Porto delle Storie è il progetto sulla scrittura dell’Assessorato alle Politiche Culturali del Comune di Campi Bisenzio e della Cooperativa Macramè, percorso avviato nel 2007 con la prima edizione di Un mercoledì da scrittori e che oggi comprende i laboratori di scrittura e fumetto gratuiti per minori e adulti e il concorso letterario Fogli di viaggio dedicato a Tiziano Terzani. www.portodellestorie.it
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In questa nuova edizione troverete: la vita sui pedali di Margherita Hack; l’Italia da Napoli a Milano del regista di Benvenuti al Sud Luca Miniero; la Bosnia a quasi vent’anni dalla fine della guerra raccontata da Luca Leone; l’idea di Giustizia di Giancarlo De Cataldo; l’inchiesta sul senso della vita di Concita De Gregorio; l’adolescenza nella campagna Toscana narrata da Pietro Grossi; la beatificazione di Roberto Baggio ad opera di Vanni Santoni e Matteo Salimbeni; la Lega Nord vista dagli occhi della parigina Lynda Dematteo; il ventennio di Berlusconi e i ricordi su Tabucchi di Paolo Di Paolo; un dialogo tra due giallisti come Paolo Roversi e Marco Vichi; l’inaspettato romanziere Dario Franceschini; il fiume in piena Don Andrea Gallo e le regole del giallo di Sandrone Dazieri.
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201 2 A cura di Francesca Ammannati e Francesca Ciardi
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201 2 A cura di Francesca Ammannati e Francesca Ciardi
Macramè società cooperativa sociale a r.l. onlus via G. Giusti 7 50012 Campi Bisenzio (fi) tel. 055 8779391 www.coopmacrame.it Progetto grafico e impaginazione: alfiotondelli.it
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Indice
Ripartiamo da qui di Emiliano Fossi
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Introduzione
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La speranza non è in vendita Don Luigi Ciotti Intervista di Carlo Andorlini
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La mia vita in bicicletta Margherita Hack Intervista di Carlo Andorlini e Luigi Ricci
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Milano – Napoli da casello a casello Luca Miniero Intervista di Giovanni Grossi
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Bosnia Express Luca Leone Intervista di Marco Cappuccini
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In Giustizia Giancarlo De Cataldo Intervista di Andrea Bigalli
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Così è la vita Concita De Gregorio Intervista di Benedetto Ferrara
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Incanto Pietro Grossi Intervista di Luigi Ricci
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L’ascensione di Roberto Baggio Vanni Santoni e Matteo Salimbeni Intervista di Benedetto Ferrara
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L’idiota in politica Lynda Dematteo Intervista di Marco Cappuccini
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Dove eravate tutti Paolo Di Paolo Intervista di Irene Grossi
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Il giallo del Mercoledì giallo Paolo Roversi e Marco Vichi Intervista di Leonardo Sacchetti
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Daccapo Dario Franceschini Intervista di Giovanni Grossi
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Se non ora adesso Don Andrea Gallo
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La bellezza è un malinteso Sandrone Dazieri Intervista di Paolo Ciampi
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Appendice
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Ripartiamo da qui di Emiliano Fossi
Un mercoledì da scrittori sta diventando grande, bello, forte e intelligente. Guardarlo crescere ed essere soddisfatti come quando vedi un figlio affermarsi nella vita con la sua personalità e questo ti rende orgoglioso di essere genitore. Perdonatemi il paragone sicuramente forzato ma la soddisfazione di essere riusciti a dare gambe a un progetto che avevamo dentro da tempo e avergli visto riscuotere il successo ottenuto è una bella sensazione. I numeri ci dicono l'importanza straordinaria in termini di partecipazione, i nomi di primo piano che sono stati ospiti danno risalto al livello raggiunto. Ma Un Mercoledì da scrittori come abbiamo detto più volte è qualcosa di più di tutto questo. Rappresenta infatti un mix ben riuscito di voglia di parlare di letteratura, di qualità, di capacità di creare un clima avvolgente, includente, dove le barriere tra scrittore e pubblico vengono completamente abbattute. Quest'anno abbiamo vissuto emozioni ancora più intense, serate come quella di Don Gallo o Margherita Hack credo rimarranno nella nostra testa e nei nostri cuori per parecchio tempo. Tutto ciò rappresenta un grande patrimonio e una bella responsabilità per le prossime edizioni che andremo a realizzare.
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Questa pubblicazione, come ormai da anni, è un modo per lasciare traccia scritta come piace tanto a noi, di tutte le emozioni, le parole, le sensazioni che in tre mesi abbiamo vissuto. Rappresenta un filo rosso perché quello che è stato resti certo nelle nostre teste e nei nostri cuori ma anche in un qualcosa di tangibile e di immediatamente accessibile. Ripartiamo da qui, da queste grandi esperienze, da Un mercoledi da scrittori, da Fogli di viaggio, dal contenitore di tutto ciò e cioè Porto delle storie, per cercare di volgere lo sguardo verso quella bellezza che, come ebbe a dire qualcuno molto più importante di me, salverà il mondo. Emiliano Fossi Assessore alle Politiche Educative e Culturali del Comune di Campi Bisenzio
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Introduzione
Quattro anni possono sembrare tanti o pochi, a seconda dei punti dei vista. Per un criceto sono quasi il doppio delle aspettative di vita, per un presidente degli Stati Uniti il tempo per provare a cambiare la propria Nazione nell’arco di un mandato, un bambino appena nato invece in quattro anni impara a parlare e camminare, un cane a quattro anni ne avrebbe 28, che poi è l’età della maturità per un calciatore. Ma per una rassegna letteraria? Difficile dirlo, certo, l’ultima edizione di Un mercoledì da scrittori, che poi è stata anche la quarta appunto, di capelli bianchi ne ha visti passare tanti, per esempio quelli di Margherita Hack che nella prima sera della rassegna ha ospitato nel suo salotto più di 500 persone, capelli bianchi però ancora al vento di una vita passata in bicicletta. Oppure quelli di Don Ciotti e Don Andrea Gallo che hanno raccontato la loro visione del mondo di fronte a un teatro completamente esaurito, capelli bianchi ma mai stanchi di parlare e convincere che il mondo si può cambiare, anche un po’ per volta e partendo da concetti chiari come: legalità, dignità e diritti. Ma non è stata certo una rassegna solo di capelli bianchi. Dal divano del Mercoledì quest’anno sono passati anche tre autori alla loro opera prima: Paolo Di Paolo che oltre a presentare il suo libro ha commosso il pubblico con i suoi
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ricordi su Tabucchi; Lynda Dematteo, antropologa francese che con il suo sguardo lucido ha osservato e raccontato il fenomeno Lega Nord e Luca Miniero, regista prestato alla scrittura che ci ha raccontato la sua visione dell’Italia. E poi anche tante conferme. Dal giornalismo secondo Concita De Gregorio alla Giustizia di Giancarlo De Cataldo, la storia di Roberto Baggio raccontata in modo originale e leggero da Vanni Santoni e Matteo Salimbeni intervistati da Benedetto Ferrara, ma anche il dramma e la bellezza della Bosnia nel reportage di Luca Leone. E poi tanto giallo con Marco Vichi, Paolo Roversi, Sandrone Dazieri. Insomma, quattro anni possono essere pochi ma anche tanti. E abbiamo in mente molti altri scrittori che vorremmo incontrare sul nostro divano del Mercoledì, questo ci fa pensare che ancora tutto non è stato fatto, ma le oltre tremila persone che hanno partecipato quest’anno ci convincono che un bel pezzo di strada è stato percorso e che nel farlo tanti sono stati i compagni di viaggio incontrati e che hanno deciso poi di proseguire insieme a noi. L’intenzione è ovviamente di andare avanti, ancora, e d’incontrare molti altri libri e leggere altri scrittori. Macramè Cooperativa Sociale
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Don Luigi Ciotti
La speranza non è in vendita
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Intervista di Carlo Andorlini
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La Costituzione chiede a ciascuno di noi di sentirla propria, di farla conoscere, di tradurla e di viverla. La Costituzione chiama in gioco la democrazia e la democrazia si fonda su due doni che si chiamano giustizia e dignità umana ma c’è anche una terza parola fondamentale, senza la quale la democrazia non sarà mai possibile, che è responsabilità.
Don Luigi Ciotti È un sacerdote italiano, ispiratore e fondatore dapprima del Gruppo Abele, come aiuto ai tossicodipendenti e altre varie dipendenze, e poi di Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie, un’organizzazione dedita a sollecitare e coordinare la società civile contro tutte le mafie e favorire la creazione e lo sviluppo di una comunità alternativa alle mafie stesse. È autore di libri a carattere educativo, di impegno sociale, di riflessione spirituale, come Genitori, figli e droga (1993); Chi ha paura delle mele marce? (1993); Terra e Cielo (1998); Non lasciamoci rubare il futuro (2006); La speranza non è in vendita (2011).
