GRATUITO Anno XIII - XIV Numero 89-90 Dicembre 2016 Gennaio 2017
Ogni mese un mondo di cultura in Puglia
SOMMARIO EDITORIALE - 5
CINEMA/TEATRO/TV - 38/41
Bentornato Bataclan
Antonello Taurino - Serialmente Il Posto
INTERVISTA - 6/9 Carlo Massarini
MUSICA - 10/29 Amerigo Verardi - Teta Mona Maffei! - Manu Phl - Antonio Maggio Motta - Keep Cool - BlogFoolk Riccardo Tesi - Francesco Di Bella
LIBRI - 30/37 Giorgia Lepore - Stefano Zuccalà Coolibrì - Alberto Castelli Antonio Manzini - Sandrone Dazieri Paolo Cognetti
Piazza Giorgio Baglivi 10 73100 Lecce Telefono: 0832303707 Cell: 3394313397 e-mail: redazione@coolclub.it sito: www.coolclub.it fb: Coolclub.it - tw: Coolclublecce Anno XIII/XIV Numero 88/89 Dicembre 2016/Gennaio 2017 Iscritto al registro della stampa del tribunale di Lecce il 15.01.2004 al n.844 Collettivo redazionale Pierpaolo Lala (Direttore responsabile), Osvaldo Piliego, Dario Goffredo, Chiara Melendugno, Antonietta Rosato, Toni Nisi, Cesare Liaci
ARTE - 42/47 Artissima - Diario Critico Daniele Caluri
BLOG - 48/53 Food Sound System - Vaffancool Brodo di frutta - Affreschi&Rinfreschi Stanza 105 - I Quaderni del senno di poi
EVENTI - 54/62 La Poesia nei JukeBox Vinicio Capossela - Fòcara Festival Velvet Culture Festival
Hanno collaborato a questo numero la redazione di BlogFoolk (Salvatore Esposito, Ciro de Rosa, Gianluca Dessì), Alessandra Magagnino, Lorenzo Madaro, Donpasta, Adelmo Monachese, Mauro Marino, Mino Pica, Francesco Cuna, Daniele De Luca, Matteo Tangolo, Giuseppe Arnesano, Francesca Santoro, Simone Rollo, Aldo Magagnino, Luca Bandirali, Giovanna Paiano, Bianca Chiriatti In copertina Bataclan - Daniele Coricciati Progetto grafico e impaginazione Mr. Scipione Stampa Colazzo Srl - Corigliano d’Otranto (Le) www.colazzo.it Chiuso in redazione? Sì - No
EDITORIALE
BENTORNATO BATACLAN David Bowie, Leonard Cohen, Dario Fo, Gene Wilder, Prince, Keith Emerson, Umberto Eco, Bud Spencer, Ettore Scola: è lungo l’elenco delle morti celebri di questo “nefasto” 2016. Il mondo della cultura ha perso grandi nomi che hanno caratterizzato il secolo scorso. Freschissima, al momento di andare in stampa, arriva anche la notizia della scomparsa di Fidel Castro che ha scatenato commenti sui media di tutto il mondo, risse e ironie da social, nove giorni di lutto nazionale nell’isola caraibica e qualche carosello di festeggiamento tra gli esuli cubani di Miami. Non si può sintetizzare la storia in 140 caratteri, in un tweet o in un post arguto da social. Cuba ha rappresentato e rappresenta (ancora per molti) l’alternativa al capitalismo dominante e al liberismo sfrenato. Ma è anche un esempio di dittatura che non considera diritti civili e politici, che non prevede il voto e le preferenze, che cura sanità e scuola ma non vede di buon occhio la libera informazione. Fidel è morto a novant’anni pochi giorni dopo la vittoria del settantenne Donald Trump che (nello sgomento più o meno complessivo nel resto del mondo) è stato eletto presidente degli Stati Uniti d’America. Le dichiarazioni in campagna elettorale e quelle da neopresidente non lasciano presagire un futuro semplice. Il mondo della cultura statunitense (quasi tutto schierato con i democratici a sostegno della pur indigesta candidatura della Clinton) saprà reagire e alzare la voce, saprà opporsi e diventare megafono per proteste e alternative? Il ruolo sociale e politico della canzone, d’altronde, quest’anno è stato premiato addirittura con il Nobel per
la letteratura a Bob Dylan che, dopo lungo silenzio, ha annunciato che non andrà a ritirare il riconoscimento. Quel giorno ha altro da fare. Chissà cosa, poi. Da Dylan, dal rapporto tra musica e letteratura siamo partiti anni fa per costruire l’idea della rassegna “La poesia nei jukebox” che torna anche quest’anno (dal 2 al 4 dicembre) alle Officine Cantelmo di Lecce con molti ospiti. L’intervista di apertura è dedicata invece a Carlo Massarini, volto storico della musica e della tecnologia in tv, che ci racconta del suo nuovo libro sulla nascita del rock e di molto altro ancora. La foto di copertina racconta invece una rinascita. Quella del Bataclan, il locale di Parigi che il 13 novembre 2015 fu teatro di un assalto dei terroristi islamici durante una notte assurda che provocò, in vari attacchi, la morte di 130 persone. Un anno dopo il locale ha riaperto con un concerto di Sting. La forza di tornare, di riprendere un cammino, la forza del pubblico di varcare nuovamente quella soglia con il rumore degli spari ancora nelle orecchie. A Parigi, nei giorni della riapertura, c’era anche l’amico Daniele Coricciati che ci ha regalato alcuni scatti della commemorazione, del ricordo di quel giorno che - come alcune date simbolo della nostra storia - dimenticheremo difficilmente. Questo è l’ultimo editoriale dell’anno. Il 2016 ha rappresentato per noi il ritorno su carta. Dopo nove numeri abbiamo già tirato un po’ le somme (economiche e redazionali). Dopo una breve pausa torneremo a febbraio probabilmente con qualche novità ma sicuri del cammino intrapreso. Hasta la lettura... (pilala)
INTERVISTA
CARLO MASSARINI Il giornalista e conduttore parla delle origini del rock e del futuro della musica
a cura di OSVALDO PILIEGO Da sempre inseguiamo la musica, ne osserviamo i cambiamenti: quelli che appartengono ai generi e all’evoluzione naturale della sua storia, ma anche quelli fisici. La sua trasformazione in oggetto, in qualcosa di aereo al tempo delle radio e in qualcosa di simile a un liquido oggi. L’abbiamo vista scomparire dalla televisione gradualmente, quando un tempo invece era in grado di educare e influenzare intere generazioni. Forse un tempo era più semplice analizzare i fenomeni, comprenderli in un periodo, datarli. Oggi il cambiamento è così repentino e continuo che si fa quasi fatica a “storicizzare”. Come in tutti i viaggi che si rispettino è importante non dimenticare il punto di partenza, l’origine di tutto. Parte dal 1936 e arriva al 1969 “Absolute Beginners”, l’ultimo libro di Carlo Massarini (Hoepli). Un excursus che prende il via dalle Race records e dalla musica afroamericana, attraversa e racconta la nascita del rock e delle rock star, la scena folk e quella beat. Giornalista e fotografo, Massarini nei primi anni Settanta è fra i conduttori di “Per voi giovani” e “Popoff”, le uniche trasmissioni di musica rock su Radio Rai. Scrive poi per “Popster” per “Rolling Stone” e dal 1981 al 1984 è autore e presentatore di “Mister Fantasy”, trasmissione di culto di Rai Uno dedicata alla videoarte e al videoclip. Ha condotto “Non necessariamente”, pionieristico varietà televisivo che utilizzava tecniche miste cinematografiche, video e di computer grafica, e “Mediamente”, dedicata a internet e alle nuove tecnologie.
INTERVISTA
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Da pochi mesi la Rai ha cancellato dal palinsesto “Ghiaccio Bollente”, fascia musicale notturna quotidiana su Rai5. Il giornalista sarà a Lecce (9 dicembre per Officine della Musica) e Taranto (11 dicembre) per parlare del libro ma anche per ascoltare musica dal vivo e compiere un viaggio alle origini del rock. “Absolute Beginners” è un film che racconta un momento cruciale della storia della musica, un passaggio epocale. “Absolute Beginners” è anche un brano di uno delle “stelle” più brillanti del firmamento del rock. E poi “Absolute Beginners” è anche il tuo nuovo libro, tratto dal tuo format radiofonico, in cui metti tutto in ordine… Certo, è il titolo di un brano/colonna sonora del film omonimo con Bowie protagonista. A sua volta tratto da un romanzo di Colin MacInnes che racconta della vita piena di fermento nella Londra dei tardi ’50, fra mods e jazz clubs. Credo che però lì era sinonimo di ‘debuttanti’, mentre io lo intendo più nel senso di ‘originatori’. In questi giorni organizziamo a Lecce una piccola rassegna dal titolo “La poesia nei jukebox” in cui ci interroghiamo sul rapporto tra libri e musica. È la frase che Ginsberg pronunciò quando sentì Dylan suonare nelle radio. Alla luce del suo recente Nobel per Letteratura, qual è la tua personale visione di questo legame, quello tra parola e musica, letteratura e cultura popolare, poesia e canzone? Dylan ha rivoluzionato la maniera di usare il testo nella musica: lui, erede da una parte dei poeti beat, dall’altra di Woody Guthrie, ha preso dei primi lo stream of consciousness, quello scorrere, quasi senza punteggiatura e pause, di sensazioni, in libera aggregazione. Poesia anfetaminica, acida, visionaria. Da Guthrie il senso di poeta popolare, e politico. E ha in definitiva creato dal nulla la figura moderna del cantautore. Dalle radio la musica negli anni ha conquistato altri e tanti supporti, prima era fisica, poi on air, adesso è ovunque. Cosa comporta questo secondo te per chi consuma, chi ven-
de, chi compone. Qual è l’impatto sociale di questo cambiamento? Per chi la ascolta o la scarica, ormai dovunque, questo crea un mondo senza confini: puoi ascoltare musiche da tutto il mondo, appena uscite, una cosa impensabile fino a 15 anni fa. Rispetto a quando ero io un ragazzo, posso solo dire che le difficoltà che dovevamo superare per impadronirci di un disco erano una bella complicazione, ma aumentavano a dismisura la tua voglia, in certi casi la bramosia, e questo rendeva l’ascolto molto più emozionante. Se per chi vende consideriamo i negozi, hanno praticamente chiuso quasi tutti, tranne negozi misti libri-dischi-oggetti. Non una buona notizia, anche se ora l’on line ha guadagnato una posizione preminente, e questo riesce quasi a compensare le entrate per le case discografiche, che a loro volta si sono aggregate in quattro colossi multinazionali. Per chi compone e suona, ora ha un mercato senza limiti, ma nel quale vince - oltre a chi ha il pezzo giusto - chi riesce a farsi notare, e non è facile, competi con…tutto il mondo. La musica prima era capace di forgiare le giovani generazioni, i teenager appunto, oggi la musica è ancora capace di rappresentare i giovani? Penso al rap… Il concetto di ‘musica’ e di ‘giovane’ è difficile da definire. Rispetto a una volta, ci sono - come nella musica - molte più nicchie, sottogeneri, spezzettamenti, tribù di ogni tipo. Forgiare è una parola impegnativa, mi sa che il rap - se pensiamo a quello violento e senza grandi ideali - è già tanto se un ragazzetto non lo rovina. Però il pubblico si identifica con quelli che sente vicini a lui, e quindi non dobbiamo lamentarci se c’è musica mediocre: la vita intorno spesso lo è, una è la riflessione dell’altra. Tu sei stato trai protagonisti della musica in tv, un altro luogo da cui è praticamente scomparsa. Perché secondo te non ci sono più le trasmissioni musicali? Perché la radio va in tv? Dov’è adesso la musica? Non so perchè non ci siamo più trasmissioni musicali. “Ghiaccio Bollente” che ho fatto fino a dicembre dell’anno scorso era l’ultima
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Tu oltre ad essere un appassionato di musica sei anche un amante delle nuove tecnologie, qual è secondo te il futuro della musica? Tecnologicamente parlando, dall’uscita di i-Tunes all’inizio del secolo ad oggi c’è stato un progresso enorme. Acquisti on line, abbonamenti onnicomprensivi a prezzi accessibili, ascolto dal cloud in mobilità, Shazam e YouTube e Amazon, è una manna che nessuno neanche ipotizzava prima di 20 anni fa. Come possa trasformarsi ancora il mercato è difficile da prevedere, ma stai certo che qualcuno ci sta già lavorando. Probabilmente si andrà sempre più verso il video, e un mercato sempre più frazionato di gusti. Poi vai a sapere, magari va tutto nella direzione opposta. Senza mai perdere di vista il passato, facciamo sempre riferimento alla memoria, alle origini. Come fai tu nel libro e nella tua trasmissione radio. Quindi bisogna guardare sempre avanti senza mai dimenticarsi da dove si è partiti. In un’epoca in cui la memoria si misura in terabyte i libri e dischi sono ancora i custodi della nostra storia? Io penso che il senso storico sia importante. Sapere da dove si viene aiuta a capire dove si andrà, è ovvio. Molti ragazzi adesso ascoltano musica a consumo, usa e getta, non sanno cosa c’è stato, quali sono le origini di quello che ora è nei loro i-pod. Come se guardassero solo gli ultimi dieci minuti del film, tutto-e-subito. Io preferisco vederlo dall’inizio, capire dove sono e chi sono le radici. “Absolute Beginners” fa come i salmoni, torna controcorrente fin sù, dove ci sono gli inizi, attraverso 280 storie/canzoni che hanno plasmato tutto il rock successivo. Dal 1936 (Robert Johnson) al 1969 (Robert Fripp e i suoi King Crimson). Due chitarristi che non hanno nulla in comune, né la tecnica, né la musica a cui attingono (country-blues nero del Delta del Mississipi il primo, musica
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rimasta, han chiuso anche quella. Una follia. Come se la musica non solo non fosse cultura, ma neanche intrattenimento meritevole di occupare uno slot, magari anche a tarda sera. Incomprensibile, è come se non gliene freghi nulla a nessuno. Mah.
classica e free jazz il secondo. In mezzo, in questi 33 anni, c’è veramente di tutto. Mr fantasy è il titolo di una leggendaria trasmissione ma anche del primo disco dei Traffic. Nel libro sono indicati i dischi fondamentali della storia, gli originatori. Quali sono gli originatori della tua grande passione? Beh, Steve Winwood e i Traffic stessi c’hanno messo parecchio del loro, son stati il mio gruppo del cuore, quello che lentamente si insinua nel tuo DNA. Non so dove nasca la passione, inclusa la mia per la musica, ma certamente posso dire che nel mio caso ha dato un senso alla mia vita, sia personale che professionale. Sono uno curioso, mi piace scoprire, sapere che c’è qualcosa che sento mio, e questo può darlo un disco ’nuovo’, ma anche un disco di decenni fa. Nel profondo sono un incrocio fra un bibliotecario all’antica e un ricercatore. Quando ho incontrato Jeff Bezos, l’inventore di Amazon, gli ho detto che avrebbero dovuto darmi una sorta di tessera platino per le decine di migliaia di dollari che ho speso da loro. Si è fatto una gran risata e non me l’ha data, anche perché non esiste, ma sicuramente me la merito. Ecco, devo dire che se chiudessero Amazon per me sarebbe un colpo durissimo. D’altra parte, forse riuscirei a sentire le centinaia di dischi che ho comprato e che non ho mai avuto il tempo di ascoltare.
