoiardo originario di Saint-Claude, attivo dal 1420 al 1445, la cui attività si incrocia con quella del grande maestro Jean Bapteur (Griseri 1969). La scelta di affidare le decorazioni dei suoi messali a Peronet Lamy è particolarmente indicativa dell’indirizzo culturale intrapreso da Amedeo VIII, dal momento che il miniatore ben incarnava quella che era la ricerca del duca di un’identità artistica dalla forte fisionomia savoiarda, ma con lo sguardo rivolto verso i grandi centri dell’arte tardogotica italiana ed europea. Amedeo VIII, infatti, pur cercando di tener fede ad una forte connotazione savoiarda del linguaggio artistico espresso dalle commissioni della sua corte, poteva vantare una cultura dagli ampi orizzonti – particolarmente orientata verso Parigi, le Fiandre e la Borgogna – ereditata dalla madre, Bona di Berry, figlia di uno dei più grandi collezionisti e mecenati del suo tempo, Jean di Valois duca di Berry. All’interno del codice sono presenti due ritratti di Felice V, il primo nella carta qui esposta, la grande miniatura a tutta pagina della c. 115r, che rappresenta un papa in atto di celebrare messa, il secondo nell’iniziale N figurata della c. 24r, in cui è possibile scorgere la figura di un pontefice inginocchiato davanti alla croce, circondato dai simboli della Passione e dallo stemma sabaudo sormontato dalla tiara papale. Di particolare pregio sono anche le cc. 113v-114r, che recano due miniature a tutta pagina, una raffigurante la Crocifissione, nella quale un intenso Cristo sofferente è raffigurato con la Vergine e San Giovanni, l’altra Dio Padre benedicente, rappresentato assiso in mandorla, tra i simboli dei quattro Evangelisti, fra le figurazioni della Chiesa e della Sinagoga. Bibliografia: Edmunds 1964; Griseri 1969; Clara Vitulo in Leonardo e le meraviglie 1998, n. I.1; Clara Vitulo in Il gotico 2002, n. 56; Eliana A. Pollone in L’Armeria Reale 2008, n. II.1.
Maria Luisa Ricci
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ďœšďœˇ
c. 115r
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35. I libri d’ore della Biblioteca Reale I libri d’ore, molto diffusi fra XIV e XVI secolo e ben rappresentati in Biblioteca per rilevanza e numero, nacquero nella seconda metà del XIII secolo in risposta alle esigenze devozionali private dei laici: raccolgono preghiere e brevi testi, quasi sempre in latino, pensati per accompagnare la preghiera quotidiana personale lungo tutto l’anno liturgico e sono di norma di piccolo formato per ragioni di praticità. La denominazione ‘libri d’ore’ è legata alla loro struttura tradizionale, basata sulla suddivisione della giornata in otto momenti, le ‘Ore Canoniche’, a ciascuna delle quali corrispondono determinate preghiere, che possono variare in base ai desiderata dei committenti, al luogo di produzione e alla liturgia di riferimento (tecnicamente indicata come ‘all’uso di’), che implica formule diverse per i medesimi passi: ad esempio, l’incipit del primo inno dell’Officio della Vergine all’uso di Roma recita «Quem terra ponthus», all’uso di Parigi «O quam glorifica luce». Ogni esemplare è unico, allestito ‘su misura’ per committenti di alto rango e, spesso, come dono nuziale per spose altolocate; per questo motivo l’ornamentazione è ricca e in molti casi estremamente raffinata, soprattutto in area francese e fiamminga. Ma anche nell’unicità esiste una codificazione di base per i soggetti delle miniature: così, ad esempio, nelle Ore della Vergine, il Mattutino è abbinato all’Annunciazione, le Lodi alla Visitazione, la Prima alla Natività, la Terza all’Annuncio ai pastori, la Sesta all’Adorazione dei Magi, la Nona alla Presentazione al Tempio, i Vespri alla Fuga in Egitto oppure alla Strage degli innocenti e la Compieta, infine, alla Dormizione della Vergine o alla sua Incoronazione. Il Varia 77, Libro d’Ore secondo l’uso di Roma composto nel XV secolo per un membro della famiglia Visconti, rispetta tale sequenza per le belle iniziali miniate di quasi tutte le ore, con ai Vespri e a Compieta rispettivamente la Fuga in Egitto e l’Incoronazione (manca solo la miniatura per le Lodi); presenta inoltre più di milleduecento piccole iniziali isolate e, oltre all’Officio della Vergine, reca i Salmi di Penitenza, le Litanie dei Santi e l’Officio dei Morti. Trafugato in circostanze misteriose in tempo di guerra, Varia 76, c. 12r rientrò in Biblioteca nel 1949 grazie alla
leonardo e i tesori del re
segnalazione di un antiquario svizzero e al contributo della RAI. Il sacro tendeva ad affiancarsi al profano nei calendari che spesso aprivano i manoscritti: in essi potevano trovare posto anche i segni zodiacali e le attività umane legate ai vari mesi, come accade in quello, pregevole e in francese, del Varia 76, eseguito per Guillaume de Trestondans, nobile di Borgogna morto nel 1475. Molto più essenziale è invece il calendario che apre il Varia 89, seguito dall’inizio del Vangelo di San Giovanni e dagli Offici della Croce e dello Spirito Santo. Il manoscritto, in origine più lungo, venne allestito per Ippolita Sforza, moglie di Alfonso duca di Calabria, fra il 1490 e il 1505; le miniature sono opera del toscano Attavante Attavanti. La perla della collezione è però il bellissimo Varia 88, Libro d’ore all’uso di Coutances (Normandia), realizzato per Jacques d’Estouteville intorno al 1480 e riccamente miniato in tutte le sue 149 carte, con estrema raffinatezza, dal Maître de l’échevinage de Rouen. Bibliografia: Maria Rosaria Manunta in Biblioteca Reale 1990, pp. 48-49; Clara Vitulo in Biblioteca Reale 1990, pp. 72-75; Ada Quazza in Van Eyck, Antonello, Leonardo 2003, n. 12; Eliana A. Pollone in L’Armeria Reale 2008, n. II.4.
Eliana A. Pollone
Varia 89, c. 68r
Varia 88, c. 145v
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36. Giovan Francesco Maineri Circoncisione di Gesù
1489-1506 circa
Tempera su pergamena riportata su tavola, mm 350x385. Dis. It. 1/8; n. inv. 17862 D.C.
Giovan Francesco Maineri è un pittore di area padana, attivo a cavallo tra Quattrocento e Cinquecento, la cui attività artistica è documentata principalmente tra le corti di Mantova e Ferrara, in un lasso di tempo che va dal 1498 al 1506. Già sul finire dell’Ottocento, il suo nome veniva collegato all’ambito di Ercole de’ Roberti, e il Venturi ipotizzò che potesse aver avuto una prima formazione come miniatore in ambito mantegnesco (Venturi 1898). Alla sua attività miniatoria sono state ascritte le miniature che decorano il Libro d’Ore di Galeotto Pico della Mirandola e Bianca d’Este, oggi conservato alla British Library, e la pregevole pergamena riportata su tavola della Biblioteca Reale di Torino, assegnata per la prima volta al Maineri nel 1938, quando il Ragghianti la mise in relazione con due tavolette dal soggetto allegorico a lui attribuite, oggi al Museo Nazionale di Bucarest (Ragghianti 1938; Zamboni 1975; Bauer-Eberhardt 1991). In tempi più recenti la tavola è stata esposta in mostra a Bologna con un’attribuzione a Giovanni Battista Cavalletto (Medica 2008). La scena della Circoncisione di Gesù è stata dipinta a tempera su di una pergamena che è stata poi riportata su tavola, utilizzando quindi una tecnica poco comune per un quadretto, per quanto di piccole dimensioni. Se la tecnica tipicamente miniaturistica potrebbe far pensare che, in origine, la pergamena potesse far parte di un libro liturgico, le considerevoli dimensioni portano ad ipotizzare piuttosto che il manufatto nasca come autonomo quadretto devozionale; ciò può essere avvalorato anche dall’insolita iconografia riscontratavi: il Bambino, infatti, non viene presentato all’anziano Simeone né da Maria né da Giuseppe, che si staglia barbuto e in abito bianco alla sua sinistra, bensì da un non identificabile personaggio vestito di una ricca tunica rossa, privo di capelli, che – avulso dalla narrazione canonica dell’evangelista Luca – potrebbe essere identificato con il committente dell’opera. Al rito della circoncisione assistono diversi personaggi, le cui vesti in origine dovevano sfoggiare colori particolarmente accesi, ma che oggi sono deteriorati a causa dall’ingrigimento delle vernici superficiali. Sulla sinistra, in primo piano, si riconoscono San Giuseppe, anziano e sorretto dal bastone, e la Vergine, unico altro personaggio nimbato dell’opera insieme a Gesù bambino; sulla destra si scorge un personaggio femminile anziano, visto di spalle e con la testa di profilo, che potrebbe essere identificato con la profetessa Anna. Il nucleo fondamentale della scena è inquadrato da una imponente architettura, arricchita di elementi decorativi quali perle e pietre preziose, aspetto questo che ha indotto Pietro Toesca a identificarne l’autore con un anonimo seguace del pittore e orafo parmense Francesco Marmitta (Toesca 1948). Bibliografia: Venturi 1898; Ragghianti 1938; Toesca 1948; Silla Zamboni in Pittori di Ercole 1975, n. 41; Bauer-Eberhardt 1991; Massimo Medica in Giovanni Battista Cavalletto 2008, n. 4.
Maria Luisa Ricci
leonardo e i tesori del re
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37. Francesco Filelfo In Rhetoricam ad Herennium commentaria (noto come Codice Sforza)
1467
Ms. membr., cc. 8, mm 192x143, ex libris del re Vittorio Emanuele II. Varia 75; n. inv. 14444 S.M.
«Ce manuscrit, écrit par Ludovic Sforza le More, porait avoir été dans son exécution dirigé par Francesco Filelfo, dont le portrait est sur la dernière page». Il marchese Vittorio Emanuele Taparelli d’Azeglio inizia così la descrizione del Codice Sforza – come viene normalmente definito – nell’introduzione del piccolo volume di 46 pagine stampato a Londra da Joseph Clayton nel 1860, affiancato dalla riproduzione del codice curata dal fotografo Silvy con l’innovativa tecnica del collodio umido. D’Azeglio – ci informa Luigi Firpo – entra in possesso del codice all’inizio del 1860 e il 1° luglio dello stesso anno ne pubblica la descrizione (Firpo 1966, pp. 7-8). Apprendiamo dalla corrispondenza, conservata nel Fondo Promis della Biblioteca Reale, che il marchese offrì in acquisto il codice a Domenico Promis, direttore dal 1837 al 1875, e che dopo una lunga trattativa – che si sbloccò alla fine del 1862 – esso fu definitivamente ceduto a Vittorio Emanuele II a gennaio dell’anno successivo per le collezioni dell’Istituto. Il codice si presenta in otto carte pergamenacee di mm 192x143 tutte riccamente miniate e fu scritto da Ludovico Maria Sforza detto il Moro quando aveva 15 anni. Dal colophon apprendiamo – oltre al nome del prestigioso ‘amanuense’ – che fu scritto a Cremona il 27 novembre 1467. Si tratta di un commento, con note etimologiche e grammaticali, della Rhetorica ad Herennium che Ludovico Sforza trascrisse a dimostrazione delle capacità acquisite come allievo di Francesco Filelfo (Firpo 1966, pp. 8-10). Per vedere un secondo facsimile bisogna aspettare più di un secolo. Nel 1967 infatti Luigi Firpo cura, all’interno della collana «Strenne UTET», uno studio esemplare sul Codice Sforza della biblioteca, all’interno del quale c’è la riproduzione integrale – questa volta a colori – del codice. Qui l’intento è chiaramente di presentare gli studi scientifici di Firpo che, delineando la figura del Filelfo (1398-1487), traccia la storia del codice, ne fornisce una puntuale trascrizione e una descrizione, pagina per pagina, illustrando le miniature e presenta in fondo lettere pedagogiche (1475-1479) di Francesco Filelfo. A distanza di quasi cinquant’anni è in corso la pubblicazione di un nuovo facsimile, che prevede il recupero delle due incisioni di Filelfo e delle carte manoscritte che descrivono il codice e che sono conservate con esso, nonché dello storico facsimile di Silvy. Bibliografia: d’Azeglio 1860; Firpo 1966.
Giovanni Saccani
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c. 8v
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38. Pier Candido Decembrio Comparazione di Caio Iulio Cesare e d’Alexandro Magno Storia de Alexandro Magno
1438-1440
Ms. membr., cc. 218, mm 250x194, ex libris del re Vittorio Emanuele II. Varia 131; n. inv. 14473 S.M.
L’umanista Pier Candido Decembrio (1399-1477), acerrimo nemico del Filelfo, fu segretario di Filippo Maria Visconti dal 1419 fino alla morte del Duca (1447) ed ebbe rapporti altalenanti con i suoi successori Francesco e Galeazzo Maria Sforza. Nell’epigrafe che predispose per il proprio sarcofago, collocato nel nartece della chiesa milanese di Sant’Ambrogio, afferma di aver lasciato «posteritati memoriaeque» più di centoventisette libri e, benché molti siano andati perduti, è stato dimostrato che la cifra non è lontana dal vero (Zaccaria 1956). Il Varia 131 contiene due di queste opere, ultimate il 21 aprile 1430 come da formula di congedo: la Comparatione di Caio Iulio Cesare Imperatore maximo e d’Alexandro Magno Re di Macedonia (cc.1r-9r) e la Storia de Alexandro Magno (cc. 9r-218v). La prima – nel contesto, quasi un’introduzione all’altra, ben più lunga e articolata – si inserisce, sulla scorta di Plutarco, in un vivace dibattito umanistico che l’autore pone in questi termini: «fra molte singulare e giocunde questione le quale non solamente da li letterati e docti homeni» (leggasi, in primis, Guarino Veronese e Poggio Bracciolini) «ma da tuto el populo e quasi dal universo mundo longamente si soglieno udire, niuna magiore e tanto dubiosa esser haùta di questa: quale più eccellente huomo e singulare capitaneo sia stato o Caio Iulio Cesare o Alexandro Magno» (c. 1r). La seconda è invece un volgarizzamento (operazione nella quale il Decembrio eccelleva sia dal latino che dal greco) del De rebus gestis Alexandri Magni di Quinto Curzio Rufo, «historico eloquentissimo» (c. 9r) di età imperiale. L’opera – divisa in 10 libri, ma tramandata mutila dei primi 2, nonché di parti del V, del VI e del X, tutte lacune che il volgarizzatore si premura di segnalare – narra la vita e le imprese di Alessandro Magno, presentato come straordinario nelle virtù come nei vizi, e arriva fino alla morte del grande conquistatore (323 a. C.) e alle lotte di successione fra i diadochi. Il codice venne eseguito per Iñigo de Avalos, nobile spagnolo che, in Italia al seguito di Alfonso d’Aragona, fu fatto prigioniero nella battaglia di Ponza contro i Genovesi (1435) e condotto a Milano, dove rimase fino al 1440, quando Alfonso lo richiamò presso di sé. Iñigo – il cui nome e le cui insegne compaiono alla c. 1r e in tre iniziali miniate – era molto caro al duca Filippo Maria Visconti e «dilettossi meravigliosamente di libri e aveva in casa sua una bellissima libreria: tutti libri degnissimi di mano de’ più belli iscrittori d’Italia e bellissimi di miniatura di carte» (da Bisticci 1893, p. 332), come attestano i numerosi codici a lui appartenuti giunti fino a noi. Il Varia 131 non fa eccezione: di ambito lombardo, è allestito dal copista Tommaso Guarimberto, miniato dal Maestro della Vitae Imperatorum ed è forse gemello della perduta copia di dedica eseguita per il Duca (Zaggia 1993, p. 44-47). Significativa appare l’iniziale figurata della carta iniziale, posta accanto alla dedica «al Serenissimo principo et Excellentissimo signore Filippo
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Maria ducha di Milano, di Pavia e Angera conte e di Genova signore» (c. 1r): in essa il Visconti, in veste rossa ricamata con le proprie imprese, riceve il codice dalle mani del Decembrio sotto lo sguardo di Iñigo, riconoscibile grazie alla medaglia eseguita dal Pisanello nel 1449. Bibliografia: da Bisticci 1893; Zaccaria 1956; Maria Rosaria Manunta in Biblioteca Reale 1990, pp. 86-87; Zaggia 1993.
Eliana A. Pollone
c. 1r
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39. Theatrum Statuum Regiae Celsitudinis Sabaudiae Ducis, Pedemontii Principis, Cypri Regis. Pars prima Exhibens Pedemontium, et in eo Augustam Taurinorum & Loca Viciniora
Amsterdam, Apud Haeredes Ioannis Blaeu, 1682
In folio, esemplare con tavole a colori, preziosa legatura coeva in marocchino rosso a piccoli ferri, ex libris del re Carlo Alberto. Rari IV 3/1; n. inv. 12545 D.C.
Il Theatrum Sabaudiae è una delle più importanti imprese editoriali della corte sabauda. Opera encomiastica con fini celebrativi e capolavoro del periodo barocco, esalta la grandezza dinastica dei Savoia alla fine del XVII secolo. Era destinata a trasmettere il senso del potere centrale, reale, ma anche virtuale, a tratti quasi utopico, perché basato su progetti ancora in divenire (Comoli 1999), e quindi non sempre la rappresentazione è del tutto corrispondente alla realtà. Indirizzata alle corti delle capitali europee, con l’obiettivo di diffondere, tramite un libro figurato, un’immagine forte del ducato, finì per costituire anche uno strumento informativo per viaggiatori, militari e mercanti. Le tavole, incise su rame in bianco e nero e acquerellate a colori, su disegni di artisti quali Morello, Borgonio, Boetto, Biga, Arduzzi e Morosino, sono suddivise in due tomi e impreziosite da testi letterari di commento ai gioielli della corona, in lingua latina: il primo presenta le meraviglie della capitale, Torino, e i siti più vicini, mentre il secondo è dedicato alla Savoia, al Nizzardo e ai territori contigui alle Alpi. Attraverso vedute delle città e dei monumenti, residenze di corte, parchi e centri del potere civile e religioso, strutture di difesa, carte geografiche e piante topografiche, ritratti e stemmi, si intendeva esaltare anche il prestigio personale del sovrano, realizzando un potente strumento di propaganda politica destinato a durare nel tempo. A Torino, che nella veduta a volo d’uccello appare edificata
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anche in zone che ancora non lo erano, sono dedicate ben 29 tavole (a cui si aggiungono le 4 su Venaria Reale e la sua Reggia), realizzate anche grazie alla collaborazione con il Municipio. La Biblioteca Reale custodisce uno dei rarissimi esemplari a colori della prima edizione del 1682 del Theatrum Sabaudiae, in due volumi di 142 tavole, con legatura originale. Creato da un progetto iniziale del duca Carlo Emanuele II, che coinvolse Joan Blaeu, già cartografo della Compagnia delle Indie Orientali e celebre editore di Amsterdam, fu dato alle stampe dai suoi eredi soltanto durante la reggenza di Maria Giovanna Battista di Savoia-Nemours dopo una serie di alterne vicende, tra cui l’incendio della tipografia olandese dei Blaeu, «incenerita senza che si potesse salvar cosa alcuna» insieme a torchi, carte, inchiostri e rami, compresi quelli degli Stati di Sua Altezza Reale, che risultarono gravemente danneggiati. Nel 1700 fu pubblicata a La Haye un’edizione in francese, intitolata Théâtre des Etats de Son Altesse Royale le Duc de Savoye, con 236 tavole e il ritratto di Vittorio Amedeo II.