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Carlo Andorlini Il tuo libro La speranza non è in vendita non è, in realtà, diviso in capitoli ma è un flusso continuo di parole e sentimenti forti, difficile da interrompere; quando sono arrivato all’ultima parola e l’ho letta, sono rimasto colpito perché era la parola che un po’ aveva caratterizzato tutta la mia lettura, una sorta di filo rosso che mi risuonava. Quella parola è “impegno”. Ho pensato di scegliere tre temi che ti stanno particolarmente a cuore e che sono presenti nel libro, poi ti lascerò il microfono per parlare con il pubblico che è qui stasera, una comunità che ti aspetta da tempo. Mi pareva molto interessante parlare di Costituzione, di Educazione e Responsabilità e completare questo lungo percorso di parole con le Mafie, concetti che sono tutti interconnessi. Ad un certo punto dici che la nostra Costituzione parla con serietà ma il suo tono non è severo e che il dovere è un sentimento morale. Queste sono per me due grandi suggestioni e non propriamente una domanda. Don Ciotti Saluto volentieri i ragazzi della scuola media “Garibaldi” che hanno esposto un cartellone con scritto “La speranza siamo noi”. Mi fanno emozionare quelle parole, perché sono un grido che chiede a ciascuno di noi una grande responsabilità. Noi abbiamo una grande responsabilità nei confronti di questi ragazzi, abbiamo anche la responsabilità delle parole perché le parole possono avvicinare. A volte siamo sommersi da parole molto stanche, retoriche, altre volte siamo sommersi da parole che dividono, offendono, etichettano. Voi, invece, chiedete parole di vita che avvicinino, che diano rispetto e dignità alle persone. Ognuna di quelle lettere messe assieme a formare quella splendida frase deve
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diventare un impegno sulle responsabilità delle parole che andiamo a pronunciare. La Costituzione è scritta sulla carta ed è fatta di tante parole. Non basta però che sia scritta sulla carta, dobbiamo farla diventare viva tutti i giorni, tradurla nel nostro percorso. La spina dorsale della Costituzione è la responsabilità, mettere i doveri insieme ai diritti. È nella Costituzione che troviamo le regole dell’essere cittadini, dobbiamo farla diventare cultura e costume la nostra Costituzione. Uomini e donne hanno lottato per la libertà del nostro paese e la Costituzione nasce da quelle sofferenze, da quel bisogno di democrazia dopo tanti anni di guerra e dittatura. Non dimenticate mai questa parola centrale che è la libertà, perché la privazione della libertà è la più grande ferita, la più grande sofferenza per l’essere umano. Oggi in Italia abbiamo ancora molte persone che non sono libere, abbiamo dei territori in cui la presenza criminale mafiosa rende ostaggio le persone, non le lascia completamente libere. Non dimenticate che chi è povero non è libero perché è costretto a chiedere, a dipendere dagli altri e chi è senza lavoro non è libero perché è alla ricerca disperata di una sua libertà e di una sua dignità. Nella Costituzione ci sono le regole per essere cittadino, ma anche gli strumenti per voltare pagina rispetto all’ingiustizia, all’illegalità, alla violenza, alla corruzione, alle mafie nel nostro paese. La Costituzione chiede a ciascuno di noi di sentirla propria, di farla conoscere, di tradurla e di viverla. La Costituzione chiama in gioco la democrazia e la democrazia si fonda su due doni che si chiamano giustizia e dignità umana ma c’è anche una terza parola fondamentale, senza la quale la democrazia non sarà mai possibile: la responsabilità. La democrazia chiede la nostra responsabilità e chiede anche la responsabilità dello Stato, delle istituzio-
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ni, di chi governa, di chi amministra e chiede a ciascuno di assumere la propria responsabilità, o meglio la propria ConResponsabilità. Quest’anno sono venti anni dalle stragi di Capaci e Via D’Amelio, ma sarebbe rigoroso ricordare che quelle stragi derivano da altre stragi. Quest’anno sono anche trent’anni dalla morte di Pio La Torre e oggi se siamo qui, se i beni confiscati sono un pezzo della nostra storia, se c’è un articolo che decreta che cos’è la mafia, il 416 bis, lo dobbiamo proprio a lui. La legge Rognoni-La Torre, della quale La Torre non vide mai l’approvazione, decretava finalmente cos’era la mafia. Pensate, solo nel 1982. Fino ad allora la mafia era sempre stata negata, sottovalutata, strumentalizzata. La Legge 416-bis, contiene inoltre una grande intuizione di La Torre: la confisca dei beni ai mafiosi. La Legge uscirà 4 mesi dopo la sua morte e dopo la morte del giudice Chinnici. Oggi, mi permetto di parlare di “corruzione della speranza” perché anche la speranza può essere corrotta quando si illudono le persone, quando si dicono cose che poi non vengono fatte e di corruzione della speranza ne abbiamo avuta tanta in questi anni. Pio La Torre ha segnato un pezzo della nostra storia ed ha tracciato il nostro percorso. Nel 1996 oltre un milione di cittadini firmarono la petizione di Libera per chiedere al Parlamento di approvare la legge per l’uso sociale dei beni confiscati alle mafie coronando, così, il sogno di chi, a cominciare proprio da Pio La Torre, aveva pagato con la propria vita l’impegno per sottrarre ai clan le ricchezze accumulate illegalmente. Legge che potesse essere confisca vera con strumenti veri per sottrarre questi patrimoni mafiosi e destinarli ad un uso sociale; ecco l’aspetto nuovo che non c’era. Se oggi vediamo le cooperative, i giovani di “Estate Liberi” sui beni confiscati, lo dobbiamo a quella legge venu-
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ta dal basso e voluta da tutti noi, anche se siamo piccoli e fragili. È proprio il noi che vince. Unire le nostre forze, le nostre intelligenze e anche le nostre passioni per permetterci di realizzare percorsi che siano di cambiamento e anche di speranza. Cito un discorso di La Torre e vi chiedo di fare vostre le sue parole: Dobbiamo considerare la lotta alla mafia come un aspetto molto importante e decisivo non a se stante, ma nel quadro generale per la difesa dello stato democratico e quindi della lotta per l’obbligo democratico nel nostro paese.
Fra la dignità e la giustizia, doni della democrazia, vi è la responsabilità che chiediamo allo Stato ed alle Istituzioni, ma che oggi più che mai chiedono anche a ciascuno di noi per la difesa dello stato democratico. Pio La Torre battendosi per il 416-bis si legava ad un discorso più ampio e più evoluto come la Costituzione, la democrazia e la responsabilità, il nostro mettersi in gioco e fare ognuno la propria parte. Carlo Andorlini La Costituzione, così come la racconti tu, mi fa collegare tutto questo ad una parola che ho ritrovato nel tuo libro e che io non usavo assolutamente come l’hai usata tu. Quando parli della chiesa parli di una chiesa che interferisce. Quando dici che dobbiamo essere ConResponsabili, che dobbiamo ognuno fare la propria parte e parli della Costituzione così, mi fai venire l’obbligo morale, personale di interferire. Prima la vedevo come una parola negativa, adesso penso che interferire sia nostro compito. Don Ciotti Devo spiegare la parola interferire richiamandomi ad alcune date importanti. Il 15 settembre 1993
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viene ucciso Don Pino Puglisi. Le mafie scelgono, se è possibile, date simboliche e nel caso di Don Puglisi è quella del compleanno. Dai verbali emerge che quando il magistrato chiese a Giovanni Drago, uomo di Cosa Nostra, perché avessero ucciso Don Puglisi egli rispose che a Brancaccio era arrivato un prete che non era dalla parte dei mafiosi. Capite? Quindi c’era qualcuno che era dalla parte dei mafiosi, ed è vero. Le zone grigie c’erano, perché mentre uccidevano Don Puglisi c’era un prete che andava a celebrare la messa dal super latitante Pietro Aglieri. Non possiamo nasconderci che all’interno della stessa Chiesa ci sono stati dei comportamenti ambigui, accomodanti, in alcuni casi persino complici. Il magistrato pone la stessa domanda ad un altro uomo di Cosa Nostra, Salvatore Cancemi, che risponde: “Questo qua era un prete scomodo, un prete che disturbava Cosa Nostra, sicuramente al mille per mille, perché un prete che si fa i fatti suoi, che predica la chiesa e non tocca i mafiosi sicuramente campa cento anni”. Un mese prima dell’omicidio del parroco di Brancaccio, un altro collaboratore di giustizia Francesco Marino Mannoia, detenuto in carcere, dichiara al magistrato: «Nel passato la Chiesa era considerata sacra e intoccabile, ora invece Cosa Nostra sta attaccando anche la Chiesa perché si sta esprimendo contro la mafia. Gli uomini d’onore mandano messaggi chiari ai sacerdoti: non interferite». Invece, è proprio questo che deve fare la Chiesa: interferire, illuminare le coscienze, denunciare gli affari criminali e le ingiustizie sociali. Dove ci sono ingiustizia, povertà, violenza, sopraffazione noi tutti, anche la Chiesa, dobbiamo “interferire”. Dove vengono calpestate la dignità e la libertà delle persone non possiamo tacere perché non si uccide solo con le armi ma anche col silenzio. Altra data importante: il
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9 maggio 1993, Papa Giovanni Paolo II celebra l’eucarestia nella Valle dei Templi ad Agrigento. Il Papa era già stato in Sicilia una volta e non aveva mai parlato di mafia. L’ultimo giorno di questa sua seconda visita, pranza nel seminario maggiore d’Agrigento, riposa un po’ e poi si forma il corteo papale che deve raggiungere la Valle dei Templi dove migliaia e migliaia di persone lo attendono per la celebrazione eucaristica con cui si sarebbe chiusa la visita pastorale in Sicilia. Il corteo improvvisamente si ferma, il Papa scende dall’auto ed entra in una porticina dalla quale esce una decina di minuti dopo, sale sull’auto e va nella Valle dei Templi a celebrare la messa. L’omelia parte in profondità, dalla parola di Dio, ma non c’è alcun riferimento alla mafia per tutta la messa, nemmeno al saluto. Poi il Papa non fa più di mezzo metro per andare via che torna indietro e grida: «Convertitevi! Una volta verrà il giudizio di Dio». È la frase con cui denuncia quella violenza criminale mafiosa e con cui vuole illuminare la coscienza della gente di Sicilia. Il papa usa parole dure e la mafia risponde, con le bombe a San Giovanni in Laterano a Roma ed in un’altra chiesa della capitale ed uccidendo Don Puglisi e qualche mese dopo, a Casal di Principe, Don Peppino Diana. Il Papa con quelle parole aveva interferito. Il problema è che la Chiesa doveva parlare anche prima, doveva avere la forza e il coraggio di una denuncia ferma. La Chiesa è incompatibile con questi crimini, con questa violenza, eppure ci sono state e ci sono ancora oggi delle zone grigie. Ma chi c’era dietro quella porticina? Una madre e un padre, i genitori del giudice Rosario Livatino, ucciso a trentasette anni da Cosa Nostra. In quel colloquio mamma Rosalia restò in silenzio per l’emozione mentre papà Vittorio parlò con il Papa e gli mostrò il diario del figlio. Giovanni