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Non era facile salire sul palco del Bataclan di Parigi dopo i 93 morti (tra cui l’italiana Valeria Solesin) del 13 novembre 2015 durante il concerto degli Eagles of Death Metal. E non era neanche facile comprare un biglietto e andare lì dentro guardandosi intorno e pensando che proprio tra quelle mura una “cellula” islamica era entrata armi in pugno per commettere una strage. Per colpire l’occidente e uno dei suoi templi pagani. Un locale nel quale si fa musica, si suona rock, si balla, ci si diverte. «Nel riaprire il Bataclan abbiamo due compiti importanti: il primo ricordare e onorare coloro che hanno perso la vita durante l’attacco di un anno fa, il secondo celebrare la vita e la musica che questo storico teatro rappresenta», ha sottolineato Sting protagonista del concerto del 12 novembre. Nei giorni della riapertura il nostro amico e fotografo Daniele Coricciati era a Parigi. Questi sono alcuni dei suoi scatti che ci raccontano il ricordo della strage e la rinascita di un luogo di cultura. My my, hey hey Rock and roll is here to stay It’s better to burn out than to fade away My my, hey hey Out of the blue and into the black They give you this but you pay for that And once you’re gone you can never come back When you’re out of the blue and into the black The king is gone but he’s not forgotten
This is the story of a Johnny Rotten It’s better to burn out than it is to rust The king is gone but he’s not forgotten Hey hey, my my Rock and roll can never die There’s more to the picture than meets the eye Hey hey, my my Neil Young - My My, Hey Hey (Out Of The Blue) 1979
Foto di Daniele Coricciati
AMERIGO VERARDI “Hippie Dixit” è il nuovo articolato progetto del cantautore brindisino
Ci sono artisti che in modo diverso hanno segnato la tua vita. Il mio incontro con Amerigo Verardi risale a molti anni fa, in un momento della mia personale formazione musicale in cui l’ascolto coincideva con la visione, in cui la musica era quasi esclusivamente fatta di persone e concerti. Un’esperienza folgorante che aprì le mie personali “porte della percezione”. Dopo capii che l’esplorazione era la chiave della scoperta. Da allora non ho smesso di ricercare “musiche” così come non ho mai smesso di seguire Amerigo nelle sue varie trasformazioni (Allison Run, Lula, Lotus solo per citare alcune esperienze). Esce in questi giorni “Hippie dixit” il suo nuovo disco, un album coraggioso e importante, un’opera imponente di cui avevo bisogno e che si candida ad essere uno dei dischi più belli del 2017. Dagli “Anni Mantra” (la prima etichetta a pubblicarti nel 1987 nonché titolo di un brano dei tuoi Lula) al nuovo “mantra sonoro”, in questi anni il tuo suono si è evoluto, stratificato, dilatato. Oggi esplora nuove forme, si decostruisce a tratti, si liquefà per poi raggrumarsi in qualcosa di tribale vicino alla trance. Beh, sono un essere umano, e come tutti cresco e mi evolvo naturalmente, facendo ricerche e scoprendo a volte cose importanti, e commettendo ovviamente anche un sacco di errori. E mi ritrovo sempre a cercare di scoprire ulteriori e nuovi “passaggi” grazie alla musica, attraverso i suoni e le parole, divertendomi molto a mettere insieme le cose. Provo ancora certe sensazioni che provavo quando avevo vent’anni, identiche nello stupore e nella gioia, sebbene differenti dal punto di vista della consapevolezza. Rispetto al passato, per me oggi è molto più importante rendere partecipi di queste suggestioni le persone che sono sensibili alla bellezza e ai misteri della vita, magari sensibilizzandole ancora di più alla consapevolezza di avere la fortuna, che purtroppo non tutti hanno a questo mondo, di poter ottenere e offrire le cose più belle e importanti, che poi “cose” non sono. Il racconto del Mediterraneo naviga fino in Marocco a far visita al ricordo di W. Burroughs, si spinge in India come i Beatles tanti anni fa. Un viaggio lisergico, un crogiuolo psichedelico, un’abluzione musicale… Da sempre sono irresistibilmente attratto dalle sonorità marocchine come da quelle indiane. Quasi in ogni mio album vi sono suggestioni più o meno intense che provengono da quelle parti di mondo. Certo, in “Hippie dixit” ho veramente potuto dare il via libera definitivo a queste influenze, e quindi ci sono sicuramente molte più contaminazioni e anche strumenti etnici orientali e nordafricani, soprattutto percussioni. Foto Daniele Guadalupi
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Il Marocco storicamente sembrava essere il posto ideale in cui perdersi, lì dove l’India ha sempre rappresentato il luogo in cui ritrovarsi. Tangeri, che città pazzesca… In India non ci sono ancora stato, ma qualche anno fa ebbi la fortuna di trascorrere dei giorni nel villaggio di Jajouka, in Marocco, lo stesso villaggio dove Brian Jones registrò nel 1968 i nastri dell’album “The pipes of Pan at Joujouka”. I musicisti locali, i Masters Musicians of Jajouka, suonavano per ore ed ore creando uno stato di trance collettiva, e davvero non sono cose che si possono dimenticare. Nella stessa occasione, questa te la voglio proprio raccontare, ebbi anche la fortuna di conoscere una brillantissima signora più o meno sulla settantina, originaria di Roma, con la quale trascorremmo piacevolmente un paio di giorni facendo passeggiate e parlando a lungo di Tangeri, di cibo marocchino, di pop art, di blues, di Paul Bowles, di William Burroughs appunto… e poi ancora, ma in modo sempre più confidenziale, dei Rolling Stones, di Brian Jones e di Keith Richards… Avevo già qualche sospetto, ma a quel punto ne ebbi l’assoluta certezza: l’affascinante signora con cui stavo trascorrendo amabilmente il tempo a Jajouka, era Anita Pallenberg. Ti sei preso la libertà e hai rivendicato il diritto di fare un disco che rispettasse il suo tempo interno, quello necessario a essere completo. Il risultato sono cento minuti di musica, un album doppio. Un’operazione in controtendenza con l’orientamento di quello che rimane del mercato discografico. Cosa resta secondo te? Il mercato è quello che vediamo, parla da sé attraverso tutti i mezzi e le bocche che può ancora comprare, sfamare o semplicemente illudere. Non penso ci voglia un genio o un eroe per andare in controtendenza rispetto a un flusso così asfittico e ritorto su se stesso. E grazie al web non siamo obbligati ad ascoltare solo quello che vorrebbero farci ascoltare. E soprattutto nessuno ci obbliga a suonare quel che non ci va di suonare. è
un’ammissione di sterilità quella di sentirsi costretti a cose che non ci convincono né dal punto di vista estetico né dal punto di vista del contenuto. è un’ammissione di cronica debolezza giustificare le proprie scelte sulla base di ciò che richiede il “mercato”. Non avere più il coraggio o la forza di esprimere liberamente un’indipendenza creativa, intellettuale e spirituale, ci porta a pensare che tutto ciò che circonda la nostra esistenza sia decadente, vacuo. Ma quasi mai nessuno osa mettersi in discussione, magari ammettendo che il problema, prima ancora del capitalismo, della crisi, delle lobbies, etc., siamo noi, ed è dentro di noi che dobbiamo affrontarlo prima di estenderlo ad altri o di scaricarne l’intera responsabilità alla comunità in cui viviamo. “Hippie dixit” è, tra le altre cose, una serena rivendicazione del diritto di esprimere una personalità, un pensiero, un sentimento. E prendendomi anche tutto il tempo necessario per farlo. Lo stesso tempo che nelle mie intenzioni desidero offrire come regalo a chi vorrà ascoltarlo. È un disco a tratti mistico, in altri dolorosamente realista, il racconto di luoghi dell’anima e del quotidiano. Come ti sei approcciato a questi due livelli di scrittura? La nostra esistenza si muove essenzialmente tra le polarità e i dualismi, quasi mai riuscendo a trovare quel giusto equilibrio che ci dia un senso superiore di pace e stabilità. L’eterno sforzo che compiamo per cercare di trovare questo equilibrio, penso sia ciò che chiamiamo vita. “Hippie dixit” lo vedo come una serie di impronte che documentano questo continuo oscillare, questo infinito desiderio verso un punto di estrema e potentissima calma. è stata la prima volta nella mia vita in cui mi sono sentito totalmente coinvolto in un’atmosfera positiva, priva di interferenze. Ero coinvolto dalla musica che stavo registrando, ma prima ancora dalla sensazione di essere guidato dalla mia migliore energia, quella che mi porta fuori dal mio ego e mi mette nelle condizioni di entrare in contatto con tutto e tutti,
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Amerigo Verardi e Anita Pallenberg - foto di Jill Furmanovsky (2008)
superando per un attimo anche i dualismi. Sembra troppo freak? Sembra ridicolo? Beh, d’altronde è per riderci un po’ su che l’ho chiamato “Hippie dixit”. Il disco è il frutto di un volere “popolare”, accompagna l’uscita di un libro, ci racconti questa esperienza? Devo onestamente dire che il doppio album e il libro, una raccolta di scritti dal titolo “S.I.N. Scherzi.Improvvisi.Notturni” edito da Brundisium.net, sarebbero stati pubblicati comunque, così come d’altronde ho sottolineato anche nella home-page della campagna di crowdfunding. Non volevo davvero mettere gli amici nella condizione di pensare che se non avessero contribuito io non avrei potuto pubblicare. Detto questo, è stata un’esperienza bellissima, dove ho riscontrato un interesse sorprendente nel sostenere questi progetti. Sostegno che mi ha già dato – questo sì – la possibilità di realizzare in tempi brevissimi l’importante videoclip di “Brindisi (ai terminali della via Appia)” con la regia di Paola Crescenzo. Non capisco tanta ostilità da parte di alcuni verso questa forma di finanziamento di un progetto. Come tutte le cose, naturalmente, acquista o perde valore a seconda dell’utilizzo che ne viene fatto, ed è comunque giusto porsi la questione perché è in gioco la fiducia di chi sostiene un progetto. Io so di non avere in alcun modo abusato di questa fiducia, e quindi mi sento assolutamente orgoglioso della scelta fatta e dei risultati finora ottenuti. E insieme a questa meravigliosa schiera di sostenitori, aggiungerei anche Michele Bitossi dell’etichetta “The Prisoner” e Ore-
ste e Angela di Brundisium.net, che hanno stampato l’album e il libro e che hanno deciso di investire forze e denaro in due progetti tutt’altro che “facili”. Guardandoti intorno, alla luce del tuo più recente impegno sul territorio (penso al festival Yeahjasi all’Ex Fadda di San Vito dei Normanni), cosa vedi? Come si stanno trasformando la musica e la cultura di questa terra? Io cerco di essere propositivo e di stimolare le persone che ho intorno a dare il meglio di sé. è l’unica ricetta che conosco per migliorare la qualità della vita. E quindi lo faccio e basta, senza stare tanto a pensarci, perché prima di tutto lo faccio istintivamente per migliorare la mia, di vita. E lo faccio ovviamente con i mezzi che ho a disposizione. A volte è anche parecchio faticoso, perché non sempre hai di fronte chi capisce il senso e il valore di un gesto semplice. Quando tutti saranno in grado di accogliere un gesto semplice e di offrirlo a loro volta ad altri, anche la vita, oltre che la musica e la cultura di questa terra, saranno definitivamente trasformati nell’essenza, e in meglio. Pur avendo un mio pensiero in merito, non credo di poter rispondere in modo esauriente alla tua domanda, perché non è roba da poco avere il polso della situazione in una scena musicale e culturale così articolata e in continua evoluzione. Credo di potermi però sbilanciare, dicendo che a livello musicale, che è l’ambito che conosco un po’ meglio, noi salentini in particolare abbiamo molto da offrire e, perché no, forse anche da insegnare. Osvaldo Piliego
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TETA MONA Mad Woman è l’esordio solista della cantautrice Da Altamura all’America, passando per Londra. Teta Colamonaco, in arte Teta Mona, è una musicista con una storia artistica complessa, all’esordio solista con “Mad Woman”, fuori il 20 dicembre per Garrincha Go Go. Scritto a quattro mani da lei e Prince Jaguar, il disco ha visto la partecipazione di Grimm Grimm (ATP Records), mentre Nanni Teot si è occupato dell’arrangiamento delle sezioni dei fiati. Hai iniziato nel 2003 con Screaming Tea Party. Ci racconti il viaggio dalla Puglia a Londra e poi all’America? In realtà ho cominciato un po’ prima del 2003 e degli Screaming Tea Party. In Puglia alla fine degli anni ‘90 i miei amici avevano (ed hanno tuttora) un sound system in stile jamaicano (autocostruito), l’I&I Sound System, che era diventato l’headquarter di molte realtà interessanti che promuovevano la cultura reggae e la Black Music in generale. Il mio cambiamento è avvenuto nel 2001; ho pian piano abbandonato le lezioni di canto per dedicarmi a quelle di batteria, il mio amore per la Black Music si è spostato dall’Africa all’America del Delta del blues. Nel frattempo mi sono laureata e subito dopo sono partita per Londra. Un giorno, mentre aspettavo un taxi davanti allo Scar Studio (a Camden Town, anche Amy Winehouse e Anna Calvi facevano le prove lì) sono passati questi due ragazzi giapponesi dall’aria strana... Io ero seduta sulla mia batteria davanti allo studio, aspettavo la macchina che mi riportasse a casa, Koichi (Yamanoha) mi è passato davanti e dopo un po’ ha preso coraggio e mi ha chiesto: “Do you play drums?”; da lì la mia vita è cambiata. Anni dopo ho fatto un provino come bassista per i New York Howl di Brooklyn, mi sono comprata il Fender Jaguar (quello che ho prestato a Paolo - Jaguar per le registrazioni del nuovo
disco) e ho cambiato continente. Quando hai incontrato Dylan Carlson degli Earth? Dopo essere rientrata dall’America nel 2010, un mio amico, Simon Fowler, che disegna le copertine dei dischi degli Earth, ha fatto ascoltare un mio pezzo a Dylan che mi ha scelta per cantare il suo primo disco solista. Dylan ha riconosciuto qualcosa nella mia voce che lo ha aiutato a sviluppare un concept album incentrato sullo studio della stregoneria inglese dell’800, di fiabe e leggende di Albion sulla magia. Dal 2014 sei tornata nel nostro Paese; in questo periodo è nato il sodalizio con Prince Jaguar. Con lui hai dato vita anche al nuovo “Mad Woman”. In questo disco ho volutamente lasciato che la parte strumentale guidasse le mie scelte, e non il contrario. Come cantautrice sono abituata ad utilizzare un tape recorder o qualsiasi mezzo semplice per non perdere mai la verità dell’attimo che cerco di celebrare. L’approccio di Paolo è completamente opposto, ma riesce a trasformare l’essenza dei miei brani in maniera automatica con una alchimia di suoni unica. Affinché il disco avesse senso, ho dovuto seguire delle regole molto rigide per non perdere mai di vista il preciso intento del mio lavoro: la coerenza, l’integrità ed il rispetto. Ho descritto la mia verità e assieme abbiamo descritto la nostra realtà. Noi proveniamo dal ghetto, dal Sud più profondo dell’Europa. Non è un atteggiamento da fighi. Abbiamo tanto da dire e vogliamo essere ascoltati. Non parlo solo per me, io parlo per la mia terra, per chi non ha la possibilità di farsi ascoltare, per chi crede che dopo i 30 anni sia tutto finito e invece adesso arriva il meglio. Adoro questo disco. Ne sono assolutamente fiera. (C.M.)
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MAFFEI! Sono punk di mio anche quando vado a fare la spesa Marco Maffei è uno dei protagonisti della nuova guardia brindisina, porta il testimone di quella che è stata sempre una delle scene rock pugliesi più vivaci. Prima con i pHnegativo e adesso semplicemente con Maffei!, incarna la figura del moderno cantastorie a cavallo tra la realtà cittadine, i social network, le ex fidanzate, i bicchieri di troppo e le mille sigarette. I suoi compagni di viaggio sono Marco Baldari al basso e Jordan Rech alla batteria. Esce in questi giorni “Maffei sei uno str***o” una miscela ben oliata di sinth pop, punk e rock. Questo disco racconta un passaggio, la fine di qualcosa e un inizio; la fine di una storia, l’inizio dell’età adulta… Dici? Io non la vedo così. Avevamo solo un po’ di canzoni che suonavamo anche con i pHnegativo e poi se ne sono aggiunte altre. Forse il passaggio sta solo nel nome: da pHnegativo a Maffei! Siamo sempre gli stessi ragazzi sudati che buttano il cuore sul palco (e anche le chitarre). Per l’età adulta ne riparleremo quando avrò un lavoro fisso, una moglie decente e un’amante. È un disco di ricordi, persone che attraversano la vita, le sigarette di contrabbando, gli anni 90, che tornano anche in alcuni omaggi sonori (“Le mie ex”). Un disco in cui decidi di liberarti dal passato o di fissarlo per sempre? Per me non ci si può liberare del passato. è sempre parte di te nel bene o nel male. Rifarei tutte le cazzate che ho fatto (e che forse faccio ancora). Non sono uno che piange per quello che è stato, sai quelle cose tipo “perché tutte a me, che sfigato che sono”. Cerco sempre di andare avanti con il sorriso bello stampato in faccia pensando che alla fine può succedere a tutti. Poi se hai vissuto la tua infanzia nella Brindisi anni 90, credo che un po’ di coglioni devi averli, In tutte le situazioni.
L’attitudine punk è mitigata dagli arpeggi e dalle tastiere. Le mille sigarette, tante da entrare anche nei testi di molti brani, fanno graffiare la voce. Questo crea un’atmosfera agrodolce, merito di una certa ironia che stempera la disperazione… Credo che anche i synth siano belli sporchi, molto punk. Ma non credo che il mio sia un discorso solamente musicale. Sono punk di mio anche quando vado a fare la spesa. Mi piace molto usare l’ironia nelle canzoni. Anche l’autoironia. Non so se riesco a stemperare la disperazione, ma mi sono reso conto che rispetto ai cantanti attuali della scena indie italiana (penso a Paradiso o Calcutta), sono più stronzo e più orgoglioso. Loro fanno troppo i teneri nelle canzoni, nei post su Facebook, Instagram.Io anche nella vita reale se una ragazza non mi vuole dico: “Fanculo bella, non sei l’unica al mondo”. E credo che questo si senta anche nelle canzoni che scrivo. Non hai paura di essere pop, sembri cercare sempre la canzone migliore possibile. Quali sono le canzoni perfette da cui prendere esempio? La canzone perfetta per me è una canzone degli anni 30 dal titolo “Quando non vai via” di Angelo Pementini. Paura di essere pop? Non so cosa sono. Scrivo quello che mi va e che mi piace, le mie esperienze in prima persona nel modo più sincero possibile. ”Le mie ex”, che sarà il singolo, parla delle due mie ex storiche che sono diventate amiche del cuore e tra l’altro in un periodo, diciamo che ero fidanzato con entrambe. La cosa buffa è che naturalmente mi hanno sgamato e ancora più buffo è che, dopo tutto, ora comunque sono in ottimi rapporti con loro. Sono stato sempre un po’ paraculo. Sono stato sempre un po’ stronzo. (O.P.)
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MANU PHL
Il rapper toscano con “Stonato” propone un disco che è una continua sorpresa Non sono un praticante del genere, ma per fortuna neanche Emanuele Flandoli lo è. Mi spiego meglio, quello che al primo ascolto può sembrare rap altro non è che un meticciato musicale intrigante, un continuo sconfinare nei generi, un gioco fatto con rigore. Ed è questo il talento che emerge subito dall’ascolto di “Stonato”, una camaleontica capacità musicale, il suo essere diverso (stonato appunto) rispetto al mercato e a quello che si trova in circolazione. Manu Phl, toscano adottato dal Salento, licenzia un disco che è una continua sorpresa, pieno di ospiti tanto da sembrare una festa.
“Troppo indie per essere rap, troppo rap per essere indie”, è forse in questo passaggio del brano Stonato il senso del disco e del tuo stile, in un periodo in cui il rap italiano è mainstream, forse la vera indipendenza è essere liberi dai gusti e delle mode. Cosa ne pensi? Sicuramente la sovraesposizione del rap nell’ultimo periodo è un po’ straniante per chi come me ha iniziato ad ascoltarlo quando era un genere di nicchia, quasi settario. Però in realtà mi sono sempre sentito borderline nei confronti del rap “duro e puro”. Personalmente, non la vivo come una scelta, ma piuttosto come un dato di fatto, una
parte di me che non posso e non voglio cambiare. Mi piacciono elementi di moltissimi generi musicali, ho serie difficoltà a rinchiudermi nel recinto di un genere musicale. Mi ha molto colpito “L’era del Microonde”, una sorta di spoken word, un flusso su base freejazz, roba da beat box della beat generation… Mi fa piacere! è la prima volta che mi cimento con un brano di questo tipo, ma è da vari anni che sono incuriosito dal fenomeno dello spoken word, un movimento che è in forte crescita negli USA, e in parte anche in Italia. Di recente sono stato coinvolto nel progetto “Spoken!” di Massimo Pasca e questo mi ha stimolato a sperimentare questo tipo di scrittura. Mi è venuto spontaneo associarlo a un tappeto free jazz, perché secondo me lo spoken è un po’ la versione free del rap, un po’ meno musicale ma liberato dalla metrica, che a volte ti costringe a fare compromessi su ciò che vorresti esprimere veramente. A proposito di generi, tornando al concetto di libertà. Nell’album esplori con agilità atmosfere musicali molto diverse. Cassa dritta catchy, reggae, funk. Una versatilità arricchita dal tuo background e dai musicisti ospiti. Ce ne parli? Quello che provo a fare, spesso inconsciamente, è miscelare elementi di musica del passato (il soul, il funk, il reggae, il pop) con elementi del presente, “di moda” (il rap, la trap, l’indie): la speranza è che da questo incontro/scontro nasca qualcosa di originale, non già sentito. Possibilmente qualcosa di bello. Negli ultimi anni poi, lavorando come producer e come fonico, ho collaborato con tanti musicisti bravissimi, e quando mi sono messo a lavorare a questo disco ho coinvolto quelli con cui c’era più sintonia: ogni musicista ha immesso un pezzetto del suo talento e del suo background musicale, e il risultato è molto più bello, libero e originale che se mi fossi chiuso in studio a produrre beat da solo. In questo senso mi ha aiutato molto il fatto di produrre in Salento: la scena salentina è particolarmente ricca di
bravi strumentisti, e c’è un’attitudine alla collaborazione che è difficile trovare in altri contesti. Tanti gli artisti che hanno collaborato con te in queste tracce, tra gli altri anche Caparezza, come hai incontrato le voci che hanno “duettato” con te? Sì, sono veramente tanti! Ho deliberatamente scelto di riempire di featuring questo disco, a coronamento di un periodo in cui ho collaborato con tante realtà diverse. Pensavo che ciò avrebbe arricchito molto l’album, e così è stato. Mi ha piacevolmente sorpreso l’entusiasmo con cui hanno risposto tutti, hanno percepito l’amore che stavo mettendo in queste canzoni e me l’hanno restituito al quadrato! Può sembrare un discorso troppo sentimentale ma in realtà è andata veramente così, c’era sempre un’atmosfera di intenso scambio di emozioni. Per Caparezza va fatto un discorso a parte, per me lui è stato per anni un punto di riferimento nella musica italiana. Casualmente anni fa venni a sapere che conosceva i miei pezzi e li ascoltava, presi il coraggio e lo contattai: da lì pian piano si è creato un rapporto che ha portato al suo featuring su Stonato, per me un vero onore (e anche un piccolo sogno realizzato). Il disco è sostenuto dalla Regione Toscana. Ci racconti come è andata? L’anno scorso la mia regione ha varato un progetto (parzialmente ispirato a Puglia Sounds) che per la prima volta prevedeva un sostegno economico per dischi di artisti toscani, e un interessante programma di formazione al self-management. Il mio progetto è stato selezionato, e questo mi ha aiutato moltissimo dal punto di vista pratico e mi ha dato fiducia in un momento in cui non ci credevo più molto. Purtroppo oggi è veramente difficile portare avanti un’attività artistica, l’attenzione del pubblico è ai minimi storici, le spese sono moltissime e i guadagni sempre di meno, si rischia di ridurre tutto a un hobby. Mentre la musica meriterebbe di essere molto di più che questo. (O.P.)