Bibliografia: Giovanna Giacobello Bernard in Biblioteca Reale 1990, pp. 172-175; Vera Comoli, Torino nel profilo aperto all’Europa del Sei-Settecento, in Le Magnificenze 1999, pp. 103-108; Isabella Massabò Ricci s.d.
Pier Franco Chillin
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40.a. Gaspar van Wittel Veduta ideata di un porto
XVIII secolo, secondo decennio
Penna e inchiostro bruno, acquerelli policromi su carta, mm 287x419. Firmato sul basamento del tempio, a penna e inchiostro bruno: “Gasp. Van Witel”. Cart. 14/8; n. inv. 15897 D.C.
40.b. Gaspar van Wittel Veduta ideata di un convento
XVIII secolo, secondo decennio
Penna e inchiostro bruno, acquerelli policromi su carta, mm 287x422. Cart. 14/9; n. inv. 15898 D.C.
Queste due vedute ideate sono esempio di una tipologia minoritaria all’interno dell’ampia produzione grafica del pittore olandese, per la maggior parte costituita da fedeli riproduzioni di paesaggi reali e in particolare da vedute di Roma. Giunto in Italia poco più che ventenne, a Roma egli risedette stabilmente fino alla morte, pur operando anche nell’Italia settentrionale e a Napoli. I suoi dipinti aprirono la strada al fortunato filone del vedutismo settecentesco, anticipando i limpidi scorci veneziani del Canaletto. Il figlio Luigi – italianizzato il proprio cognome in Vanvitelli – divenne uno dei principali architetti del Settecento italiano. I due paesaggi dimostrano l’abilità del pittore nella scansione dei piani in profondità, resa con un segno leggero ma sicuro che acquista maggiore o minore definizione a seconda della distanza e dell’importanza del dettaglio – come appare evidente, ad esempio, nelle forme ectoplasmatiche delle piccole figure in piedi sotto agli alberi nel Porto. Quest’ultimo, nonostante l’inserimento di un tempio che ricorda quello di Vesta a Tivoli, è evidentemente ispirato al paesaggio dei dintorni di Napoli, ove van Wittel soggiornò tra il 1699 e il 1702, chiamato dal viceré duca di Medinaceli. Il Convento rimanda piuttosto alle colline dell’Italia centrale e in particolare alla campagna romana, ben nota al pittore, che la ritrasse in molti suoi dipinti; l’edificio ricorda in particolare l’abbazia di Grottaferrata, da lui riprodotta in numerose versioni. Il sostrato nordico traspare nella resa tersa ed esatta dello spazio e dei dati atmosferici, conseguita anche attraverso l’impiego della camera ottica, da cui derivano composizioni luminose, equilibrate e serene, più rigorose dei lirici paesaggi di altri pittori forestieri attivi a Roma nel secolo precedente, quali Claude Lorrain. Da quest’ultimo van Wittel riprende comunque alcuni elementi, quali l’inserimento di architetture antiche a suggerire un’ambientazione in una mitizzata età classica. La produzione di modellini disegnati non finalizzati all’esecuzione di dipinti, ispirati a paesaggi reali ma privi di alcuna pretesa topografica, era funzionale alla soddisfazione di una vasta clientela cui van Wittel, oberato di commissioni, non era più in grado di tener testa. Le due vedute della Biblioteca Reale sono conseguentemente databili al secondo decennio del Settecento, periodo in cui l’artista intensificò la propria produzione grafica. Bibliografia: Bertini 1958, nn. 686, 687; Simonetta Prosperi Valenti Rodinò in Da Leonardo a Rembrandt 1990, nn. 111, 111a; Briganti 1996, p. 433.
Mario Epifani
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a
b
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41. Giuseppe Pietro Bagetti Veduta di Ceva
XVIII secolo, fine - XIX secolo, inizio
Pennino e acquerello su carta controfondata, mm 205x312. Cart. 3/35; n. inv. 14765 III/10 S.M.
La parabola artistica di Giuseppe Pietro Bagetti si sviluppa tra la fine del XVIII secolo e i primi decenni del secolo successivo, in un Piemonte coinvolto – al pari di molti altri territori europei – nelle campagne napoleoniche. Torinese di nascita, dopo una prima formazione musicale cominciò a interessarsi di architettura e a sperimentare con successo l’utilizzo della pittura ad acquerello, che proprio sul finire del Settecento cominciava ad affermarsi anche in Italia come tecnica autonoma. Legò il suo nome alla rappresentazione dei fatti d’arme: infatti nel 1793 fu nominato da Vittorio Amedeo III disegnatore regio, con lo specifico compito di ritrarre dal vero le campagne che l’esercito sabaudo stava per intraprendere contro i Francesi nei territori di Nizza e Tolone. In seguito all’annessione del Piemonte alla Francia, la sua attività di disegnatore dal vero di battaglie non si arrestò, dal momento che fu incaricato di riprodurre le principali battaglie napoleoniche in Italia; a questa fase risalgono i 76 acquerelli, ora conservati al Museo storico di Versailles (Griseri 1963). La collezione di disegni del Bagetti conservata presso la Biblioteca Reale consta di 64 esemplari, nello specifico 38 disegni militari e 26 paesaggi, tra cui emerge, per compostezza formale e ispirata aderenza al vero, questa poetica Veduta di Ceva, eseguita a pennino e acquerello, tecnica questa che – grazie alla naturale irregolarità della sua stesura – ben si adatta al soggetto rappresentato, in particolar modo per ciò che concerne lo studio e la resa vibrante dei riflessi della luce diurna sull’acqua del fiume. Su di una lieve altura, lungo la sponda del corso d’acqua, tre minuti personaggi sembrano scrutare la cittadina in lontananza, al di là del fiume, mentre un’agile figuretta, appena abbozzata su di una piccola barca, solca le acque. La composizione non si discosta dal gusto scenografico d’ascendenza settecentesca, tuttavia la scena risulta omogenea ed evocativa e ben risponde alla poetica del pittore, secondo il quale un artista deve «mettere l’imaginazione dello spettatore sulla via a concepire facilmente tutto il vasto teatro» delle scene riprodotte in pittura (Bagetti 1827, p. 60). Bibliografia: Bagetti 1827; Griseri 1963; Giuseppe Pietro Bagetti 2000.
Maria Luisa Ricci
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42. Angelo Cignaroli Veduta del castello di Caluso con il suo villaggio
XIX secolo, terzo decennio
Matita e acquerelli su carta, mm 238x340. Cart. 5/28, n. inv. 14755 S.M.
Angelo Cignaroli, prolifico pittore piemontese attivo a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo – la cui figura è stata riscoperta e valorizzata da Andreina Griseri in occasione della mostra sul Barocco Piemontese tenutasi a Torino negli anni Sessanta (Griseri 1963) – è stato l’ultimo esponente di una famiglia di artisti che, per oltre un secolo, ha operato tra il Veneto e il Piemonte. Suo padre Vittorio Giuseppe Gaetano – detto Vittorio Amedeo come segno di rispetto nei confronti del re Vittorio Amedeo III, che lo aveva nominato «regio pittore di paesaggi e boscarecce» presso la corte sabauda – lo aveva iniziato alla pittura di paesaggio, ma Angelo, apprese le basi, cominciò a discostarsi dallo stile arcadico dei paesaggi ideali del padre per specializzarsi in vedute dal vero di città, residenze reali, villaggi e altri rilevanti siti del Regno di Sardegna, pur ereditando un elegante gusto per i dettagli e una tavolozza armoniosa e raffinata. L’interesse documentario del giovane Angelo fu sostenuto anche dagli incarichi ricevuti dal re Vittorio Amedeo III, che gli confermò il titolo di «regio pittore» che già fu del padre. Nell’ambito delle collezioni della Biblioteca, i disegni del Cignaroli sono conservati all’interno della Cartella 5, che comprende una serie di fogli sciolti a lui attribuiti: di recente Vittorio Natale, in occasione di una mostra monografica sul pittore, ha ipotizzato che potessero far parte di un unico album rilegato e poi smembrato, dal momento che alcuni disegni «sono realizzati sulle varie facce di fogli ripiegati in due» (Natale 2012). Già negli anni Ottanta, la Dalmasso aveva posto l’accento sul grande interesse documentaristico fornito dalla serie di vedute di castelli (Dalmasso 1981), e anche questa Veduta del Castello di Caluso con il suo villaggio risulta essere particolarmente interessante in quest’ottica. Il disegno, realizzato con matita e acquerelli, è da collocare nell’ultimo ventennio di attività dell’artista, per gli stimoli che il pittore recepisce e fa propri dagli acquerelli eseguiti nel corso degli anni Venti dell’Ottocento da Giovan Battista de Gubernatis (Angelo Cignaroli 2012); con il suo elegante realismo, la resa cromatica raffinata e delicata, la luminosità diffusa, l’accurata impostazione spaziale, si inserisce nel novero delle opere più felici della produzione del Cignaroli, «di primaria importanza nell’ambito del paesaggismo piemontese» (Cottino 2001). Bibliografia: Mostra del Barocco 1963; Dalmasso 1981; Alberto Cottino in Vittorio Amedeo Cignaroli 2001, n. 77; Angelo Cignaroli 2012.
Maria Luisa Ricci
leonardo e i tesori del re
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43.a. Farīd al-Dīn al.Attar Mantiq al-tayr (Il linguaggio degli uccelli)
1453
Ms. membr., cc. 207, mm 175x115, ex libris del re Carlo Alberto. Or. 40; n. inv. 14881 D.C.
43.b. Ibn Dā’ ūd al-Isfahānī Al-Zahrah fī al-‘Adab (Libro del fiore)
1495
Ms. cart., cc. 225, mm 218x154, ex libris del re Carlo Alberto. Or. 68; n. inv. 14903 D.C.
L’interessante fondo di manoscritti orientali (più di 100 fra arabi, turchi, persiani ed ebraici) si è costituito nel XIX secolo grazie a tre agenti in Oriente del Re di Sardegna: a Beirut Francesco Antonio De Marchi e a Costantinopoli Eugenio Truqui e, soprattutto, Romualdo Tecco, che, dopo il rientro in Patria, donò alla Biblioteca una raccolta di manoscritti arabi e persiani e all’Armeria «una collezione di armi ottomane, frutto di ricerche condotte sul posto, tra cui uno stendardo attribuito all’epoca di Maometto II» (Sebastiani 2007, p. 7). Il numero sale ad almeno «168 manoscritti in alfabeti orientali» e l’area geografica di provenienza si allarga, se si contano anche quelli che corrispondono al profilo pur senza appartenere al Fondo Orientali: «fra codici e documenti archivistici [...] 104 sono arabi, 42 turchi, 13 persiani, 3 cinesi, 2 ebraici, 2 amharici, 1 tibetano e 1 malabarico» (ivi, p. 6). Fra di essi risultano particolarmente interessanti i 13 volumetti tematici di Pitture cinesi (1831-1839), entrati in Biblioteca il 24 settembre 1840 e inseriti nel Fondo Varia (Varia 235); le «pitture», realizzate su carta di riso o su foglie, rappresentano insetti, fiori, uccelli, costumi, torture e scene di vita cinese. Al Fondo Orientali appartiene invece un magnifico codice persiano in grafia nasxī copiato dal calligrafo Nassir e ornato da particolareggiate miniature, sei delle quali a piena pagina, recante il poema mistico allegorico a cornice Mantiq al-tayr (Or. 40), uno dei capolavori della letteratura persiana. Il testo – più di 4.500 versi scritti nel XII secolo da Farīd al-Dīn alAttar, prolifico autore legato al sufismo (scrisse più di cento opere, delle quali una trentina arrivata fino a noi) – narra il viaggio di un gruppo di uccelli capeggiati dall’Upupa alla ricerca del loro Signore, Simurgh (la Fenice), la cui reggia sorge ai confini del mondo. Dietro la facciata ornitologica, si nasconde l’allegoria di un percorso iniziatico che vede il maestro sufi guidare i discepoli verso l’illuminazione finale, ovvero la scoperta di Dio nel proprio sé. Ma il manoscritto più importante del Varia 235/9
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Fondo è l’Or. 68, la cui seconda parte è unica al mondo e che viene così ad essere il solo testo completo del Al-Zahrah fī al-‘Adab (per altro, i primi cinquanta capitoli nella loro interezza sono tramandati da un unico altro codice, conservato in Egitto; Noja Noseda 2007, p. 9). L’opera, scritta dal giurista e letterato Ibn Dā’ ūd al-Isfahānī ed entrata in biblioteca nel 1843 grazie al barone Tecco, è un’antologia poetica dedicata all’amore, nella quale figurano versi e poeti non compresi in nessun’altra raccolta. Essa è vista da molti studiosi occidentali come «l’inizio, ben imitato del resto, dell’“amor cortese”», che dal mondo arabo del X secolo sarebbe filtrato per metrica e concetti in Spagna e, da lì, ai trovatori provenzali, arrivando fino allo Stil Novo e a Dante (ivi, pp. 15-17). Bibliografia: Clara Vitulo in Biblioteca Reale 1990, pp. 5659; Noja Noseda 2007; Sebastiani 2007; Eliana A. Pollone in L’Armeria Reale 2008, n. II.9.
b
Eliana A. Pollone
cc. 3v - 4r
a
cc. 3v - 4r
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44. Album dei fiori
XVII secolo
Ms. cart., 52 ff. acquerellati e 12 ff. bianchi, mm 560x418, ex libris del re Carlo Alberto. Varia 225; n. inv. 14486 D.C.
«L’arte dell’illustrazione botanica si sviluppò in modo particolare nel ‘600 grazie soprattutto all’interesse per la coltivazione dei fiori nel giardino. Infatti [...] la possibilità di coltivare specie di grande decoratività si accrebbe enormemente durante questo periodo. Innumerevoli nuove piante vennero introdotte da terre lontane e, parallelamente, incominciò a svilupparsi, soprattutto nei paesi centro-nord europei, una intensa attività florovivaistica» (Accati 1999, p. 437). Questa varietà e questa ricchezza si riverberano perfettamente nell’Album dei fiori, costituito da 52 tavole di fattura e di dimensioni diverse, nel quale trova posto un ventaglio botanico impossibile da ammirare nella concreta realtà di un giardino; e ciò per due ordini di motivi. Il primo è di tipo diacronico: in molti casi, «con indubbia abilità», in uno stesso disegno «le varie piante sono rappresentate nella sequenza temporale dallo sbocciare della gemma, all’aprirsi e allo sfiorire del fiore» (Defabiani in Politica e cultura 1999, p. 429). Il secondo è legato alla variegata tipologia mostrata dalle tavole, ordinate secondo un criterio che oggi ci sfugge e nelle quali «l’intento didascalico e classificatorio si combina felicemente con l’osservazione attenta, a tratti minuziosa, dei particolari naturalistici» (Varallo 1985, p. 202): oltre a tre soggetti anomali – una stella marina (f. 3), un frutto (il Policarium ossia grappo di noce, f. 52) e un elaborato fiore di fantasia (f. 21) –, sono accostati nel corpus specie che richiedono in natura habitat diversi, fioriture che sbocciano in differenti periodi dell’anno, fiori autoctoni e piante originariamente esotiche, le cosiddette ‘piante peregrine’ degli erbari del tempo. Si trovano così unite specie tradizionali come la ninfea (f. 44), l’Astrantia major (f. 41) e l’ormai comune papavero (f. 46), con novità come il girasole (f. 42, introdotto pare dal Perù), la canna indica (f. 17) e il nordamericano topinambour (f. 14), proprio in quegli anni – 1616 – descritto dal botanico Fabio Colonna sotto il nome di Flos Solis Farnesianus in onore del cardinale Odoardo Farnese, nei cui giardini veniva fatto crescere in abbondanza. In considerazione anche della sua natura composita, con disegni che risalgono probabilmente a momenti diversi, la datazione del Varia 225 è poco precisa, ma circoscrivibile sulla base di due indizi puntuali. Il f. 52 correda l’immagine del Policarium con l’unica data esplicitata nell’album, «nel Presente anno 1622», fornendo un termine post quem che, se nulla ci dice su di un’esecuzione precedente o successiva degli altri disegni, esclude però che l’Album dei Fiori sia stato definitivamente assemblato prima del 1622. Un termine ante quem è invece fornito dalla legatura, dove campeggia uno stemma ricondotto da Francesco Malaguzzi a quello di Emanuele Filiberto in uso fino al 1630 (Defabiani in Le Magnificenze 1999). L’intervallo cronologico, collocandosi nell’età di Carlo Emanuele I (1580-1630), avvalora la tesi (Varallo 1985, p. 202; Mamino 1990) di un legame diretto fra la ‘Grande Galleria’ e i tre preziosi album naturalistici custoditi in Biblioteca (oltre al Varia 225, anche il Varia 229, Atlante degli uccelli, e il Varia 230, Album dei pesci), ai quali, secondo il Manno, avrebbe messo mano lo stesso Duca (Mamino 1990, pp. 299-300). Bibliografia: Varallo 1985; Elena Accati, Evoluzione dell’illustrazione botanica nei secoli XV-XVII, in Politica e cultura 1999, pp. 433-438; Vittorio Defabiani, Giardini sabaudi e cultura botanica: il “Libro dei fiori” , in Politica e cultura 1999, pp. 419-431; Id. in Le Magnificenze 1999, n. XXV; Sergio Mamino, Quarantotto immagini naturalistiche per la “Grande Galleria” di Carlo Emanuele I di Savoia, in Politica e cultura 1999, pp. 289-309.