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Paolo II lo aprì a caso e lesse una pagina. Non so quale pagina fosse ma posso dire che quando mi trovai con i genitori di Livatino anche a me fu consentito di leggere quel manoscritto che mi si aprì casualmente proprio sulle parole: “Alla fine.. Non ci sarà chiesto se siamo stati credenti, ma credibili”. Queste sono parole che sfidano l’uomo e non mi stupisco se hanno colpito così profondamente il Papa, tanto da fargli pronunciare quella frase. Dobbiamo essere credibili, credibili! Dobbiamo saldare la terra con il cielo, le beatitudini che parlano di fame e spirito di giustizia. Il nostro impegno comincia qui, cogliendo i volti, le storie delle persone. Comincia qui la giustizia, la lotta per i diritti, per la libertà, per la dignità delle persone. Comincia in questo nostro orizzonte di quotidianità, dentro le nostre città. Nella sua ultima intervista a Don Puglisi c’è tutto lo spessore di un uomo di Dio, di un sacerdote, di un grande educatore: “Parliamone, spieghiamoci, vorrei conoscervi e conoscere i motivi che vi spingono ad ostacolare chi cerca di educare i vostri bambini alla legalità, al rispetto reciproco, ai valori della cultura e dello studio”. Un atto di amore, oltre che di responsabilità. Abbiamo una responsabilità, noi adulti, che comincia proprio dai nostri comportamenti e dai nostri linguaggi. Abbiamo vissuto un coma etico nel nostro paese, una caduta della moralità pubblica, per questo invoco a guardarci dentro rispetto ai nostri comportamenti, alla nostra eticità, alla nostra sobrietà. Ma cos’è questa benedetta etica? È la ricerca di ciò che ci rende più umani ed autentici e chiama in causa l’ineluttabilità della nostra vita, la nostra responsabilità e deve essere dentro le nostre coscienze tradotta in parole e gesti coerenti. Questa è la responsabilità che abbiamo nei confronti dei nostri ragazzi, interrogarci sui
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nostri comportamenti e sulle nostre parole, guardare dentro noi stessi e dentro la nostra responsabilità, interferire se c’è ingiustizia, violenza e arroganza. Ma dobbiamo interferire nel modo giusto, cioè assumendo la nostra parte di responsabilità per quello che ci compete e chiedere conto delle altre responsabilità a chi ce l’ha, essere cioè una coscienza critica propositiva e non una denuncia fine a se stessa. La denuncia deve essere accompagnata da una proposta che deve avere coerenza: non posso chiedere agli altri di fare una cosa se poi non mi sforzo di fare la mia parte, se non mi assumo la mia responsabilità. Carlo Andorlini Luigi, sull’educazione mi farebbe piacere far intervenire la classe che ha esposto quel messaggio che leggevi prima, “La speranza siamo noi”. Ragazzi Siamo i ragazzi della II O della scuola media “Garibaldi” di Campi Bisenzio. Abbiamo deciso di partecipare a questo incontro perché in classe abbiamo parlato spesso di Libera e delle persone che hanno deciso di stare dalla parte giusta. Da due anni a scuola parliamo di legalità e di mafia e durante questo percorso abbiamo scoperto che la mafia è come un mostro che si infiltra nella nostra società e rende triste il nostro amato paese, uccide i sogni e le speranze e sfigura la bellezza della nostra terra, toglie attività ai giovani. Allo stesso tempo abbiamo anche sentito di essere come una squadra, con le stesse idee, gli stessi sogni, la stessa voglia di metterci in gioco. Legalità, cioè amore per la nostra Costituzione, coraggio di dire no a ciò che non ci piace e a ciò che è ingiusto, rispetto e cura per chi ci è accanto e per ciò che ci sta intorno. Ogni giorno nelle piccole cose possiamo met-
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tere il nostro impegno, possiamo informarci, condividere le nostre esperienze senza nasconderci dietro le nostre paure. Possiamo donare il nostro entusiasmo a chi l’ha perso, ma soprattutto non dobbiamo perdere la speranza perché la speranza non è in vendita. Don Ciotti Sì, la speranza non è in vendita. Purtroppo però c’è chi l’ha venduta, chi ne ha fatto un oggetto di mercato: quei 77 miliardi del giro della lotteria, dei gratta e vinci, dei giochi d’azzardo, sono false speranze. Con i casinò on-line puoi giocare in modo virtuale però paghi e perdi e ci sono persone che si distruggono. Queste sono le false speranze, la corruzione delle speranze. Noi invece dobbiamo portare una speranza che comincia dal nostro impegno, dal nostro metterci in gioco. Facciamoci tutti, ma proprio tutti, più autentici e persone più impegnate cominciando dalle piccole cose, come liberare chi libero non è ed essere anche noi costruttori di speranza. C’è un appuntamento importante, la giornata della memoria e dell’impegno in ricordo di tutte le vittime innocenti di mafia che si celebra ogni 21 marzo. I familiari delle vittime innocenti di mafia non vogliono che i loro congiunti vengano chiamati con l’appellativo di “eroi” ed hanno ragione perché gli eroi rischiano di essere distanti. Sono gli uomini e le donne giusti, sono le persone leali, sono quelle persone che si sono assunte fino in fondo la propria responsabilità, sono tutti i morti per la democrazia del nostro paese e per la libertà del nostro paese. Non dimentichiamo che il primo diritto di ogni persona è essere chiamata per nome. Ricorderò per sempre un 23 maggio di qualche anno fa, a Palermo: ad un certo punto una donna vestita tutta di nero si gira verso di me, con gli occhi pieni di lacrime, mi guarda
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e chiede “Ma perché non dicono mai il nome di mio figlio?”. Era la mamma di Antonio Montinaro, caposcorta di Giovanni Falcone. In quest’anno del ventennale si parlerà di Capaci, di Falcone ma forse non dei ragazzi della scorta. Invece, primo diritto di ognuno è di essere chiamato per nome. Ecco perché Libera ha voluto che il 21 di marzo, il primo giorno di primavera, si leggessero a voce alta i nomi di tutte le vittime innocenti di mafia. C’è una grande donna con cui Libera ha fatto i primi passi, Saveria Antiochia, mamma dell’ agente della Polizia di Stato, Roberto Antiochia. Mentre Roberto è in ferie a Palermo viene ucciso il commissario Montana con cui aveva lavorato proprio in quella città. Roberto, al funerale, vede l’altro commissario, Ninni Cassarà senza tutele, senza protezione e compie un atto d’amore, decidendo di scortarlo volontariamente. Moriranno entrambi, in un agguato a colpi di Kalashnikov il 6 agosto 1985. Saveria Antiochia, con cui Libera ha fatto i suoi primi passi, un giorno ci ha detto “Quando ti uccidono un figlio, sparano anche su di te”. Tanti proiettili hanno ucciso tante persone e quei proiettili li dobbiamo sentire sparati anche su di noi. Il mio modo di fare memoria è quell’ultima parola che c’è scritta in questo libro: impegno. Fare memoria oggi è impegnarci di più tutti. Carlo Andorlini Il silenzio con cui tutti ti hanno seguito dice tutto. Ti chiedo un’ultima suggestione rispetto al tema mafia e legalità che hai già trattato. Io ho avuto la fortuna di fare esperienza in Libera e se la dovessi sintetizzare la racconterei, tra i tanti modi in cui si può raccontare, con una caratteristica che ha e che a mio parere è la più forte. Libera è un’associazione, Luigi è una persona, i compagni di viaggio
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sono delle persone che entrano dentro le cose, ne parlano, cercano di cambiarle e non si stancano mai. È l’unica a fare tutto questo da dentro. Personalmente sono un po’ stanco di vedere tante esperienze di denuncia, di impegno e anche di responsabilità, che però si trovano fuori da quello che denunciano; Libera è l’unica esperienza che io abbia conosciuto che invece lo faccia stando dentro le cose. A volte mi viene da pensare che ci vorrebbe una Libera per ogni grande problema che c’è, perché mi sembra l’unico modo efficace e vero per stare dentro, per denunciare e per poter cambiare. Queste ore passate con te, mi danno una grande forza per restare nelle situazioni e provare nel nostro piccolo a fare dei cambiamenti. Don Ciotti La mia gratitudine la esprimo a quei ragazzi che non sono “i ragazzi della scorta” ma hanno un nome ed un cognome e che da tanti anni mi accompagnano da quando sono avvenuti dei fatti gravi. Questa sera non è venuto Luigi Ciotti, io sono una piccola cosa, faccio solo il mio dovere, cerco di fare la mia parte ma sono qui perché ci sono tanti “io” che hanno costruito un “noi”: Libera e le tante associazioni, il gruppo Abele, la realtà di cui faccio parte da 45 anni che non a caso si chiama “gruppo”. Purtroppo nei nostri mondi ci sono forme di autoreferenzialità di qualcuno che cerca il protagonismo nel nome della legalità o del paese. A volte scattano dei meccanismi per cui il nostro peggiore nemico siamo proprio noi stessi. Ci sono state delle fragilità e fatti non piacevoli anche all’interno delle nostre associazioni e c’è un esame di coscienza che tutto il nostro mondo deve fare. Restiamo sempre umili, con i piedi per terra: la denuncia deve essere sempre seria, documentata, costrutti-
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va. Le parole non devono offendere ma cercare di costruire, avvicinare. La denuncia deve essere sempre attenta e forte di contenuto, per questo l’esame di coscienza è fondamentale. Le mafie non sono state mai a guardare e hanno cercato di entrare dentro ad associazioni di grande rispetto e di valore. Questo non vuol dire che quelle associazioni siano mafiose ma che c’è qualcuno che si è prestato, tenendo un piede di qua ed uno di là, oppure che a volte la penetrazione mafiosa serve a screditare, depistare e a far dire “vedete, anche lì ”. Quando si è in tanti e si deve lavorare su temi così difficili dobbiamo ancora di più sentire il bisogno di costruire e camminare insieme e di essere umili. Non dimentichiamo mai che l’unità di misura dei rapporti umani è la relazione, è il dare la parola, è ascoltare, è lavorare insieme.