MUSICA
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a cura di Matteo Tangolo ANTONIO MAGGIO Amore Pop
Parliamoci chiaro: non appena le dita toccano l’avorio del pianoforte, non appena le prime frasi (come quel “povero Cristo in cerca della sua croce”) iniziano a farsi largo tra bocca, lingua e denti, si avverte forte l’aura benefica e ispiratrice di Lucio Dalla. Antonio Maggio, a due anni dal bel disco “L’equazione”, si affaccia con il nuovo singolo “Amore pop”, che annuncia il prossimo album nel 2017. Sia chiaro, il pezzo è fin troppo vistosamente pop, soprattutto nel ritornello (meno nelle strofe) e forse ancor più nella musica. Ma non è niente male.
CORPO I & II Lizard Records I fratelli Calignano sono così psichedelici e progressive che sembrano usciti direttamente dagli anni ’70. Cioè, in realtà lo sono. Nel cd “I e II”, dei Corpo, si cela una storia che va ben oltre il disco. Si tratta di una raccolta di brani incisi nel 1979 e mai pubblicati finora. Sono pezzi sgargianti e colorati che paiono seguire Le Orme di Hendrix, dei King Crimson e dei Pink Floyd. Solo che l’ispirazione non germina da Londra o Berlino, ma da una piccola “Comune” nata in una villa alle porte di Santa Maria di Leuca. Proprio quella “S.M. De Finemunnu” che si stampa nel cd come unico dichiarato timbro di provenienza geografica.
Carmine Tundo A volte tu nella mia testa Discographia Clandestina Irrequieto ed elettronico, il re delle formiche è un profeta post-moderno, una figura disturbante che striscia e s’insinua sotto pelle con grappoli di note e parole. Quella sorta di bulimia artistica che sta vivendo Carmine Tundo nel 2016 sfocia nel nuovo singolo, “A volte tu nella mia testa”, distorto e passionale racconto che inizia e finisce “nella albe dell’ovest, a giugno”. Voce e linea melodica s’arrampicano addosso piano piano, piccoli insetti che partono lente dal basso e affondano le zampette sulle gambe, fino a ricoprirti tutto il corpo.
MUSICA
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TRIVELLOR BeWoman Lithium
BeWoman è il disco d’esordio della band brindisina Trivellor, prodotto da Lithium e registrato al Sudestudio di Guagnano. La band, che muove i suoi primi passi nel 2013 con un progetto di cover delle hit anni ’80, realizza un album sincero e diretto, totalmente dedicato alle molteplici sfaccettature dell’animo femminile. Ulisse dovette legarsi all’albero maestro per non essere trascinato nelle profondità dell’oceano dalle suadenti sirene. Sembra questa l’idea che i Trivellor, con la loro musica, vogliono dare dell’amore: irresistibile e pericoloso. La forza dell’hard rock è contrastata dalla sensualità della voce e incorniciata dall’atmosfera glam: suonano e cantano come se stessero facendo l’amore. “Le dita sulle corde come sulle tue gambe, il ritmo della batteria a tempo col tuo cuore, le labbra sul microfono come sul viso...”. Sette tracce, tutte in inglese, che sembrano parlare a quella parte di te che hai sempre dovuto domare. Francesca Santoro
NUOVE USCITE PER CANTIGA DE LA SERENA, WELL IN CASE E UMBERTO TRICCA L’etichetta discografica Workin’ Label propone tre novità uscite negli ultimi mesi. “La serena” è l’esordio discografico del progetto La Cantiga de la Serena. Il trio nasce nel 2008 dall’incontro tra Giorgia Santoro, Adolfo La Volpe e Fabrizio Piepoli con l’intento di recuperare e rielaborare la musica antica del bacino del Mediterraneo. Il repertorio si basa, infatti, sul recupero delle antiche danze medievali, espressione di gioia e creatività nella musica del Medioevo, dei canti cristiani di pellegrinaggio e devozione (Cantigas de Santa Maria), delle antiche cantighe, coplas e romanze sefardite -espressione della cultura e delle tradizioni degli ebrei spagnoli vittime della “diaspora” dalla Spagna e dal Portogallo alla fine del ‘400. Funk, jazz ed elettronica si mescolano nell’omonimo Ep d’esordio dei Well in Case. Il trio composto dal chitarrista Davide Benincaso, dal tastierista Filippo Bubbico e dal batterista Vincenzo Messina realizza un lavoro di composizione e arrangiamento collettivo di grande eleganza, racchiuso in cinque tracce originali. Nato tra i corridoi del Conservatorio Giovan Battista Martini di Bologna, tra una jam session e una lezione, il progetto è stato anticipato dai singoli “No Dave’s Sky” e “Mr Parsiwell”, per i quali sono stati realizzati due video live. L’ultima novità è Moksha pulse, opera prima del chitarrista, compositore Umberto Tricca. Il lavoro nasce stimolato dalle fascinazioni verso la musica indiana, dal coinvolgimento degli aspetti ritmici, i contrappunti delle rumbe afro-cubane, ma anche dall’interesse riguardo le sonorità della musica classica contemporanea, tutti approfondimenti intrapresi da Tricca negli ultimi anni.
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MOTTA
Approda anche a Lecce il tour del cantautore Premio Tenco 2016 Uscito a marzo per Sugar, con la produzione artistica di Riccardo Sinigallia, “La fine dei vent’anni” è il primo disco da solista di Francesco Motta. Il musicista toscano, già cantante dei Criminal Jokers, sarà in concerto a Lecce sabato 3 dicembre alle Officine Cantelmo di Lecce per La Poesia nei Jukebox. Nel nuovo lavoro la poetica punk espressa in precedenza con il gruppo si dissolve: “La fine dei vent’anni” riesce a raccontare, infatti, il passaggio all’età adulta con un’apertura verso il futuro. Una vicenda delicata e complessa che viene risolta in maniera diretta, con un pop non sputtanato e originale che evoca immagini contemporanee. Motta ti guarda dritto in faccia dalla copertina dell’album, come tante icone mainstream; eppure il suo sguardo sembra dire soltanto: “Vi racconterò come faccio io, ovvero tutta la verità”. Ecco quello che ha detto a noi.
Francesco come stai? Com’è andata la data di apertura del tour al Karemaski di Arezzo? Tra l’altro è stato il tuo primo concerto da trentenne: la fine dei vent’anni si è, infine, realizzata... È stato bello; il concerto ha proprio preso una direzione che ho sempre sperato nella mia vita. In realtà c’è stata la parentesi del Tenco, però sì, dai, è il primo vero live da trentenne. Mi sento bene, e posso dire che in questo periodo sono felice. Leggendo una tua intervista mi ha colpito un passaggio nel quale affermavi: «è più difficile essere felici che essere incazzati». Concordo pienamente; inoltre questa frase coglie secondo me lo spirito che attraversa il disco: la rabbia adolescenziale lascia il posto alla costruzione di una serenità adulta... Sì. Guarda, nei testi che scrivevo per i Criminal Jokers, band con la quale ho suonato per tanti anni, c’era sempre un’incazzatura. Vedevo l’essere punk come non prendere
posizione, non fare politica. In questo senso intendo dire che ora si capisce come la penso, mentre prima dai miei testi non era esplicito. Nel disco c’è tantissima speranza, anche dove non appare. Ad alcuni testi, ad esempio, hanno accostato il termine “disagio”, ma secondo me ciò che scrivo è lontanissimo dal disagio. In definitiva nell’album c’è tutto quello che ho visto, quello che ho vissuto, quello che vorrei vedere e vivere. Quanto tempo è stato in incubazione “La fine dei vent’anni”? Tantissimo, più o meno quattro anni. Ci sono alcuni appunti, tantissimi pezzi che non sono entrati nel disco; è stato un lavoro durissimo, non piacevole, perché non è piacevole mettere il cuore sul tavolo e darlo in pasto alle canzoni. Quando abbiamo iniziato a vedere la luce, quando è subentrato anche Riccardo Sinigallia, allora lì ho capito veramente quanto mi piace scrivere le canzoni. Ho capito che avevo voglia di dire delle cose. Dove sono nati i brani che compongono il disco? Ho letto che “Del tempo che passa la felicità” è stata registrata in un trullo... Il luogo dove scrivi le canzoni è fondamentale. Il fatto che l’album sia stato scritto quasi tutto a Roma si sente. Anche se sono toscano, l’unico brano che non ho scritto a Roma è stato “La fine dei vent’anni”, che ho composto a casa dei miei genitori. In “Del tempo che passa la felicità” c’è questo giro di chitarra che è nato a Noci, in un trullo della murgia barese; mentre il testo è nato successivamente. A volte compongo prima il testo, a volte la musica; non ho delle regole. Per questo disco comunque ho registrato qualsiasi cosa mi passasse in mente, quindi ho gigabyte di roba che no ho usato. Mi incuriosisce sapere come hai lavorato durante le registrazioni. Mi spieghi la storia degli strumenti scordati? Lo spiego in parole semplici. In pratica quasi tutto il mondo utilizza un accordatore che ha dei riferimenti standard e indica quando lo strumento è accordato. Io però volevo sperimentare e provare, anche attraverso
canzoni pop, ad essere libero. Facendo tutto a orecchio, infatti, non è possibile essere perfetti e proprio questo tipo di errore ha rigenerato il mio approccio alle canzoni. È una cosa che si sente spesso anche nella musica africana. Tutto è partito da un disco di musica popolare islandese che ho sentito per un mese di fila, che non aveva l’accordatura standard a 440 Hertz; la cosa mi faceva avvertire degli odori diversi e mi è venuta voglia di sperimentare. In ogni caso, io comunque avrò un’accordatura diversa da Alessandra Amoroso; già per questa cosa sono abbastanza contento di quello che ho fatto. Francesco, una riflessione obbligatoria sulla produzione di Riccardo Sinigallia. Com’è andata? Riccardo è stato fondamentale soprattutto dal punto di vista testuale. Mi ha insegnato tantissime cose, mi ha portato in una condizione in cui riuscivo a vedere la luce e questo è il lavoro importante di un produttore artistico che poi è diventato uno dei miei migliori amici. Ti sei aggiudicato la Targa Tenco per la miglior Opera Prima e anche il premio PIMI 2016 del MEI, come artista indipendente italiano dell’anno. Mi sembra giusto, quindi, chiederti che musica ascolti. Ma, guarda, il disco che ho ascoltato di più quest’anno è stato quello di Salmo; anche se è un mondo apparentemente diversissimo dal mio... Un concerto che mi ha abbastanza cambiato la vita, invece, è stato quello dei Tinariwen, un gruppo tuareg che viene dal Mali. Per chiudere, una domanda che rivolgerei a un mio amico coetaneo dopo una chiacchierata come questa. Come hai trovato la tua strada? Ho capito che avrei fatto musica da quando avevo 18 anni. Sono una persona che ama lavorare tantissimo sulle cose. Bisogna dare tutto, a prescindere dai risultati; non pensare ai risultati è l’unico modo per raggiungerli. Chiara Melendugno
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Leonard CoHen You want it darker Sony La morte di Leonard Cohen è presente in questo suo ultimo album. Registrato con il figlio Adam poco prima di morire, il cantautore contempla la fine, la accoglie. Lo fa componendo gospel da cantare sottovoce, scandendo il respiro sabbioso, terreno che è l’orizzonte e l’arrivo degli arrangiamenti aerei (organi, riverberi, cori, corde, legno). Di questi pochi elementi è composto il mondo racchiuso in “You want it darker”, un compendio ancora una volta brillante e drammaticamente bello della sua poetica. Un ultimo regalo.
The Lemon Twigs Do HollywoodAlr 4AD I giovanissimi fratelli D’Addario sono una delle cose più “anacronistiche” (come loro stessi affermano) e allo stesso tempo nuove in circolazione. Sono un po’ troppo acrobatici per i miei gusti ma sorprendenti per la capacità di mettere su un circo rock glam, psichedelico, garage che attinge alla melodia di Mc Cartney, la vocalità dei Beach Boys, alcuni barocchismi dei Queen ma ha anche influenze pop contemporanee come Thee Oh Sees e MGMT. Il batterista sembra la reincarnazione di Keith Moon (batterista degli Who) e ho detto tutto.
Tim Buckley Lady, Give Me Your Key: The Unissued 1967 Solo Acoustic Sessions Light In The Attic Records Per gli amanti della musica rock il 67 è un anno speciale, escono i Pink Floyd, i Doors, Sgt Pepper dei Bealtes, Forever Changes dei Love, i Ten Years Afters. Quello stesso anno Tim Buckley registrava il suo Goodbye & Hello. Un disco che sperimenta forme musicali, che mette in discussione la scrittura classica della canzone e che oggi torna nudo con queste 13 registrazioni in cui possiamo ascoltare solo la voce di Tim e la sua chitarra. A impreziosire il disco ci sono anche sei brani inediti. Un po’ come il “Live at Sin-é”del figlio Jeff.
Piers Faccini I dreamed an Island Beating drum/Ponderosa Esiste un luogo, un’isola appunto, in cui il passato e il presente si conciliano e si incrociano, in cui i suoni provenienti da luoghi lontani e diversi convergono in una nuova musica. Che ha i colori del Mediterraneo, del Salento e il suo dialetto (“Bring down the Wall”), dell’Africa e dei suoi mantra che sono preghiere e blues al contempo. Questa circolarità musicale caratterizza tutto il disco che esplora non solo linguaggi musicali ma anche strumenti antichi. La finale “Oiseau” è un commovente “arabeggiante” ricordo dell’attentato al Bataclan.
Bob Weir Blue Montain Sony Senza i Grateful Dead la celebre Summer of Love non sarebbe stata così bella, il loro jam rock in acido ha segnato indelebilmente la storia del rock. Accanto alla presenza ingombrante di Jerry Garcia c’è sempre stato Bob Weir figura più defilata ma rocciosa nella ritmica. “Blue montain” è il suo primo album di inediti, un disco semplicemente folk, un classico, scritto e interpretato insieme a una manciata di amici. È l’opera di un uomo che ha cambiato le visioni di una generazione e oggi si gode un presente pacificato e bucolico.
Lambchop Flotus Merge records Così come Bon Iver, ma in modo meno radicale, anche i Lambchop imboccano questa nuova strada di destrutturazione della canzone. Il loro alternative country dal 94 a oggi ha attraversato varie mutazioni sonore, ha sempre custodito la peculiarità vocale del leader Kurt Wagner impreziosendone le storie, sottolineando il mood che accompagna da sempre la band. Flotus sta per “For Love Often Turns Us Still” sintesi della figura di Wagner da sempre osservatore attento e narratore del mondo delle piccole cose e dei grandi temi.