Eliana A. Pollone
leonardo e i tesori del re
f. 42
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45. Francesco Stabili detto Cecco d’Ascoli L’Acerba
XIV secolo, intorno alla metà
Ms. membr., cc. 70, mm 271x190, ex libris del re Carlo Alberto. Varia 120; n. inv. 14432 D.C.
Il manoscritto, che è stato definito «degno di ogni considerazione» (Renier 1900, p. 301), è «stilisticamente vicino» al Varia 138 (Varallo 1985, p. 190; cfr. scheda 46) e presenta una scrittura gotica corsiva con iniziali alternate rosse e blu e titoli in rosso, nonché undici disegni (fra essi ne spiccano sei, rappresentati gli Alberi della Fortuna, della Virtù, della Giustizia, della Fortezza, della Prudenza e della Temperanza). La datazione, desunta in primis dalle caratteristiche della scrittura, è collocata intorno alla metà del XIV secolo (Renier 1900, p. 302). Alla c. 1r compare, aggiunto in epoca posteriore (XVI secolo?), un grande stemma con leone coronato argenteo su fondo rosso, con ai lati le iniziali «EV», probabile riferimento a Enea Villani, del quale si conserva una nota di possesso (c. 70r). Il codice reca il testo integrale dell’Acerba, opera dell’astrologo e poeta Francesco Stabili (1265 circa-1327), meglio noto come Cecco d’Ascoli, celebre soprattutto per la violenta polemica contro Dante (serpeggiante anche qui) e per la tragica fine: in quanto eretico recidivo, venne infatti bruciato vivo a Firenze il 16 settembre 1327 insieme alle sue opere (il principale capo d’accusa fu l’aver abbracciato le idee sostenute dal Sacrobosco nel Tractatus de sphaera). L’Acerba è un poema incompiuto in cinque libri, 4.867 versi complessivi di compendio scientifico-enciclopedico espresso in un linguaggio vigoroso e, spesso, con originalità di pensiero, ma proverbiale per «oscura e prosaica ispidezza», dovuta anche «all’indubbia imperizia, nella gestione dell’endecasillabo, del versificatore» (Ciociola 1996, p. 434). Il libro I tratta le proprietà e gli influssi dei pianeti, il II offre una rassegna delle virtù e dei vizi umani, il III contiene un bestiario moralizzato e una sezione sulle proprietà delle pietre, il IV affronta temi di varia natura (dalla cosmologia alla fisica, fino ad arrivare alla necromanzia e alla piromanzia), mentre i pochi versi del V (circa un centinaio) si incentrano sulla Trinità. Il significato del titolo è poco chiaro, ma allude probabilmente all’«acerba etas» o «acerba vita», più volte citata nel poema: si tratterebbe della vita terrena, vista in contrapposizione con quella dopo la morte, oppure dell’età giovanile, alla quale sarebbero rivolti gli ammaestramenti del poeta. Molto si è discusso sulle fonti dell’opera, soprattutto rispetto alla sezione zoologica, la più ampia e conosciuta; per essa sono state avanzate varie proposte, finché è stato dimostrato (Zambon 2002) il grosso debito nei confronti del De rerum proprietatibus di Bartolomeo Anglico, sul quale Cecco d’Ascoli lavora in modi diversi: in alcuni passi con traduzioni quasi letterali, in altri (ad esempio per il leopardo o per il grifone) con interventi di smontaggio e di ricomposizione del testo, alle volte integrandovi osservazioni personali. È da segnalare che la Biblioteca possiede una rara e bella edizione dell’Acerba, stampata a Venezia nel 1516 (I 25.51), attualmente esposta nel Salone Monumentale insieme ad altre cinquecentine (cfr. scheda n. 71). Bibliografia: Renier 1900; Varallo 1985; Ciociola 1995, in particolare pp. 430-437; Zambon 2002.
Eliana A. Pollone
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c. 1r
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46. Pseudo Giovanni Damasceno Leggenda di Barlaam e Josaphat
XIV secolo
Ms. membr., cc. 38, mm 230x170, ex libris del re Umberto I. Varia 138; n. inv. 14477 S.M.
Il codice, di area lombarda con forti influenze venete, è un testimone riccamente illustrato – ben cinquantacinque miniature – della «legenda» dei santi Barlaam e Josaphat, romanzo agiografico per lungo tempo attribuito a Giovanni Damasceno (VIII secolo), ma in realtà risalente almeno al VI secolo d.C. quale rielaborazione cristiana di area iranica di materiali più antichi, in parte ricavati dalle narrazioni sulla vita del Buddha. L’incipit è molto fiabesco: in India un re pagano, Avenero, divenuto miracolosamente padre, manda a chiamare tutti i saggi del proprio regno e, scelti i «cinque più savij de tuti li altri» (c. 1v), li interroga sul futuro del neonato, Josaphat. I primi quattro pronosticano ogni bene, ma il quinto, il più saggio di tutti, pur non smentendoli aggiunge: «Ma mò si ve ne digo pezor novelle, ch’el vostro fiollo si de’ essere cristiano e de’ essere colui chi de’ destrugare tuti li nostri Dei». Grande è la paura del re, che tenta di contrastare la profezia facendo crescere il principino in un palazzo isolato, ignaro delle miserie del mondo e della Fede cristiana. Ma il tentativo non riesce: compiuti i quattordici anni Josaphat viene ugualmente a contatto con la vecchiaia, la malattia e la morte e, soprattutto, con l’eremita Barlaam, che, travestito da mercante, è in realtà stato inviato da un angelo per rivelargli la Fede. La conversione del principe al cristianesimo è immediata e profonda, nonostante il padre cerchi di fargli cambiare idea in ogni modo, sia con le percosse che con le minacce, sia con l’offerta di beni terreni che con l’aiuto di valenti filosofi pagani, fino ad arrivare a chiuderlo nel palazzo con sei bellissime «donzelle» pronte a sedurlo con ogni mezzo, fisico e retorico: «o Josafat» – afferma la più bella, ispirata da un demone – «tu si è zovene et eio son zovene, tu si è bello et eio son bella, tu si è vergene et eio son vergene, tu si è zentille et eio son zentille, tu si è cristiano et eio son pagana, et imperzò tu me poy convertirme alla fe’ cristiana e guadeniare una altra anima a Deo» (c. 23r). Ma tutto invano: il principe «si stava sempre in horatione, sì che queste temptatione no li potevano noxere in alchuno modo» (c. 22v) e finisce anzi per convertire tutti coloro che lo avvicinano. Infine, quando anche il padre diventa cristiano, Josaphat decide di ritrovare Barlaam e di condurre nel deserto con lui un’ascetica vita da eremita. Sulla santità dei due non resta più dubbio quando entrambi muoiono e i corpi incorrotti compiono un gran numero di miracoli. Questa trama romanzesca è costellata da veri e propri sermoni, nei quali abbondano le citazioni bibliche, e da quattro exempla, brevi narrazioni favolistiche fonte di insegnamento morale (il numero degli exempla differisce fra i codici attestanti la Leggenda e colloca il Varia 138 fra i testimoni della redazione breve). Il testo ebbe larga diffusione in epoca medievale, documentata non solo dal proliferare di manoscritti e di redazioni, ma anche dalle numerose citazioni letterarie (Jacopo da Varagine e Boccaccio, per fare due soli esempi) e artistiche (si pensi a quella di Benedetto Antelami, celeberrima, nella lunetta del Portale della Vita del Battistero di Parma). Bibliografia: Chiais 1990.
Eliana A. Pollone
leonardo e i tesori del re
c. 22v
leonardo e i tesori del re
47. Figure storiche
XV secolo, seconda metà
Ms. cart., cc. 138, mm 145x100, ex libris del re Carlo Alberto. Varia 102; n. inv. 14420 D.C.
«Il rappresentare figure di uomini famosi per significar con esse le varie età storiche, era uso divulgato nella coltura e nell’Arte medioevale» (Toesca 1912, p. 485) e numerose erano al tempo le cosiddette ‘cronache figurate’, che talvolta prendevano forma di veri e propri cicli pittorici, come quello di Masolino in una sala del Palazzo del cardinale Giordano Orsini, ciclo oggi perduto e parzialmente noto solo grazie ad alcune riproduzioni in codici miniati. Il Varia 102 sarebbe fra questi, attraverso la mediazione del milanese Codice Crespi di Leonardo da Besozzo, pittore e miniatore lombardo attivo nella prima metà del XV secolo, o per il tramite di un comune archetipo di area toscana, forse vicino alla cerchia di Paolo Uccello (ivi, p. 489). Quel che è certo è che il «codicetto» torinese, benché di più debole fattura, presenta molti punti in comune con il codice di Milano, sia nella struttura, che «svolge la storia tradizionale dell’umanità, rappresentata colle figure di uomini celebri, disposte cronologicamente, e precedute dalla rappresentazione dei quattro elementi sotto specie di quattro diversi animali» (ma il Codice Crespi organizza ogni foglio in tre zone sovrapposte, nelle quali più figure campeggiano su fondo azzurro, mentre nel Varia 102 i personaggi sono di norma uno per carta e privi di sfondo colorato), sia sul piano iconografico, dove «gli atteggiamenti dei personaggi, e molte volte anche i colori delle loro vesti, corrispondono a quelli della Cronaca milanese ma non senza qualche leggera variante» (ivi, pp. 482 e 489). I 258 disegni acquerellati del Varia 102 (cc. 9r-138v) seguono la tradizionale suddivisione in sei età, volta alla ricerca di una sincronica integrazione fra storia sacra e profana (cfr. scheda n. 58). Alcune carte risultano però mancanti, come si evince dall’assenza di elementi che, per analogia con il resto del codice, in origine dovevano esserci, cioè le indicazioni del passaggio fra la III e la IV età e l’elemento acqua, con il pesce (la consuetudine dei bestiari medievali, che associavano ogni elemento all’animale che credevano se ne nutrisse, si ritrova anche nel Varia 102, che alla c. 9r abbina l’aria al camaleonte e a un’imprevista fenice, alla c. 12v il fuoco alla salamandra e, alla c. 58v, la terra alla talpa; cfr. foto p. 173). I soggetti effigiati, ciascuno fortemente caratterizzato, appartengono ad ambiti diversi: personaggi biblici come i dodici che costituiscono le prime due età (sei per ciascuna, iniziando rispettivamente da Adamo – c. 9v – e da Noè, accanto all’Arca e alla vite – c. 13r), re e imperatori (da Tiberio a Carlo Magno, da Artù a «Saladinus rex»), papi, santi (quali San Lorenzo o Sant’Elena), filosofi, scrittori (Omero, Cicerone ed Esopo, fra gli altri) e personaggi mitologici (come il re Mida dalle grandi orecchie d’asino, c. 32r). I fatti salienti delle varie epoche vengono ricordati attraverso brevi annotazioni accanto ai disegni o da appositi cartigli, mentre più spazio è concesso a due eventi capitali, dettagliatamente illustrati: la fondazione di Roma (cc. 27v-28r) e la «Nativitas Domini Nostri Iesu Christi» (cc. 93v-94r). Bibliografia: Toesca 1912.
Eliana A. Pollone
leonardo e i tesori del re
c. 67r
leonardo e i tesori del re
48. Ricettario medico-farmaceutico
XIV secolo, fine - XV secolo, inizi
Ms. membr., cc. 52, mm 242x200, ex libris del re Carlo Alberto. Varia 129; n. inv. 14438 D.C.
Il Ricettario tramanda una serie di medicamenti – composti da sostanze di origine vegetale, animale e minerale – atti a guarire una vasta gamma di malattie e di sintomi, in una «mescolanza di temi scientifici, magici e preternaturali» che, oltre a essere propria della mentalità medievale, «conferiva maggior attrattiva a questo tipo di letteratura, favorendone la rapida diffusione» (Lupo 2012, p. 31). Esso è fittamente illustrato, seguendo una consuetudine che risale ai medici greci (Plinio, XXV 4): oltre ai capilettera, tutti fantasiosamente decorati, vi si trovano le immagini commentate di alcuni ingredienti, veri ‘box di approfondimento’ ante litteram, che riportano credenze talvolta attribuite a medici famosi come Galeno (II sec. d.C.) o Avicenna (XI sec. d.C.). Fra esse, a interrompere il susseguirsi delle ricette, vi sono cinque grandi disegni botanici pensati per facilitare il riconoscimento delle piante medicamentose (come l’«ermodatilus» o iris tuberosa, c. 13v); più spesso le immagini sono relativamente piccole, inserite a fianco delle liste di ingredienti, in corrispondenza di quello illustrato: è il caso del vivace leprotto del «sanguinis leporis» (c. 16r) o degli scinchi, sorta di lucertole egiziane, elemento base di un preparato utile alla debolezza di reni che, effetto non secondario, nel contempo «libidinem provocat» (c. 6r). In aggiunta al commento, ad alcuni animali viene data direttamente la parola (ciò anche a livello grafico, facendo partire la scrittura dalla bocca): si veda lo scorpione (c. 23r), che esordisce dicendo «Scorpio sum mordens homines cum caudula pungens» (Sono lo scorpione che morde gli uomini con la codina pungente), oppure lo strano castoro e la viverna dagli occhi rossi («Ego sum castor...», «Ego sum Tirus...»; cc. 48v-49r). I preparati sono ordinati, a grandi linee, in base alla forma farmaceutica – «sirupus», «olleum», «pillulae», ecc. – e riportano gli ingredienti e alcune annotazioni. Molte sostanze hanno nomi inquietanti che, oggi, fanno pensare a pozioni magiche, ma che uno speziale del Medioevo avrebbe individuato come elementi molto può prosaici, quale il «sanguinis dragone» che compare in varie ricette, in realtà resina trasudata da piante della famiglia delle liliacee. Fra le altre, è presente la ricetta di uno dei più famosi e complessi medicamenti della storia della medicina, la «Triacha» o «Teriaca» (cc. 43r-44r), polifarmaco miracoloso. Originariamente nato come antidoto contro i veleni e identificato con quello messo a punto da Mitridate, venne formalizzato da Galeno in una ricetta contro tutti i mali di 60 ingredienti, portati nel tempo a 74 (il Ricettario testimonia entrambe le versioni). Fra i componenti della «Triacha» – gomma arabica, mirra, benzoino, ecc. – tre risultano particolarmente strani e di difficile reperimento: lo xilobalsamo e l’opobalsamo (spesso oggetto di falsificazione, erano rispettivamente il legno e la resina di una pianta che si riteneva crescesse solo in una piccola area vicino al Cairo) e, soprattutto, i «trocisci» di vipera (ottenuti essiccando all’ombra un impasto di pane secco e carne di vipera bollita, speziata e triturata; a complicare le cose, il serpente – privato della coda, della testa e delle viscere – doveva essere una femmina non gravida, catturata qualche settimana dopo il risveglio dal letargo). Bibliografia: Lupo 2012.
Eliana A. Pollone
leonardo e i tesori del re
cc. 37v - 38r
leonardo e i tesori del re
49. Gilio de’ Zelati di Faenza Partiti de gioco de scachi
1450-1470 circa
Ms. membr., cc. 26, mm 230x160, ex libris del re Vittorio Emanuele III. Varia 128; n. inv. 14471 S.M.
Il trattato di Gilio de’ Zelati, autore del quale si sa poco, si inserisce a buon diritto nel novero delle raccolte medievali di ‘partiti’, problemi scacchistici oggetto di scommesse, costituiti da una disposizione di pezzi stabilita dal ‘compositore’ e da un obiettivo (‘enunciato’) proposto al ‘solutore’. Si tratta di «uno dei primi libri a contenuto esclusivamente tecnico sul gioco degli scacchi» e, benché «certamente superato, per mole e quantità di problemi, da altre celebri raccolte di partiti medioevali», quali il De ludo scachorum del matematico Luca Pacioli dedicato a Isabella d’Este (100 partiti) o le raccolte del Bonus Socius (192) e del Civis Bononiae (288), «per l’eleganza dei disegni dei pezzi e la personalità dei commenti, questo trattatello merita di avere un posto a sé, nella bibliografia problemistica del tardo Quattrocento» (Chicco 1950, p. 19). Scritta in volgare, l’opera è dedicata al duca Borso d’Este (1413-1471), al quale lo Zelati si rivolge direttamente nel commento di vari partiti – soprattutto per aiutarlo a destreggiarsi fra i possibili tranelli celati nelle scommesse – e nel proemio (cc. 2r-3r; a c. 2r il testo, entro cornice floreale, è posto fra due medaglioni con simboli araldici: in alto l’aquila estense e in basso il liocorno, insegna personale di Borso). La motivazione dell’opera è chiara: «desiderando io, sicomo humile et fidele servitore de la tua Excelentia, che essa me cogniosca e ponga nel numero de li soi minimi et devoti sugietti, mi venne ne l’animo uno gentile et peligrin pensiero, cioè de compore el presente libretto a tua recriatione et piacere» (c. 2v). E l’autore intende raggiungere lo scopo attraverso 22 partiti (più uno, il primo, puramente esemplificativo), 16 dei quali dovuti a «validissimi ingegni et giochaduri de scachi» e 6 alla sua «propria e bassa fantasia», ma composti «con grandissima disiplina d’ingegnio» (c. 3r). Tutti i problemi occupano due carte affrontate: a sinistra l’enunciato (tipicamente: «Matto in [numero] tratti, né più né meno», lo scopo cioè è dare scacco in un numero ben definito di mosse), la soluzione e gli eventuali commenti (che spesso debordano nella carta a fianco); a destra il diagramma con i pezzi sulla scacchiera, sessantaquattro caselle bianche delimitate da linee a inchiostro rosso. Più della metà dei partiti riportano un’indicazione sulla loro risolvibilità, sintetizzate in formule come «Non se vince» o, al contrario, «Per forza se vince». Le mosse sono indicate da lettere dell’alfabeto (minuscole sulle caselle d’arrivo, maiuscole su quelle di partenza) e i pezzi – i ‘bianchi’ colorati in rosso, i ‘neri’ in verde – sono ben connotati e accompagnati dal proprio nome in latino: Rex, Regina, Roccus (o Rocus, Torre), Miles (Cavallo), Alfidus (Alfiere) e Pedo (Pedone); è curiosa la presenza dell’indicazione «vacat» (è vuota) per correggere alcuni casi di erroneo inserimento di un pezzo in una casella. Il gioco è condotto secondo le regole in uso prima della cosiddetta ‘Riforma di fine Quattrocento’, che istituì le basi del modo di giocare moderno: così, ad esempio, nei Partiti l’Alfidus si muove saltando e la Regina non ha l’odierna libertà di movimento, ma può spostarsi solamente in diagonale e di un’unica casella per turno. Bibliografia: Chicco 1950; Clara Vitulo in Biblioteca Reale 1990, pp. 76-77; Gli scacchi 2007.