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Margherita Hack
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Intervista di Carlo Andorlini e Luigi Ricci
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Conoscere significa non avere delle paure irrazionali; una volta avevano paura dell’eclissi di sole, dell’eclissi di luna, delle comete. Conoscere è importante. Oggi c’è chi ha paura che gli alieni arrivino sulla terra ma questo è impossibile perché le distanze sono troppo grandi, quindi conoscere aiuta a vivere più tranquilli, più sereni e, soprattutto, a ragionare, insomma la cultura aiuta ad essere sempre più liberi.
Margherita Hack È nata a Firenze nel 1922. Astrofisica e divulgatrice scientifica di fama mondiale. Ha collaborato con riviste e periodici specializzati ed ha scritto numerosi libri tra cui Alla scoperta dei sistema solare (1993), Cosmogonie contemporanee (1994), Una vita tra le stelle (1995), L’amica delle stelle (1998). Dal 1997 è in pensione, ma dirige ancora il Centro Interuniversitario Regionale per l’Astrofisica e la Cosmologia (CIRAC) di Trieste e si dedica a incontri e conferenze al fine di “diffondere la conoscenza dell’Astronomia e una mentalità scientifica e razionale”. È vegetariana, è stata campionessa di salto in lungo ed è da sempre impegnata in campagne e battaglie di impegno civile e politico.
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Carlo Andorlini Cara Margherita è un piacere grande che tu sia qui con noi anche se in video- collegamento da Trieste! Margherita Hack Sì, mi dispiace di non essere potuta venire ma a novant’anni faccio sempre più fatica a muovermi. Carlo Andorlini Non so se lo vedi da lì ma il Teatro Dante è strapieno, il pubblico è qui e fa sentire che c’è. Penso che sarai capace, come lo sei stata nel libro, di farti sentire. Tra l’altro la prima cosa che ti volevo dire del libro è che leggendolo viene proprio fuori la tua voce, è come se più che leggere un libro si ascoltasse una cassetta. Il fatto che non tu potessi raggiungerci ci dispiaceva, ma comunque sapevamo che sarebbe stato come averti qui presente. Sei mai stata a Campi Bisenzio? Margherita Hack A Campi Bisenzio? Eh, mi par proprio di no. Mi dispiace, perdonatemi se non ci son passata; ho girato tanta Toscana ma di Campi proprio non mi ricordo! Carlo Andorlini Il libro è leggero come sei tu, con la tua storia di vita racconti questa tua leggerezza ma dentro ci sono un sacco di cose. Il libro è bello come la foto della copertina. Guardandola, mio figlio che ha quattro anni e mezzo ha esclamato: “Bella quella signora, le deve proprio piacere il sole”. Iniziamo, Margherita. È davvero stata così importante la bicicletta nella tua vita? Margherita Hack L’ho desiderata molto. Da bambina sognavo la bicicletta e a quei tempi si imparava su quelle dei
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grandi. A me insegnò il Galardi, un amico del mio babbo che veniva a trovarci in bicicletta e che fu così tanto gentile da prestarsi a insegnarmi. Era piuttosto vecchiotto o meglio, a me sembravano tutti vecchi allora, in realtà avrà avuto una quarantina d’anni! Io salivo sulla sua bicicletta, arrivavo a fatica ai pedali e lui mi teneva da dietro e così s’andava; stavo in via Ximenes al Poggio Imperiale e si andava su in via Torricelli, che è anche in salita, e lui dietro, ansimava e mi teneva, finché una volta lasciò il sellino e io continuavo ad andare. Avevo imparato senza neanche accorgermene e quella fu una gran vittoria, però la bicicletta l’ho avuta solo quando passai in prima liceo. Era una bicicletta di un amico del babbo che aveva una bottega, in via Ricasoli, vicino al Liceo Galileo, dove andavo a scuola io. Era una bella bicicletta nera, una sottomarca della Maino. Io avrei preferito fosse stata della Legnano ma insomma non potevo andare troppo per il sottile! Durante quell’estate ho girato mezza Toscana, partivo la mattina con un panino in tasca, e andavo. Con la bicicletta ho girato tutto il Mugello, Borgo San Lorenzo, Scarperia, Vicchio. E poi andavo su a Pratolino per via Bolognese..oddio tutta non ce la facevo e siccome sapevo che da lì a Piazza Cavour, allora veniva chiamata così, c’erano 18 km io stavo attenta a metterci 18 minuti così voleva dire che andavo a 60 km all’ora e pedalavo disperatamente in discesa per farcela in 18 minuti. Allora non ci pensavo proprio che si potevano anche rompere i freni, come mi è successo una volta qui a Trieste. Luigi Ricci Ciao Margherita, Firenze e Trieste hanno le salite. La fatica e l’abitudine alla fatica ti sono poi servite nella vita?
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Margherita Hack L’allenamento vuol dire tanto nello sport ma anche nella vita. La fatica ti abitua a sopportare le difficoltà, a voler vincere la salita, vincere le tue battaglie per riuscire meglio, per fare meglio quello che devi fare, nello sport, nello studio, in tutto. Ti dà la volontà. Luigi Ricci E i grandi pensieri che elaboravi per il tuo lavoro certe volte li facevi proprio andando in bicicletta, incominciando a pensare, quasi a progettare, pedalando.. Margherita Hack Sì, perché in bicicletta, soprattutto su una bella strada in piano in cui non fai troppa fatica, pensi a cosa vuoi. Quando lavoravo, facevo ricerca, se avevo qualche problema scientifico ci pensavo in bicicletta e anche quando ho iniziato a nuotare bene, ho imparato qui a Trieste, nuotavo a dorso e pensavo a risolvere i problemi, perché ero rilassata e anche nuotare aiuta molto a pensare. Carlo Andorlini Mi piace quando racconti di un congresso molto importante che si teneva in Italia e a cui decidesti di andare usando come mezzo proprio la bicicletta e che approfittavi della pausa pranzo per andare a pedalare. Margherita Hack La bicicletta aiuta perché tiene il cervello libero di pensare, di respirare, di sentire l’odore delle piante e quindi arrivavo magari un po’ stanca di gambe ma sempre riposata di testa. Ed è quello che serve. Luigi Ricci Tu hai detto che oggi i ragazzi la bicicletta non la guardano nemmeno, non si appassionano.