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RICCARDO TESI
L’organettista toscano e la sua “vita a bottoni”
Se è vero che esistono autobiografie di gruppi folk, che si trovano libri su vita e opere delle ‘stelle’ del primo folk revival, occore riconoscere che un libro concepito intorno a un musicista nel pieno della sua attività artistica, ma non appartenente al mainstream, che non è né un cantautore né un jazzista, è cosa nuova nel panorama editoriale italiano. Pioniere della rinascita dell’organetto in Italia, Riccardo Tesi ha coniugato senza dogmatismi la tradizione toscana (in cui non era presente l’organetto), sarda e centroitaliana della piccola fisarmonica bitonica con altri linguaggi, dal Rinascimento ai Balcani, dal jazz alla canzone d’autore, dal liscio primigenio agli stilemi world. Il pistoiese ha dato al suono dell‘organetto italiano un respiro internazionale attraverso tante collaborazioni. Tesi ha ben chiara la consapevolezza del suo ruolo autoriale e dell’essere un personaggio musicale di confine. “Una vita a bottoni” del filosofo, critico musicale, attore e registra teatrale Neri Pollastri (Squilibri) è accompagnato da ottanta minuti di musica, raccolti in un’antologia di sedici brani del repertorio di Tesi. Come nasce questo libro? Ho compiuto sessant’anni e invece di andare da uno psicanalista sono andato da Neri Pollastri, che mi ha fatto allungare sul suo diva-
no e mi ha detto raccontami cosa hai fatto nella vita. Questo perché volevo farlo sapere a mia figlia, che mi ha sempre visto partire. In realtà, c’era anche la voglia di raccontare un percorso musicale, far vedere da dove ero partito per arrivare a quello che sto facendo oggi, raccontare la mia esperienza musicale che coincide con l’evoluzione che c’è stata nel folk revival da quando ho iniziato fino ad oggi. Sono partito dalla musica tradizionale con Caterina Bueno che cantava in “Balla Ciao”, sono diventato musicista un po’ per caso perché lei ci ha chiesto di accompagnarla. Avevo scelto di fare lo psicologo nella vita, ma questa occasione di suonare con lei mi ha dato la possibilità di diventare musicista professionista da un giorno all’altro. Ho cominciato a suonare l’organetto in quel momento, a ventidue anni, molto tardi, ma la passione era così forte che ho mollato tutto, studi compresi e mi sono concentrato su questo. Sono salito sul treno e non sono mai più sceso. Dal folk revival puro alla musica tradizionale toscana: suonando l’organetto ho aperto la mia musica prima a una fase in cui ho iniziato con un gruppo che si chiamava Ritmia, facevamo musica nostra però molto influenzata dalla musica tradizionale, poi via via ho allargato sempre di più il mio panorama fino anche a recuperare una certa anima
rock, la mia passione per il jazz che avevo prima di immergermi nella musica tradizionale. È stato un percorso non progettato, fatto di incontri casuali in alcuni casi, in altri invece fortemente desiderati. Ogni incontro ha arricchito il mio percorso musicale e lo ha deviato, è stato un divenire più che un progetto di percorso. Hai cominciato da autodidatta, quando alla fine degli anni Settanta era difficile imparare uno strumento come l’organetto… Non esisteva niente. Mi sono innamorato di questo strumento perché ho visto un gruppo, il Canzoniere del Lazio, in cui c’era Francesco Giannattasio che lo suonava in tre quattro brani. Quando cominciai a suonare con Caterina Bueno, mi ritrovai anche a prendere il suo posto. Suonavo la chitarra male e in un gruppo di tre chitarristi ero il più scarso. Così mi hanno consigliato di fare il polistrumentista. Uno degli altri due chitarristi aveva un organetto, quando ci ho messo le mani per la prima volta, ho sentito la scintilla. Mi sono ritrovato però a dover fare tutto da solo, nel senso che all’epoca non c’erano i corsi. I miei maestri sono stati i musicisti tradizionali che ho incontrato nel sud della Toscana, nelle Marche e nel Lazio e poi i dischi, anzi dalle musicassette, che si compravano al mercato. Fabrizio De André, Fossati, Gianmaria Testa: sono tanti i cantautori con i quali hai intersecato il percorso musicale… Diciamo che ho sempre amato la canzone d’autore e da ragazzo suonavo le canzoni di Fabrizio De André alla chitarra. Essendo un chitarrista scarso, riuscivo, però, ad accompagnare qualche canzone da Bob Dylan arrivando agli italiani Guccini, De Gregori. Ero appassionato di canzone d’autore, l’interesse per la musica popolare mi ha allontanato un po’ da questo genere. Però nel 1996, quando ho collaborato sia in “Macramè” di Ivano Fossati sia in “Anime Salve” di Fabrizio De Andrè, queste esperienze mi hanno messo in contatto con un mondo musicale che per un periodo avevo un po’ snobbato, ritenendolo troppo commerciale o troppo semplice. In realtà, è stata una lezione di musica fondamentale perché mi ha completamente trasformato; ho scoperto di avere a che fare
con grandissimi artisti così come tutto l’entourage fatto di musicisti di grandissimo livello con cui ho cominciato a lavorare. Dai mostri sacri della canzone d’autore alle nuove generazioni: ti sei trovato a collaborare di recente con Massimo Donno e Massimiliano Larocca. Sono due occasioni in cui mi è capitato di svolgere un lavoro diverso da quello che ho sempre fatto. Ho sempre arrangiato la mia musica, a realizzarla a produrla e a metterla su disco. Con Massimo è nato tutto da una collaborazione per un concerto, al quale mi aveva invitato qui in Puglia. Abbiamo lavorato su due, tre canzoni sue, abbiamo cominciato a condividere certe mie idee. L’esperienza ha funzionato, tant’è che mi ha chiesto di occuparmi dell’album e quindi ho indossato i panni del produttore artistico che prima avevo fatto solo e per me stesso e devo dire che sono estremamente felice di questo lavoro, che ho fatto con grande passione. Tra i recenti progetti c’è “Bella Ciao”. È stato un po’ un ritorno all’origine. In concerto racconto sempre che mio padre ha comprato un solo disco in vita sua ed era “Bella Ciao” e io, da piccolo, lo ascoltavo sempre. Mi svegliavo la domenica mattina, quando lui non lavorava e c’era sempre questo disco che suonava. Era un segnale del destino, che all’epoca non sapevo cogliere. Però in quel disco c’era Caterina Bueno, che è la persona che mi ha portato alla musica. Quindi due anni fa, quando Franco Fabbri mi ha chiamato chiedendomi di occuparmi del riallestimento di “Bella Ciao” per i cinquant’anni, pensando che mio padre era morto da due mesi, ho pensato che era un segno del destino, che avrei dovuto fare quello spettacolo e che avremmo dovuto fare una sola replica. Facemmo questo concerto a Milano, che fu un trionfo e ci siamo emozionati a tal punto che abbiamo pensato di rifarlo, poi ci hanno cominciato a chiamare tutti. Siamo a trentacinque concerti, sempre con un sacco di gente, abbiamo suonato a Vienna alla Concert Hall, in Francia con milleduecento paganti, Siamo di ritorno dallo showcase al Womex di Santiago de Compostela. Salvatore Esposito e Ciro De Rosa
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AA.VV. We are not going back Nota Carrie Rodriguez Lola Appaloosa Figlia del cantautore David Rodriguez e pronipote della diva della musica ranchera Eva Garza, Carrie Rodriguez è una cantautrice e polistrumentista texana. Da poco è uscito anche in Italia “Lola” disco che segna un ritorno alle sue radici messicane. Il disco, leggero e affascinante nella sua semplicità, è ispirato alla grande cantante messicana degli anni ‘40, Lola Beltràn (quella di “Cuccurrucucù Paloma” e “Perfidia”) e, per la prima volta, è composto in gran parte da canzoni scritte in spagnolo: classici, brani inediti e alcuni pezzi dove lo spagnolo si alterna all’inglese in un mélange sempre interessante e mai scontato. I musicisti - da segnalare anche la partecipazione di Bill Frisell nello strumentale “Si No Te Vas” - sono tutti nomi ben conosciuti della scena country: il contrabbassista Viktor Krauss è da sempre side-man di Lyle Lovett, e da vent’anni collaboratore dello stesso Frisell, il batterista Brannen Temple è membro degli Animals di Eric Burdon e della band di Robben Ford, il chitarrista David Pulkingham, collabora con tutti i cantautori della scena americana contemporanea, da Alejandro Escovedo a Patty Griffin, mentre Luke Jacobs, virtuoso di lap e pedal steel, è il compagno di Carrie nella vita e negli spettacoli in duo. Ma è da sottolineare anche l’abilità di Carrie al violino (il suo assolo è il pezzo più applaudito ai concerti), con cui passa con destrezza dai fiddle-tunes di matrice bluegrass, a improvvisazioni jazz, al blues al pizzicato, e alla tenor-guitar (una chitarra a quattro corde, accordata come una mandola). Gianluca Dessì
“Musiche migranti di resistenza, orgoglio e memoria” è il sottotitolo del cd di ventiquattro tracce, curato da Alessandro Portelli e realizzato in collaborazione con il Circolo Gianni Bosio e l’Istituto Centrale per i Beni Sonori e Audiovisivi. “We are not going back” è la terza produzione discografica del progetto “Roma Forestiera” (dal titolo di una canzone romana che nel 1949 lamentava la fine della musica dalle strade delle città, soppiantata dalla radio e dalla popular music d’oltreoceano), iniziato nel 2009, che si prefigge di indagare le musiche di quei migranti che hanno riportato la musica nelle nostre strade. «Quando parliamo di musica popolare, parliamo sempre di “radici”, come se la musica fosse obbligata a restare sempre nello steso posto. Ma dovremmo parlare di ali, e dovremmo parlare di piedi: la musica è immateriale, non conosce confini, attraversa mari e deserti, seguendo i passi dei migranti, dei rifugiati, degli esuli, dei viaggiatori. Non sono radici del passato, sono semi del futuro portati dal vento», sottolinea Portelli. Ciro De Rosa
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FRANCESCO DI BELLA Nuova Gianturco La Canzonetta - Sintesi 3000 Situato ai margini del centro di Napoli nei pressi della Stazione Centrale e del Centro Direzionale, il quartiere Gianturco è noto per essere sede di immensi stabilimenti industriali del settore petrolchimico e metallurgico, che si scorgono già dall’autostrada preannunciati dall’odore intenso di benzina che si sente nell’aria. L’industrializzazione e la vicinanza al porto e a quei grattacieli che avrebbero dovuto segnare la rinascita del quartiere, non hanno impedito che diventasse uno dei più degradati della città. Nonostante ciò, lì nel 1991 nacque Officina 99, centro sociale occupato dal movimento universitario “Pantera” che divenne una vera e propria fucina creativa per tante formazioni campane come Bisca, 99 Posse e 24 Grana. A questo quartiere a lungo frequentato, Francesco Di Bella ha dedicato “Nuova Gianturco”, il suo primo album di inediti come solista, nel quale si intrecciano storie di vite ai margini e di precari, di sconfitte e di sogni, di rabbia e di dolcezza di gente che però non smette di sognare un futuro migliore per sé e per la propria città. E dunque è nell’aggettivo “Nuova” che è racchiuso tutto questo, con la periferia di Napoli diventa il simbolo di tutte le periferie del mondo in cerca di riscatto, nonostante le difficoltà e il degrado. Se il disco precedente ci raccontava l’esigenza di Francesco Di Bella di riappropriarsi come cantautore del repertorio dei 24 Grana, questo nuovo disco fotografa in modo eccellente la sua piena maturità come songwriter, svelandoci canzoni intense e profonde tanto dal punto di vista tematico quanto da quello ispirativo. Prodotto ed arrangiato da Daniele Sinigallia (chitarre e programing), il disco vede al partecipazione di un folto gruppo di strumentisti a cui si aggiunge i basso di Joe Lally dei Fugazi. “Nuova Gianturco” - frutto di un lavoro di confronto creativo serrato e costante - è il disco di un cantautore maturo in grado di evocare nelle sue canzoni immagini poetiche di grande suggestione nelle quali si intrecciano temi sociali, esperienze personali e spaccati autobiografici. Salvatore Esposito
Gruppo Spontaneo Trallalero CantöRiöndö Felmay Il “suono di Genova” riecheggia in quest’ultima opera del Gruppo Spontaneo Trallalero, che festeggia trent’anni di attività con una raccolta antologica. Le tracce – talune molto rare – provengono da fonti diverse: dai nastri magnetici trattati e riversati digitalmente a inedite registrazioni di studio, il che porta con sé notevoli difformità foniche nel disco. Oggi il GST è presieduto da Vittorio Ghiglione, mentre Eugenio Rissotto (voce chitarra) e Laura Parodi sono i testimoni di una lunga attività di studio e ricerca, di canto in giro per il mondo, di riconoscimenti. La curatela delle ottime note di presentazione è della stessa Parodi, straordinaria voce limpida e naturale da contralto. L’appellativo “spontaeo” non deve far pensare a semplicità o a “spontaneità” esecutiva, piuttosto è da intendersi come modalità di aggregazione, poiché per eseguire questo stile di canto, assai complesso e suggestivo, davvero originale per la fioritura e l’abbellimento melodico, per i contrappunti e l’imitazione strumentale, occorre un forte affinamento vocale. Trallalero, canto di terra genovese: patrimonio inestimabile della musica italiana. Ciro De Rosa
LIBRI
GIORGIA LEPORE
“Angelo che sei il mio custode” è il nuovo romanzo “nero” della scrittrice di Martina Franca Giorgia Lepore, archeologa e storica dell’arte di Martina Franca, è considerata una delle nuove e più importanti voci del romanzo nero italiano. Una delle poche donne candidate, al fianco di nomi maschili più noti, al premio Scerbanenco 2016 con il suo nuovo romanzo, “Angelo che sei il mio custode”, pubblicato con E/O nella collana SabotAge. Le voci femminili nel noir fanno fatica ad affermarsi in Italia? Abbastanza. Diciamo che partiamo con un doppio svantaggio. Il primo è quello comune a tutte le scrittrici: si fatica molto a essere considerate al pari dei colleghi uomini, lo vediamo nelle vendite, nelle classifiche, nei consigli di lettura, nelle pagine dedicate, nei cartelloni dei festival. In tutto ciò, l’etichetta di “letteratura al femminile” secondo me non aiuta per niente. Insomma, a volte pare una sorta di autoghettizzazione, un voler rivendicare una femminilità nella scrittura
di cui non comprendo il senso. La letteratura, e l’arte in generale, non dovrebbe avere un genere maschile o femminile. Il secondo svantaggio è legato al genere, tradizionalmente visto come “maschile”, ma anche qui mi pare un anacronismo ridicolo. È poi un problema molto italiano, come del resto la fissazione sui paletti del “genere”. All’estero ci sono scrittrici noir molto affermate, penso a Vargas, Lackberg, Highsmith, solo per fare alcuni nomi. Qui in Italia pare che non ci sia spazio. Ma siccome le lagne mi piacciono poco, preferisco scendere in campo e cercare di cambiare le cose nei fatti. Entrambi gli aspetti della tua vita, archeologia e scrittura poliziesca, hanno a che fare con l’indagine e gli indizi da seguire: è per questo che un’archeologa diventa giallista? Chissà, forse. Di base c’è il fatto che ho sempre letto noir, gialli, polizieschi, fin da bambina. Poi sicuramente c’è una certa analogia
di “metodo” con l’indagine archeologica, o se vogliamo di forma mentis: l’analisi dei dati, dei contesti, dei fatti, ma anche dell’animo umano, la ricostruzione di eventi, sono tutti fattori in comune. Ci sono anche proprio dei dettagli tecnici molto simili, un’analogia nella procedura di lavoro. E poi un altro fattore, che secondo me conta, ed è il contatto con la morte. In vita mia ho scavato decine di tombe, e non senza emozione. È un coinvolgimento che controlli, ovviamente, e che poi diventa routine, ma se prendi un attimo le distanze da quella routine ti rendi conto di cosa hai davanti davvero: quello che un tempo era un essere umano. Ecco, penso che questo contatto con la morte che diventa routine, ma che ha comunque un forte impatto emotivo, anche se controllato, sia un altro elemento in comune con il noir, e con alcuni aspetti del lavoro di investigatore nelle forze dell’ordine. Il protagonista dei tuoi romanzi è Gregorio Esposito, ispettore di polizia, zingaro, apolide e senza radici, un passato oscuro e un’interiorità segnata da una mappa di nodi emotivi e non solo. Nel primo libro che lo vedeva protagonista, “I figli sono pezzi di cuore”, Gerri si confrontava con una serie di omicidi di donne, in questo nuovo romanzo ha a che fare con la scomparsa di alcuni bambini. Chi è Gerri e che rapporto avete voi due? Gerri è nato in una sera d’estate in cui ero al mare, e non saprei dire altro di quell’idea. Da allora non mi ha più lasciato, e io non ho lasciato lui. I personaggi dei libri sono reali, vivono in una parte del cervello di chi li scrive, e poi si spera anche di chi li legge. È come un gioco da bambini, in cui le finzioni sono mescolate alla realtà: lo sai che è tutto finto, eppure ci sono dei momenti in cui sei fuori dal mondo e diventa magicamente tutto vero. Gerri è così, è un po’ una creatura mia, un po’ uno che va per i fatti suoi. Qualcuno mi ha fatto notare che parlo di lui come di un figlio, e forse sì, me lo sento così. Infatti gli perdono un po’ tutto: il pessimo carattere, l’indecisione perenne, una certa ignavia nei rapporti, la freddezza apparente, i colpi di testa repentini e irra-
zionali. Ma ha anche delle cose buone, per esempio il senso dei suoi limiti. SabotAge è stata definita da Massimo Carlotto, che ne è il curatore, una collana “dedicata alla realtà italiana per sabotare il silenzio quotidiano su temi inquietanti eppure rigorosamente taciuti”. Mi hai detto, una volta, che i romanzi che entrano a farne parte sono dei noir trasversali, non semplici polizieschi. Cosa hanno di diverso? Sono trasversali nel senso che attraversano tutte le varianti del genere “noir”. Non sono polizieschi classici, non sempre ci sono investigatori canonici, a volte c’è una indagine, ma non è detto. Hanno caratteristiche del giallo, del thriller, del poliziesco classico all’italiana, ma anche dell’inchiesta giornalistica, in una sorta di contaminazione tra generi che di fatto spesso li colloca fuori dai paletti del genere. Ecco direi che la parola “contaminazione” è una chiave importante, e a me piace moltissimo. L’altra parola chiave è “territorio”. È una letteratura fortemente ancorata al territorio, in cui l’analisi della realtà ambientale, sociale, politica, economica, storica del territorio è fondamentale. La nuova indagine di Gerri si addentra nel cuore del Gargano, nelle viscere della grotta di Monte san Michele. La Puglia è una terra noir? Tantissimo. La Puglia è una terra di grandi contrasti: innovazione e tradizione, isole di cultura e sacche di arretratezza, soldi, mafia, turismo, una terra che va avanti e allo stesso tempo resta indietro. In cui c’è lo scontro tra una società ormai metropolitana, industriale, e una contadina, rurale. Tutto questo è molto affascinante dal punto di vista narrativo, e finalmente possiamo rivendicare una nostra narrativa, una nostra letteratura, che parla della nostra identità, senza essere folklore. In Puglia abbiamo molti scrittori noir, e secondo me è anche per questo, perché il noir è un linguaggio adatto a raccontare il territorio senza indulgere in stereotipi. E poi abbiamo scenari naturali magnifici, e la bellezza sa essere uno splendido contraltare al male. Alessandra Magagnino
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Stefano Zuccalà
“La tua sopravvivenza” è un flusso da prosa a poesia per raccontare la fine di un amore, l’assenza, la solitudine. Stefano Zuccalà è uno scrittore instancabile, dotato di un ritmo interiore, segue da anni la sua strada e la sua ricerca. Un lavoro prezioso sulla lingua e sulla parola e una ricerca personale che è auscultazione del mondo, traduzione del dolore. Tra gli ultimi romantici in circolazione, pubblica grazie a Musicaos questo “La tua sopravvivenza”. Non un romanzo e neanche un libro di poesia, un flusso in prosa e in versi per raccontare la fine di un amore, l’assenza, la solitudine. “La tua sopravvivenza” è un libro sul dopo, su quello che resta, è una sorta di elogio funebre a un amore finito. Una confessione dolorosa e necessaria. Certamente. Dici bene, è un libro sul dopo. Un “dopo” che ti rimescola il sangue, le viscere e il cervello tanto quanto o molto più del “prima”. Ma se guardiamo bene ai sentimenti – quelli veri –, ci accorgiamo che traggono la loro potenza, sempre e inevitabilmente, da una grande distanza. Anche in presenza della persona amata. In un capitolo del libro mi sono ritrovato a dire: “Mi sei sempre mancata. Anche quando ti avevo fra le braccia”. Perché, invece, dare per scontata una persona ne sancisce di fatto la morte come oggetto amato – scomparsa la “distanza”, insomma, scomparso il magnete. L’amore è un continuo lavorio di costruzione-distruzione di un’immagine. Nessuno di noi è degno di “elettività”, preso in se stesso. È l’altra che mi crea – sono io a creare l’altra. Aggiungerei, poi, che la Donna è la bel-
lezza “informe” per eccellenza. Un informe di belle forme. Ci sfugge sempre nella sua essenza – anche quando ci è vicina e ci ama alla follia. Ci deve sfuggire, altrimenti viene a noia – e noi veniamo a noia a lei. E diventiamo dei pantofolai dell’anima e del corpo. Questo libro è una confessione necessaria, sì. È un’opera patologica. Non è stata concepita, inizialmente, per la pubblicazione. Ho tergiversato molto prima di gettare “La tua sopravvivenza” in pasto al fuori. È un lavoro davvero “osceno” – c’è una nudità, dentro, di cui provare vergogna. Non c’è alcuna mediazione in queste pagine. Sono parole che a volte danno un senso di oppressione. Prendere o lasciare. Non è un romanzo, non è una raccolta di poesia, è prosa e lirica, è un’opera in due movimenti. Ci racconti il perché di questa scelta? La prima parte, quella in prosa, ha dato la stura al tutto. Dovevo assecondare questa voce per liberarmi di qualcosa. Premeva un magma, dovevo lasciarlo andare per non impazzire. La seconda parte, quella in versi, raccoglie invece gli aspetti più residuali e freddi di questa esperienza – esperienza che credo sia appartenuta a molti di noi. Sono versi spezzati, scolpiti – raggiungono una certa “ariosità” solo raramente. Sono dei reperti calcarei, materici. Prosa e lirica si rimescolano continuamente, nel mio sentire. Sono contaminate nel musicale che esiste nelle parole, per me la scrittura è sempre un fatto “sonoro” – meglio dire: “vocale”. (O.P.)