Eliana A. Pollone
leonardo e i tesori del re
c. 4r
leonardo e i tesori del re
50. Francesco di Giorgio Martini Trattato di architettura civile e militare
1486 circa
Ms. membr. con miniature e disegni acquerellati, cc. 100, mm 383x265, ex libris di Cesare Saluzzo e di Tommaso di Savoia duca di Genova. Sal. 148; s.n.i.
Acquisito dalla Biblioteca Reale nel 1952, tramite il Ministero della Pubblica Istruzione, il Fondo Saluzzo costituisce un importante nucleo bibliografico (circa 17.000 volumi e opuscoli) ricco di manoscritti (circa 900), atlanti, incunaboli e altri testi a stampa. La collezione di Cesare Saluzzo di Monesiglio (1778-1853), poeta e scrittore, alla sua morte, per volontà dello stesso bibliofilo, fu donata al duca di Genova, Ferdinando, figlio cadetto del re Carlo Alberto, e riveste particolare importanza per lo studio dell’architettura e dell’arte militare. L’opera più prestigiosa dell’intera raccolta è il manoscritto Saluzzo 148, il Trattato di architettura civile e militare di Francesco di Giorgio Martini (Siena 1439-Siena 1501), artista eclettico e dotato di straordinarie capacità creative, pittore, scultore, architetto e teorico dell’arte, che operò soprattutto a Siena e a Urbino. Il manoscritto è stato datato intorno al 1486, periodo in cui l’autore lavorò presso la corte del duca Federico da Montefeltro, portando con sé le competenze tecniche acquisite a Siena, in particolare quelle di tipo meccanico. A Urbino il Martini fu impegnato nella costruzione di residenze, come lo splendido Palazzo Ducale, avviato dall’architetto dalmata Laurana, e di altri edifici civili e religiosi, per esempio la Chiesa di San Bernardino e il Monastero di Santa Chiara. Molto significativo anche il suo contributo nella progettazione di rocche e fortificazioni, da Sassocorvaro a Mondavio, e non ultima la fortezza di San Leo, che sarà citata anche nel IV canto del Purgatorio di Dante nella rappresentazione immaginaria del paesaggio. Martini è infatti considerato, insieme ai fratelli Sangallo, uno dei padri della ‘fortificazione alla moderna’ (o ‘all’italiana’), predisposta nel tentativo di risolvere i problemi posti dallo sviluppo dell’artiglieria. Proprio al periodo urbinate si devono le prime raccolte di disegni architettonici e militari dai quali avrà origine il famoso trattato, vera e propria summa delle sue esperienze pratiche, frutto di una continua ricerca ed elaborato nel corso di diversi anni. Il manoscritto è illustrato con disegni ad acquerello ricchi di particolari, ma estremamente chiari, raffiguranti congegni meccanici in movimento, esempi di mulini, leve, argani e verricelli, strumenti con ingranaggi a vite, macchine belliche e altre progetti innovativi di arte militare, a spiegazione della parte testuale. Completano l’opera, nelle ultime 30 carte, i Disegni di monumenti antichi, studi di antichità romane con brevi note di testo. Da essa attinsero molti degli artisti dell’epoca e probabilmente lo stesso Leonardo da Vinci, con il quale il Martini ebbe contatti a Milano, dove esercitò in qualità di tecnico e consulente alla corte degli Sforza. I due artisti collaborarono alla progettazione del Tiburio per il Duomo di Milano e della Cattedrale di Pavia. La legatura del codice è in pergamena, con fregio in oro sul dorso; le iniziali dei capitoli sono colorate in oro, azzurro e verde, mentre la miniatura della carta di inizio contiene il ritratto dell’autore. Bibliografia: Martini 1841; Id. 1967; Pedretti 1978; Varallo 1985, pp. 222-226; Giovanna Giacobello Bernard, La Biblioteca Reale e i suoi fondi, in Biblioteca Reale 1990, pp. 13-29; Tommaso Tagliabue in La città ideale 2012, n. 6.4.
Pier Franco Chillin
leonardo e i tesori del re
c. 61r
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51. Carlo Morello Avvertimenti sopra le fortezze di S.R.A.
1656
Ms. cart., cc. 187, disegni a penna e acquerello, mm 460x400, ex libris del re Carlo Alberto. Mil. 178; n. inv. 14688 D.C.
L’opera del pavese Carlo Morello (Pavia inizio XVII sec.-Torino 1665) si inserisce nell’attività degli ingegneri militari presso la corte sabauda tra Cinquecento e Seicento. Il compito di fissare i confini del ducato e di fortificarlo, con l’obiettivo di creare una struttura difensiva all’avanguardia, vide all’opera una generazione di tecnici dalle qualità straordinarie, quali Francesco Paciotto (suo il progetto della Cittadella di Torino), Ascanio Vitozzi, Carlo di Castellamonte, Pietro Arduzzi, Ercole Negro di Sanfront, di cui fu allievo lo stesso Morello, e in seguito anche suo figlio, Michel Angelo Morello. Carlo Morello, ingegnere militare, ma anche comandante di artiglieria, fu a lungo impegnato in campagne di guerra (e talvolta in operazioni di spionaggio) e nella fortificazione delle città, progettando anche l’ampliamento della fortificazione di Torino verso il Po. Quando la sua carriera stava ormai volgendo al termine, ebbe l’idea di raccogliere in un’opera unica, dedicata a Carlo di Simiane, marchese di Pianezza e generale dell’esercito, i disegni e le informazioni raccolte negli anni precedenti. Il testo è considerato una pietra miliare negli studi di storia architettonica, urbanistica e militare dell’epoca e, citando il proemio dell’autore, fu realizzato con il fine di «esporre come in un teatro» tutte le fortezze dello Stato sabaudo «per far conoscere che pregiudicio, ch’ostacoli, ch’opportunità l’une alle altre città apportino, dando insieme a Principi et a Generali d’eserciti brevi osservationi per assedi, per soccorsi, per espugnatione, per diffese delle delineate fortezze». I 104 disegni che compongono l’opera, realizzati a penna e acquerello, sono accompagnati da relazioni manoscritte sulle fortificazioni e sul territorio circostante e da legende ricche di informazioni. Raffigurano piante e vedute di centri abitati, costruzioni militari, valli e passi alpini, dimostrando un’accurata conoscenza ambientale trasferita sulla carta soltanto come conseguenza di precisi rilievi, ed evidenziano una grande attenzione per i particolari, dalla struttura degli isolati alla planimetria degli edifici più significativi. Non soltanto uno strumento militare, quindi, ma anche una metodica fonte documentaria territoriale, che costituisce un importante precedente per progetti cartografici successivi ancora più ambiziosi, come il Theatrum Sabaudiae. Studi recenti (Viglino Davico 2005) hanno tuttavia dimostrato che parte dei disegni di Morello sono copie integrali di rilievi eseguiti da Carlo Vanello intorno al 1590, confermando invece l’attendibilità e l’aggiornamento delle relative relazioni. La legatura del manoscritto, in pergamena bianca, è del XVIII secolo, con decorazioni in oro e lo stemma di Carlo Emanuele III. Bibliografia: Promis 1973; Aurora Scotti in Biblioteca Reale 1990, pp. 176-179; Micaela Viglino Davico, I grandi progetti per le “moderne” piazzeforti dei duchi di Savoia, in Le Magnificenze 1999, pp. 109-119; Morello 2001; Viglino Davico – Bonardi Tomesani 2001; Rappresentare uno Stato 2002; Viglino Davico 2005.
Pier Franco Chillin
leonardo e i tesori del re
cc. 15v - 16r
leonardo e i tesori del re
52. Filippo Juvarra Galleria Architettonica osia Memorie e Cenni di Architettura Militare e Civile
1704-1714 circa
Ms. cart. con disegni e tavole, cc. 133, mm 255x196, legatura in pelle con fregi in oro sul dorso, ex libris di Cesare Saluzzo e di Tommaso di Savoia duca di Genova. Sal. 39; s.n.i.
Altro importante esemplare del Fondo Saluzzo (cfr. scheda n. 50), il prezioso manoscritto autografo juvarriano si collega direttamente all’attività didattica dell’autore. Un’opera, quindi, a carattere formativo e divulgativo, ma di alto valore scientifico, redatta come manuale per gli allievi dei corsi di architettura e prospettiva dell’Accademia di San Luca, a Roma, dove Filippo Juvarra (Messina 1678-Madrid 1736) era giunto nel 1704, entrando nella scuola dell’architetto Carlo Fontana. Il testo parte dalle nozioni di base, affrontando questioni sempre più complesse, come gli studi sulle ombre e sull’incidenza e la rifrazione della luce, tramite l’utilizzo di testi, figure e schizzi chiarificatori. Dai principi generali della geometria piana, si passa alle figure solide, con il calcolo prima delle aree e poi dei volumi, dedicando ampio spazio all’arte della misurazione degli edifici, delle superfici, dei terreni e dei fiumi, con un linguaggio privo di astrattezza, ma proiettato su esempi di pronta comprensione, riferiti alla concreta realtà architettonica. I disegni, tracciati a penna e inchiostro bruno e grigio su preparazione a stilo, compasso e matita, danno vita a un vero e proprio compendio di architettura civile, che traduce sul piano applicativo le sistematizzazioni teoriche, ponendo sempre al centro dell’attenzione il disegno, preciso, ricco di dettagli e sfumature, e accompagnato da didascalie o legende (Roggero Bardelli 1999). In seguito Juvarra si trasferì a Torino, dove nel 1714 fu nominato ‘primo architetto civile’ da Vittorio Amedeo II di Savoia, che gli affidò il compito di ridefinire l’immagine della città, con l’obiettivo di «qualificare con i segni e i significati architettonici della Romanitas la nuova città capitale, mantenendo tuttavia la continuità con lo sviluppo urbanistico già chiaramente prefigurato e orientato dal programma ideale riflesso nelle incisioni» del Theatrum Sabaudiae (Manfredi 2004, p. 713). La volontà riformatrice del sovrano e l’originalità della visione dell’architetto condurranno alla realizzazione di edifici che renderanno Torino una delle più raffinate capitali del Settecento (come testimoniano, solo per citarne alcuni, la facciata e lo scalone a due rampe di Palazzo Madama, la Basilica di Superga, la Chiesa di San Filippo Neri e la Palazzina di caccia di Stupinigi). La parte del manoscritto dedicata all’arte militare pare risalire proprio alla sua lunga esperienza torinese, ambiente in cui la cultura militare delle fortificazioni era molto più considerata che altrove. Proprio a Torino, Juvarra progettò i Quartieri Militari, i due grandi isolati porticati dei Santi Celso e Daniele da adibire a caserme, che caratterizzavano il piazzale della Porta Susina, ingresso occidentale della città. Bibliografia: Millon 1984; Varallo 1985, pp. 222-226; Lidia De Blasi Giaccaria in Biblioteca Reale 1990, pp. 194-195; Costanza Roggero Bardelli, La Galleria Architettonica di Filippo Juvarra, in Le Magnificenze 1999, pp. 121-128; Manfredi 2004; Francesca Filippi in Il teatro 2011, n. 497.
Pier Franco Chillin
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c. 39r
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53. Giovanni Battista Borra Corso d’Architettura Civile sopra li Cinque Ordini di Giacomo Barozzio da Vignola disegnato da Giambattista Borra di Dogliani sotto la Direzione del Signor Architetto & Accademico di Roma Bernardo Vitone
Torino, 1734
Ms. cart. con 41 disegni, inchiostro marrone su carta da disegno, cc. 53, mm 490x350. Varia 738; s.n.i.
Acquisito dalla Biblioteca Reale nel 1992, il prezioso manoscritto illustrato contiene 41 disegni (più 5 nelle carte sciolte anteposte al volume) suddivisi secondo i seguenti ordini architettonici: toscano (4), dorico (10), ionico (10), corintio (9) e composito (8). I disegni, su fogli di formato e aspetto differenti, sono stati realizzati a penna, in inchiostro su base a matita, e riportano monumenti in primo piano che rappresentano archetipi architettonici, dove la luce è sempre l’elemento protagonista, con grande attenzione per i particolari e per le visioni d’insieme (Griseri 1999). L’opera è impreziosita, nel verso dei fogli, da schizzi tratteggiati a carboncino di figure femminili, mani e profili, vecchi con copricapi e costumi del Settecento o, più semplicemente, prove di scrittura. La legatura presenta quadranti in cartone, coperta in pelle marrone e fregi impressi in oro sul dorso. Giambattista Borra (Dogliani 1713-Torino 1786), architetto e disegnatore, entrò a vent’anni nello studio di Bernardo Antonio Vittone (Torino, 1705-1770), del quale divenne allievo raffinato, contribuendo alle Istruzioni elementari per l’indirizzo de’ giovani allo studio dell’architettura con dodici tavole che testimoniano non comuni qualità di disegnatore. Il Corso d’Architettura civile è dedicato al Vignola, architetto e teorico dell’architettura tra i massimi esponenti del manierismo, e alla sua Regola dei Cinque Ordini d’Architettura, uno dei trattati più diffusi e influenti di tutti i tempi, che fissava i fondamenti basilari della materia. Nei disegni di Borra i cinque ordini teorizzati da Vignola vengono applicati al concreto tramite esempi nei quali non mancano invenzioni decorative, esempi accademici «di sommaria definizione funzionale, anche se di accentuato carattere e di destinazione quasi sempre riconoscibile» (Canavesio 1997, p. 371). In seguito Borra collaborò con Benedetto Alfieri, l’architetto di Sua Maestà, nella decorazione del Palazzo dei Marchesi Isnardi di Caraglio, a Torino, rimanendo sempre vicino agli ambienti della corte sabauda. Partecipò alla celebre spedizione archeologica in Asia Minore occidentale al seguito di Robert Wood (1750-1751), con il compito di descriverne i ritrovamenti e fissare sulla carta le vedute dei siti archeologi, impresa che porterà alla pubblicazione di due opere di risonanza internazionale: The ruins of Palmyra e The ruins of Balbeck. Operò per alcuni anni anche in Inghilterra (nella Norfolk House e nei giardini di Stowe), affinando la sensibilità per il paesaggio inglese e, al suo ritorno in Piemonte, il principe Ludovico di Carignano lo incaricò di realizzare la facciata del Castello di Racconigi, da lui progettata insieme al Salone d’Ercole e al Salone di Diana. A Torino il suo contributo è riscontrabile anche nella Chiesa di Santa Croce, nella Chiesa della Santissima Trinità e al Teatro Carignano. Bibliografia: Canavesio 1997; Andreina Griseri in Le Magnificenze 1999, pp. 30-31.
Pier Franco Chillin
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c. 43
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54. Nuno Garçia de Toreno Carta nautica delle Indie e delle Molucche
Valladolid, 1522
Disegno policromo su pergamena, mm 1080x770. Dis. Vari III 176 (già O XVI 2); s.n.i.
L’interesse verso la collezione cartografica della Biblioteca, che su questo fronte conserva testimonianze preziose e spesso uniche dei secoli XVI e XVII, è cresciuto a partire dalla mostra Terrae Cognitae. La cartografia nelle collezioni sabaude (Torino, Biblioteca Reale, 21 novembre 2007-31 gennaio 2008), curata da Maria Letizia Sebastiani e Clara Vitulo e resa possibile dal generoso contributo della Consulta per la Valorizzazione dei Beni Artistici e Culturali di Torino che, nell’occasione, sponsorizzò anche il restauro conservativo della Geocarta del Vespucci e di quattro carte nautiche della collezione, fra le quali questa. La Carta nautica delle Indie e delle Molucche entrò in Biblioteca, unitamente alla Geocarta, nel 1846, proveniente dalla «libreria del fu marchese Caissotti di Chiusano», circostanza che non esclude una precedente permanenza di entrambe nelle collezioni sabaude (Vitulo 2007; cfr. scheda n. 56). Oggi la carta si presenta costituita da due fogli rettangolari di pergamena saldati tra loro, ma pare convincente quanto affermato da Clara Vitulo circa la sua incompletezza: «nonostante opinioni contrarie [...] manca infatti la parte sinistra, come sembrano confermare sia l’interruzione della ricca cornice di colore blu a motivi floreali che circonda tre lati della carta, sia la descrizione della registrazione d’ingresso che la definisce “grandissima” ed “universale”, attributi che mal si adattano all’aspetto presente dell’opera» (Vitulo 2007). Datata e firmata in alto a sinistra, perpendicolarmente all’orientamento della carta, essa è attualmente l’unica opera certa di Nuño Garçia de Toreno, importante cosmografo della Casa de la Contratación di Siviglia (cfr. scheda n. 56) formatosi alla scuola di Amerigo Vespucci, nominato «piloto y maestro de cartas de navegar» con cedula reale del 3 settembre 1519 (Magnaghi 1929, p. 21). Le linee di costa disegnate secondo conoscenze geografiche non aggiornate (si veda, ad esempio, il grande golfo sopra cui compare il «Rei de los Chines» con i propri portatori, corrispondente al Sinus Magnus tolemaico) e l’abbondanza di figure e di elementi decorativi (sovrani, città, navi, animali fantastici e, in alto a sinistra, la Torre di Babele) la indicano come un documento non destinato all’uso pratico dei piloti. Probabilmente aveva uno scopo propagandistico: allestita per volere del re di Spagna Carlo V – che all’epoca soggiornava con la corte a Valladolid – subito dopo il rientro della spedizione di Magellano, la carta venne presumibilmente inviata a personaggi stranieri di alto rango per rendere nota la posizione delle Filippine e delle Molucche (le ‘isole delle spezie’ per antonomasia, obiettivo principale del viaggio) rispetto alla Raya (indicata come «Linea divisionis Castellanorum et Portugallensium», essa passa per l’isola di Sumatra ed è segnata in rosso, perpendicolare all’omologa linea dell’Equatore), facendole rientrare nella sfera di controllo spagnolo per più di 20°. Bibliografia: Magnaghi 1929; Clara Vitulo in Terrae cognitae 2007, n. 6; Vitulo 2010.