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Margherita Hack Sono abituati ad avere tutto e subito, almeno molti di loro sono così, e quindi quando gli regalano la bicicletta ci vanno un giorno due e poi la buttano da una parte. Io l’ho sospirata per anni e quando è arrivata è stato come toccare il cielo con un dito. Luigi Ricci Ce la possiamo fare a farli appassionare alla bicicletta? Margherita Hack È uno sport bellissimo perché ti permette di girare parecchio, di fare grandi distanze che a piedi non puoi fare e allo stesso tempo di vedere il paesaggio, di sentire gli odori dell’erba, del bosco, dell’aria. Hai la possibilità di essere immerso nella natura ed è tutta un’altra cosa rispetto ad andare in motorino. Il motorino ti darà l’ebbrezza della velocità ma anche la bicicletta a suo modo lo fa ed è una cosa più naturale, diventa proprio parte del tuo corpo. Carlo Andorlini Inizierei ad entrare piano piano nella seconda parte del libro, quella che parla della tua vita a Firenze. Ti faccio due domande in una. Ti chiedo se un po’ ti manca Firenze e se la trovi in salute o se si stava meglio quando c’eri te. Margherita Hack La trovo ingrassata, cambiata enormemente, non c’è più la campagna. Quando andavo in bicicletta da Firenze verso Prato o Pistoia ce n’era tanta, ma oggi non c’è più. Dov’è? Lì a Peretola è tutta città, tutta grattacieli. Non è più Firenze, non riconosco nulla. C’è il Palazzo di Giustizia, lì dalle parti dell’autostrada, ed è tutto nero è un qualcosa che mi ricorda i racconti di Kafka. Anche Sesto, mi
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ricordavo era un paesotto invece ora ci sono grattacieli, condomini e altri condomini. E che è? È peggio di Firenze. Luigi Ricci Hai mai pensato di tornare a vivere a Firenze? Mi sembra di capire che non riconoscendola più Margherita Hack Non tanto per quello, ma perché ormai qui a Trieste ho lavorato, ho creato un istituto che era praticamente inesistente. Qui ho tutto il mio lavoro, ho gli amici, ho i miei allievi. Ormai son qui da quasi cinquant’anni. È una vita. A Firenze che farei? Non ho più nessuno, non ho nemmeno la casa, che ho venduto per comprare questa dove vivo. Firenze è bella e non c’è sasso delle strade di Firenze che non mi ricordi qualcosa, io ne ho girate tante a piedi e in bicicletta, quindi mi vengono in mente tutti i dettagli e tutti i ricordi però mi fa anche sentire ultradecrepita. Quindi preferisco Trieste, è come se fossi nata nel 1964! Carlo Andorlini Il libro è un libro sulla bicicletta, ma anche su una grande storia d’amore. Tu dividi il libro in tre giovinezze, la prima giovinezza, la seconda e la terza. Già questa è una bella lezione per tutti. Margherita Hack Pensa che ora sono nella quarta. Carlo Andorlini E poi c’è Aldo. C’erano una compagna, la bicicletta, ed un compagno, Aldo. Margherita Hack: Beh..Aldo l’ho conosciuto al Bobolino. Il Bobolino di mezzo era veramente un paradiso ed è il posto dove ho passato tutte le mie vacanze ma il problema che avevo era che lì ero sola e quando ci andavo cercavo sempre qualcuno con cui giocare. A volte mi andava bene
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ma altre non mi volevano e mi dicevano di no! Un giorno, invece, c’era un ragazzino che mi disse che siccome io avevo la palla e loro erano in tre avremmo giocato insieme e fatto i tornei. Quel ragazzino era Aldo che aveva due anni in più di me nemmeno due anni, un anno e dieci mesi più di me. Lui era lì col suo fratello Athos, che aveva un anno meno di me, ed una bambina e così si cominciò a giocare insieme a palla, a nascondino o a guardia e ladri. Una volta mi ero nascosta tanto bene a guardia e ladri che non mi veniva più a cercare nessuno! Poi andai via perché mi ero scocciata di stare nascosta. Ci si arrampicava sugli alberi e poi si saltava giù. Il Bobolino me lo ricordo come davvero il paese dei balocchi e ci ho fatto le vacanze dalla quinta elementare fino alla fine del liceo. E lì ho conosciuto Aldo, poi il suo babbo è stato trasferito all’Aquila e non ci siamo più visti e poi ci siamo ritrovati da grandi all’università e così cominciammo a salutarci ma non sapevamo più cosa dire, non ci si riconosceva nemmeno. Eravamo cresciuti, eravamo diversi e comunque un giorno, non avevamo nessuno né io né lui, si cominciò ad uscire insieme e si cominciò a pomiciare così, per chiasso. Carlo Andorlini Parli del Bobolino che è così vicino ad Arcetri. Questo legame forte con quel posto ti avrà un po’ influenzato nelle tue scelte? Margherita Hack Io ci credo nel segno del destino, perché son nata in via Caselli a Campo di Marte, all’angolo con via Cento Stelle e lì sopra c’è anche il viale Alessandro Volta; poi sono andata a vivere in una vecchia casa ereditata da mia mamma in via Ximenes al Poggio Imperiale, e Ximenes, astronomo e metereologo, fondò l’osservatorio xime-
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niano. Via Ximenes è vicina ad Arcetri dove c’è l’osservatorio astrofisico, e dove c’è Villa il Gioiello, dove Galileo era stato confinato agli arresti domiciliari dopo l’abiura. Quel farabutto diceva che era la terra a girare intorno al sole e non il sole intorno alla terra, figuratevi che razza di infedele; se non avesse abiurato avrebbe fatto la fine di Giordano Bruno che l’arrostirono vivo a Campo dei Fiori il 16 febbraio 1600. Galileo si vede non se la sentiva di farsi arrostire sicché Mah forse arrostirebbero anche me se ci fosse ancora l’Inquisizione! Questi son tutti segni, che volete di più? Io non avevo mica pensato di fare questo mestiere quando mi iscrissi a Fisica. Dovevo fare la tesi di laurea ed avevo pensato di farla in elettronica che allora era una scienza emergente, perché mi piaceva lavorare in laboratorio. Il professore me l’avrebbe data volentieri la tesi ma il direttore dell’Istituto di Fisica mi dette un’altra tesi di elettrostatica, che era un argomento vecchio, ormai sviscerato tutto nell’Ottocento che non mi interessava e quindi dopo qualche settimana glielo dissi e lui mi rispose che l’argomento di tesi lo potevo cambiare e che potevo anche arrangiarmi. Infatti, mi arrangiai. L’altra possibilità era di fare una tesi all’Osservatorio Astrofisico di Arcetri, dove facevano l’astronomia moderna, cioè la fisica delle stelle. All’inizio dell’ Ottocento pensavano che sarebbe stato impossibile sapere di cosa erano fatte le stelle, qual era lo stato della materia, perché brillavano e invece, proprio nello stesso periodo nasceva quella tecnologia che è la spettroscopia, che ha permesso di rispondere a tutte queste domande. Analizzando la luce emessa dalle stelle, luce bianca, e scomponendola nelle sue componenti dal rosso al violetto, ottenendo cioè quello che si chiama spettro, si viene a sapere qual è la composizione chimica di una stella, qual è la sua
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temperatura superficiale, che per le più fredde è di 2.0003.000 gradi; questo basta per dirci che per una stella, lo stato della materia non può essere che gassoso. Non può essere solido, perché son troppo calde. Quindi le stelle son palloni di gas, palloni gonfiati. Si parla tanto del romanticismo delle stelle ma le stelle sono palloni di gas che vediamo perché brillano, perché al loro interno avvengo delle reazioni nucleari. Palloni di gas che sono anche centrali di energia nucleare… Le romantiche stelle. Carlo Andorlini Ti faccio un’ultima domanda su questa parte fiorentina. Descrivi benissimo tutte le scuole che hai fatto sia come luoghi che come esperienza. Dici di aver fatto un bel percorso di studi in cui ti sei divertita e sei anche stata bene. Margherita Hack Si, a scuola tutto sommato ci andavo volentieri. Ero figlia unica quindi lì mi trovavo in compagnia e studiavo anche abbastanza volentieri e poi all’università, alla Facoltà di Fisica, quella sì che mi piaceva davvero. Al liceo mi interessava relativamente tutta quella roba ma comunque mi impegnavo perché i miei facevano sacrifici per farmi studiare quindi dovevo passare, non mi potevo permettere di bocciare. Carlo Andorlini Sei stata rimandata però! Margherita Hack Una volta, a matematica. Lì però non fu tanto per colpa mia, mi aveva preso in uggia il professore in terza ginnasio. Era un vecchietto sospettoso e antipatico e io mi divertivo a stare con gli occhi bassi, come se leggessi qualcosa sotto il banco mentre invece non c’avevo nulla, e lui
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si insospettì e venne tutto infuriato a guardare e non avevo nulla, allora prese la cartella ma era chiusa, l’aprì e ci trovò dentro “La Nazione” aperta alla pagina della partita della Fiorentina e disse che leggevo. Ora, non ho mica gli occhi a raggi X! Comunque da quella volta mi prese in uggia e mi rimandò ad ottobre in matematica ma poi passai. Carlo Andorlini Sempre a proposito di scuola, una cosa che tu racconti nel libro è che te a scrivere i temi eri velocissima, ma poi ti dettero un tema che non conoscevi.. Margherita Hack Io non ho fantasia nei racconti. Una volta ci dettero il tema “Descrivi una giornata al parco dei divertimenti” ma io al parco dei divertimenti non c’ero mai stata perché i miei avevano pochi soldi e quindi non sapevo cosa scrivere. Mi ricordo che c’era un mio compagno, che si chiamava Castelfranchi, che stava nella fila accanto a me e gli chiesi se lui fosse mai stato a un parco di divertimenti. Lui molto generosamente mi descrisse le giostre, le montagne russe e tutto quello che c’era e così potei fare il tema. Il Castelfranchi è un’ altra delle tante persone generose che ho incontrato. Carlo Andorlini Bene Margherita, ora si entra nella terza parte del libro. Ad un certo punto scrivi “l’indignazione per le leggi razziali e la passione per la politica mi fecero ritrovare me stessa”. Hai voglia di raccontarci un po’ di questo? Margherita Hack La passione per la politica! Mi interessavano la politica, la giustizia e la libertà, mentre non mi interessavano i balli e le chiacchiere delle mie compagne ricche che erano al liceo.
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Un po’ all’inizio le volevo scimmiottare perché mi vergognavo d’essere diversa, dopo non mi sono più vergognata, anzi ne ero contenta. Litigai proprio con loro per la vergogna del fascismo e del razzismo e dei bombardamenti dei tedeschi. Litigammo in classe e venne il professore di matematica, il Mancinelli, che era fascista e ci portò in presidenza e mi sospesero per un mese per propaganda antifascista. Eravamo proprio alla vigilia della maturità, era giugno del ’40, tornai a scuola proprio prima che finisse l’anno e il 10 giugno del 1940 l’Italia entrò in guerra. Per via della guerra quell’anno non ci furono esami di maturità, fummo promossi o bocciati a seconda dello scrutinio. È stato un vantaggio nella sfortuna della guerra che non ci fossero gli esami di maturità quell’anno. Carlo Andorlini Ad un certo punto tu dici che per l’Italia c’era un tifo come per una squadra di calcio. Margherita Hack C’era sempre la propaganda fascista “l’Italia, l’impero, Roma”, questo ci raccontavano in tutte le solfe, c’era scritto sui libri, sui quaderni di scuola, intere frasi di Mussolini e poi “l’Italia è la più grande di tutti”, l’Italia qui l’Italia là, e dai e dai, si faceva il tifo per l’Italia, come nel calcio. Cosa volessero dire dittatura o democrazia non si sapeva, non s’era mai vista la democrazia e poi da ragazzi non ci si rendeva nemmeno troppo conto. Poi ci fu la vergogna delle Leggi Razziali. Carlo Andorlini Ma ora come la vedi l’Italia? Margherita Hack La vedo un pochino meglio di qualche mese fa. Non passa giorno che non ci dicano che sta per
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andare in default, chissà poi perché in default e non in bancarotta. Però a me sembra, tutto sommato, che le cose non vadano tanto male. Siamo un paese abbastanza ricco anche se dicono che ci sono tante famiglie che non arrivano alla fine del mese, che è vero però è vero anche che siamo molto più spendaccioni di come eravamo abituati noi da ragazzi. Forse se si vivesse come si viveva una volta ce la faremmo, ma è difficile tornare indietro. Per esempio ora le ferie sono una cosa necessaria ed assoluta, noi le ferie non le facevamo, andavamo al Bobolino, oppure io sono vegetariana dalla nascita, sicché non ho di questi problemi ma ricordo che quando ero bambina la carne la gente non la mangiava certo tutti i giorni, oggi invece sì. Costa tanto e fa anche male mangiare tanta carne; io non l’ho mai mangiata e ho avuto sempre buona salute. Ora ne ho un po’ meno, ma c’ho anche 90 anni. Fino a 5 anni fa giocavo ancora a pallavolo! Luigi Ricci C’è un legame tra il tuo impegno civico e politico e questa tua curiosità, questo desiderio di guardare ciò che è infinitamente lontano, cioè le stelle? Margherita Hack Le stelle mi interessano come oggetto fisico. Mi piace la fisica, mi piace capire come funziona il mondo, come funzionano le stelle. È divertente capire il funzionamento dell’universo ma l’impegno civile e politico è un’altra cosa. Il desiderio di giustizia di libertà è una cosa che si sente dentro; la legge è uguale per tutti, quello che indigna sono le leggi fatte su misura. Pubblico Volevo chiederle, Margherita, se gliel’hanno mai rubata la bicicletta.