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MINO PICA
Falzea/Gori/Bragalone
CARLO FORMENTI
Dopo “Hotel” (Lupo Editore, 2013), il giornalista e scrittore brindisino Mino Pica continua il suo viaggio narrativo con “Quando arriva domenica” (MusiCaos). Un libro incentrato sulla riflessione e sul cambiamento di prospettiva delle cose. “Al centro argomenti che per pigrizia o ipocrisia abbiamo deciso di non affrontare più, semplicemente perché farlo ci metterebbe faccia a faccia con quella parte di noi, più nascosta, che non accetterebbe più compromessi”. Il suggerimento, il grido silente, è focalizzato così sul recupero di quanto c’è ancora di noi, dentro di noi, ancora, nel paradosso. Un invito al recupero di una partecipazione sociale che parte, anzitutto, da una partecipazione col proprio sé, recuperato, riappropriato, dalle sensazioni e dal gusto di ciò che proviamo, quotidianamente. Il libro è strutturato in 32 brevi capitoli, in 32 giorni che scandiscono la ricerca di una domenica che forse arriverà, sta già arrivando o, ancora, è arrivata.
“Anatomia dei Sentimenti (Guida Illustrata alle relazioni amorose)” è un progetto editoriale nato un paio di anni fa sul web, passato anche dal palcoscenico e approdato adesso alla carta. In uscita un bel volume di circa 100 pagine nelle quali convivono i testi narrativi e poetici di Giulia Maria Falzea, le fotografie di Claudia Gori e le illustrazioni di Ilaria Bragalone. Dall’aorta allo zero, passando per diaframma, punto g, intestino, karma, ombelico, quore, utero e vene le autrici disegnano un atlante esperenziale. “L’idea prende corpo dalla necessità di due ragazze in età da marito di confrontarsi con la posta del cuore”, scherzano le autrici nella premessa. Il progetto nasce dall’interesse di scoprire e analizzare con la scrittura e la fotografia i diversi linguaggi dei sentimenti. Le immagini, quasi al microscopio, e i testi costruiscono un percorso di parole, corpi e musica. Un progetto utile per la generazione che ha fatto proprio il motto “in amore vince chi è online e non risponde”.
Se Philip Dick fosse in vita e leggesse il nuovo libro di Carlo Formenti senza dubbio trarrebbe ispirazione per un ennesimo capolavoro come “The man in the high castle”. Ma l’approccio dell’autore è tutt’altro che fantascientifico e i contenuti de “La variante populista” per quanto difficili da digerire, come Formenti stesso suggerisce al lettore, prospettano degli scenari politici tristemente realisti. Quattro capitoli densi di teoria in cui dall’ascesa internazionale delle destre, alle quali l’eutanasia della sinistra ha dato campo libero alla ‘tutela’ delle classi deboli, si giunge a un duro attacco all’Europa del capitale e degli interessi finanziari. Se la sinistra in tutte le sue forme non è stata in grado di difendere le istanze dei lavoratori, contribuendo alla fine del movimento operaio, è quindi il populismo che, sdoganato come forma politica, unifica le conflittualità sociali e potrebbe riproporre una nuova lotta di classe. Simone Rollo
Quando arriva domenica MusiCaos
Anatomia dei Sentimenti Anatomie
La Variante populista DeriveApprodi
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ALBERTO CASTELLI Di Bob Dylan, delle pantere nere, di Otis Redding e di altro ancora Da qualche mese negli scaffali delle librerie italiane potete trovare questi piccoli libri dal sapore e dallo stile vintage. Una collana che la casa editrice Vololibero ha deciso di dedicare ai grandi personaggi e alle memorabili vite dei grandi artisti della soul music. Un genere che ha segnato indelebilmente la storia della musica e continua a colorare il sound di tantissime produzioni contemporanee. Sono in programma dieci monografie molto utili per i neofiti del genere e indispensabili per gli appassionati. Al momento sono disponibili Aretha Franklin di Gabriele Antonucci, Al Green di Lucia Settequattrini, Marvin Gaye di Carlo Babando e da pochi giorni Otis Redding. Scritto da Alberto Castelli che è anche direttore della collana, grande amico di Coolclub e ospite venerdì 2 dicembre della nostra rassegna “La Poesia nei Jukebox” con un personalissimo omaggio a Bob Dylan. Il libro è un viaggio nella
vita di Otis ma anche un affascinante spaccato dell’America di quegli anni, tra aneddoti “leggendari” e vere e proprie chicche, una nuova storia da scoprire, un grande artista da ricordare. «Otis è il mio cantante preferito in assoluto. La voce delle voci. L’anima e il cuore del soul. Il simbolo del soul della Stax di Memphis. Impiegò tanti anni per arrivare in alto e quando questo avvenne, purtroppo è scomparso», sottolinea Castelli. «Una storia che vale la pena raccontare per un artista che bisogna celebrare. Raccontare la sua vita e la sua arte, vuol dire anche raccontare l’America degli anni ‘60, le lotte per i diritti civili dei neri, l’ascesa del soul e quella di una piccola etichetta indipendente di Memphis – la Stax - che trasformò in un suono diretto e immediato anche le tensioni, la rabbia e i sogni di quel periodo. Alla Stax lavoravano insieme, fianco a fianco, giovani neri e bianchi, rispettandosi e questo per l’America di
Roberto Saviano La paranza dei bambini Feltrinelli
quel periodo era qualcosa di rivoluzionario». Il libro, come detto, fa parte della collana Soul books. «Ideata da Claudio Fucci di Vololibero edizioni, vuole raccontare i grandi protagonisti della stagione d’oro del soul. Lo facciamo e lo faremo con libri agili, leggeri, coinvolgenti proprio come il soul più autentico. È un progetto al quale sono molto legato e che voglio sviluppare nel migliore de modi possibile». Il 2 dicembre alle Officine Cantelmo di Lecce, il giornalista e scrittore presenterà “Di Bob Dylan, delle pantere nere, di Otis Redding e di altro ancora”. «È il mio nuovo spettacolo di quella che mi piace definire “letteratura orale popolare”. Racconto del Dylan del 1965, quando rivoluzionò la musica e mise, appunto, la poesia nel jukebox. Racconto dei suoi rapporti con le Pantere Nere, di quando incontro Otis Redding e di altro ancora. Mi sembra che sia una bella storia».
Torna Roberto Saviano in libreria. E stavolta lo fa con un romanzo: “La paranza dei bambini”, appena uscito per Feltrinelli. Considerato il suo esordio nella narrativa, lo scrittore napoletano, diventato celebre nel 2006 grazie a “Gomorra”, entra implacabile nella realtà che ha sempre indagato e ci immerge nell’autenticità di storie immaginate con un romanzo di innocenza e sopraffazione. Crudo, violento, senza scampo. Paranza è nome che viene dal mare, nome di barche che vanno a caccia di pesci da ingannare con la luce. E come nella pesca a strascico la paranza va a pescare persone da ammazzare. Qui si racconta di ragazzini guizzanti di vita come pesci, di adolescenze “ingannate dalla luce”, e di morti che producono morti.
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COOLIBRì - altre letture ANTONIO MANZINI Orfani bianchi Chiarelettere
Il cardine del romanzo di Manzini non è il ruvido vice questore Rocco Schiavone, che tanto amo e che tante polemiche ha scatenato con la sua trasposizione televisiva, a causa della sua abitudine di cominciare le giornate con uno spinello in questura. Protagonista di queste pagine è Mirta, ragazza madre moldava che, in una Roma feroce ed egoista, lavora come badante. Passa da una casa all’altra, dispensando sostegno e cure a estranei che aspettano solo il loro ultimo giorno, nell’indifferenza del parenti. Tra lei e i malati, si stabilisce un’intimità che supera le differenze, piccole confidenze, gesti, sguardi. Il conforto che porta nelle case la aiuta a sopportare le umiliazioni, le difficoltà e la lontananza dal figlio, il piccolo Ilie. È lui l’orfano bianco, uno dei tanti bambini che crescono negli orfanotrofi dei paesi dell’est e che hanno i genitori vivi ma lontani per lavoro, e con il quale sogna un futuro sereno. Manzini, con garbo, sensibilità e lucidità racconta una storia di affetti, quelli degli immigrati, lontani, che diventano ragione di vita, e i nostri, vicini, che non osiamo più considerare perché la malattia e la sofferenza sono fardelli che preferiamo affidare a qualcun altro. (A.M.)
SANDRONE DAZIERI L’angelo Mondadori
Dopo 2 anni di attesa Dazieri pubblica il seguito del riuscito “Uccidi il padre”, e valeva la pena aspettare. Colomba Caselli, vicequestore trentenne, perseguitata dagli attacchi di panico, ha di nuovo bisogno dell’aiuto di Dante Torre, l’esperto di persone scomparse, tormentato dagli incubi del suo passato. Colomba, con la sua forza e la sua fragilità, i desideri femminili del suo corpo scattante e gli spigoli del suo carattere determinato. Dante che spilla da una macchina espresso i suoi caffè di ottima qualità, dosati con perizia da alchimista, e li mescola a sigarette, alcool e psicofarmaci in quantità sapientemente studiate per alleviare i sintomi delle sue numerose fobie e paranoie. Una strage sul treno ad alta velocità Milano Roma, in cui tutti i passeggeri della carrozza Top perdono la vita, la pista del terrorismo islamico e una rivendicazione dell’Isis. Ma qualcosa non quadra: l’attentato è opera di una misteriosa donna che sta seminando una scia di morti in tutta l’Europa, senza lasciare tracce, solo un nome: Giltiné, il bellissimo e letale angelo lituano della morte, una seducente antieroina. Un thriller trascinante, che tiene incollati alla pagina fin dalle prime battute. (A.M.)
Wu Ming Il ritorno dei Cantalamappa Electa
PAOLO COGNETTI Le otto montagne Einaudi Un romanzo che affascinerà chi ha amato Mario Rigoni Stern e che, probabilmente, Paolo Cognetti voleva scrivere da tempo, per cantare l’amore per le vette, i boschi di larici, i pascoli d’alta quota, i sentieri tra le rocce e le baite alpine. Ma questo è anche un romanzo sulla solitudine della vita in montagna, “quasi il rovescio dei mari di Conrad, la virile solitudine di uomini abbandonati al destino, contro gli uragani dell’oceano, ma più del cuore,” come scrive Maurizio Crosetti su La Repubblica. Forse anche sull’egoismo della solitudine, come lo stesso Cognetti, che vive davvero in una baita e non compare sui social, confessa. Nel romanzo, velatamente autobiografico, i genitori di Pietro, il protagonista, sono veneti, appassionati di montagna, indomiti escursionisti sulle Dolomiti. Trasferitisi nella metropoli lombarda hanno ritrovato l’ambiente ideale per le loro vacanze tra la Val d’Ossola e la Valsesia, col Monte Rosa che campeggia sullo sfondo. Nel villaggio dove è situata la casetta che la famiglia ha acquistato per l’estate, Pietro, incontra Bruno, un montanaro suo coetaneo che per primo gli fa da guida tra boschi e pascoli. Poi, Pietro comincerà a seguire il padre nelle camminate in montagna, ma con Bruno nascerà un’amicizia che continuerà, tra alterne vicende, fino all’età adulta. Proprio di questo parla il libro, dice Cognetti, “di due amici e una montagna”. I luoghi descritti sono in parte veri, come la Val d’Ayas, ma l’autore evita una precisa identificazione per lasciare libertà d’immaginazione al lettore. Aldo Magagnino
Ritornano Guido e Adele Cantalamappa, gli eccentrici e straordinari protagonisti di Cantalamappa, il libro del 2015 in cui il collettivo di scrittori bolognesi racconta storie di viaggi, di sovversioni e di passioni. E un tesoro di storie è quello che ci riportano i due giramondo dall’Australia. Storie di bambine in fuga, di un cane che non è un cane, di un lago di sangue, di uno scarabeo dai gusti... particolari. E poi c’è il Librone dei Viaggi, con le sue storie che arrivano dal passato, ma parlano del presente.
Alessandro D’Avenia L’arte di essere fragili. Come Leopardi può salvarti la vita Mondadori
Alessandro D’Avenia ci accompagna in un viaggio delicato e affascinante attraverso le opere di Giacomo Leopardi, il più grande, probabilmente, poeta italiano dopo Dante. Da scrittore e professore, ma soprattutto da lettore, D’Avenia rilegge gli scritti di Leopardi come una guida verso la felicità. Dalle inquietudini dell’adolescenza si passa attraverso le prove della maturità per approdare alla conquista della fedeltà a noi stessi, accettando debolezze e fragilità e imparando l’arte della riparazione della vita.
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CINEMA -TEATRO - DANZA - TV
ANTONELLO TAURINO
“La scuola non serve a nulla” è il nuovo spettacolo dell’attore, autore e professore salentino Salentino di nascita, ormai milanese di adozione e di cattedra, Antonello Taurino è musicista, attore, autore e professore. Docente precario di giorno, teatrante altrettanto precario di sera. Dopo le prime esperienze televisive a Zelig e Zelig Off (“sono riuscito nella titanica impresa di non diventare famoso nonostante sei anni di presenza in tv”, scherza) prosegue gli studi teatrali. Il semplice sketch gli va un po’ stretto così inizia a pensare, scrivere e mettere in scena spettacoli comici - “La Cosa Fissa” (2001), “Guasto” (2003), “Comedian” (2008) - ma non solo - “Tuz & Bach” (2006), tratto da “Tre Sorelle” di Cechov e “Poeti Folgorati, Reading su Luciano Folgore” (2007), “Ione” di Platone (2008) e “Il Diavolo. Il sogno di Ivan Karamazov” per la regia di Gaia Baggio (2009). Membro attivo del collettivo Democomica, nel 2011 debutta con “Miles Gloriosus” sulla vicenda dell’uranio impoverito. Dal punto di vista aurorale è la svolta. Lo spettacolo - che lo vede in scena con Orazio Attanasio - ottiene un ottimo riscontro (come si dice in questi casi) di critica e di pubblico. Dopo un paio di anni arriva “Trovata una sega!”, monologo per attore e proiettore su Livorno, Modigliani e “lo scherzo del secolo” dell’estate 1984. Da poco Taurino è in giro con “La scuola
non serve a nulla”, un racconto impietoso, divertente e amaro sulla formazione nel nostro Paese. «Dal 2009/2010 ho iniziato con le supplenze a scuola. Purtroppo mi ero reso conto che solo con le serate non si campava mentre riuscivo a tenere insieme le due attività. Scuola durante la settimana e spettacoli nel week end. Dopo le prime settimane ho scoperto che si trattava più o meno dello stesso mestiere. I legami tra il comico e il docente sono tanti e molto stretti», sottolinea Taurino. «Nel corso del tempo ho iniziato a raccontare le mie esperienze, il rapporto con gli studenti e gli altri docenti su un blog della Smemoranda. Articoli e post che avevano sempre molti lettori, con mia sorpresa. Così è nata l’idea di uno spettacolo vero e proprio. Dopo “Trovata una sega!” avevo molta paura di tornare a scrivere perché considero quello il mio “capolavoro”. Solo che l’urgenza del racconto sulle mie esperienze a scuola era così impellente che ogni sera passavo ore a raccontare tutto ai miei amici. Prima che mi abbandonassero ho deciso così di mettermi a scrivere e andare sul palco senza estenuare loro». Lo spettacolo è sostanzialmente autobiografico ed è scritto con l’ausilio di Carlo Turati, autore - tra le altre trasmissioni tv - di Zelig, Facciamo
Cabaret, Mai Dire Gol e collaboratore di Aldo, Giovanni e Giacomo, Diego Parasole, Enrico Bertolino, Antonio Cornacchione, Maurizio Crozza e molti altri. «Grazie a lui ci sono alcune battute sicure al momento giusto. Era difficile parlare della propria vita, della propria esperienza lavorando al testo con un’altra persona». Lo spettacolo è incentrato sulla storia di un professore che viene “allontanato” per i suoi comportamenti. «Ho cercato di designare una classe devastante con tanti alunni, molti ragazzi e ragazze stranieri e di etnie diverse, un preside poco simpatico e per nulla disponibile e difficoltà nei rapporti tra i colleghi. Quest’anno, ironia della sorte, sono in una classe e in una scuola proprio così. Tra l’altro l’istituto è vicinissimo al teatro di Milano dove abbiamo debuttato con lo spettacolo». Quello dedicato alla scuola è un filone letterario, cinematografico, teatrale molto prolifico e battuto. Eppure lo spettacolo di Antonello Taurino ha una prospettiva diversa dal solito, sin dal titolo. «Il protagonista fa una scelta di resa. Ne “L’attimo fuggente” alla fine il professore che sprona i ragazzi a leggere, scrivere, pensare con la propria testa, viene licenziato. Nel mio spettacolo metto in discussione il sistema. Purtroppo la classe docente è messa a fare una cosa per la quale non ha le forze. Ci sono troppi pazienti e pochi infermieri. Rapidamente diventi una brutta persona, ti nascondi dietro la retorica del “non ci sono le risorse”. Una retorica che, secondo me, ha distrutto la scuola per cinquant’anni creando una categoria disunita. In questo modo, con pochi insegnanti di sostegno, pochi mediatori culturali, le scuole diventano fucina di razzismo. Cosa vuoi integrare con questo numero di insegnanti?». Nei suoi spettacoli Taurino cerca sempre di partire dalla storia. «Questo è il presupposto principale: la storia fa la differenza. Con una storia forte riesci a prendere lo spettatore e a incuriosirlo fino alla fine. L’aspetto politico, sociale, civile subentrano in un secondo momento. Quanto alla satira a volte la realtà è così pazza che addirittura nella scrittura devi limarla perché altrimenti sembra esagerata». (pila)
ESORDIO SUL GRANDE SCHERMO PER IL TERZO SEGRETO DI SATIRA Una commedia brillante incentrata su quel momento di transizione in cui ti trovi ad affrontare i primi veri compromessi della vita, che si contappongono a tutto ciò in cui fino a quel momento hai creduto. Nasci contestatore, muori contestato. è la vicenda di Enrico, Fabrizio e Stefano tre amici e colleghi di una vita provenienti da quel vasto mondo che è, o è stato, la sinistra italiana, al centro di “Si muore tutti democristiani”, film diretto dal Terzo Segreto di Satira (Pietro Belfiore, Davide Bonacina, Andrea Fadenti, Andrea Mazzarella e Davide Rossi). Un collettivo di autori e videomaker che, dal 2011, produce e pubblica sul web e in televisione video di satira sociale e politica, raggiungendo ad oggi 12 milioni di visualizzazioni. Oltre a Milano e Liguria, il film è stato girato tra Mola di Bari e Monopoli (in provincia di Bari) e Torre Canne, Ostuni e Cisternino (in provincia di Brindisi). Protagonisti della commedia Walter Leonardi, Massimiliano Loizzi, Marco Ripoldi, Paolo Rossi e Valentina Carnelutti. Scritto da Ugo Chiti e il collettivo Terzo Segreto di Satira, il film è prodotto dalla IBC Movie srl con Rai Cinema, con la produzione esecutiva della Pupkin Movie, con la distribuzione di 01 Distribution e col supporto di Apulia Film Commission.
SERIALMENTE
a cura di LUCA BANDIRALI
Stranger Things Netflix, 1 stagione, 8 episodi - * * * * In una cittadina della provincia americana, nel 1983, quattro ragazzini sempre in bici da cross o chiusi con i loro giochi da tavolo scoprono che c’è un altro mondo sotto il nostro; non è meno reale, ma in compenso è molto più pericoloso. Stranger Things mette insieme Spielberg e Stephen King, il racconto di formazione e il dramma adulto. In uno stile vintage ma non lezioso, la serie ci racconta un decennio che, azzerate le utopie sociali, se ne concedeva in abbondanza di culturali.