Eliana A. Pollone
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55. Jacopo Russo Carta nautica del Mediterraneo
1565
Disegno policromo su pergamena, mm 640x1066 (comprensivi della lingua di arrotolamento). Dis. Vari III 177 (già O XVI 4); s.n.i.
Jacopo Russo fu uno dei primi e più quotati rappresentanti della scuola cartografica messinese. La Carta nautica della Biblioteca Reale, considerata «una delle migliori e più complete» del cartografo – che sappiamo essere stato in attività almeno fino al 1588 – (Vitulo 2007), è firmata e datata in alto a sinistra, a fianco della linea che indica i gradi di latitudine: «Jacobus Russus messanensis me fecit | In nobili civitate Messane, anno D[omi]ni, 1565». Nella collezione della Biblioteca, essa è «certamente il più bell’esemplare di “carta di omaggio”, in grazia della ricchezza e fantasia degli elementi decorativi e della freschezza e intensità dei colori» (Vitulo 2010). Presenta infatti un tripudio di «elementi decorativi», del tutto inutili dal punto di vista pratico ma di grande effetto estetico, collocati negli spazi vuoti e, soprattutto, all’interno delle terre (cioè nei punti che non rivestivano interesse in una carta nautica). Si individuano così piccole città turrite corredate di stemmi e, in alcuni casi, dei loro convenzionali elementi caratterizzanti (si vedano la lanterna e l’ampia darsena di Genova, unica città italiana con Venezia), il Mar Rosso, con il biblico passaggio aperto da Mosè per rendere possibile la fuga agli Ebrei, catene montuose ‘a mucchi di talpe’ (il Sinai con il Monastero di Santa Caterina, i Monti dell’Atlante disseminati di palmizi, i Pirenei e le Alpi) e sovrani con i simboli del proprio potere: i re di Spagna, Francia, Ungheria, Polonia e Russia, ma anche quelli dei Tartari, di Fessa (dalla città di Fes, in Marocco), di Trimisena (da Tremisen o Tlemcen, in Algeria), di Tunisi, «Lo Gran Turco» (per l’Impero Ottomano) e «Lo Preti Ianni» (il Prete Gianni, leggendario «rex et sacerdos» cristiano, baluardo contro gli infedeli; la collocazione del suo regno si sposta, verso la metà del XIV secolo, dall’Oriente a un indeterminato luogo dell’Africa, per essere infine immaginato – come qui – in Etiopia), nonché i re di Nubia, di Tibia e «Lo Soldan di Babilonia», seduti sotto «tende sgargianti, accanto ad animali [qui elefanti e dromedari] talora immaginari [...] nelle aree “barbariche”, quasi a volerne sottolineare uno stato di subalternità o, comunque, di arretratezza civile rispetto ai territori contrassegnati dalla presenza cristiana» (Macrì 2007, p. 16). Anche gli elementi tecnici sono declinati in chiave il più possibile decorativa. Così, per non interferire con i disegni, risultano spezzate sia le indicazioni di scala, di notevoli dimensioni, inquadrate da tratti rossi e blu alternati, sia la linea graduata della latitudine che, nel troncone inferiore, ricalca come d’uso il meridiano a ovest dell’Isola di Hierro (Canarie). Lungo i margini si notano otto ‘putti dalle gote soffianti’, che, convenzionale «motivo decorativo per rappresentare i venti principali» (dei quali recano i nomi), assumono spesso – come in questo caso – «funzione di indicare i quattro punti cardinali e i quattro intermedi» (ivi, p. 56). Le rose dei venti, originate dall’intersezione delle linee dei venti, sono di tipo decorativo in tutti i sei casi in cui lo spazio lo rende possibile e presentano i colori e i simboli convenzionali (in senso orario: punta di freccia o giglio stilizzato per il Nord, G per il Grecale, croce per
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il Levante, S per lo Scirocco, O per il Mezzogiorno, L per il Libeccio, P per il Ponente ed M per il Maestrale). A esse se ne aggiunge una settima, esclusivamente ornamentale, con al centro una Madonna con Bambino reggente il globo crucigero: nel collo delle carte nautiche era spesso inserita un’immagine a carattere religioso, quale dedica e auspicio di protezione contro i rischi del navigare. Bibliografia: Macrì 2007; Clara Vitulo in Terrae cognitae 2007, n. 14; Vitulo 2010.
Eliana A. Pollone
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56. Giovanni Vespucci Geocarta nautica universale
1523-1524
Disegno policromo su pergamena, mm 1109x2613. Dis. Vari III 175 (già O XVI 1); s.n.i.
La Geocarta, restaurata nel 2007 grazie all’aiuto della Consulta, è la punta di diamante della collezione cartografica della Biblioteca. Si tratta infatti della più antica copia superstite di padrón real, la carta ufficiale del mondo sulla quale, nel XVI secolo, la Corona spagnola faceva registrare le nuove scoperte geografiche per utilità dei piloti accreditati. Le carte di questo tipo giunte fino
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a noi sono estremamente rare: si ritiene venissero «man mano eliminate in quanto superate dal progresso delle conoscenze conseguente alle sempre nuove scoperte geografiche; oppure perché ritenute materiale segreto per il loro valore politico, militare, commerciale» (Vitulo 2007; esse erano infatti oggetto di segreto di Stato ed era prevista la pena di morte per gli autori di copie non espressamente autorizzate). Confrontandola con altre carte coeve (cfr. schede nn. 54 e 55), è evidente la destinazione d’uso pratico della Geocarta: essa si concentra sulle linee di contorno delle terre conosciute, limitando al minimo gli elementi decorativi e di fantasia; per contro, la toponomastica è fitta, così come accurate sono le indicazioni utili ai naviganti (scali, luoghi di rifornimento e ‘abreolos’, tratti da evitare perché pericolosi, segnalati con puntini e crocette). Il planisfero detiene anche un altro primato: quello di essere la prima carta oggi nota a registrare
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i risultati della circumnavigazione del globo della spedizione di Magellano, terminata nel settembre del 1522. È dunque la prima a mostrare la completa rappresentazione dell’Oceano Pacifico, nonché lo stretto che prende il nome dal navigatore, ed è una delle prime a coprire l’intera circonferenza terrestre. Ciò ha permesso di fissare un temine post quem per la datazione, individuata dagli studiosi fra il 1523 e il 1524, a seconda del tempo stimato per «l’elaborazione della gran mole di dati e per la loro sistemazione in una raffigurazione generale del mondo conosciuto» (Astengo 2010, p. 60; lo studioso propende per il 1524). La carta sarebbe comunque anteriore alla conclusione della Junta de Badajoz y Elvas (maggio 1524), teatro dell’incontro fra le delegazioni spagnola e portoghese per rinegoziare, alla luce delle nuove scoperte, la posizione della Raya, la linea immaginaria che divideva la sfera di influenza spagnola (a ovest) da quella portoghese (a est) e che qui appare spostata di quasi 10° per attribuire con più evidenza agli Spagnoli le Molucche e le loro spezie, di altissimo interesse commerciale. Giovanni Vespucci aveva partecipato alla Junta sostenendo le ragioni della Spagna. Egli, nato a Firenze nel 1486, era nipote di Amerigo poiché figlio del fratello Antonio, e deteneva la carica di piloto del rey dal 22 maggio 1512, unitamente all’incarico specifico di compilare e di aggiornare il padrón (Magnaghi 1929, p. 15). Per questo compito e per sostanziali analogie con altre opere firmate dal cosmografo, non ne è mai stata confutata l’individuazione come autore (se non unico, almeno principale) del planisfero. I pilotos del rey dipendevano dalla Casa de Contratación di Siviglia, istituita nel 1503 per controllare il commercio e la navigazione tra la Spagna e il Nuovo Mondo, in analogia con la Casa da Índia portoghese; essi coadiuvavano il piloto mayor, figura che aveva la responsabilità dei piloti e del padrón e che fu creata nel 1508 per Amerigo Vespucci. Recentemente si è appreso (Vitulo 2007) che la Geocarta, unitamente alla Carta di Nuño Garçia de Toreno (cfr. scheda n. 54), pervenne in Biblioteca il 1° maggio 1846, proveniente dalla biblioteca di 6.776 volumi appartenuta al marchese Carlo Francesco Giacinto Caissotti di Chiusano (17541831); dopo la sua morte, parte dei libri venne donata per testamento all’Accademia delle Scienze di Torino, mentre la restante venne smembrata e dispersa. Tuttavia ciò non esclude che, in precedenza, entrambe le carte fossero già entrate nelle collezioni sabaude quale dono di Carlo V di Spagna alla cognata Beatrice di Portogallo, moglie di Carlo III di Savoia, «dal momento che altri importanti “tesori” della Biblioteca, pur espressamente realizzati per i duchi sabaudi (e dunque sicuramente conservati nella biblioteca di corte), andarono dispersi nel corso dei secoli e furono poi oggetto di nuove, più recenti acquisizioni» (Vitulo 2007). Bibliografia: Magnaghi 1929; Milano 2001; Clara Vitulo in Terrae cognitae 2007, n. 1; Astengo 2010.
Eliana A. Pollone
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SE ZION E I I I
Salone Palagiano
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57. Gli incunaboli della Bibioteca Reale di Torino
Pubblicati fra la metà del Quattrocento e il 1500, gli incunaboli sono i primi veri libri a stampa, resi possibili dall’invenzione dei caratteri mobili attribuita a Johannes Gutenberg, la cui celeberrima Bibbia (Magonza, 1452-1455) è considerata la progenitrice di tutti i libri moderni. Il termine, utilizzato per la prima volta in senso tecnico nel XVII secolo in un volume sull’arte tipografica, è preso a prestito dal latino incunabula, che significa ‘fasce’ e, per estensione, ‘culla’: denominazione quindi molto indovinata per dei ‘libri neonati’, appartenenti all’infanzia della storia dell’editoria. Per ovvie ragioni di tradizione e di continuità, i manoscritti, soprattutto all’inizio, ne sono il modello quanto a scelte grafiche, struttura e formati; peraltro, le due tipologie convivono quasi alla pari per un lungo periodo, «tanto che all’apparenza gli stessi contemporanei tendevano a confondere i due prodotti, non usando distinguerli neppure nei documenti ufficiali (testamenti, elenchi di beni ecc.)» (Breve storia 2004, p. 101). È per questo Inc. III 5 motivo che gli incunaboli non sono per lo più dotati di frontespizio (esso inizierà saltuariamente ad apparire verso gli anni Ottanta del XV secolo) e possono presentare rubricature, parole abbreviate, marginalia e capilettera ornati (o, in alternativa, spazi lasciati in bianco dal tipografo per permetterne la successiva integrazione, facilitata da una piccola lettera guida). Si stima che esistano 30.000 edizioni note pubblicate nel XV secolo (per un totale di soli 450.000 incunaboli nel mondo), più del 40% delle quali di produzione italiana. Questo primato si deve a un gran numero di centri minori sparsi per la penisola ma, soprattutto, a quattro città: Venezia, divenuta in pochi anni la vera capitale degli stampatori europei (risultano stampati qui il 10% di tutti gli incunaboli noti), Roma, Firenze e Milano (ivi, pp. 108-109). La Biblioteca custodisce 187 incunaboli, dei quali la presente mostra offre una selezione che non solo documenta i quattro principali centri di produzione italiana e comprende uno stupendo incunabolo tedesco, il Liber chronicarum (cfr. scheda n. 58), ma espone anche un raro esemplare delle Epistolae del cavaliere gerosolomitano Laudivio Zacchia, letterato e uomo d’armi che si distinse a Cipro contro i Turchi, stampato a Treviso nel 1477 (Inc. V 2) e una bella edizione napoletana delle favole di Esopo in italiano e in latino (Aesopus moralisatus, 1485, Inc. III 5), ornata
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da numerose illustrazioni colorate a mano e da capilettera xilografici e manoscritti (raffrontabile con un altro pregevole Aesopus illustrato, stampato a Venezia nel 1491, Inc. I 35). Degna di nota è una scelta di volumi di ambito piemontese, fra i quali si segnalano il celeberrimo formulario di Rolandino Passaggeri a uso dei notai (Summa artis notariae, Inc. III 11) conosciuto come Summa Rolandina, stampato a Torino nel 1478 da Jean Fabre, l’editore borgognone al quale si attribuisce il merito di aver introdotto a Torino l’arte della stampa (suo il primo libro torinese noto, il Breviarium Romanum del 1474; Assini 2011), e un significativo esemplare, interamente rubricato a mano, delle Regulae grammaticales di Guarino Veronese, colto umanista che insegnò lungamente a Ferrara, edito a Pinerolo nel 1479 da Jacques Le Rouge (Inc. I 22). Bibliografia: Russo 1987; Breve storia 2004; Alfonso Assini in Il teatro 2011, n. 419.
Eliana A. Pollone
Inc. I 22
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58. Hartmann Schedel Liber chronicarum
Norimberga, Anton Koberger, 12.VII, 1493
In folio, cc. [27] + CCXCIX + [6], legatura tedesca in pelle marrone decorata a secco del XV-XVI sec., ex libris del re Carlo Alberto. Inc. IV 14 (già T 53.17); n. inv. 3183 D.C.
Il Liber chronicarum, «uno dei monumenti del libro a stampa» (Bini 2001, p. 57), «il libro più generosamente illustrato di tutto il Quattrocento» (Steinberg 1962, p. 126), è conosciuto anche come Cronache di Norimberga, dal luogo in cui vide la luce il 12 luglio 1493, dopo almeno sei anni di gestazione. Un’opera di tale importanza e ricchezza trovò nella città il terreno ideale per poter essere concepita e portata felicemente a termine: in quegli anni Norimberga – forte della propria condizione di libera città imperiale e di zona doganale franca – stava vivendo un periodo di grande vivacità culturale ed economica, occupava un ruolo chiave nell’industria libraria e offriva possibilità d’incontro e di reciproca collaborazione fra menti e fra professionalità di alto livello. Questo magnifico incunabolo è infatti il risultato di un felice lavoro di équipe fra l’intraprendente editore Anton Koberger, allora all’apice del successo, il colto mecenate Sebald Schreyer, i celebri xilografi Michael Wolgemut e Wilhelm Peydenwurff, nella cui bottega fu apprendista Albrecht Dürer (figlioccio dello stesso Koberger, da più parti se ne è ipotizzato l’intervento nel volume, in particolare per il sole e la luna alla c. LXXVIr), gli umanisti Konrad Celtis e Georg Alt, ai quali si addebitano la revisione e la traduzione dell’opera in tedesco (Weltchronik, 23 dicembre 1493), e soprattutto l’autore riconosciuto del testo, Hartmann Schedel (1440-1514). Quest’ultimo, che aveva compiuto a Lipsia e a Padova studi legali, medici e classici (fu uno dei primi tedeschi a studiare il greco antico), fu un colto bibliofilo e raccolse una preziosa biblioteca, dalla quale attinse buona parte dell’impressionante documentazione utile alla stesura del Liber. L’opera – dando contemporaneamente conto di narrazioni bibliche e di miti classici, di dati scientifici e di tradizioni e leggende – si presenta come un’enciclopedica storia del mondo divisa, in analogia con i sei giorni della creazione e sulla scorta di Eusebio di Cesarea e di Sant’Agostino, in sei età, seguite da quelle dell’Apocalisse e della fine del mondo. Dopo un prologo, che narra i primi sette giorni del creato («In principio creavit Deus celum et terram», c. Ir), le sei età sono così suddivise: la I giunge al Diluvio universale, la II alla nascita di Abramo, la III all’ascesa al trono di Davide, la IV termina con la presa di Babilonia, la V con l’annuncio della nascita di Cristo e la VI, la più lunga e articolata, giunge fino al 1492 (l’«anno mundi 6691») e include quattro carte lasciate in bianco affinché il possessore delle Cronache potesse man mano aggiornarle. Quello che, oggi come allora, più affascina del Liber è la strabiliante ricchezza delle illustrazioni, che accompagnano e compenetrano il testo: più di 1.800 xilografie di diverse dimensioni offrono al lettore immagini di divinità greche e di martiri cristiani, di creature fantastiche e di città, di papi e di sovrani, di genealogie e di molto altro. Ciò a fronte però di soli 645 legni originali, in quanto – come spesso avveniva all’epoca – una stessa immagine viene utilizzata per illustrare personaggi, luoghi o eventi anche molto distanti fra loro. Il riutilizzo è particolarmente evidente per le vedute cittadine: quelle disegnate appositamente, come la particolareggiata Norimberga (cc. XCIXv-Cr), sono un’eccezione (per l’Italia sono solo quattro, cioè Venezia, Genova, Firenze
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e Roma); così, per citare un caso eclatante, «la raffigurazione di Damasco viene utilizzata, con un semplice cambio di didascalia, anche per Napoli, Perugia, Verona, Siena, Mantova, Ferrara, la Macedonia, la Carnia e la Spagna; e così accade che una città completamente piatta come Ferrara sia dotata di un territorio retrostante collinare» (Bini 2001, p. 58). Bibliografia: Steinberg 1967; Bini 2001, pp. 11-63; Eliana A. Pollone in Terrae cognitae 2007, n. 5.