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Margherita Hack No perché non la mollavo mai! Il massaggiatore della mia squadra di atletica stava in Borgo Santo Spirito all’ultimo piano e c’era da fare una scala che non finiva mai, stretta stretta ed io andavo con la bicicletta in spalla fino in cima perché non mi fidavo a lasciarla giù, non era allucchettata. Pubblico Nel tuo libro dici che uno dei motivi per cui hai studiato fisica è perché a letteratura ti annoiava, anche se a spiegare letteratura era un noto letterato. Margherita Hack Era De Robertis, che insegnava all’università. Son stata un’ora a lezione da lui e parlò per un’ora del libro di Emilio Cecchi e mi ricordo mi scocciai a morte, una gran barba. La letteratura non mi ha mai entusiasmato troppo e poi chi fa lettere vuol dire che fa anche filosofia, ecco nella filosofia non c’ho mai capito nulla, mi sembrano tutte chiacchiere, cioè le lettere e la filosofia tutta questa roba mi sembravano chiacchiere; la scienza è qualcosa di concreto e mi ci trovo molto meglio. Se leggo una pagina di un libro di filosofia, arrivo alla fine e dico “boh, icchè avrà detto?” Pubblico Lei con gli strumenti ultramoderni ha scrutato e scruta il firmamento. Cos’ha visto? Mi pare riduttivo che siamo qui solo per caso. Margherita Hack Quello che sappiamo dal punto di vista scientifico è che circa 14 miliardi di anni fa le condizioni fisiche nell’universo erano di temperatura e densità tali che la materia poteva essere solo sotto forma di una zuppa di particelle elementari. Poi s’è visto, si vede come se avessimo pro-
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prio fotografie prese in varie epoche del passato, che da queste particelle elementari si sono formati i protoni, i neutroni, cioè gli ingredienti per gli atomi, si sono formate le molecole, si son formati i pianeti e le stelle. Le stelle hanno creato con le reazioni nucleari il materiale per fare i pianeti e per fare anche noi. Tutti gli elementi, quindi anche gli elementi di cui siamo fatti noi, son stati costruiti nelle reazioni nucleari che avvenivano dentro le stelle. Il dato osservativo è che noi si viene da una zuppa di particelle elementari ed è straordinario pensare che da questo si sia arrivati fino all’uomo, fino a cervelloni come Einstein, Newton, Galileo. È meraviglioso ma questo è il dato di fatto! Poi se sembra troppo straordinario e uno vuol pensare che è opera di Dio è liberissimo di farlo. Se Dio c’è o non c’è non è dimostrabile scientificamente. È un fatto personale c’è chi ha bisogno di credere che ci sia e chi non ha questo bisogno. Pubblico Ciao Margherita. Mio nonno, che è della tua stessa classe, è sposato con mia nonna da sessant’anni. Come si fa a vivere una storia d’amore così lunga? Stare con la stessa persona tutto questo tempo, oggi pare molto più difficile che studiare lo spazio… Margherita Hack Mah, se si azzecca la persona giusta, se si vive insieme senza nascondersi nulla e tenersi dentro rancori, buttando fuori tutto, litigando quando c’è bisogno di litigare, forse così si fa..Poi non lo so, forse oggi non si sta più insieme mentre una volta si doveva stare per forza dato che non c’era il divorzio e che le donne non lavoravano ed erano quindi costrette a restare insieme. Oggi almeno c’è più
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libertà e meno ipocrisia: se si sta bene insieme ci si sta, se non si sta bene insieme si cambia. Pubblico Buonasera, il futuro dell’ Italia sarà il nucleare? Margherita Hack Vedo che il futuro del mondo sarà il nucleare. Credo che si dovranno sviluppare molto di più le energie rinnovabili ma, siccome c’è sempre maggiore richiesta di energia da parte dei paesi crescenti come Cina, India e Brasile, ci sarà bisogno di energia nucleare. Il futuro dell’Italia col nucleare lo vedo piuttosto a rischio, perché il nostro paese non ha grandi distese disabitate dove si possano mettere centrali in sicurezza. Siamo meno in pericolo del Giappone perché l’Italia è un paese sismico ma non come il Giappone e non c’è il rischio di tsunami perché non siamo nell’Oceano; certamente però l’energia nucleare richiede precauzioni e i rischi ci sono, soprattutto in Italia dove spesso si fanno le cose con tanta leggerezza e dove si buttano rifiuti tossici dove capita e ci sono tutti questi problemi. L’ideale sarebbe appunto fare queste centrali nucleare da fusione, non da fissione, cioè non basata su un materiale radioattivo e che non lascia scorie. È quello che succede all’interno delle stelle. C’è meno pericolo ma questo si può ottenere solo facendo ricerca; la mia paura è che con il referendum contro il nucleare poi si bloccasse completamente la ricerca. Questo sarebbe un grosso sbaglio, la ricerca deve continuare. Pubblico Buonasera, sono insegnante della scuola Primaria di Luco di Mugello. Il mio intervento non è per farle una domanda ma per ringraziarla per aver risposto alla lettera dei miei alunni di quarta. Li ha fatti felici. A quanto pare
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ha conosciuto Don Giuseppe Tagliaferri al quale è intitolata la nostra scuola. Margherita Hack Il Tagliaferri è stato un caro amico e collega. Prima di me l’ha conosciuto Aldo perché son stati in sanatorio a Pratolino insieme. Poi l’ho conosciuto anch’io. Era un prete, ma era un prete molto laico. Pubblico In questi ultimi anni lei è stata conosciuta dal grande pubblico per la sua attività di divulgazione scientifica, per la sua capacità di spiegare in parole semplici cose molto difficili. Che importanza dà ad una corretta divulgazione scientifica e se questa aiuta una corretta educazione scientifica. Margherita Hack Conoscere significa non avere delle paure irrazionali; una volta avevano paura dell’eclissi di sole, dell’eclissi di luna, delle comete. Conoscere è importante. Oggi c’è chi ha paura che gli alieni arrivino sulla terra ma questo è impossibile perché le distanze sono troppo grandi, quindi conoscere aiuta a vivere più tranquilli, più sereni e, soprattutto, a ragionare, insomma la cultura aiuta ad essere sempre più liberi. Bisognerebbe insegnare fin dalle elementari a ragionare, a sapere come è fatto il mondo, come è fatto il nostro corpo, a conoscere il mondo; usando parole semplici si può fare anche con bambini piccoli. Carlo Andorlini Margherita per noi è stata una fortuna averti un po’ di tempo con noi! E ora ci fai la promessa che siccome Campi non l’hai ancora vista, e bisogna vederla nel-
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la vita, la prossima volta verrai di persona su questo palco a parlare con noi! A presto!
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Intervista di Giovanni Grossi
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In effetti le differenze ci sono però poi la disunità è più strumentalizzata da una certa politica che reale. In fondo il paese mi sembra molto più unito di quello che può sembrare dalle immagini che ripropongono i canali televisivi o i telegiornali.
Luca Miniero Regista e sceneggiatore, nasce a Napoli, si trasferisce a Milano, poi a Roma, quindi a Firenze, perché in medio stat virtus. Firma numerose campagne per prodotti industriali e per trasmissioni televisive, ottenendo, come creativo, i più importanti riconoscimenti internazionali. Per la tv si ricorda la serie Amiche mie. Con Incantesimo napoletano esordisce anche nel cinema. Dopo Nessun messaggio in segreteria e Questa notte è ancora nostra arriva il clamoroso successo di Benvenuti al Sud, cui ha fatto seguito Benvenuti al Nord. Questo è il suo primo libro.
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Giovanni Grossi Questo libro è un lungo viaggio per l’Italia in cui hai modo di raccontare il nostro paese attraverso la storia di alcuni personaggi, alcuni reali e altri no, ma comunque tutti veri perché anche se qualcuno di loro forse è inventato, racconta un po’ della città in cui abita e racconta un po’ dell’ Italia tutta. Il libro Napoli – Milano, da casello a casello é soprattutto un viaggio in treno e si riferisce alle tappe della tua vita: da Napoli dove sei nato, a Firenze dove poi hai scelto di vivere, a Milano e a Roma. La prima domanda prende spunto dall’introduzione del libro: [...] dopo il successo di “Benvenuti al Sud”, ho parlato molto di Napoli di Milano di Canicattì, ma nessuno mi ha mai fatto la domanda che avrei voluto ricevere. Ecco, forse se me lo avessero chiesto avrei risposto seriamente e sento che sarei guarito subito dal delirio di onnipotenza. «Cosa ti piace dell’Italia?»