The Young Pope Sky, 1 stagione, 10 episodi - * A sorpresa, il conclave elegge un papa giovane e bello, che fa di testa propria e mette in grave imbarazzo i cardinali, sottraendosi ai media. La serie di Sorrentino è scritta come un elenco di aforismi per liceali; l’intreccio è monocorde, però ogni tanto parte una musichetta. Il tutto è girato nello stile Riefenstahl che impose La grande bellezza, ma ambientato in una scenografia posticcia. Il pubblico ha abbandonato la visione dopo due puntate, ma chi ha resistito dice che poi va anche peggio.
Narcos Netflix, 2 stagioni, 20 episodi - * * * * La controversa biografia del più famoso narcotrafficante di tutti i tempi, Pablo Escobar. Fortemente influenzata dall’italiana Gomorra, per come viene filmata Medellin e per la scelta di mantenere i dialoghi in colombiano, Narcos rappresenta la nuova frontiera della serialità americana: scritto in modo avvincente e sperimentale, montato per far coesistere le immagini di finzione con quelle dei media, fondata su una figura di criminale che sfiora la condizione di antieroe senza mai raggiungerla.
Designated Survivor Netflix, 1 stagione, 22 episodi - * * * (provvisorio) Un attentato terroristico senza precedenti fa strage del governo americano riunito in Campidoglio; si assegna d’ufficio la presidenza al “sopravvissuto designato”, un funzionario di secondo piano che di punto in bianco si ritrova grandi poteri e grandi responsabilità. Kiefer Sutherland, che ha rivoluzionato la serialità dello scorso decennio con il personaggio di Jack Bauer in 24, torna al centro della scena con un ruolo potenzialmente devastante: l’uomo ordinario in una situazione straordinaria.
Simona Forlani - TedxLecce Foto ShotAlive
IL POSTO: LA DANZA VERTICALE AL TEDXLECCE Prima compagnia in Italia ad essersi specializzata nelle performance site specific su piani verticali, Il posto nasce nel 1994 a Venezia, dal sodalizio fra la coreografa Wanda Moretti e il musicista Marco Castelli per creare spettacoli in verticale che uniscono danza, architettura e musica, fondendo le drammaturgie degli spettacoli ai luoghi nei quali vengono rappresentati e inspirando così nuove idee, riflessioni e prospettive. Il 5 novembre la compagnia è stata sul palco del Teatro Politeama Greco per la quinta edizione del TedxLecce dedicata al tema della memoria. «La memoria è una visione che ci permette di pensare alle cose trasformandole, ripensare a luoghi e spazi rielaborando il percorso e rivedendo da fuori quanto è stato vissuto in prima persona», sottolinea Wanda Moretti. «L’architettura è un’esperienza del quotidiano che detta le regole del nostro agire, è il confronto con una relazione sempre viva anche quando gli edifici sono storia. Da sempre mi piace considerare la danza come un punto di vista sul mondo che ci permette di vivere e guardare all’esperienza quotidiana e ai paesaggi in cui essa è iscritta, come a possibili variazioni potenziate delle nostre esistenze.Danzare in parete è un ‘morphing’ tangibile che si intreccia naturalmente con luoghi, spazi ed ambienti anche secolari, è il risultato di un incontro con la città». Dopo alcuni esperimenti “in solitaria”, l’idea della danza verticale si realizza grazie alla collaborazione tra Wanda e Marco. «All’inizio si trattava di una ricerca fisica, una sfida e un progetto, così come ogni danzatore intraprende una ricerca personale nel proprio percorso. Volevo
danzare sul piano verticale, fare qualcosa di veramente unico! Questo nella pratica corrispondeva a sperimentare il movimento compromesso dal cambio di gravità e che veniva, di conseguenza, stimolato a produrre nuove gestualità e diverse visioni dello spazio. Così munita di imbragatura e corda ho iniziato questo viaggio che continua da più di 25 anni. La fondazione della Compagnia Il Posto è del 1994 per l’esigenza di allargare il progetto». Wanda non è solo una ricercatrice e coreografa ma insegna ad Architettura e all’Accademia delle Belle Arti. «La mia passione nei confronti dell’architettura ha mosso altri sistemi di osservazione e la mia formazione nella danza mi ha spinta ad esplorare la relazione con lo spazio costruito e le opere d’arte in generale, tutto questo ha generato un interesse nella didattica e nel cercare gli strumenti più adatti per trasmettere modalità di apprendimento basate sul movimento. La conoscenza attraverso il corpo è un’esperienza profonda che va al di là dei linguaggi verbali o scritti. Il linguaggio non verbale è uno strumento di tutti che va alimentato». Il Posto crede fermamente nel pensiero creativo «perché attraverso l’arte ci si allena ad esprimere opinioni e giudizi. L’arte sviluppa il senso critico, permettendo di elaborare prospettive multiple che influenzano il nostro modo di osservare e interpretare la realtà, l’arte ci aiuta a comprendere che i problemi possono avere più di una soluzione e che le soluzioni raramente sono fisse, ma cambiano in base alle circostanze e alle opportunità». Giovanna Paiano
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ARTE
ARTISSIMA
Un po’ di Puglia nella settimana dell’arte contemporanea più importante d’Italia Torino si riconferma nuovamente capitale internazionale dell’arte contemporanea. Durante Artissima, l’art week più attesa dell’anno gli eventi più importanti sono le inaugurazioni, le grandi mostre personali, le varie fiere, le performance e i talk da seguire, ma anche le feste, le serate mondane e i concerti. Con l’autunno alle porte in città si moltiplicano i vernissage, sono giorni pieni anzi pienissimi di cose da fare e vedere durante i quali Torino dimostrata come ogni anno il suo carattere intraprendente, frizzante ed europeo. Quello di Artissima è un periodo fatto non solo di arte ma anche di tanta musica con il rinomato Club To Club, il tradizionale festival dedicato all’elettronica che in questa edizione ha visto, tra i nomi come Arto Lindsay, Swans, Autechre e Lauren Garnier, anche la partecipazione del compositore israeliano Shye Ben-Tzur, del chitarrista dei Radiohead Jonny Greenwood e dell’ensemble The Rajasthan Express. Comunque parentesi musicale a parte, come ogni anno nella settimana di Artissima la Puglia è protagonista, ma andiamo per ordine. Dal 4 al 6 novembre, al Lingotto Fiere di Torino, è andata in scena la ventitreesima edizione della manifestazione diretta per il quinto ed ultimo anno consecutivo da Sarah Cosulich. Contestualmente alla fiera «ufficiale» all’Oval Ligotto, dal 4 all’8, invece, negli spazi di Torino Esposizioni (nel parco del Valentino) i riflettori del contemporaneo si sono accesi
anche sulla dodicesima edizione di Paratissima, manifestazione «off» della più celebre fiera cittadina che promuove anche artisti emergenti che ancora non sono entrati nel cosiddetto circuito ufficiale dell’arte. Tra gli eventi che hanno arricchito la settimana dell’arte torinese ci sono anche le fiere dedicate agli spazi emergenti, a quelli no profit, alle fondazioni e ai collettivi di artisti e curatori. Nella lunga lista di appuntamenti imperdibili ricordiamo: The Others, che quest’anno è stata accolta all’interno dell’ex Ospedale Regina Maria Adelaide e Flashback, altra manifestazione fieristica ormai alla sua quarta edizione, ma che a differenza degli altri eventi ha uno sguardo più diretto sull’arte e antica e moderna. L’universo di Artissima è molto più esteso se vogliamo considerare anche tutte le altre manifestazioni collaterali organizzate da spazi e gallerie indipendenti, da artisti, curatori, istituzioni pubbliche, private e musei cittadini come nel caso della mostra di Carol Rama alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna, quella fotografica di Ai Weiwei da Camera e Brughel alla Reggia di Venaria. Rientriamo in fiera, ma non potendo citare tutte le novità di quest’anno, le principali sezioni che compongono Artissima sono: Main Section, settore dedicato alle gallerie più importanti del panorama internazionale dell’arte contemporanea; Dialogue, sezione delle gallerie emergenti; New Entries, che segue le gallerie torinesi attive da meno di
cinque anni e Art Editions che invece si concentra sulle gallerie specializzate in edizioni e multipli d’artista. Proprio in queste sezioni, oltre ai grandi nomi di artisti, galleristi e collezionisti che hanno contribuito a scrivere le pagine più belle della storia dell’arte, ci sono molti nomi di artisti e gallerie pugliesi. Nello stand di Lia Rumma, tempio dell’arte con sede storica a Napoli e oggi anche a Milano, insieme ad artisti come Vanessa Beecroft, William Kentridge, Marina Abramovic e Joseph Kosuth solo per fare qualche esempio, espone Michele Guido (Aradeo, 1976) con un lavoro dedicato alla cattedrale di Troia. Per la prima volta ad Artissima la galleria di Bari Doppelgaenger propone, tra i vari artisti del suo stand, anche il giovane fotografo paesaggista Domingo Milella (Bari, 1981) che racconta in uno scatto monumentale la grande roccia di Hartapu in Turchia. Nello spazio della galleria De’ Foscherari di Bologna troviamo, insieme a Pier Paolo Calzolari, Nunzio e Gianni Piacentino, una suggestione fotografica di Luigi Presicce (Porto Cesareo, 1976) realizzata per la performance intitolata Santo Stefano, i coriandoli, le pietre del 2015. Dal Lingotto al Parco del Valentino negli spazi di Torino Esposizioni invece, sede di Paratissima, troviamo anche la galleria d’arte Museo Nuova Era di Bari che presenta le opere di Francesco Granito (Foggia, 1954), Giovanni Lamorgese (Bari), Adele Di Nunzio (Molfetta,1976) e Rosemarie Sansonetti (Bari, 1965). Passati i giorni frenetici di Artissima e chiuso il sipario su questa edizione, riprendono le puntuali inaugurazioni nelle gallerie d’arte. Tra gli ultimi incontri, da Spaziobianco, anche Armando Marrocco (Galatina, 1939) con l’opera “Progetto Impossibile di un sogno”, esposta in occasione della mostra intitolata “Impossibile”. La collettiva, dedicata al tema dell’utopia che prende forma, coinvolge oltre novanta artisti di varie nazionalità, generazioni e tendenze. In attesa di altre suggestioni questo piccolo report, decisamente incompleto, è l’ennesima conferma del valore e della forza che contraddistingue alcune già note e meno note personalità e realtà culturali del nostro territorio. Giuseppe Arnesano
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Michele Guido - Lotus Garden Project #02, Cattedrale di Troia
Armando Marrocco - Progetto impossibile di un sogno
Domingo Milella - Kizildag (monumento Hartapu), Turchia
Luigi Presicce
a cura di Lorenzo Madaro
RAFFAELE DE MATTEIS Piccola storia di una formazione casuale nella sua declinazione più articolata
In una casa ordinaria, piccolo borghese, in un paese qualsiasi della provincia di Lecce. Lui ha circa ottant’anni, è in pensione. Insegna materie letterarie, ma dipinge dal 1954. Siamo nel 1999 e quella casa diviene, casualmente, un luogo di formazione. Ci sono libri e riviste, cataloghi generali di alcuni artisti italiani. E opere, molte opere. Chi la frequenta, è un giovane appassionato d’arte, giovanissimo. Forse è iscritto ancora alle medie. Lì avviene una primissima formazione, molto tradizionalista però, legata al Novecento italiano e ad alcune esperienze più recenti, la Transavanguardia e Kounellis, Pistoletto, forse. E poi c’è il Salento d’avanguardia, almeno parzialmente. Si cita l’artista irregolare Ezechiele Leandro in alcuni lunghi pomeriggi domenicali invernali. Di Leandro lì c’è anche un’opera, un dipinto su carta del 1967 firmato rigorosamente “E”. E una piccola terracotta, insieme a una tela scrutata una volta e poi mai più rintracciata, persa nei meandri, tra i libri e le tele, le tante tele. Poi c’è un’opera grafica di Corrado Lorenzo, la Land Art in terra d’Otranto, l’esperienza mitica di quel lungo passaggio dagli anni Sessanta ai Settanta, tra cave di pietra e interventi performativi con un altro artista di quegli anni, Sandro Greco, all’epoca considerato un maestro di riferimento. Grazie al padrone di casa, il giovane appassionato conosce i prodromi di alcune esperienze che si sono svolte in Salento in quei
decenni, forse illudendosi di un passato glorioso. E poi si citano gli artisti che da qui sono andati altrove, Fernando De Filippi e tanti altri. Ma anche i classici, Vincenzo Ciardo, Geremia Re e Lino Paolo Suppressa. Non c’è ombra della giovane arte contemporanea, non si conoscono neppure i nomi amici e di chi poi diventerà presenza fondamentale più avanti. Ma c’è una lenta e intensa pratica di dialogo, ma anche di visioni. Ogni domenica – o il sabato pomeriggio – si visionano i suoi dipinti eseguiti durante la settimana, oppure i disegni e le tecniche miste su carta. Si ragiona, si cercano, insieme, le relazioni culturali e iconografiche. Ma alla fine sono sempre gli stessi, l’espressionismo, Fauves, la Metafisica, il Neorealismo. Oppure si sfoglia un catalogo – De Chirico, Guttuso, Boldini –, o una rivista. Si commentano mostre all’epoca mai viste, musei immaginati soltanto attraverso le immagini, si ragiona sui cambiamenti in atto nel lavoro di alcuni artisti. Si considerano maestri o nomi di riferimento artisti che poi si sono rivelati del tutto estranei a un dibattito critico sul fare arte. Il futuro è un fattore previsto ma non immaginato, anche quello dell’arte. A pensarci bene Raffaele De Matteis (1923-2013) – è questo il suo nome – non era il grandissimo pittore che all’epoca appariva dinnanzi agli occhi ingenui di quel ragazzo. Ma è stato certamente il suo primo maestro.
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DIARIO CRITICO
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DANIELE CALURI
Il disegnatore di Don Zauker, Dylan Dog e Martin Mystére a Lecce per un workshop Autore di disegni per il mensile satirico livornese Il Vernacoliere e per Dylan Dog e Martin Mystére, Daniele Caluri raggiunge la notorietà grazie alle tavole realizzate per creare l’iconico prete esorcista Don Zauker, fumetto sceneggiato dal fedele conterraneo Emiliano Pagani. La carriera di Caluri - che il 3 dicembre sarà a Lecce per un workshop - comincia in realtà molto prima, come lui stesso ci racconta in questa intervista. Daniele ho letto che hai iniziato a disegnare sulle pagine del Vernacoliere all’età di 14 anni. Come ti sei avvicinato al mondo del fumetto? Hai quindi da subito disegnato tavole satiriche... In realtà no, definire satiriche le cose che facevo a 14 anni è troppo. Si trattava di vignette umoristiche felicemente grossolane, disordinate e di bassissima lega, spesso barzellette illustrate. Ma è stata una palestra fondamentale per sviluppare ciò che ho
realizzato in seguito. Mi sono avvicinato al mondo del fumetto nella maniera più naturale possibile: essendoci dentro da sempre. Come lettore, ovviamente, dal momento che li leggo dall’età prescolare, e poi da autore, con quei primi lavori proprio per il Vernacoliere. Decisi che avrei fatto l’autore di fumetti a 12 anni quando, l’estate di quell’anno, mi capitò in mano “La fiera degli immortali” di Bilal. Per me, che leggevo Braccio di Ferro, Geppo e Provolino, fu uno shock determinante. Il tuo percorso nel segno della satira è proseguito e si è forse anche potenziato grazie all’incontro con un altro livornese doc, Emiliano Pagani. Con lui avete creato “il sodalizio dei Paguri”, dando vita anche al personaggio di Don Zauker. Mi descrivi questo prete esorcista? Come nasce Don Zauker? Per reazione e disperazione. Eravamo in pieno Giubileo e c’era ancora Wojtyla, e l’asser-
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per sconfiggere i mostri, molti dei quali sono i suoi. È questo che lo rende un eroe. Daniele, passando ad aspetti un po’ più tecnici, come è stato per te affrontare stilisticamente un disegno più “asciutto” e meno caricaturale come quello di Dylan Dog? In quale genere ti senti maggiormente a tuo agio e in che modo affronti una tavola satirica e una non umoristica? Beh, sicuramente mi trovo più a mio agio con il fumetto umoristico, se non altro perché sono nato con quello, stilisticamente parlando, e lo pratico da maggior tempo. Ma con un bel po’ di lavoro ho imparato a fluidificare anche il disegno realistico, passo dopo passo, fino ad acquisire non dico una mia cifra, ma almeno un sentiero da percorrere con curiosità. C’è un’altra icona del fumetto che ti piacerebbe disegnare? Certo. Darei un dito per disegnare Torpedo, di Abuli & Bernet. Feci anche delle prove per Panini, quando seppi che Abuli avrebbe voluto realizzarne storie nuove, ma mi dissero che non si poteva, per problemi pregressi fra i due autori. Invece ci saranno, ma hanno scelto Eduardo Risso. E vabbè, non è proprio l’ultimo arrivato, via. Daniele quando ho visto Don Zauker ho per un attimo pensato alla figura creata da Sorrentino per the Young Pope: un prelato fisicato e vanesio ammaliato dal potere. Pensi che oggi alcuni dei tuoi fumetti potrebbero diventare delle serie tv? Io ho sempre pensato a una serie ispirata a Dylan Dog e ci sono esempi come The Walking Dead che mi sembrano ben riusciti... Non ho ancora visto The Young Pope, ma conto di farlo presto. Quanto a DYD, sì, sebbene non sia un “mio” fumetto, l’ho sempre immaginato adatto per una serie tv, a maggior ragione con le tendenze in voga negli ultimi anni. E chissà che… Se invece ci atteniamo ai fumetti miei, sono anni che, ogni tanto e a più riprese, qualcuno ci propone di provare ad adattare Don Zauker, al cinema o in tv, ma per un motivo o per l’altro ancora non ci siamo riusciti. Vediamo cosa ci riserva il futuro. E poi, vallo a trovare, un attore adatto… Chiara Melendugno
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vimento dei media alla Chiesa era all’apice (fino ad allora. Oggi è anche peggio). Ogni giorno, ad ogni ora e in qualsiasi trasmissione o mezzo di comunicazione, dalla tv al walkie-talkie, era presente un rappresentante della Chiesa a commentare qualcosa. Non se ne poteva più. E siccome le uniche armi che ci piace usare sono penne e matite, decidemmo di reagire, se non altro per non andare in analisi. Lo stimolo fu semplice: osservammo come un certo tipo di fumetto - ferocemente critico nei confronti della religione - mancava nel panorama italiano, e quindi agimmo da lettori orfani, creandone uno noi. Don Zauker nacque così. Emiliano mi accennava a un’idea di massima, in cui un esorcista si fa grosso della tonaca indossata, cosciente del fatto che dinanzi a quell’uniforme molti rinunciano all’esercizio del proprio spirito critico, e ne approfitta per fare quello che gli pare, fino a derive comiche e grottesche. Il problema è che la realtà, negli anni, è sempre riuscita a superare le nostre invenzioni, in termini di grottesco. Il pretesto, valido oggi più che mai, è stato ottimo per fare satira non solo sulla Chiesa, ma soprattutto sulle masse di fedeli che ne supportano acriticamente anche le peggiori nefandezze. Passiamo per un attimo ai tuoi lavori non satirici. Nel 2016 Dylan Dog compie trent’anni. Ci piace ripercorrere la tua personale esperienza con l’Indagatore dell’incubo. Quando lo hai scoperto per la prima volta? Ah, beh, alla sua uscita. Sono un suo lettore della primissima ora e ricordo che lo leggevo con grande passione. Essermi ritrovato dall’altra parte della barriera, cioè come disegnatore, ha rappresentato allo stesso tempo il concretizzarsi di una gioia ma anche di una responsabilità. Quali caratteristiche lo rendono secondo te un vero e proprio eroe del fumetto? Forse il fatto che non è un eroe. Non in senso tradizionale: ovvero l’eroe tutto d’un pezzo che sa sempre quale soluzione trovare e che viene visto come un punto di riferimento. Dylan è molto umano, e sono le sue debolezze a caratterizzarlo come tale. Debolezze che sono tanto più accentuate quanto più mostruoso è il mondo in cui si muove, che molto spesso è quello reale, non quello dei licantropi. Dylan lotta per cause perse, lotta
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Bari Jungle Brothers Da RIME PATATE E COZZE A MOh! Il collettivo rap urbano Bari Jungle Brothers non poteva restare fuori da questa rubrica. “Rime, Patate e Cozze” è infatti il titolo del primo singolo uscito un paio di anni fa. Da circa un mese, invece, è in giro il loro secondo album “Moh!” e in questi giorni è uscito il videoclip del brano “Ora Vai” nel quale il collettivo duetta con J-Ax ospite del disco insieme a Clementino e al giamaicano Earl Sixteen. Che significa fare hip hop al sud? Quanto influiscono i dolori del sud e quanto invece rilassa il fatto di comporre al caldo davanti al mare mangiando in una delle città dove si mangia meglio in Italia? Fare hip hop a sud, nel senso musicale del nostro Movimento, significa per noi parlare a un altro popolo, usare un’altra lingua - anche oltre il dialetto -; significa aver scelto un’altra strada, più tortuosa e sotterranea, da narrare e rappresentare. I dolori del Sud sono quelli del mondo stesso, ma sotto la nostra
luce e il nostro sguardo obliquo. Siamo popoli di frontiera che guardano il mare. Per quanto riguarda il canto e la composizione, è un fatto innegabile che molte delle nostre tracce siano state registrate, per questo come per il primo cd, in numerose sessioni di registrazione estive. Come è nata la vostre crew? La nostra crew, transgenerazionale, è un insieme di percorsi differenti che diventano, incontrandosi, un’altra cosa e un nuovo progetto, più ricco perché corale, più divertente perché condiviso. Insieme lavoriamo bene, ci divertiamo e diamo corso alla nostra impellente e ovvia necessità di esprimerci. Quanto influisce la presenza di una donna in un collettivo di maschi, per di più in un ambiente molto maschile come il Rap? È la nostra Signora del rap, la Miss. È il tocco che ci mancava: una creatura da palcoscenico con la grinta delle donne baresi e un cuore black e soul che leggi nel suo rap. La miss è la nostra
mc preferita e siamo fieri di averla con noi. Come nacque l’idea di mescolare la tiella riso patate e cozze e il rap? Rime, patate e cozze è una trasformazione di significato ideata da Max Il Nano. È la declinazione del rap in barese che utilizza la straordinaria metafora del buon cibo e delle buone cose della vita. Tre dischi per voi importanti e tre ricette che assocereste “Check Your Head” dei Beastie Boys: un riuscitissimo couscous dal sapore forte, all’americana, pieno di spezie di ogni tipo e decisamente hard. “Illmatic” di Nas: il migliore hamburger di New York, dal sapore di sangue e strada, povertà e bontà, sulle note più belle di un’epoca d’oro del rap. “Love Story” di Yelawolf: un filetto di manzo americano con una montagna di patatine, da gustare on the road mentre si viaggia in moto attraversando il profondo sud degli States.