Eliana A. Pollone
cc. lxxvv - lxxvir
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59. Le legature della Biblioteca Reale di Torino
La ricchezza e la preziosità bibliografiche delle raccolte librarie della Biblioteca Reale si riflettono anche sulla varietà e rarità delle legature. Il campione di legature selezionate segue un percorso cronologico, che si sviluppa in un arco di quattro secoli, con un interesse particolare alle legature ottocentesche allestite a Torino in età carloalbertina. Un esempio di legatura coeva di un codice è offerta dal Varia 114, Poesie, opera autografa di Carlo Emanuele I (1562-1630). Si tratta di una legatura francese in marocchino nero, decorata con tre riquadri di filetto, fronde e monogramma con due C intrecciate, la C di Carlo Emanuele e di sua moglie Caterina d’Asburgo. L’opera Statuta Bassanensia (Vicenza, Enrico Ca’ Zeno, 1506; Storia d’Italia 185), una raccolta di Statuti di Bassano, presenta una legatura in pelle marrone, decorata a secco con riquadri di tre filetti, con ovale vuoto al centro, circondato da palmette. Un volume di piccolo formato, d’argomento agiografico, François Victon, Vie admirable du glorieux père et taumaturge S. François de Paule (Paris, Sebastien Cramoisy, 1623; Rari I 7), mostra una legatura semirigida, in pergamena, alle armi di Cristina di Francia, principessa di Piemonte, sposa di Vittorio Amedeo I. Il piatto presenta riquadro di filetti in oro, con le armi di Francia e di Piemonte circondate da fronde e lo specchio cosparso di fiordalisi. Il grandioso volume con le opere di San Massimo, vescovo di Torino (Opera, Roma, 1784; C 56.1), propone una legatura in marocchino rosso su assi in legno, alle armi di Pio VI sul piatto superiore e alle armi del re di Sardegna su quello inferiore. Le legature che seguono, tutte torinesi, sono un omaggio al regno di Carlo Alberto, fondatore della Biblioteca Reale di Torino: Il lebbroso della città di Aosta di Xavier de Maistre (I 11.23), stampato dall’editore Pomba nel 1832, Varia 114
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è in vitello color testa di moro, con riquadro dorato e piccole rose agli incroci; agli angoli presenta palmette, riccioli e punti e, al centro, una complessa composizione. Una legatura in pelle rossa ci è offerta dall’opera di Amedeo Peyron, Lexicon linguae copticae, Torino, Regio Typographeo, 1835 (G.33.3), con riquadro dorato, cornice con decoro floreale, corolle agli incroci e nodo agli angoli. Al centro è collocata l’arma sabauda. L’elegante legatura in vitello blu appartiene invece a un libro dedicato all’Ordine dell’Annunziata, Statuts et ordonnances du très-noble Ordre de l’Annunciade, Torino, Imprimerie Royale, 1840 (A.52.17). Il piatto presenta una doppia cornice, con fronde e palmette dorate e, al centro, il monogramma di re Carlo Alberto e arma sabauda. Legatura coeva, il cui ricco decoro fa pensare a una copia in dono al sovrano. Bibliografia: Barberi 1969; Mostre di legature 1975; Francesco Malaguzzi, in Il teatro 2011, pp. 128-134, 410-412; Malaguzzi 2013, pp. 35-50.
Antonietta De Felice
Rari I 7
I 11.23
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60. Manifattura tedesca Acquamanile
XIII secolo, ultimo quarto
Lega di rame, mm 335x315; s.n.i.
Questo pregevole gruppo equestre in bronzo, realizzato con la tecnica della fusione a cera persa, può a ragione entrare nel novero degli oggetti d’arte plastica applicata, che nel Medioevo videro un fiorire imponente; gli acquamanili in particolare, pur essendo oggi poco diffusi, dal momento che se ne è conservato un numero esiguo rispetto ad altri manufatti coevi di oreficeria o plastica minore, forniscono una finestra di grande interesse sulla produzione bronzea medievale, della quale rappresentano un aspetto singolare. Nascono come oggetti d’uso, dal momento che erano fatti per contenere acqua: nelle fonti medievali più antiche il termine è sinonimo di ‘corredo da toeletta’, costituito quindi da una brocca e un catino per raccogliere l’acqua, mentre già a patire dal XII secolo il termine ‘acquamanile’ comincia ad imporsi come sinonimo di recipiente utilizzato per contenere e versare liquidi in senso lato (Mende – Cruikshank Dodd 1991). I più importanti centri di produzione a partire dal XIII secolo sono concentrati nelle regioni della Germania settentrionale e della Bassa Sassonia (Giacobello Bernard 1990, p. 15). Questi oggetti potevano essere utilizzati sia per esigenze domestiche quotidiane, sia per le abluzioni rituali, infatti spesso ricorrevano nel corredo dei tesori delle chiese: in questo caso erano particolarmente curati e raffinati, e potevano assumere varie fogge, come ad esempio quelle di animali (in particolare leoni, cani o cervi), creature fantastiche (come grifoni, unicorni, centauri), nonché figure umane, categoria per la quale sono frequenti i tipi del cacciatore e del cavaliere a cavallo, come nel caso dell’acquamanile della Biblioteca Reale. Il recente restauro del bronzetto ne ha permesso una fruizione migliore, dal momento che è stata reintegrata la zampa posteriore destra perduta, grazie ad un sostegno mobile trasparente che consente quindi di esporre nella posizione corretta l’oggetto e di coglierne dunque al meglio anche la destinazione d’uso: dall’apertura posta sulla testa del cavaliere il corpo cavo del bronzetto veniva riempito d’acqua, che poi – all’occorrenza – fuoriusciva dal foro posto al centro della testa del cavallo. I dettagli dell’acconciatura del cavaliere ci forniscono indicazioni utili ai fini della datazione del manufatto, dal momento che la moda di arrotolare i capelli sulla nuca – poco al di sotto delle orecchie – grazie ad un ferro caldo, cominciò ad affermarsi nell’ultimo quarto del XII secolo, mentre prima d’allora morbidi riccioli ricadevano sulle spalle dei soggetti raffigurati (Bellosi 1997). Tra gli acquamanili più significativi conservati in Italia, vanno ricordati, oltre all’esemplare torinese, quello più tardo conservato al Museo del Bargello di Firenze, e l’interessante esemplare del Museo Civico Medievale di Bologna, datato al terzo quarto del XIII secolo, che fu donato al Comune di Bologna da Pelagio Palagi (L’acquamanile 2013), architetto di corte di Carlo Alberto, a cui si deve il progetto e la sistemazione della Biblioteca Reale. Allo stato attuale degli studi non è possibile appurare se questa circostanza rappresenti soltanto una coincidenza o se anche l’acquamanile torinese possa essere appartenuto in passato al celebre architetto. Bibliografia: Giovanna Giacobello Bernard, La Biblioteca Reale e i suoi fondi, in Biblioteca Reale 1990, pp. 13-29; Mende – Cruikshank Dodd 1991; Bellosi 1997; L’acquamanile 2013.
Maria Luisa Ricci
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61.a. Alessandro Manzoni Dell’unità della lingua e dei mezzi di diffonderla
1868
Ms. cart., cc. 20, mm 323x220. Varia 30; s.n.i.
61.b. Manifattura fiorentina Cofanetto
1868 Ebano, pietre dure e doratura, mm 120x350x450. N. inv. 6981 S.M.
Nel corso della sua fulgente parabola artistica, Alessandro Manzoni ha sempre tenuto in grande considerazione la questione dell’unità della lingua italiana, vivendola come un problema stringente e cimentandosi nella ricerca della sua declinazione più valida, dal punto di vista della standardizzazione della stessa a partire dai dialetti regionali. La sua ricerca linguistica e il suo impegno a favore di una cristallizzazione della lingua italiana prosegue con successo anche durante gli anni più avanzati, come dimostra questo manoscritto autografo risalente al 1868. Si tratta di un fascicoletto cartaceo composto da 10 bifogli vergati dal Manzoni su di una sola colonna, a cui si aggiungono alcuni fogli di guardia bianchi nonché una dedica iniziale alla regina Margherita, non autografa ma ascrivibile ad Emilio Broglio. Il manoscritto infatti fu
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donato all’allora principessa di Piemonte in occasione delle sue nozze con il cugino Umberto – celebrate in Torino nell’aprile del 1868 – dal Broglio in qualità di Ministro della Pubblica Istruzione; dovendo porgere un così prezioso omaggio alla futura sovrana, dopo aver fatto rilegare il fascicoletto con un’elegante legatura in velluto blu, adornata da un ovale in vetro contenente il ritratto fotografico del Manzoni (Malaguzzi 2011), il Broglio lo fece racchiudere in un prezioso scrigno ligneo appositamente realizzato dall’Opificio delle Pietre Dure di Firenze. Il pregevole cofanetto – realizzato con una lavorazione in ebano, commesso in pietre dure, fusione a cera persa e doratura – presenta «rimandi alla storia dell’Unità nazionale, simboleggiata da stemmi racchiusi in ovali ai quattro angoli del coperchio» (Giacobello Bernard 2011, p. 32) ed è stato, di recente, oggetto di un accurato restauro. Il fascicolo contiene il testo della relazione – comunemente citata come Relazione manzoniana del 1868 – che viene pubblicata nella rivista «Nuova Antologia» nel marzo del 1868, in una congiuntura storica e culturale non semplice per l’Italia che si andava delineando all’indomani dell’Unità, ancora priva della sua capitale naturale, Roma, e di una comune identità storica, culturale e linguistica. In particolare su quest’ultimo aspetto si concentra l’attenzione del Manzoni, per il quale «dare una lingua a tutti gli italiani, diffonderla in ogni ordine di popolo, superare la barriera dei dialetti per fondare anche linguisticamente la Nazione» (Marazzini – Maconi 2011, p. 16) era evidentemente un’istanza avvertita con urgenza e profondo senso di responsabilità. Secondo il Manzoni, l’unica soluzione naturale possibile era individuabile nell’utilizzo di un dialetto come idioma comune, e le sue ricerche, durate un’intera vita, l’avevano portato a riconoscere nel dialetto fiorentino l’unica possibilità percorribile per unificare l’Italia anche dal punto di vista linguistico. Bibliografia: Dagli splendori 2011; Dell’unità della lingua 2011 (in particolare: Giovanna Giacobello Bernard, pp. 31-35; Francesco Malaguzzi, pp. 29-30; Claudio Marazzini – Lodovica Maconi, pp. 13-27).
Maria Luisa Ricci
b
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62. Giovan Battista Marino Autografo per “La Galeria”
1614-1615 circa
Ms. cart., cc. 20, mm 285x198, ex libris del re Vittorio Emanuele II. Varia 288/15; n. inv. 14547 S.M.
Il manoscritto del Marino (1569-1625), sicuramente autografo (Foglio 1979, p. 560), presenta una grafia chiara, con poche correzioni e rare macchie d’inchiostro, e occupa le ultime venti carte di una miscellanea manoscritta rilegata, composta da fogli di dimensioni e di autori diversi (oltre al Marino, anche Gabriello Chiabrera, Lorenzo Cattaneo e il poeta rivale Gasparo Murtola). L’autografo, che secondo alcuni documenta «il punto di partenza» della Galeria (Pieri 1979, p. XXXVIII), di certo testimonia una tappa importante della genesi dell’opera: reca infatti 82 componimenti in vario metro che in essa confluiranno con variazioni spesso non lievi, a cominciare dall’ordine di presentazione; 35 testi sono ripresi dalle Rime (Venezia, 1602) e offrono anch’essi lezioni non ancora definitive. La datazione del manoscritto è di certo anteriore alla prima stampa (Venezia, Ciotti, 1619, edizione oggi introvabile e che non riscosse l’apprezzamento dell’autore): ciò non solo per il numero ancora molto ridotto di componimenti (54 Pitture e 28 Scolture, contro – rispettivamente – 542 e 82 nell’edizione a stampa), ma soprattutto per la natura delle varianti, che, in questa direzione, vanno verso un chiaro «intento di migliorare l’opera, eliminando le ripetizioni e le imperfezioni formali, in vista di una maggiore precisione e correttezza testuale» (Foglio 1979, p. 561). E, altrettanto sicuramente, è posteriore all’11 gennaio 1609, data a partire dalla quale l’autore – che in calce si firma «il Cav.r Marino» – può fregiarsi del titolo di Cavaliere dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro, conferitogli a Torino dal duca Carlo Emanuele I. Si può però ipotizzare un arco cronologico ancora più preciso e ristretto: infatti è soltanto nel 1614, con la prefazione alla terza parte della Lira, che viene annunciata la suddivisione fra Pitture e Sculture, evidente nel manoscritto e non rilevabile in precedenza (il 28 ottobre 1613, in una lettera a Guido Coccapani, il Marino parla ancora della Galeria come di «un libro» che «non contiene altro che pitture»); inoltre si può pensare al 1615 come termine ante quem in base a indizi extratestuali (Pollone 2011), incentrati attorno al fatto che l’aprile di quell’anno vide la partenza dell’autore per la Francia e il suo definitivo allontanamento dalla corte torinese. Come noto, La Galeria – suddivisa fra Pitture e Sculture, con ulteriori classificazioni interne (Historiae, Ritratti spartiti fra Uomini e Donne, a loro volta raggruppati per tipologie, Statue, ecc.) – vuole essere un museo d’arte tradotto in parole, un insieme di componimenti in vario metro volti a descrivere altrettante opere. I testi s’ispirano, per lo più, a piccoli disegni su carta oggi perduti, appositamente sollecitati dal Marino ad artisti più o meno famosi del suo tempo, come nel caso della Santa Caterina del pittore Giovanni Contarini (1549-1606): «Questa in ricca tabella / Fra rote, e ceppi imago / De la real di Dio sposa, et ancella, / Opra è de l’Arte, et ella / Fa che viva, e che spiri. / Chiedi tu, che la miri, / Ond’è, che non favella?» (c. 5r; la lezione non è ancora quella che passerà alle stampe). Bibliografia: Foglio 1979; Pieri 1979; Colombo 1993; Eliana A. Pollone in Viaggio tra i capolavori 2011, pp. 90-91.
Eliana A. Pollone
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cc. 19v - 20r
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63. Torquato Tasso Del Giudicio sovra la sua Gierusalemme da lui medesimo riformata
1593-1595
Ms. cart., cc. 150, mm 252x190. Varia 520; n. inv. 26998 S.M.
Le vicende dell’autografo tassiano nei secoli, minuziosamente ricostruite da Maria Luisa Doglio, risultano piuttosto intriganti. Il manoscritto si ritiene sia stato composto (Gigante 2000, p. XII) fra il marzo 1593 – quando la Conquistata si può dire «virtualmente conclusa» – e il 25 aprile 1595 – data della morte del Tasso, all’età di 51 anni – e, secondo le testimonianze dei contemporanei, venne affidato dall’Autore al cardinale Cinzio Aldobrandini, nipote di Clemente VIII, affinché provvedesse a farlo conoscere. Questo però non accadde fino al 1666, quando il Giudicio fu finalmente stampato presso l’editore romano Dragondelli a cura di Marc’Antonio Foppa, che fece anche trarre una copia dell’autografo (oggi alla Biblioteca Vaticana), a quel tempo conservato a Roma presso la Biblioteca Borghese, dove rimase fino al tardo Settecento, per poi sparire per circa un secolo: alla fine dell’Ottocento venne rintracciato in Svizzera da Etienne Charavay e venduto all’asta al principe Henry de Cardé, che successivamente lo donò a Vittorio Emanuele III. Nell’aprile del 1901 l’autografo giunse così in Biblioteca, dove però rimase, dimenticato e privo di catalogazione, in una cassaforte per ottant’anni, fino al giorno del «fortunato rinvenimento» a opera di Maria Luisa Doglio (Doglio 1981 e 1999). L’autografo «dell’ultima opera del Tasso, incompiuta e interrotta dalla morte», risulta particolarmente prezioso non solo perché ha finalmente permesso l’allestimento di un’edizione critica (fino al lavoro di Claudio Gigante del 2000, il testo di riferimento era quello, piuttosto corrotto, della princeps curata dal Foppa), ma anche in quanto «tavola di raffronto degli usi grafici del Tasso negli ultimi due anni di vita, soprattutto in relazione alle consuetudini della scrittura epistolare» (Doglio 1990, p. 136). Il Giudicio è una strenua difesa della superiorità della Gerusalemme Conquistata sulla Liberata: la prima – come noto – nacque infatti da un lungo e tormentato processo di riscrittura della seconda, operazione che «comportò il mutamento di episodi, la soppressione di alcune parti, il cambio dei nomi di alcuni personaggi: ma quello che sembra più rilevante non è tanto la individuazione delle ottave aggiunte o eliminate, quanto le “mutilazioni” destinate a rendere il disegno meno spettacolare, più vicino alla nozione unitaria di un’epopea classicocristiana, austera e solenne» (Fedi 1997, p. 288). Questa «defensio non petita» (Gigante 2000, p. XV) ha però un respiro più vasto di una mera apologia della Conquistata in sé: si tratta di un vero e proprio manifesto poetico e narratologico, una dichiarazione di metodo suddivisa in tre libri, dei quali solo i primi due vennero realizzati («De l’istoria e de l’allegoria» e «De la favola», nel quale si affronta anche il tema dell’unità d’azione). Bibliografia: Doglio 1981; Maria Luisa Doglio in Biblioteca Reale 1990, pp. 136-137; Fedi 1997; Maria Luisa Doglio, L’officina dell’immaginario. Ideologia celebrativa dal Tasso al Tesauro, in Le Magnificenze 1999, pp. 34-43 e scheda n. XVI; Claudio Gigante, Introduzione, in Tasso 2000, pp. XI-XLIX.
Eliana A. Pollone
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c 1r
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64.a. Livres de blasonnerie
XVI-XVII secolo
Ms. cart., 13 voll., ex libris del re Carlo Alberto. Varia 153/1-13; n. inv. 14451 D.C.
64.b. Insigna familiarum (noto come Codice Archinto)
1560-1621 circa
Ms. cart., 2 voll., ex libris del re Vittorio Emanuele II. St. It. 138/1-2; n. inv. 14401 S.M.