Eccola! Dovevi proprio venire qui perché qualcuno te la facesse! Cosa ti piace dell’Italia? Luca Miniero In effetti il libro prende un po’ in giro quel tipo di giornalismo che chiede a uno che ha avuto successo con un film o una canzone, qualsiasi cosa che più o meno riguardi il tema che il film o la canzone trattano. Da un giorno all’ altro sono diventato un esperto del rapporto Nord e Sud. Addirittura ho ricevuto domande sulle nuove generazioni di termovalorizzatori! In realtà la risposta è nel libro: la coralità in commedia di vari personaggi che caratterizzano gli italiani da sempre. Anche il cinema italiano recentemente sta riscoprendo quei personaggi, sia a Nord che a
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Sud, sia negativamente che positivamente. Ecco, a piacermi nei miei film sono proprio questi personaggi minori, come può essere il signor Scapece in Benvenuti al Sud, e forse questo è l’aspetto dell’Italia che mi diverte di più. Giovanni Grossi In un capitolo descrivi tutta una serie di personaggi napoletani. Tu ti definisci un “normonapoletano”. Ci puoi fare la descrizione di questi personaggi? Luca Miniero Il libro l’ho letto un po’ di tempo fa, per cui non ricordo esattamente le categorie a cui ti riferisci! I napoletani che vanno in una città del Nord appartengono a delle categorie molto particolari: c’è quello che nasconde le proprie origini, si scorda di essere napoletano e si mimetizza per poi esplodere con tutta la sua napoletanità nel momento meno opportuno e probabilmente dopo aver faticato tutta una vita a nascondersi. Però c’è anche quello che, in effetti, continuamente rimpiange Napoli e che ti fa chiedere “Perché allora non te ne torni a casa?”. C’è poi una cosa che i napoletani hanno di strano: quando si incontrano fuori Napoli sembra che si incontrino a Tokyo e parlano tra di loro come se fossero una razza che si sta smarrendo. Nel libro questo culto della napoletanità viene un po’ deriso come il tipo di napoletano che non parte perché bisogna rimanere nella stessa città e che “Guai se si parla male di Napoli, solo Dio lo può fare!”. Poi ci sono i “normonapoletani”, quei napoletani che hanno fatto fortuna al Nord, integrandosi perfettamente nella nuova realtà, senza rinnegare però le proprie origini. Se il rapporto che un napoletano ha con la propria terra alle volte è discutibile, indubbiamente spesso è commovente.
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Giovanni Grossi Nel libro smonti diversi pregiudizi e luoghi comuni. Io però ci sono rimasto male perché io credevo che l’usanza del “caffè pagato” esistesse. Luca Miniero Il caffè pagato è un’usanza per cui in alcuni bar napoletani le persone lasciano un caffè pagato per quello che viene dopo e che magari non può permetterselo. Ci sono una serie di analisi che la smontano anche se è molto commovente. Mi è successo una volta di entrare in un bar ed essere io quello che non poteva permetterselo il caffè: ho ordinato, consumato ma una volta alla cassa mi sono accorto che non avevo i soldi, quindi ho fatto un grande sorriso! Però se non hai soldi spesso il sorriso non basta. In quel caso si è fatta avanti una persona che mi ha detto “E che è? Non ve lo posso offrire un caffè io, non vi posso offrire la colazione io?”. Giovanni Grossi “Milano da bere”. Viene fuori una Milano molto superficiale. Questo slogan è veramente riuscito, non riuscito, ha fatto tanto male a Milano? Luca Miniero “Milano da bere” è uno slogan che è nato ben prima che cominciassi a lavorare, ovvero negli anni Ottanta. Ho iniziato a frequentare Milano alla fine di quel decennio, quando già le cose andavano male. Sono stato uno di quelli che lavoravano sempre e a cui gli altri dicevano “Eh, e che vieni a fare il colloquio tanto non c’è lavoro!”. Non mi ricordo un solo giorno in Italia in cui si sia detto “Non siamo più in crisi economica!”. Ci sono i cicli, le crisi economiche passano, no? Ecco, io non mi sono mai accorto di quando passavano. Quando ci sono andato io non era proprio “Milano da bere”. Indubbiamente i milanesi sono un po’ formali
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e non riescono ad instaurare rapporti profondi, all’inizio. Il che è un bene rispetto ai romani, che invece ne instaurano troppi. Quello che ho veramente vissuto a Milano è che venerdì finivo di lavorare e riprendevo a parlare, letteralmente, il lunedì successivo a lavoro perché in tre giorni stavo completamente da solo, soprattutto d’estate. Al Nord è più difficile creare un contatto ma forse dopo, quando ci riesci, sono amici per tutta la vita come vuole il luogo comune dei nordici. Giovanni Grossi Il viaggio prosegue poi da Milano a Roma, che dalla descrizione sembra che ti piaccia molto. Tu parli di due personaggi: la cassiera multi-tasking che fa più cose contemporaneamente e Gigi, il cinematografaro, cioè quello che sa tutto del cinema, che ha conosciuto Fellini e ne parla sempre. Vorrei che ci parlassi di Roma e del tuo approccio al cinema. Luca Miniero Roma mi piace molto, ma prima di tutto mi piace il modo che hanno i romani di prendere la vita. Sembra una caratterizzazione banale, però i romani sono proprio capaci di godersela la vita, di viverla tranquillamente. A Roma non riescono mai a fare soltanto una cosa, ma ne fanno sempre almeno due contemporaneamente. Ne è l’esempio la cassiera che ti serve mentre sta parlando al telefono con la figlia. E la impiccia proprio stare a dare il resto a te, mentre vorrebbe parlare con la figlia al telefono e alla fine le dice “Te devo lascia’ che ce sta un maleducato che vòle paga’ ”. Il rapporto con il cinema è difficile, ma per i non romani è ancora più difficile. Ci sono questi personaggi che popolano il set, che hanno conosciuto Fellini, tutti hanno lavorato coi
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grandi maestri e quando arrivi là a girare loro dicono “Mamma mia e questo chi è?”. Hanno un pregiudizio nei confronti del regista, che non è naturalmente il grande maestro, e lo fanno pesare. In questo caso parlo, appunto, di questo Gigi che è un camionista molto grasso, effettivamente incapace di qualsiasi altra mossa che non sia quella di stare fermo al catering o sul camion ed è lui che racconta così tanti aneddoti che perde il senso del tempo e spesso arriva in ritardo sul set. Sono arrivato al cinema, a Roma, dalla pubblicità a Milano. Ho iniziato facendo il regista delle mie pubblicità e Incantesimo napoletano è stato il mio primo film che nasce dal cortometraggio Piccole cose di valore non quantificabile che ebbe molto successo e che mi diede la possibilità di fare i primi film con Paolo Genovese. Dopo è arrivato il successo di Benvenuti al Sud. Giovanni Grossi Com’è nata l’idea di Benvenuti al Sud? Il soggetto era già presente, se non sbaglio. Luca Miniero Diciamo che c’era un film francese, importantissimo, che io avevo già visto e mi aveva divertito molto, poi sono stato coinvolto in questo progetto. Questo nostro adattamento ha una forte personalità, è stato travolgente ed ha fatto cadere, come un castello di carte, tutta la commedia che c’era in quel momento sia dal punto di vista degli incassi sia perché ha dimostrato la possibilità di fare un remake di successo di un film francese. La differenza del nostro film da quello originale è l’essere carnale, popolare, essere un cine-panettone fuori stagione, pur senza la stupidità del cine-panettone ma con i ricordi popolari della risata facile. In qualche modo è questo che non c’era prima in Ita-
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lia; prima c’era questa risata facile etichettata al Natale e nel resto della stagione c’erano queste commedie intelligenti che ti facevano ridere. Poi è arrivato questo film intelligente ma soprattutto divertente di cui sono molto fiero perché penso che un conto sia fare un remake e un conto sia farne uno che funzioni. Giovanni Grossi In un capitolo parli del Nord e del Sud come due compagni di banco che possono stare insieme se si conoscono. Anche attraverso il cibo si può raccontare il nostro paese. Luca Miniero Devo dire che spesso c’è questa cosa nei miei film. Diciamo che le differenze culinarie indicano che c’è la parmigiana di melanzane a Napoli, che c’è il risotto alla milanese a Milano e a Firenze c’è la pappa al pomodoro ecc. Non è che uno però dice che queste differenze sono pregiudizi, anzi rappresentano un arricchimento. È questo rapporto di differenziazione che ho rintracciato nei miei film, piuttosto che il pregiudizio e il conflitto. E da qui, l’accusa di commedia buonista che mi accompagna. Giovanni Grossi Questa accusa di buonismo ti dà fastidio? Luca Miniero A me dà fastidio molto la critica, a prescindere! Poi ci sono mia moglie e un altro che cercano gli articoli di critica sui miei lavori e me li leggono, soprattutto se sono negativi! Quindi praticamente non riesco ad essere esente dalla critica che poi raramente è positiva. Pubblico Nei suoi film ha trattato l’Italia dal punto di vista delle divisioni che nel tempo sembrano farsi più pro-