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Daniele De Luca
cari accademici svedesi, vi meritate che Dylan sia sprezzante Ci ho pensato e ripensato. Farlo? Non farlo? Tornare sulla questione o lasciare che la cosa perdesse l’interesse dei fantastici maitres à penser che, quasi quotidianamente, ci illuminano sulle sfaccettature indispensabili della vita intellettuale? Beh, alla fine, il mio è stato un sì perché... a me il Nobel per la Letteratura a Bob Dylan proprio non è sceso giù! Un attimo. Chiariamoci. Lo so, già con questa affermazione avrò toccato la sensibilità di qualche indignato radical chic. Quindi cercherò di argomentare. Allora, per quanto lontano spazi siderali dai miei gusti musicali, riconosco al rinnegato (per ragioni religiose) Robert Zimmerman una spazio significativo nella cultura popolare americana e non solo. Non trascuro affatto quello che possono aver rappresentato per una massa di giovani spaventati dalla guerra e dalla società conservatrice i versi delle sue canzoni cantati con voce dolente e volutamente sprezzante (mettete da parte questo aggettivo, ci torneremo). Nulla fu forse più forte della sua denuncia dell’ingiustizia che si abbatté violenta sulla vita del pugile nero Rubin “Hurricane” Carter.
Mai descrizione e supporto dello Stato di Israele fu più deciso di “Neighborhood Bully”. Eppure qualcosa non va, qualcosa mi contraria. Ed è l’incapacità dei quei frikkettoni dell’Accademia Svedese di vedere oltre il loro falso idealismo moralista. Sono anni che Philip Roth merita il Nobel per la Letteratura eppure – quasi inspiegabilmente – ne rimane escluso. Forse aveva ragione quando, nel 1995, scriveva: “Chi, nella vostra classe sociale, può prendere sul serio uno come me, immerso nel proprio egoismo, con un livello morale spaventoso, privo di tutti gli annessi e connessi che accompagnano gli ideali giusti?” (Il Teatro di Sabbath). Credo che, in queste parole, ci sia tutto Roth e tutti i problemi di Roth: il “livello morale spaventoso” e “gli ideali giusti”. Sì, Roth non è un autore moralmente accomodante, anzi è fastidiosamente e sessualmente scorretto. E come tale viene trattato dall’Accademia. Roth è autore che descrive i gay come militanti e che chiaramente dichiara: “L’eterosessuale che si sposa è come uno che diventa prete: fa voto di castità, ma senza saperlo fino a tre, quattro cinque
anni dopo”. Oppure: “Perché solo quando scopi riesci a vendicarti, anche se solo per un momento, di tutto ciò che non ami nella vita e di tutte le cose che nella vita ti hanno sconfitto. […] Il sesso è anche la vendetta sulla morte” (L’animale morente). Uno scrittore di tal genere è disturbante e, allora, perché non scegliere il confortante Orhan Pamuk o l’illeggibile Mo Ya? Anzi, facciamo di più, come una congregazione di vecchi hippies, tra una canna e l’altra, che si scelga il buon vecchio Bob di Duluth. In questo modo, facciamo sboccare bile a Baricco o fottiamo quel gran genio di Leonard Cohen. A questo punto, cari i miei accademici svedesi, vi meritate che Dylan sia sprezzante (ecco, ci siamo tornati) nei vostri confronti. Vi siete ampiamente guadagnati la sua rinomata spocchia e arroganza che nemmeno un Nobel poteva comprare. Ora... aspettatelo, frementi come groopies in calore, con un lume in mano nella notte fredda di Stoccolma... lui vi penserà e – molto ma molto meglio di me – vi indirizzerà un giambico, dattilico, coriambico e ionico... MaffanCOOL!!!
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BRODO DI FRUTTA BLOG
Adelmo Monachese
Referendum. Sei per il Sì o per il No? Fai il test e scoprilo! Il referendum si avvicina e tu non sai ancora cosa votare? Persone che disprezzi fanno la tua stessa dichiarazione di voto e questo ti disorienta? Cambi ripetutamente parere e questo ti causa stress, pressione alta, tremori agli occhi e forfora? Fai il test e scopri se sei per il Sì o per il No. Leggi tutti i profili e somma quelli che ti descrivono meglio. Se per informarti usi prevalentemente la tv sei per il Sì, se usi internet per il No. Se usi internet per guardare i contenuti dei canali televisivi sei della minoranza del PD che vota No. Chi ha visto The Young Pope e ha apprezzato Jude Law è affascinato dal conservatorismo e dal No, chi ha pensato “Però, bravo Silvio Orlando!” è per il Sì perché ha fiducia nelle novità e sorprese. Chi ha apprezzato la serie per la regia di Palo Sorrentino è per Sì, ma al referendum sulla liberalizzazione delle droghe leggere. Hai una predilezione per i gatti? Sei per il Sì, più precisamente per il Si fottano. Sei un
amante dei cani? Il tuo No è fermo, buono, ma sei disposto a venderti per il primo che ti tende la mano. Chi ha Mediaset Premium non può che essere per il No, chi vede prevalentemente la Rai non vede l’ora di apporre il suo Sì. I possessori di Sky sono dei potenziali astenuti con una probabilità che sale proporzionalmente alla completezza del pacchetto: chi ha Mondo + Sport al 35% si asterrà, chi ha Mondo + Sport +Calcio lo farà con una probabilità del 55%, chi ha Cinema non so che percentuale abbia ma ha sicuramente la mia invidia. Per i possessori dei canali Kids potrebbe scoppiare anche la terza guerra mondiale, non lo verrebbero mai a sapere. Chi ama il cinema è per il Sì senza se e senza ma, chi va al teatro è per il No ma lo staff promotore del Sì sapeva che gli appassionati di teatro rappresentavano un target inarrivabile e non hanno nemmeno pensato di convincerli, cosa vuoi ragionare con chi ancora va appresso a
Shakespeare? Tra i cinefili per il Sì i più agguerriti sono gli appassionati del 3D con le falangi estremiste del 4D che dichiarano unitariamente: “Votiamo Sì perche vogliamo vedere avvicinarsi la fine”. Gli utilizzatori di pc non hanno ancora preso una decisione perché preferiscono aggiornarsi e questa per loro è un’operazione che potrà richiedere un po’ di tempo. Chi è dotato di Mac voterà per No, ad eccezione di coloro che hanno lavorato con Mac per promuovere la campagna referendaria del PD. Chi si sposta con i mezzi pubblici è per il Sì, che usa i mezzi privati è per il No. Il motivo è da individuare nella diversa concezione del tempo: chi usa i mezzi pubblici pensa alla Costituzione come fosse stata scritta l’altro ieri dagli stessi che ci sono ora, chi usa i mezzi privati ricorda che chi lascia la strada vecchia per quella nuova sa quello che lascia ma non sa quello che trova.
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Mauro Marino
CANTAR POESIA Musica e poesia: un legame indissolubile, originario, antico quanto antico è l’umano. La poesia è mossa dalla musica e la poesia muove la musica, insieme, sono presenti nella nostra vita, nutrono il “sentire”, i nostri stati d’animo, le emozioni; nella cova della memoria e nel fluire del presente un impasto continuamente lievita, la canzone fa l’amalgama. La canzone - oltre ogni giudizio di valore estetico - è certo la forma d’arte più diffusa nel nostro quotidiano. Canzoni s’insinuano, pervadono, confondono, occupano - spesso inattese, non scelte - i nostri giorni, un sottofondo onnipresente. «Le canzoni ti aiutano a non pensare o a pensare molto, aiutano a rilassarti o a mettere il “turbo”», qualcuno mi suggerisce. Canzonette spesso vuote di senso, ammiccanti, falsamente seduttive, di maniera, copie della copia della copia. Altre volte no, motivo ispirativo di autori capaci d’essere poeti, capaci con le parole di scavare nel profondo, di “segnare” il Tempo, di plasmare sensibilità… Tanti i nomi (e quanti!) popolano il nostro immaginario uditivo e
sentimentale. Nella recente cronaca abbiamo pianto la scomparsa di Leonard Cohen e plaudiamo per l’assegnazione del Nobel per la letteratura al bardo Bob Dylan a significare quanto peso ha la canzone nella storia contemporanea, ponte tra la ricerca letteraria e la vita comune, quella di tutti con cui l’autore è chiamato con la sua opera a confrontarsi. Poi capita che versi che non s’aspettavano musica - che suono avevano avuto solo nell’ispirazione che “canta” parole quando viene col battito del cuore, col respiro, con l’incedere dei passi, con la carezza dello sguardo sulle cose - trovino musica. È il caso del cd “La luna dei borboni – canzoni su versi di Vittorio Bodini” realizzato da Ecovanavoce, ensemble romana che con gli editori Kurumuny e Besa ha dato luogo musicale e voci alle parole di “Qui non vorrei morire”, “Arancio limone mandarino”, “Le mani del Sud”, “Un paese che si chiama Cocumola”, “Non passa un sogno”, “Quando riprenderai il mare”, “Isobel” (pezzo dove spicca la voce di Dario Muci), “Viviamo in un incantesimo”, “La luna e il basilico”,
“La luna dei Borboni”, “Un monaco vola tra gli alberi”. Titoli - suggestioni meglio - identificativi del nostro Salento e dell’autore che più l’ha segnato: l’universo simbolico di Vittorio Bodini e del suo inquieto guardare. Titoli, “colori”, ben sostenuti dalla complessità degli arrangiamenti curati da Paolo Fontana e Fabio Lorenzi. La voce di Gabriella Aiello fa il resto in una tessitura densa di suggestioni e di rimandi interpretata da straordinari musicisti valorizzati dalla maestria nel missaggio di Valerio Daniele. Arie, villanelle, loquaci improvvisazioni, svisature jazzistiche e fusion di sapore popolare compongono un’opera unica nel panorama della ricerca musicale vocata agli attributi salentini e cresciuta in questi anni di riscoperta e proposta della particolarità culturale di questo angolo di mondo. Ascoltandola possiamo rinnovare il nostro attaccamento alla terra, alla memoria, ad una tradizione che sempre ha necessità di mutare la sua “forma”, la sua intima poetica per essere viva e presente nel cambiamento.
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AFFRESCHI&RINFRESCHI
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STANZA 105 BLOG
Mino Pica
IL LOCALE è LIVE?
Dovrei scrivere “live club” ma restano “i locali dove si suona”. Il pubblico però pare non sia propriamente locale. Fra i gestori di chi porta avanti, con incedere faticoso ma orgoglioso, un determinato discorso legato alla musica, mi capita infatti spesso di riscontrare la stessa considerazione a fine concerto: “Su 100 persone ne ho contate forse solo dieci che sono di qui. è fantastico vedere facce nuove ma dov’è la risposta della mia città? Tutti che sperano in un posto dove si suoni, poi si concretizza e dove finiscono? #Comete?” Credo che solo nell’ultimo mese, a decine di chilometri di distanza, mi son trovato ad affrontare lo stesso sfogo con tre gestori di altrettanti locali, ma in realtà non è certo la prima volta che questa amarezza emerge. La tendenza a spostarsi è sempre esistita, così come quella di criticare, snobbare e non apprezzare ciò che abbiamo sotto gli
occhi. La questione è dunque decisamente ramificata in una serie di valutazioni complesse. Vorrei però concentrarmi. Partiamo dalla reale percezione delle difficoltà di portare avanti una politica di programmazione live. Credo che i gestori la meritino e credo che possa stimolare l’importanza di essere semplicemente presenti a sostegno. A supporto, un interessante report di Keepon che ha analizzato i numeri di 279 “live club” (è scritto così). In 190 di questi non si paga l’ingresso ai concerti e solo il 15% di queste realtà si affida a bandi istituzionali a supporto (ciao Francia). Si dirà “il locale però è pieno, la serata è andata bene e quindi incassa”. Non si dirà invece del piccolo particolare che quel pubblico presente al concerto non resterà certo anche nei restanti 364 giorni dell’anno. Spendiamo inoltre qualche rigo sulle spese reali: il cachet dei gruppi vale solo
il 14% delle spese generali dei locali. Proviamo in proporzione a immaginare allora i costi fissi di personale e servizi, Siae, cibo e bevande, sino alle immancabili e sottovalutate bollette. Poi ti tornano i Moustache Prawn dal Giappone che ci raccontano di come le band emergenti siano solite pagare il gestore del locale affittando la sala per potersi esibire. Al di là di questo (ciao Giappone), cos’è cambiato in questi ultimi anni? La percezione probabilmente risponderebbe il numero di locali e concerti. Io, ad esempio, mi devo ancora riprendere dalla chiusura del Goldoni di Brindisi. Ritorniamo ai numeri: secondo il report in effetti il numero di concerti è invece stabile: 605 a settimana in Italia nel 2016 a fronte dei 600 nel 2012. Il numero delle band “attive” è invece aumentato del 28%! Ma questa è un’altra storia. C’è vita nei live?
I quaderni del senno di poi di Francesco Cuna | facebook: quadernidelsennodipoi
EVENTI
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LA POESIA NEI JUKEBOX Da venerdì 2 a domenica 4 dicembre le Officine Cantelmo di Lecce ospitano la quarta edizione della rassegna dedicata alla musica e ai libri con incontri, presentazioni, concerti, showcase, workshop e un mercatino dedicato alle case editrici e alle etichette pugliesi, con un’ampia esposizione dedicata al vinile e agli oggetti vintage. L’appuntamento rientra nell’articolato programma di Officine della Musica, progetto promosso dagli assessorati alle Politiche giovanili e al Turismo, marketing territoriale, spettacoli ed eventi del Comune di Lecce in collaborazione con Officine Cantelmo, Coolclub e Sum con il sostegno di Puglia Sounds. “Da oggi la nostra poesia è nei jukebox di tutta l’America” è la frase che il poeta Allen Ginsberg pronunciò ascoltando la musica di Bob Dylan. Sintesi perfetta – ancor più oggi con l’assegnazione del Premio Nobel al cantautore statunitense – di un rapporto, quello tra musica e letteratura, suoni e poesia, da sempre molto forte che nel tempo si è espresso in modi diversi. Tra gli ospiti i cantautori Motta e Dente, lo scrittore Giordano Meacci, il giornalista e scrittore Alberto Castelli, il fumettista Daniele Caluri, le band pugliesi Nerodalia, Massimo Donno, Maffei!, Manu Phl, Casematte e Dune. Info e programma lapoesianeijukebox.com
LA POESIA NEI JUKEBOX - Lecce 2/4 dicembre
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Foto ShotAlive
Venerdì 2 dicembre
EVENTI
Alle 21 la rassegna prenderà il via con “Di Bob Dylan, delle Pantere Nere, di Otis Redding e di altro ancora” del giornalista e scrittore Alberto Castelli.
SABATO 3 dicembre
Dalle 11 (ingresso libero su prenotazione a info@swapmuseum.com) al Museo Diocesano d’Arte Sacra in Piazza Duomo a Lecce appuntamento con “È così divertente credere in Dio! La poetica di Leonard Cohen incontra l’arte sacra” a cura di Swapmuseum. La serata prenderà il via alle 18 (ingresso libero su prenotazione a redazione@coolclub.it) con il workshop del fumettista Daniele Caluri. Livornese, classe 1971, ha collaborato per 25 anni per il mensile satirico “Il Vernacoliere” come autore di fumetti (Fava di Lesso, Luana la Bebisìtter, Nedo, Don Zauker) che, negli anni, lo pongono all’attenzione del grande pubblico. Dal 2003 Caluri collabora con Sergio Bonelli Editore come disegnatore di Martin Mystère e Dylan Dog, oltre che della collana Le storie. Dalle 19 appuntamento con l’incontro Verso Lecce Città del Libro 2017. A seguire lo scrittore Giordano Meacci presenterà, intervistato da Rossano Astremo e Dario Goffredo, “Il Cinghiale che uccise Liberty Valance”, romanzo d’esordio uscito qualche mese fa per Minimum Fax e tra i finalisti del Premio Strega. Meacci è anche tra gli autori di Non essere cattivo, film postumo del regista Claudio Caligari, presentato fuori concorso alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia nel 2015 e designato come film rappresentante il cinema italiano alla selezione per l’Oscar al miglior film straniero del 2016. Dalle 21 la rassegna ospiterà Dente, uno dei più apprezzati cantautori italiani, un musicista che negli anni ha conquistato un pubblico sempre più numerso e affezionato riuscendo a imporre il suo personalissimo linguaggio pop dai tratti essenziali e ricercati. Intervistato da Bianca Chiriatti ripercor-
rerà la sua carriera e parlerà del suo nuovo album “Canzoni per metà” che già dal titolo è una chiara dichiarazione d’intenti, un doppio senso che indica da una parte brani dedicati alle “dolci metà” passate, presenti e future, dall’altra canzoni a volte brevi e dirette e spesso dalla struttura spiazzante tanto da poter sembrare quasi incompiute, ma che incompiute non sono. Dopo dieci anni di carriera Dente rimane tra i pochi coraggiosi artisti capaci di continuare a sperimentare, destrutturando la forma canzone pur mantenendo intatta una solida identità pop. Dalle 22 sul palco l’atteso concerto di Motta. Il suo esordio discografico solista “La fine dei vent’anni” (Sugar) ha messo d’accordo la critica, che gli ha riservato recensioni entusiaste, ed il pubblico, che lo ha premiato con piene e calorose platee nei concerti del tour passato che lo ha portato in oltre 60 location, tra live club, teatri e festival.