La Biblioteca custodisce un importante patrimonio di opere araldiche a stampa e manoscritte. Queste ultime – esemplari spesso unici, che vanno dal XVI al XIX secolo – sono suddivise principalmente fra i fondi Varia, Storia Patria e Storia Italiana. Gli stemmi nascono nella prima metà del XII secolo, quali «segni di identità nuovi» per «una società in corso di riorganizzazione», utili a «collocare gli individui in gruppi e questi gruppi nell’insieme del sistema sociale. Per questo motivo, gli stemmi – che in origine erano emblemi individuali – operano un rapido innesto sulla parentela» (Pastoureau, p. 71). Essi vengono creati secondo regole precise, combinando due elementi principali: un ridotto numero di colori e le figure, dal pressoché illimitato repertorio suddiviso in tipologie – naturali (come
Vol. 12, cc. 12v - 13r
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animali e piante), artificiali (quali torri e armi), fantastiche (draghi e grifoni, fra le altre) e geometriche. A fianco degli stemmi autentici, è frequente trovare ‘stemmi immaginari’, fantasiose creazioni attribuite a luoghi o personaggi biblici, mitologici e leggendari, oppure appartenenti a epoche o a contesti nei quali gli stemmi non esistevano. Ciò è evidente nei 13 volumi del Varia 153 (Livres de Blasonnerie): qui, accanto agli stemmi reali, provenienti da quasi tutta Europa, numerosi sono quelli d’invenzione, come lo stemma di Ercole (ispirato a Esiodo) o di Giasone (con il vello d’oro dell’ariete e i guerrieri, nati dai denti di drago, che l’eroe greco dovette sconfiggere per conquistarlo), di Noé (con l’arcobaleno dell’alleanza divina) o dei singoli cavalieri della Tavola Rotonda, di Scipione l’Africano o dell’Egitto (entrambi tratti da monete e medaglie romane). La raccolta di blasoni è ordinata per soggetti (ma le titolazioni coeve non sempre sono esaustive) e fu fortemente voluta dal duca Carlo Emanuele I, del quale restano alcuni schizzi preparatori e frequenti postille autografe. Come si evince dalle iconografie e dai commenti a corredo, numerose sono le fonti alla base dell’enciclopedica opera, attentamente ricostruite da Sergio Mamino e in gran parte attinte dalla stessa biblioteca ducale (Mamino 1998). Le fonti del Codice Archinto – così detto dal nome del possessore originario, il conte Ottavio Archinto, del quale sono impressi sulle legature il nome e lo scudo – sono invece da ricercarsi in un manoscritto trivulziano del 1450-1466 circa (n. 1390) e in uno tedesco della prima metà del Cinquecento (Gentile 1998). Gli stemmi di circa 500 famiglie, per lo più lombarde – in ordine alfabetico, sei per pagina – sono divisi in due volumi allestiti da mani e in tempi diversi: il primo, di migliore fattura, si apre con lo stemma del papa Pio IV (1559-1566) e la data 1560, il secondo con quello di Pio V (1605-1621) e la data, evidentemente errata, 1555. Sono da segnalare, nel secondo volume, trentadue varianti e ‘brisure’ (cioè varianti introdotte per distinguere fra loro i rami e le singole persone di una stessa famiglia) dello stemma dei Visconti e Sforza, preceduti da una maestosa figura con scudo visconteo. Bibliografia: Promis 1880; Maria Rosaria Manunta in Biblioteca Reale 1990, p. 140-141; Clara Vitulo in Biblioteca Reale 1990, p. 138-139; Giovanna Giacobello Bernard in Leonardo e le meraviglie 1998, n. 1.4; Blu rosso e oro 1998 (in particolare: Simonetta Castronovo, n. 314; Luisa Gentile, n. 38 bis; Sergio Mamino, pp. 15-32; Michel Pastoureau, pp. 71-72); Eliana A. Pollone in L’Armeria Reale 2008, n. II.10.
Eliana A. Pollone
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Vol. 2, c. 94r
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65. Gilles Robert de Vagoundy – Charles François Delamarche Coppia di globi Parigi, 1824
Il Salone di Lettura della Biblioteca Reale ospita stabilmente un globo astrale e un globo terrestre, acquerellati a mano, che ben si integrano nell’ambiente progettato da Pelagio Palagi. Dalle relazioni di restauro dello Studio Paolo Crisostomi di Roma, conservate nell’Archivio della Biblioteca, si scopre che si tratta di due «sfere in cartapesta, con asse in legno, rifinite superficialmente con intonaco, su cui sono stati incollati gli spicchi in carta stampati con matrici di rame. La base lignea semovente, in stile impero, presenta rifiniture metalliche e una bussola applicata sulla linea d’orizzonte». Il restauro ha permesso una migliore conoscenza dei due globi, li ha riportati alla loro piena leggibilità e ne ha ripristinato la stabilità strutturale. All’epoca della mostra Terrae Cognitae (cfr. scheda n. 54), essi versavano in cattive condizioni conservative: per questa ragione divennero i protagonisti della campagna Adotta un globo, attraverso la quale i visitatori della mostra erano invitati a contribuire con un’offerta al loro restauro. L’iniziativa riscosse un discreto successo e, con l’aiuto della Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti di Torino e di un’ulteriore sponsorizzazione privata, nel 2009 venne restaurato il globo astrale, il più danneggiato dei due. Nel 2012, grazie al generoso supporto finanziario della Consulta, la Biblioteca ha potuto provvedere al restauro conservativo anche del globo terrestre. I globi – concepiti per essere una coppia, come dimostra l’identica base lignea – sono entrambi tradizionalmente considerati frutto del lavoro di Gilles Robert de Vaugondy (1688-1766), geografo di Luigi XV e cartografo fra i maggiori del XVIII secolo (al suo attivo, da solo o con figlio Didier, risultano numerosi globi di diverso formato e rinomate opere cartografiche, fra le quali spicca l’Atlas Universel del 1757), e della revisione di Charles François Delamarche (1740-1817), che rilevò da Didier (1723-1784) il copyright e l’attività dei Robert de Vaugondy. In realtà, Globo astrale sul globo astrale non compaiono indicazioni
leonardo e i tesori del re
utili per stabilirne l’autore: l’attribuzione suddetta è per analogia con l’altro membro della coppia, per il quale è invece certa; identico discorso vale per data e luogo di allestimento. Sul globo terrestre, in un cartiglio con decori esotici posto sotto le isole della Polinesia francese, si legge infatti: «Globe Terrestre | Dressé par ordre | du Roi, | par le M. Robert de Vaugondy | Nouvelle édition corrigée et augmentée | Par F.s Delamarche Géographe». E un secondo cartiglio, nell’Oceano Indiano, esplicita un ulteriore tassello: «À Paris | chez F.x Delamarche Géographe | Rue du Jardinet, N.° 13, | Quartier S.t André des Arcs. | 1824», documentando che questo globo – riproposta di un’opera già esistente – fu voluto e allestito da Félix Delamarche, che aveva ereditato l’attività paterna nel 1817. Osservando con attenzione, si nota che il globo terrestre mostra le rotte dei tre grandi viaggi del navigatore James Cook, rispettivamente in giallo (1768-1771), in rosso (1772-1775) e in verde (17761780); ragioni cronologiche portano a individuarle quali aggiunte di François Delamarche. Sul globo astrale, la visualizzazione delle costellazioni – come di consuetudine – è aiutata da fantasiosi disegni e accompagnata dai relativi nomi. Bibliografia: Terrae cognitae 2007.
Eliana A. Pollone
Globo terrestre
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66. Benedetto Alfieri Il nuovo Regio Teatro di Torino apertosi nell’anno 1740. Disegno del conte Benedetto Alfieri gentiluomo di camera, e primo architetto di S.M.
Torino, Stamperia reale, 1761
In folio, cc. di tavv. 11, ex libris del re Carlo Alberto. Y 39.1; n. inv. 208 D.C.
Le origini del Teatro Regio risalgono agli inizi del Settecento, quando Vittorio Amedeo II affidò all’architetto Filippo Juvarra la progettazione di un nuovo teatro, da collocarsi in piazza Castello. Alla morte di Juvarra il nuovo sovrano, Carlo Emanuele III, desideroso di creare un teatro di grande rilievo per la città, affidò il progetto all’architetto di corte Benedetto Alfieri. Il Teatro Regio di Torino, edificato in soli due anni, venne inaugurato il 26 dicembre del 1740 e divenne subito un modello per gli altri teatri europei, non solo per la qualità delle opere messe in scena, ma anche per la maestosità della costruzione, che poteva contenere circa 2.500 spettatori tra platea e cinque ordini di palchetti, per le splendide decorazioni della sala, per i grandiosi scenari, per le attrezzature tecniche. Il Teatro Regio percorse indenne le importanti vicende storiche torinesi fino al 1936, quando un devastante incendio distrusse il simbolo delle manifestazioni teatrali cittadine. Solo nel 1965, grazie all’opera dell’architetto Carlo Mollino, il Teatro venne ricostruito e, nel 1973, inaugurato. Il volume, composto da 11 tavole eseguite da vari incisori su disegni di Benedetto Alfieri, ritrae il Teatro Regio nella sua struttura: la pianta del pian terreno, la platea, le piante del primo, secondo, terzo, quarto e quinto ordine con i palchi, la pianta della piccionaia. La tavola esposta, Spaccato prospettico della sala, dell’atrio con veduta del proscenio, e dietro il medesimo la tela abbassata, (tav. XI), incisa da Giovanni Antonio Belmond, mostra l’atrio con il colonnato, parte della platea, la fossa per l’orchestra, i cinque ordini di logge, la volta. Al fondo, ben evidente, il sipario, con la raffigurazione del Trionfo di Bacco e Arianna, dipinto dal pittore toscano Sebastiano Galeotti per l’inaugurazione del teatro (Carassi 1981). Sotto il cartiglio, sostenuto da un putto e da un’aquila con la testa di un’arpia tra gli artigli, è rappresentata la facciata dell’Accademia Reale, progettata dall’architetto ducale Amedeo di Castellamonte nel 1673 e destinata ad accogliere l’Accademia militare, centro di studi e formazione per futuri ufficiali. Nell’ampio cortile sono visibili gli allievi intenti al gioco della pelota (Comoli 1999). Oggi del palazzo dell’Accademia militare, bombardato durante la Seconda Guerra Mondiale, restano solo pochi frammenti. Bibliografia: Storia del Teatro Regio 1976-1988; Marco Carassi in I rami incisi 1981, n. 128; Vera Comoli in Le Magnificenze 1999, n. 47.
Antonietta De Felice
leonardo e i tesori del re
Tav. x1
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67. Bernardo Antonio Vittone L’Architetto civile
1751-1770
Ms. cart, cc. 154, mm 440x270, ex libris del re Vittorio Emanuele II. Varia 203; n. inv. 14504 S.M.
Questo pregevole manoscritto raccoglie al suo interno 135 disegni autografi del celebre architetto torinese Bernardo Vittone, preceduti da una carta incisa per mano di Paul Emile Babel; i disegni – che riportano studi di elementi architettonici nonché progetti di interi edifici – in alcuni casi appaiono corredati di una didascalia scritta a matita, il cui tratto è oggi quasi del tutto illeggibile. I 135 disegni sono studi preparatori in vista della pubblicazione a stampa dei suoi trattati, ed in particolare delle Istruzioni diverse concernenti l’Officio dell’Architetto Civile, ed inservienti d’elucidazione, ed aumento alle Istruzioni elementari d’Architettura civile, divisa in libri due, e dedicate alla gran Vergine e Madre di Dio Maria Santissima da Bernardo Antonio Vittone Architetto Accademico di San Luca in Roma edito a Lugano nel 1766. La Biblioteca Reale possiede sia la princeps (Rari III 38/1-2), che il manoscritto qui esposto, con i disegni preparatori utilizzati per le incisioni a corredo del testo. Bernardo Vittone è senza dubbio uno dei più originali architetti attivi sulla scena piemontese nel corso del XVIII secolo. Allievo di Filippo Juvarra, fece tesoro dell’esperienza romana che lo vide attivo all’interno dell’Accademia di San Luca tra il 1731 e il 1733, esperienza dalla quale trasse numerosi stimoli derivatigli dallo studio dell’architettura barocca capitolina: in particolare il Vittone fu attratto dall’opera di Francesco Borromini e dal suo «segno antiretorico» (Griseri 1999). Al ritorno a Torino, su di lui cadde da scelta dei padri teatini per la cura dell’edizione postuma del Trattato di Architettura Civile di Guarino Guarini, del 1737. All’architettura civile il Vittone restò sempre legato, nonostante le sue ambizioni di poter assumere l’incarico di architetto regio – incarico per il quale il re Carlo Emanuele III gli preferì Benedetto Alfieri – e mise il suo genio e le sue competenze nella progettazione di edifici pubblici del Regno, tra i quali ricordiamo l’Ospedale di Carità di Casale Monferrato del 1737-1738, il Collegio dei Catecumeni in Pinerolo risalente al 1740, mentre a Torino fu coinvolto nelle commissioni del Collegio delle Province nonché del Palazzo della Regia Università. Bibliografia: Nino Carboneri in Mostra del Barocco 1963, p. 64; Portoghesi 1966; Cavallari Murat 1974; Andreina Griseri in Le Magnificenze 1999, n. XIV.
Maria Luisa Ricci
leonardo e i tesori del re
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68. Amedeo di Castellamonte Venaria Reale palazzo di piacere e di caccia, ideato dall’Altezza Reale di Carlo Emanuel II duca di Savoia, re di Cipro & c. Disegnato, e descritto dal conte Amedeo di Castellamonte
Torino, Barolomeo Zapatta, 1674
99 pp., 34 cc. di tav., mm 320x218. Y 36.14; n. inv. 2756 D.C.
Voluta da Carlo Emanuele II, la Reggia di Venaria fu realizzata a partire dal 1659 dall’architetto di corte Amedeo di Castellamonte, quale moderna residenza venatoria. Era desiderio del Duca edificare un complesso che conferisse prestigio politico a sé e alla consorte, la duchessa Maria Giovanna Battista di Savoia-Nemours, e che fosse così grandioso da contendere alle altre corti europee il primato in quanto a maestosità e stile. Alla fine del Seicento la residenza venne rimaneggiata e ingrandita da Michelangelo Garone. Nel Settecento, prima Filippo Juvarra, poi Benedetto Alfieri e, infine, Giuseppe Battista Piacenza ampliarono ancora il complesso che raggiunse dimensioni eccezionali, tra Reggia, Cappella di Sant’Uberto, nuovi appartamenti, scuderie, scaloni, giardini, in grado di poter ospitare l’intera corte con tutto il suo entourage. L’occupazione napoleonica comportò per Venaria un periodo di incuria e spoliazione, privandola di ogni arredo. Durante la Restaurazione l’edificio fu adibito a caserma militare. La prima metà del Novecento segnò il momento di maggior degrado per la Venaria, che terminerà solo in occasione del I Centenario dell’Unità d’Italia, nel 1961, quando presero inizio i lavori di restauro di una parte della Reggia, fino a giungere oggi al progetto di restauro e recupero di tutto il complesso, ancora in fase di realizzazione. L’opera di Castellamonte, in cui l’autore descrive la Venaria a un immaginario e famoso interlocutore, Lorenzo Bernini, costituisce un prezioso strumento di informazione sull’intero complesso della residenza. Le più di sessanta incisioni che compongono e arricchiscono il libro descrivono nei dettagli il palazzo e il borgo della Venaria con i giardini, le sculture, i tempietti, le fontane. Le immagini contenute nella prima parte dell’opera furono incise da Georges Tasnière e disegnate da Francesco Baroncelli, la seconda parte include le tavole disegnate da Giovanni Battista Brambilla su dipinti di Jan Miel, Charles Dauphin e dei fratelli Dufour. L’incisione esposta, di Georges Tasnière su disegno di Giovanni Francesco Baroncelli, raffigura La piazza della villa della Venaria Reale, così come si presentava nella seconda metà del Seicento. Progettata da Amedeo di Castellamonte, la piazza, che interrompe il lungo rettilineo prima della spettacolare apertura sulla Reggia, è dedicata all’Annunciazione di Maria, rappresentata dalle due statue poste sulle colonne al centro dei semicerchi che la compongono e che rappresentano l’Angelo annunciante e la Vergine. Bibliografia: Maria Grazia Vinardi in I rami incisi 1981, n. 194; Giovanna Giacobello Bernard in Biblioteca Reale 1990, pp. 168-169; Vera Comoli in Le Magnificenze 1999, pp. 103-106; La Reggia di Venaria 2007 (in particolare Paolo Cornaglia, pp. 125-126; Ilaria Gallinaro, n. 7.2; Mauro Volpiano, n. 7.1).
Antonietta De Felice
leonardo e i tesori del re
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69. Giovanni Criegher – Giovanni Caracha Pianta di Torino
1577
Incisione in legno, mm 407x515. Inc. III 16 (già O IV 61); n. inv. 14420 D.C.
La pianta prospettica della Città di Torino e della sua Cittadella documenta lo sviluppo urbano all’epoca di Emanuele Filiberto ed è corredata, lungo il margine destro, da una legenda – sormontata da un distico – composta da 39 richiami, utili all’individuazione dei principali edifici religiosi (le 17 lettere maiuscole) e dei più importanti punti d’interesse civile (le 22 lettere minuscole). Fra i primi si trovano, fra gli altri, «S. Giovanni, il Duomo», «S. Francesco» (la Chiesa di San Francesco d’Assisi, completamente rifatta a partire dal 1608, dagli inizi del XIII secolo sede della prima comunità francescana torinese), «Nostra Donna» (la Consolata) e l’unica chiesa medievale in stile gotico oggi rimasta a Torino, «S. Dominico»; curiosamente (sebbene se ne possa comprendere la ragione, come si leggerà a breve), le ultime cinque lettere della legenda non trovano riscontro in pianta. Le lettere minuscole individuano luoghi civili fra loro molto diversi: la Cittadella (a), di recente edificazione (i lavori iniziarono nel 1564), con la sua porta d’accesso (b) e il suo pozzo (c), le principali porte della Città (Susina, Marmorea e «del Palazzo»), il Po e la Dora, due piazze e una strada nevralgiche (Piazza Castello, «Piazza de Turino» e «La strada di Pò»), «Li Molini» (p), «Il Bel Vedere» (i), «Il Parco» (q) e strutture di varia importanza, come l’acquedotto (x), la Torre Comunale (l) e «La grande Stamparia» (o). Sulla città, verso le montagne, vigilano tre stemmi: a sinistra quello emblematico del Piemonte, con la croce sabauda lambellata, a destra il toro della città di Torino e, fra i due, uno stemma sabaudo coronato, accompagnato da un nastro con l’indicazione «Augusta Taurinorum». Sulla sinistra, sotto la sporgenza della Cittadella, si trova la dedica al figlio quindicenne di Emanuele Filiberto e di Margherita di Valois, il futuro duca Carlo Emanuele I. Benché la pianta non risulti firmata né datata, l’epoca (1577) e la paternità (riconducibile all’incisore Giovanni Criegher, su disegno del Caracha) sono certe: l’incisione, che illustrava il volume di Filiberto Pingone Augusta Taurinorum, edito a Torino nel 1577 (Peyrot 1965), riutilizza lo stesso legno della tiratura originale, datato e firmato entro il cartiglio che conterrà poi, nella stampa del 1577, la dedica a Carlo Emanuele («Ioan. Caracha Inventor. | Ioan. Cri. Inc.1572»). Non è questa l’unica variante fra le due versioni: in quella originale, priva di dedica e di distico, la legenda si trova all’interno del cartiglio, sopra la soscrizione dell’editore, ed è composta da soli 32 richiami. Mancano infatti le ultime cinque lettere maiuscole (dalla N alla R) con i nomi delle relative chiese, fatto che spiega l’incongruenza segnalata a questo proposito per la versione del 1577 (cfr. supra). Piace segnalare che la Biblioteca custodisce un esemplare anche della rarissima tiratura del 1572 (Inc. III 15, non esposto in mostra per ragioni allestitive), che «costituisce la più antica raffigurazione a stampa finora conosciuta della città da pochi anni divenuta la capitale del ducato di Savoia», nonché «il prototipo di tutte le piante di Torino per circa un secolo» (Peyrot 1990). Bibliografia: Peyrot 1965, nn. 9, 10; Ada Peyrot in Biblioteca Reale 1990, pp. 130-131.
Eliana A. Pollone
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Inc. iii 15
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70. La Biblioteca Reale e i suoi archivi
I fondi archivistici, per quantità e qualità, rappresentano una parte notevole del patrimonio della Biblioteca. La loro valorizzazione ha avuto alterne fortune, nonostante il sicuro interesse a studiare e possibilmente a pubblicare documenti importantissimi e per lo più inediti. Il censimento dei fondi d’archivio curato a suo tempo, su richiesta del Ministero, dalla collega Lidia De Blasi – dal quale sono tratte la maggior parte delle informazioni utilizzate in questa scheda – rimane la traccia fondamentale per conoscerli e studiarli, ma sarebbe necessario organizzare una sistematica operazione di riordino archivistico. Gli archivi familiari sono una sezione particolarmente interessante per la loro valenza storicoterritoriale: l’Archivio Luserna d’Angrogna riveste interesse per le valli valdesi e la loro storia nell’arco di ben sei secoli; i documenti si collocano fra il 1159 fino alla metà del XIX secolo. Recentemente ne è stato allestito e pubblicato l’inventario a cura del Comune di Luserna San Giovanni. Le carte Scarampi di Villanova – dove sono confluite le carte della famiglia Tizzoni per via matrimoniale – furono donate alla Biblioteca dalle ultime eredi e rivestono una straordinaria importanza per la storia socio-economica del Monferrato e del Vercellese, con documenti che risalgono al XIV secolo. L’Archivio Pallavicino Mossi fu donato alla Biblioteca insieme alla raccolta libraria della famiglia: alla documentazione, che copre tre secoli di storia con legami al territorio di Casale Monferrato, si affiancano preziosi volumi e libri di cucina. Analoghe considerazioni valgono per gli archivi delle famiglie Coardi di Bagnasco e Amico di Castellafero. Oltre al Fondo delle pergamene, che datano dal sec. IX, e a quello storico della Biblioteca, vi sono numerosi archivi di carte personali, lettere e carteggi. Ricordiamo qui, ad esempio, l’Archivio Promis, che conserva la corrispondenza oltre che di Domenico, direttore della Biblioteca Reale dal 1837 al 1874, anche del fratello Carlo, sul quale sono in corso due progetti, e di Vincenzo, figlio di Domenico, che succedette al padre nella Direzione dal 1875 al 1889. L’Archivio Begey, donato da Marina Bersano Begey, direttrice della Biblioteca dal 1948 al 1972, conserva materiale relativo a Andrzej Towianski e a Tancredi Canonico. Molti sono i fondi ancora sconosciuti dal grande pubblico, perché in fase di ricognizione o in attesa di restauro: tra questi, completamente inedito e mai presentato nella sua interezza, quello della principessa Maria Clotilde di Savoia (1843-1911), figlia di Vittorio Emanuele II, andata in sposa sedicenne al quarantenne principe Gerolamo Napoleone per suggellare l’alleanza franco-sarda contro l’Austria, secondo il disegno politico perseguito da Cavour; dopo la caduta della dinastia napoleonica, la principessa tornò in Piemonte, e si ritirò nel Castello di Moncalieri, dedicandosi a opere di carità. Notevole è la presenza di vasti carteggi relativi al periodo prerisorgimentale e risorgimentale, tra cui le lettere di Carlo Botta o dei corrispondenti di Giovan Battista Balbis. Discorso a parte merita il Fondo Carabinieri, oggetto di recente valorizzazione con una mostra in Sede, in occasione del Bicentenario della fondazione dell’Arma, a cui seguirà la pubblicazione del regesto delle straordinarie Relazioni confidenziali al Re, eseguite dal Comando supremo del corpo dei Carabinieri Reali.
leonardo e i tesori del re
Più complessa è la questione dei cosiddetti Archivi Sabaudi, spesso rilegati in volume e inseriti nei fondi manoscritti (a essi appartengono anche l’Archivio Carabinieri e di Maria Clotilde di Savoia); è questo il caso dei Cerimoniali di Corte, la più antica serie di Cerimoniali sabaudi (Fondo Storia Patria), delle Carte di Giuseppina di Lorena Carignano, nonna paterna di re Carlo Alberto (Fondo Varia), dei Cerimoniali moderni (12 faldoni), dell’Archivio Casa Savoia (35 filze) e delle Decisioni del Senato di Piemonte (19 volumi, documentanti l’attività senatoriale da metà Seicento a metà Settecento). Un enorme patrimonio documentario, quindi, ancora da esplorare analiticamente e che può riservare straordinarie sorprese o che può essere utile a ricostruire alcune vicende amministrative, come per i documenti degli Inventari di Villa della Regina o per le Lettere della Venaria, raccolte in un volume che riguarda l’amministrazione di Venaria e della Mandria di Chivasso dal 1797 al 1801. Giovanni Saccani
Investitura di Tommaso Scarampi, 1323
Investitura di Tommaso Scarampi, 1323
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71. Le cinquecentine della Biblioteca Reale di Torino
La Biblioteca Reale, oltre a manoscritti, disegni, incisioni, album fotografici e fondi archivistici, conserva al suo interno più di 200.000 volumi a stampa collocati nelle librerie del Salone Palagiano e in magazzini interrati. Tra questi più di 5.000 opere sono cinquecentine, ossia volumi stampati nel XVI secolo; censite dall’ICCU, Istituto Centrale per il Catalogo Unico delle Biblioteche Italiane, oggi sono inserite online nel catalogo Edit 16, Censimento nazionale delle edizioRari 11 15 ni italiane del XVI secolo. Dopo l’invenzione della stampa a Magonza nella metà del XV secolo, l’arte tipografica si diffuse in tutta Europa. Venezia divenne la città più importante nel campo dell’editoria italiana, insieme ad altre città europee quali Lione, Parigi, Basilea. Il percorso espone varie cinquecentine stampate in città italiane ed europee, fra le quali si segnalano alcuni preziosi esempi. Il Libellus de natura animalium perpulchre moralizatus di Alberto Magno, Mondovì, Vincenzo Berruerio, 1508 (Rari II/15) è un bestiario con illustrazioni xilografiche: rarissimo esemplare dell’edizione latina, è il più famoso libro illustrato piemontese del Cinquecento. Il volume contiene più di 50 illustrazioni, trasformandolo in un libretto da guardare prima che da leggere (De Blasi Giaccaria 1990). PM 123 L’Orlando furioso di messer Ludovico Ariosto (Torino, Martino Cravotto e Francesco Robi, 1536, coll. I 25.54) è l’unica edizione dell’opera dell’Ariosto impressa a Torino e in tutto il Piemonte nel XVI secolo, e il primo classico della letteratura italiana stampato in Piemonte (Rosa 1990). L’opera pubblicata nel 1586, a Francoforte, Gynaeceum sive theatrum mulierum di J. Amman (PM 123), rappresenta figurini per la diffusione della moda, tipo di libri che hanno origine verso la fine del Cinquecento, quando cioè la moda e il lusso diventano importanti e mutevoli a tal punto da richiedere la collaborazione diretta degli artisti.
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Il Missale ad usum Sacrosanctae Romanae Ecclesiae (Lione, Antonium Vincentium, 1543, coll. PM 85) è un libro liturgico contenente tutte le informazioni, testi, orazioni, canti, gesti e le rubriche necessarie all’officiante per la celebrazione della messa o Eucaristia secondo l’anno liturgico. L’opera Sindon Evangelica di Filiberto Pingone (Torino, Bevilacqua, 1581, coll. C 5.98) è il primo volume interamente dedicato alla Sindone. Il Pingone, storiografo di corte, era stato incaricato nel 1578 dal duca Emanuele Filiberto di comporre una storia sulla Sacra Sindone (Manunta 2000). L’opera di Cecco d’Ascoli L’Acerba (Venezia, Sessa Melchiorre e Pietro Ravani, 1516, coll. I 25.51) è un poema rimasto incompiuto all’inizio del V canto dopo la condanna al rogo dell’autore per eresia. L’opera, ricca di dati astronomici, astrologici, alchimistici e naturalistici di origine per lo più araba, si contrappone agli ideali espressi nella Divina Commedia di Dante. Dell’opera la Biblioteca Reale possiede anche una copia manoscritta, il Varia 120, esposto in mostra (cfr. scheda n. 45). Bibliografia: Mostra dell’antico libro 1961; Le cinquecentine 1961-1966; Lidia De Blasi Giaccaria in Biblioteca Reale 1990, pp. 114-117; Gabriele Rosa in Biblioteca Reale 1990, p. 122; Maria Rosaria Manunta in Il potere e la devozione 2000, n. 37.
Antonietta De Felice
I 25.51
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72. Francesco Colonna La Hypnerotomachia di Poliphilo, cioè pugna d’amore in sogno. Dov’egli mostra, che tutte le cose humane non sono altro che sogno: & dove narra molt’altre cose degne di cognitione
Venezia, figliuoli di Aldo Manunzio, 1545
In folio, cc. [234], legatura in cuoio del XVIII decorata a secco e in oro, ex libris del re Carlo Alberto. I 40.10; n. inv. 10149 D.C.
L’Hypnerotomachia Poliphili è certamente – citando Emilio Pasquini – «uno dei libri più atipici dell’intera nostra letteratura [...] irripetibile manufatto “sperimentale”, per l’accordo tra virtuosismo linguistico, eleganza tipografica e gusto illustrativo, [...] capolavoro dell’editoria e opera più affascinante del Quattrocento» (Storia 1996, pp. 897-898). L’edizione del 1545, «ristampata di novo, et ricorretta con somma diligentia, à maggior commodo de i lettori», è molto fedele alla princeps del dicembre 1499, che si ritiene curata personalmente dal «principe dei tipografi» Aldo Manuzio. Dal punto di vista editoriale, l’Hypnerotomachia rappresenta un capolavoro non solo per l’organico connubio fra il testo e le centosettanta xilografie che ne sono parte integrante e non semplice illustrazione, ma anche per la composizione della scrittura, spesso disposta nella pagina a formare un equilibrato gioco di rientri, in alcuni casi volto a rappresentare visivamente quanto descritto, come nel caso di un canestro o di un vaso. La Guerra d’amore in sogno di Polifilo (colui che ama Polia) è un romanzo allegorico, nel contempo enciclopedia erudita e racconto d’iniziazione amorosa, scritto in una lingua artificiale con marcatura veneta, «bizzarra prosa caratterizzata da insistenti latinismi ed ellenismi, resa preziosa da erudite invenzioni lessicali, colorata da assonanze e da ritmiche ripetizioni e da artifici fonetici» (Bruschi 1978, p. 147). Diviso in due parti, la prima narra, sotto forma di sogno, la ricerca dell’amata Polia da parte di Polifilo; la quête, condotta in un’atmosfera fiabesca e a tratti erotica, inizia in un’«opaca silva» e, procedendo attraverso disparate tappe che fanno da pretesto a descrizioni archeologiche, architettoniche ed erudite in genere, lo conduce a riunirsi all’amata e a raggiungere sulla barca di Cupido l’isola di Venere. Nella seconda, la parola passa a Polia, che racconta la storia del loro amore e la mitica fondazione di Treviso. Dopo secoli di attribuzioni incerte (compresa quella allo stesso Manuzio), oggi l’autore dell’opera è riconosciuto nel frate domenicano Francesco Colonna (circa 1433-1527), vissuto fra Treviso e il convento veneziano di San Giovanni e Paolo, dotato di vasta cultura umanistica e di temperamento inquieto, tanto da divenire il protagonista di una novella a sfondo erotico di Matteo Bandello (II, 4). L’attribuzione, oltre che da stringenti considerazioni filologiche, è suggerita dal testo, che cela un acrostico composto dalla prima lettera di ciascuno dei trentotto capitoli: «Poliam frater Franciscus Columna peramavit» (frate Francesco Colonna amò intensamente Polia). Sul frontespizio dell’esemplare della Biblioteca – entrato nelle collezioni il 17 giugno 1837 – si trovano due note di possesso manoscritte, che permettono di gettare uno sguardo su alcuni passaggi di proprietà: «Comprato in Turino alli 9 d’augosto 1557 soldi 52», alla quale un bibliofilo di quasi due secoli dopo ha aggiunto «e da F.O. acquistato in Parigi nel 1734
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da M. de Vigni Architetto del Re a cui ho dato in cambio il Matiolo di Valgriggi in fol[io] fig[urato]» (l’oggetto di scambio pare essere un celebre erbario illustrato da Giorgio Liberale, i Commentarii di Pietro Andrea Mattioli, uscito a Venezia presso Vincenzo Valgrisi nel 1565 e più volte ristampato). Dell’Hypnerotomachia la Biblioteca possiede anche una copia integrale manoscritta, il Varia 174, appartenuto a Giovanni Vulliet (m. 1549), signore di Saint Pierre e Châtel-Argent e cavaliere dell’Ordine Supremo della Santissima Annunziata, nonché segretario del duca Carlo di Savoia detto il Buono. Come attesta la lettera di accompagnamento autografa datata 17 giugno 1525 (c. 251v), l’opera venne appositamente copiata per il Vulliet da Giovanni Nasuo. Bibliografia: Pozzi 1962; Colonna 1964; Bruschi 1978; Storia 1996.
Eliana A. Pollone
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Abbreviazioni c., cc. carta, carte cart. cartaceo cfr. confronta f., ff. foglio, fogli inv. inventario n. inv. numero d’inventario membr. membranaceo mm millimetri ms. manoscritto n., nn, numero, numeri r recto s.n.i. senza numero d’inventario v verso
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Bibliografia a cura di Angela Griseri
1550 Giorgio Vasari, Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori et scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri: descritte in lingua toscana da Giorgio Vasari pittore aretino, con una sua utile et necessaria introduzione a le arti loro, Firenze, Lorenzo Torrentino. 1672 Giovanni Pietro Bellori, Le vite de’ pittori, scultori et architetti moderni, scritte da Giovanni Pietro Bellori, Roma successori al Mascardi. 1827 Giuseppe Pietro Bagetti, Analisi delle unità d’effetto nella pittura e della imitazione nelle belle arti, del cavaliere Bagetti, opuscolo diretto ad un suo amico dedito alle arti liberali, Torino, Stamperia Reale. 1841 Francesco di Giorgio Martini, Trattato di architettura civile e militare con dissertazione e note per servire alla storia militare italiana, a cura di Cesare Saluzzo, Torino, Tipografia Chirio e Mina. 1860 Vittorio Emanuele d’Azeglio, Manuscrit Sforza (1467), London, Joseph Clayton. 1880 Vincenzo Promis, I tredici volumi di blasoneria di Carlo Emanuele 1 Duca di Savoia, in Curiosità e ricerche di storia subalpina, vol. IV, Torino, Bocca, pp.190-203. 1893 Vespasiano da Bisticci, Vite di uomini illustri del secolo XV, vol. II, a cura di Ludovico Frati, Bologna, Romagnoli dall’Acqua. Leonardo da Vinci, Codice sul volo degli uccelli e altre materie, pubblicato da Teodoro Sabachnikoff, traduzione e note di Giovanni Piumati, Parigi, Rouveyre. 1897 Adolfo Venturi, Museo Civico di Torino. Alcune miniature, in “Le Gallerie Nazionali Italiane”, III , pp.160 -170. 1899 Eugéne Müntz, Leonard de Vinci: l’artist, le penseur, le savant, Parigi, Hachette. 1900 Rodolfo Renier, Un codice malnoto dell’Acerba, in «Giornale Storico della Letteratura Italiana», XXXVI, pp. 301-305.
1911 Lisetta Motta Ciaccio, Un codice miniato di scuola napoletana nella Biblioteca del Re di Torino, in “L’Arte”, XIV, pp. 376-380. 1912 Pietro Toesca, La pittura e la miniatura nella Lombardia. Dai più antichi monumenti alla metà del Quattrocento, Milano, Hoepli. 1917 Oskar Fischel, Die Zeichnungen der Umbrer, in “Jahrbuch der Koeniglich Preuszischen Kunstsammlungen”, n. 38 vol. II, Berlino, pp. 1-72. 1923 Wilhelm von Bode, Früreinaissance in Italien, Propyläen, Verlag. 1925 Rembrandt: des Meisters Handzeichnungen, a cura di Wilhelm Reinhold Valentiner, vol. I, Stoccarda-BerlinoLipsia, Deutsche Verlags-Anstal. 1929 Alberto Magnaghi, Il planisfero del 1523 della Biblioteca del Re di Torino, la prima carta del mondo costruita dopo il viaggio di Magellano unica copia conosciuta di carta generale ad uso dei piloti dell’epoca delle grandi scoperte, Firenze, Otto Lange Editore. 1938 Carlo Ludovico Ragghianti, Notizie e letture, in “La Critica d’Arte. Rivista bimestrale di arti figurative”, III, pp. XV-XVI. 1947 Tammaro De Marinis, La biblioteca napoletana dei Re d’Aragona, Milano Hoepli. 1948 Luitpold Dussler, Italianische Meisterzeichnungen, Monaco, Prestel. Pietro Toesca, Di un miniatore e pittore emiliano: Francesco Marmitta, in “L’Arte”, pp. 33-39. 1950 Adriano Chicco, Contributi alla storia dei problemi di scacchi (Gilio de’ Zelati e Ercole del Rio), Milano, L’Italia Scacchistica. Prima mostra dei disegni italiani della Biblioteca Reale di Torino, catalogo a cura di Aldo Bertini, Torino, Donaggio.
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leonardo e i tesori del re
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Stampa: L’Aristica Savigliano, Ottobre 2014 Riproduzione vietata L’Artistica Editrice Divisione editoriale de L’Artistica Savigliano S.r.l. Via Torino 197 – 12038 Savigliano (Cuneo) Tel. +39 0172.22361 Fax +39 0172.21601 editrice@lartisavi.it - www.lartisavi.it ISBN 978-88-7320-361-2