DOMENICA 4 dicembre
La Poesia nei Jukebox si concluderà con un mercatino (dalle 10 alle 21) che nel pomeriggio ospiterà alcuni showcase di band e progetti pugliesi che si alterneranno in brevi showcase e presentazioni. Tra gli ospiti Nerodalia (nuovo progetto della cantante Alessandra Caiulo e del chitarrista Salvatore Casaluce in collaborazione con il batterista Francesco Pennetta), Massimo Donno, Maffei!, Manu Phl, Casematte e Dune.
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VINICIO CAPOSSELA
Trombe, fiati, archi, mariachi, trance elettronica e i grandi tamburi di Tricarico per la Fòcara di Novoli «Un concerto propiziatorio, in un giorno speciale come quello di Sant’Antonio Abate, e che sarà di buon augurio anche per il mio tour “Ombra. Canzoni della Cupa e altri Spaventi”». Così Vinicio Capossela presenta l’appuntamento che il 16 gennaio lo porterà a Novoli, in provincia di Lecce, per esibirsi sotto quella Fòcara che già aveva fatto da sfondo a un suo concerto nel 2008. «Sono molto legato alla festa del fuoco – racconta il cantautore– la prima volta che ho suonato a Novoli sono rimasto sbalordito dalla bellezza di quella pira. Mi affascina la sua gestazione, il fatto che i contadini per mesi raccolgano i tralci per costruirla. Mi affascina la sua accensione, mi affascina il fatto che sia la più grande d’Europa, che sia visibile anche dallo spazio e che impiegherà tre giorni per consumarsi, bruciando anche l’effigie di sant’Antonio. Quest’anno
me la godrò di più di otto anni fa, anche perché ho le canzoni giuste». Il riferimento è alle “Canzoni della Cupa”, titolo dell’ultimo album di Capossela, ventotto brani scritti in tredici anni e divisi in due sezioni, “Polvere” e “Ombra”. «Siamo al giro di boa, quella che sta arrivando è la seconda parte del tour, quella dell’“Ombra”, ed è quasi scaramantico che sia proprio la Fòcara ad aprirla, a “dar fuoco” alla prima parte, alla “Polvere”». Il concerto del 16 gennaio sarà totalmente legato alla ritualità agreste, connesso alle tradizioni della terra: «L’esperienza del 2008 mi ha dato tante ispirazioni per scrivere brani legati alla ruralità, alla fertilità, ne scrissi anche uno pochi giorni dopo, “Fòco alla Fòcara”. Il 16 gennaio, oltre a tante canzoni nuove, avremo proprio un’orchestra rinnovata, una formazione completamente inedita fatta di strumenti
antichi e sperimentali. Ci saranno trombe, fiati, un quartetto d’archi, mariachi e alcuni elementi di trance elettronica, che è sempre adatta per accompagnare. Ma soprattutto ci saranno i grandi tamburi di Tricarico, che faranno tanto rumore da risvegliare la terra e far uscire gli spiriti, allontanare il male. Un ritorno a una dimensione onirica e ancestrale». Quello di Novoli non sarà l’unico appuntamento in Puglia di Vinicio Capossela. Il tour teatrale “Ombra”, che farà tappa il 6 marzo al Teatro Politeama Greco di Lecce e il 7 marzo al Teatro Team di Bari, avrà una dimensione più intima, sia rispetto alla Fòcara, sia rispetto al tour della “Polvere”, che aveva come scenografia un campo di grano in cui si esibivano undici musicisti, tra mariachi, archi e tamburi africani, in un’atmosfera frenetica e solare. «In questa seconda parte del tour avremo il supporto del teatro d’ombre, per portare lo spettatore in un viaggio onirico e lasciarlo andare a casa incredulo. Poi sul palco insieme a me ci saranno musicisti diversi (tra cui i pugliesi Beppe Leone e Giovannangelo De Gennaro), un quartetto d’archi, strumenti medievali e spiritici. Il pubblico assisterà a tante commistioni, del resto già nel disco ho voluto far convivere le tradizioni del folk italiano con la fisarmonica di Flaco Jimenez o i Los Lobos». Capossela tiene a precisare il titolo completo del tour, “Ombra. Canzoni della Cupa e altri Spaventi”. «Gli “Spaventi” in questo caso sono gli altri brani del mio repertorio, quelli che non fanno parte dell’ultimo album. E la parola “spaventi” è un po’ fotografia della società odierna, una società di produzione della paura, che demonizza i problemi anziché affrontarli». E per Capossela, dalle radici irpine, il problema più grande del nostro tempo sono le migrazioni, la “paura del forestiero”: «Migrazione è anche quella del meridionale che si trasferisce al Nord. La relazione uomo-territorio è antropologica, è uno dei bisogni ancestrali dell’uomo. È preoccupante come una pulsione primaria possa essere utilizzata per fini politici ed economici e come possa produrre paura. Non cediamo agli spaventi, questo è il mio invito, affrontiamo le cose per quelle che sono». Bianca Chiriatti
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SANT’ANTONIO tra devozione, Arte, musica e teatro L’artista Daniel Buren, Vinicio Capossela, Eugenio Bennato, Giovanni Lindo Ferretti, il fotografo Francesco Jodice dal 16 al 18 gennaio saranno a Novoli, in provincia di Lecce, per la tradizionale Fòcara. Un falò (uno dei più imponenti del bacino del Mediterraneo) eretto in onore di Sant’Antonio Abate. Una manifestazione che mescola devozione religiosa e riti pagani e che negli ultimi dieci anni, grazie a corposi investimenti, si è trasformata in un evento che porta nel piccolo paese del nord Salento migliaia di curiosi da tutta la Puglia, dall’Italia e (così dicono alcune ricerche realizzate “sul campo”) anche dall’estero. Da non perdere le varie cerimonie religiose, la benedizione degli animali e soprattutto l’accensione della pira (alta circa 25 metri) che sarà preceduta da una performance di Giovanni Lindo Ferretti e dal corpo di ballo della Notte della Taranta che si esibirà sulla musica di “fuecu” scritta da Daniele Durante, ispirato al grande fuoco del Salento. Il Fòcara Festival, a cura di Loris Romano, ospiterà oltre a Vinicio Capossela anche Eugenio Bennato, 2 Many DJ’S, Bienoise, Chase & Status, Acid Arab, Cairo Liberation Front, Richard Dorfmeister, Jolly Mare, C’Mon Tigre e Danijel Zezelj. Già da dicembre è prevista, inoltre, la rassegna “Un mese di fuoco”, con tanti ospiti tra cui Elio Germano, Nicola Lagioia, Don Pasta, Pietrangelo Buttafuoco. Info focara.it
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Giosuè Impellizzeri
L’autore, critico, scrittore, compositore e dj si muove nell’ambito della musica elettronica e dance dal 1996 Da circa vent’anni si occupa di dance ed elettronica, come autore, critico, scrittore, compositore e dj. Giosuè Impellizzeri sarà tra gli ospiti del Velvet Culture Festival che il 23 e 24 dicembre si terrà nel Salento. Tra il 2008 e 2015 pubblica la trilogia Decadance, dedicata al mondo della musica dance/elettronica e alla dj culture degli anni Novanta. «Compro dischi dal 1992. Nel 1996, fortemente attratto dal voler “interpretare il messaggio” che gli autori lanciano mediante i propri brani, iniziai a scrivere recensioni per una fanzine e da quel momento non mi sono più fermato. Ho collaborato ininterrottamente con moltissime testate, cartacee e web, mettendo da parte il djing che comunque ho coltivato per una serie di set mixati destinati ad Italia Network nei primi anni Duemila. Mi sono occupato di molte altre cose tra cui composizione, promozione e scouting per etichette indipendenti e la realizzazione di tre libri a cui se ne aggiungerà presto un quarto».
Quali motivazioni ti hanno spinto a approfondire la musica dance italiana degli ultimi quarant’anni? Non ho mai posto confini alle mie ricerche, anzi, la curiosità mi ha spinto ad indagare sulla dance prodotta in ogni continente perché ci sono continui link tra culture e musiche geograficamente lontane. A trainarmi è l’inesauribile voglia di sapere a cui si somma il desiderio di non lasciare raccontare la nostra storia a chi vive oltralpe e magari conosce le vicende parzialmente o per niente (come avvenuto coi manichini robotizzati dei Kraftwerk a cui ho dedicato una recente indagine). In Italia purtroppo il giornalismo dance è prevalentemente cronachistico e non legato ad analisi storiografiche o a dibattiti culturali. Ciò ci penalizza non poco. Perché la musica dance è considerata una cultura musicale a se stante? Quali cambiamenti sociali e economici possiamo riscontrare nella società passata e odierna? Probabilmente perché è stata innescata da
metodi compositivi e modalità di fruizione diversi dai tradizionali. Per anni in Italia la dance è stata ghettizzata e declassata a musica di terz’ordine. Poi, in base allo stile, inquadrata in un contesto sociale ben preciso: pop dance per tamarri senza cervello, techno per consumatori di stupefacenti, house per fighetti facoltosi. Questi luoghi comuni hanno impedito il consolidamento di una vera e propria cultura se non in ambienti piuttosto ristretti. Nonostante oggi si viva nella società dell’informazione (ma paradossalmente non della conoscenza), credo ci sia ancora molto da fare. Il 23 dicembre sarai a Lecce per uno dei seminari del Velvet Culture Festival. Di cosa parlerai? Ripercorrerò le tappe di una storia quarantennale costellata di intuizioni, conquiste, compromessi, espedienti, ascese e cadute e molto altro, con particolare predilezione per disco, techno ed house. Parlerò di etichette discografiche, di imprenditori lungimiranti, di nomenclature inventate per fini di marketing e di aneddoti e retroscena che raccolgo pazientemente per i miei libri, reportage ed approfondimenti. Secondo te, è possibile l’eliminazione del pregiudizio legato alla musica dance come genere musicale adatto solo al contesto della discoteca? Perché si è sviluppato e come eliminarlo? I pregiudizi nascono per varie ragioni tra cui la scarsa stima nutrita per il nostro stesso patrimonio e la poca credibilità ed autorevolezza di personaggi influenti per il grande pubblico che hanno curato più i propri interessi che quelli artistico/ culturali. Oggi così ci confrontiamo con una mentalità provinciale che impedisce all’Italia di vantare un progetto ambizioso come quello del Momem di Francoforte (nella foto) ad esempio. La discoteca poi è stata ripetutamente additata come luogo maledetto e causa di vite dissennate, e ciò rende ancora più ardua la scissione tra la musica ad essa destinata e tematiche legate al malaffare e criminalità. Non so se sarà mai possibile eradicare dall’immaginario collettivo tali convinzioni, purtroppo il nostro è un Paese che si nutre di stereotipi da troppo tempo.
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VELVET CULTURE FESTIVAL NEL SALENTO Jeff Mills, Ninos Du Brasil, Sammartano, Velvet Soundsystem sono alcuni degli ospiti del Velvet Culture Festival. Venerdì 23 e sabato 24 dicembre tra Lecce e Maglie si terrà, infatti, la prima edizione della rassegna di musica elettronica organizzata dall’associazione Culturale Barocco Movement. Venerdì 23 si parte alle 15 nell’Open Space di Piazza Sant’Oronzo a Lecce con alcuni seminari su marketing territoriale e potenzialità della club culture, sui principali esponenti della scena italiana degli ultimi quarant’anni, sul potere delle frequenze a livello terapeutico e su tanti altri argomenti. Interverranno Giacomo Fronzi, filosofo della musica e storico della musica elettroacustica, Simone Gatto, filosofo e artista salentino e proprietario dell’etichetta Out-ER; Giosuè Impellizzeri, attivo nel settore dal 1996, Ivo D’Antoni, collezionista e fondatore della webzine e etichetta discografica electronique. it; Pierfrancesco Pacoda, giornalista e scrittore; Dino Lupelli e Marco Ligurgo, organizzatori e promotori di festival italiani. Dalle 22 aftershow al Museo Ferroviario di Lecce con le esibizioni di Ninos Du Brasil, Sammartano e Velvet Soundsystem. Sabato 24 dalle 23, in collaborazione con Crime Fest, club night alle Industrie Musicali di Maglie con l’artista americano Jeff Mills, padre del movimento techno, in una speciale performance della durata di tre ore con la drum machine Roland 909. In apertura i salentini Gianni Sabato, dj resident per Velvet e Guendalina, e Cristian Carpentieri, parte del collettivo e etichetta discografica Joyfull Family. Info e biglietti velvetculturefestival.com
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7 dicembre - ore 22 Officine Cantelmo - Lecce
LA MUNICIPàL
sino al 23 dicembre - ore 21 All’ombra del Barocco - Lecce
BLUES SHADOW
Sino al 23 dicembre, All’Ombra del Barocco di Liberrima in Corte dei Cicala a Lecce la musica sarà protagonista con Blues Shadow. Una rassegna, con la direzione artistica del violinista e compositore Alessandro Quarta, che proporrà un viaggio tra standard jazz e nuove composizioni, bossa nova e tradizione argentina, improvvisazione e colonne sonore. La rassegna proseguirà con un Omaggio a Ella Fitzgerald con la cantante Gianna Montecalvo (sabato 3) che terrà anche una master class (domenica 4), Hammond Trio con Bruno Montrone, Dario Congedo e Andrea Favatano (sabato 10), il trio Birthplace composto da Emanuele Coluccia, Luca Alemanno e Dario Congedo (sabato 17). Ultimo appuntamento dell’anno venerdì 23 dicembre (ore 21) con il Concerto di natale “White Christmas & Disney in Jazz” con Alessandro Quarta 5tet e la partecipazione di Roberto Ottaviano (sax), Luca Alemanno (contrabbasso) e Dario Congedo (batteria). Tutte le domeniche (ore 13 - menù alla carta) la rassegna sarà A pranzo con la musica. Sul piccolo palco del ristorante si alterneranno infatti alcuni giovani musicisti e compositore delle scuole musicali salentine tra standard e brani inediti. Info 0832242626 - liberrima.it
L’articolata programmazione del progetto Officine della musica ospita il concerto de La Municipàl. Prodotto dall’etichetta La Rivolta Records e sostenuto da Puglia Sounds Record 2016, il disco d’esordio della band salentina “Le nostre guerre perdute” comprende le nuove canzoni composte da Carmine Tundo (chitarra e voce) e Isabella Tundo (piano e voce). Ingresso libero officinedellamusica.org
10 dicembre - ore 21 Teatro Comunale - Novoli (Le)
Vanja
La stagione di prosa, promossa da Comune di Novoli, Factory compagnia transadriatica, Principio attivo teatro, Mibact, Regione Puglia – programma regionale di spettacolo dal vivo per la valorizzazione delle risorse culturali ed ambientali della puglia – 2016, Teatro Pubblico Pugliese, prosegue il 10 dicembre con Vanja della Compagnia Oyes Teatro firmato dal regista Stefano Cordella.
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13 dicembre – ore 21.30 Ammirato Culture House - Lecce
sino al 3 gennaio Galatone (Le)
TRIBUTO A DAVID BOWIE
ATTRATTORI DI ARMONIA
Con un tributo a David Bowie prosegue la terza edizione de “Il club dell’ascolto live”. A quasi un anno dalla morte dall’artista britannico il Salento rock si raduna, infatti, per celebrare le sue canzoni. Non sarà una commemorazione ma una festa con circa venti musicisti impegnati in una corposa scaletta che esplorerà tutte le stagioni della sua produzione. Una quindicina di brani in scaletta. Ingresso libero (con tessera ) - coolclub.it
Sino al 3 gennaio prosegue a Galatone, “Attrattori di Armonia. Preludio di stagione”, rassegna teatrale a cura della Compagnia Salvatore Della Villa. Tra il Teatro Comunale, il Frantoio del Palazzo Marchesale e il Castello di Fulcignano appuntamento con spettacoli, workshop, attività di formazione del pubblico e matinée per le scuole. Info salvatoredellavilla.teatro@gmail.com
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15 dicembre – ore 21 Grotte di Castellana (Ba)
27 dicembre – ore 21 Teatro Petruzzelli – Bari
Il cantautore siciliano torna in concerto in Puglia per uno degli appuntamenti più esclusivi dell’anno. Sarà infatti ospite di “Natale nelle Grotte 2016”, rassegna con la direzione artistica di Eugenio Finardi che ospiterà anche Giancarlo Giannini e Dire Straits Legacy. Battiato si esibirà accompagnato da Carlo Guaitoli al pianoforte e Angelo Privitera a tastiera e programmazione. Ingresso 90 euro. Info 0804998221
Scritto, suonato e registrato integralmente da Niccolò Fabi in una casa di campagna, tra la fine del 2015 e l’inizio del 2016, “Una somma di piccole cose” approda nei teatri per la versione invernale del tour. Il disco verrà portato in scena dal vivo da Fabi assieme ad Alberto Bianco e la sua band, composta dai musicisti polistrumentisti Damir Nefat, Filippo Cornaglia e Matteo Giai. Ingresso da 18 a 45 euro. Info 02.20404727
28 dicembre – ore 23.30 Arci Groove - Carpignano (Le)
15 gennaio – ore 21 Teatro Petruzzelli – Bari
Rivet, Alienata e Arcangelo si alterneranno in consolle in occasione della speciale edizione natalizia di Knick Knack. L’artista svedese Rivet vanta una carriera invidiabile e collaborazioni con massimi esponenti come Oscar Mulero, Bas Mooy e Kr!z. Alienata è l’alfiere della crew tedesca Killekill, un punto fermo della nightlife della capitale tedesca grazie a lunghe esibizioni in vinile in importanti club e festival in Europa.
Nuovo appuntamento promosso dalla Camerata Musicale Barese al Petruzzelli con il jazz di Stefano Bollani. Definito «musicista iperbolico, scattante ma profondo, goliardico ma rigoroso», Bollani è anche artista eccentrico e poliedrico capace di passare da un genere ad un altro, il tutto con un’ironia straordinaria. A Bari sarà in scena con lo spettacolo “Piano Solo”. Info www.cameratamusicalebarese.it
FRANCO BATTIATO
KNICK KNACK
Niccolò fabi
STEFANO BOLLANI
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