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fonde; è impossibile essere legati in questo paese. Lei ha viaggiato molto per l’Italia, quindi le chiedo se l’ha trovata veramente così divisa e se è davvero impossibile trovare qualcosa in comune che leghi i suoi abitanti tra loro e con l’Italia stessa? Luca Miniero Quello che ho notato è che in effetti le differenze ci sono però poi la disunità è più strumentalizzata da una certa politica che reale. In fondo il paese mi sembra molto più unito di quello che può sembrare dalle immagini che ripropongono i canali televisivi o i telegiornali. Pubblico Volevo sapere a cosa sta lavorando adesso. Luca Miniero Con i libri ho finito, non vi preoccupate! Sto lavorando a un film ma ancora non vorrei raccontare niente perché cambio idea tutti i giorni e c’è il rischio che vi dica una cosa e poi magari è un’altra. Ho pensato di non farlo subito perché la critica dice sempre che noi facciamo film troppo vicini l’uno all’altro e brutti. Se poi però si lasciano passare che so, tre anni, i critici dicono “Ma forse questo non è così brutto visto che c’ha messo tre anni”. Poi, magari, è brutto come gli altri però ci hai messo tre anni e quindi ha una sua dignità. Quindi ho pensato di farlo non tra tre anni ma di iniziare a girarlo a novembre e farlo uscire a ottobre 2013. Quindi con calma. Però già sto scrivendo, insomma. .cioè, inizio lunedì! Pubblico Vorrei affrontare la questione degli attori e del cast. I produttori valutano il cast, o meglio la popolarità dell’attore principale, o il regista? È il regista o l’attore che
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richiama il pubblico? A me sembra che tutto si basi molto sulla popolarità dell’attore. Luca Miniero Nei miei film i ruoli minori non sono conosciuti, per esempio l’attore che interpreta Scapece, ed è vero che nei ruoli maggiori alla fine ci sono sempre gli stessi gli attori. In Italia ci siamo creati un po’ due ghetti: la commedia commerciale e il cinema d’autore. Questo secondo me è il vero male del cinema italiano. Credo sia un sistema politico, che siano le leggi dello spettacolo ad aver creato questi due mostri: da un lato c’è il cinema d’autore, il mostro finanziato che se ne frega del pubblico e racconta le sue avventure solitarie, dall’ altro questo cinema commerciale che non è aiutato e che si deve riconfrontare tutti i giorni con i botteghini e con gli incassi e che per farlo utilizza qualsiasi mezzo perdendo alcuna validità artistica. Quindi questi due mondi non riescono, come invece accadeva un tempo, a confluire in un solo mondo: film come quelli di Ettore Scola e Mario Monicelli sono film d’autore o commedia e probabilmente tutti e due. Questo manca e mi sembra che con gli attori sia la stessa cosa. Giovanni Grossi Ci sono esempi recenti di cinema che si pongano come “terra di mezzo”, tra cine-panettone e film d’autore, che siano una sorta di cinema alla Monicelli e Scola? Luca Miniero Il mio è un po’ più orientato sul versante comico. Ci sono i film di Virzì, che ha probabilmente qualche risata in meno ma che ha sempre fatto un discorso di “terra di mezzo”. Però sono pochi gli autori che operano in questo spazio, ad esempio Daniele Lucchetti magari lo ha fatto in passato ma adesso è autore drammatico. Io mi ri-
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tengo più vicino al cinema di Totò piuttosto che al cinema importante, a quello nobile. Benvenuti al Sud ha un pretesto di verità per cercare la commedia, mentre ci sono film che cercano la verità e in cui la commedia è un pretesto. Volendo fare un’analisi ci sono i cine-panettoni più biechi o il cinema di Brizzi, che è un po’ a metà tra il cine-panettone e il cinema comico, e poi c’è la commedia intellettuale che però un po’ si sta perdendo negli ultimi anni. La bellezza del somaro di Castellitto è un tipico esempio di una commedia intelligente che però non ti fa ridere. Mai! Pubblico Vorrei chiederle cosa l’ha portata a fare cinema e quali sono stati i film importanti per la sua formazione di regista. Luca Miniero È stato più che altro un percorso che mi ha portato dalla pubblicità a frequentare dei set. Cominciai scrivendo dei cortometraggi, perché facevo il pubblicitario e poi un po’ per caso sono finito a lasciare quel lavoro e a diventare regista di pubblicità. Diciamo che le cose sono andate, ho continuato a fare i film e poi anche film tv come Amiche mie. Poi c’è stato il film Questa notte è ancora nostra e il grande successo di Benvenuti al Sud. Se non avessi fatto questo come lavoro avrei certamente continuato a fare il pubblicitario, avevo una forte voglia di farlo. Mai avrei pensato, uscito dall’università o dal liceo, di poter fare un film al cinema. Tra i film più importanti per la mia formazione sicuramente il primo è Ricomincio da tre di Massimo Troisi. È un film del 1981 e quando l’ho visto non riuscivo a smettere di ridere per come trattava Napoli. Napoli era quella di Edoardo, era quella di Totò, era la città di furbi, che faceva
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ridere per il suo essere una città vincente popolata da personaggi astuti che fregano e vendono la fontana di Trevi. E poi arriva uno che ha mille complessi, mille difetti, mille dubbi e che racconta come nessuno aveva mai fatto prima la crisi dell’essere napoletano. In questo senso Ricomincio da tre è stata la commedia che più mi è piaciuta. Poi ci sono anche film come Brutti, sporchi e cattivi o il primo Fantozzi che mi sono piaciuti molto.
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Intervista di Marco Cappuccini
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Tutto fa capo alla politica e finché sarà in mano ai partiti e ai gruppi nazionalisti il paese non avrà sostanzialmente possibilità di rinascere. Vedrete però che il paese è stupendo, a Sarajevo in poche centinaia di metri ci sono i luoghi di culto delle principali religioni monoteistiche e verso le sette di sera si possono sentire in successione le campane della cattedrale cattolica, quelle della cattedrale ortodossa e il muezzin che chiama i musulmani alla preghiera.
Luca Leone Giornalista e scrittore, ha collaborato con «Liberazione», «Avvenimenti», «Internazionale», Medici Senza Frontiere, Misna, Popoli e Missione. È cofondatore e direttore editoriale della casa editrice Infinito edizioni. Tra i suoi libri: Infanzia negata (2003); Il fantasma in Europa. La Bosnia del dopo Dayton tra decadenza e ipotesi di sviluppo con Stefania Divertito (2004); Anatomia di un fallimento. Centri di permanenza temporanea e assistenza (2004); Srebrenica. I giorni della vergogna (2005); Uomini e belve. Storie dai Sud del mondo (2008).
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Marco Cappuccini Quella di stasera è un’occasione per approfondire con Luca Leone la conoscenza di un paese, la Bosnia Erzegovina, delle sue dinamiche e contraddizioni. Nel libro fai un’analogia tra la baklava, un dolce composto da tanti strati di sfoglia e tanti strati di una ricca farcitura, e la Bosnia, che tu vedi un po’ allo stesso modo. Fino alla guerra e al successivo smembramento della grande Jugoslavia, per me tutti gli stati che la componevano avevano una sola identità ma questa immagine del dolce è per me illuminante e mi fa guardare a quell’area in altro modo. Mi piacerebbe che ci facessi vedere questa stratificazione, quello che quest’area è, con particolare attenzione alla Bosnia Erzegovina. Qual è la situazione attuale e quali sono le divisioni attuali? Luca Leone Cos’è oggi questa Bosnia Erzegovina? Non si sa perché gli accordi di Dayton non lo spiegano. Non si sa se sia federazione o confederazione, non è una monarchia, non è una repubblica. È l’insieme di due entità alle quali si è aggiunto il distretto autonomo di Brčko. Non si sa cosa sia né quale sia il collante istituzionale che tiene insieme il tutto. Per farvi capire cos’è questo paese in base agli accordi di Dayton, inizio raccontandovi la piramide del potere in Bosnia Erzegovina. Parliamo di un paese di circa 4.200.000 persone, cifre tirate un po’ a caso perché è dal 1991 che non c’è modo di contare le persone in Bosnia Erzegovina. Il prossimo censimento dovrebbe tenersi nel 2013, a meno che non ci ripensino. Al vertice del potere c’è una presidenza tripartita perché per costituzione devono essere rappresentati i presidenti di ciascuna delle tre grandi componenti nazionali (musulmana, serbo-bosniaca e croato-bosniaca). Già da questo vi renderete conto che stiamo facendo confusione tra il
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concetto di nazionalità con quello di appartenenza religiosa, una delle cose pazzesche rimaste dopo la guerra ed accettate in qualche modo da Dayton. Questa è una delle grandi storture che sono state create a tavolino da personaggi come Karadžić, Milošević e Mladić. Tutto è partito da un gabinetto di lavoro con a capo Karadžić e composto prevalentemente da psichiatri, psicologi e biologi che, partendo dalle teorie razziste del noto psichiatra Jovan Rašković, hanno inventato la presunta superiorità razziale di una parte rispetto alle altre che componevano il mosaico di popoli che era la ex Jugoslavia. La confusione del concetto di nazionalità con quello di appartenenza religiosa è un’aberrazione che parte da un grave errore di Tito negli anni Settanta, cioè quello di concedere alla componente musulmana la M maiuscola, inventando un’etnia che non c’era dato che sia la radice etnica che linguistica di questi popoli è la stessa. Sono slavi del Sud, con la differenza che dal 1463, data in cui Maometto II e gli Ottomani conquistano la Bosnia Erzegovina, comincia la conversione all’Islam di una serie di componenti della popolazione bosniaca. I primi a convertirsi all’Islam sono i Bogomili, gli appartenenti ad una setta cristiana avversata dal Vaticano e poi successivamente anche dagli Ortodossi, il cui esempio di conversione viene seguito anche da altri, tanto che se nel 1463 i musulmani censiti in Bosnia sono circa 1.600, sessant’anni dopo ci sono circa 80.000 persone che hanno colto l’utilità della conversione perché ciò consentiva di riscattare una condizione sociale sfavorevole ed avere accesso alle terre, al commercio e a tutta una serie di privilegi economici che altrimenti, da cattolici o da ortodossi, non avrebbero potuto avere sotto il dominio turco ottomano. Così come la radice etnica è unica, lo è anche la radice lingui-
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stica: tutti parlano il serbo-croato o il serbo-croato-bosniaco o il bosniaco-croato-serbo. Comunque lo si voglia chiamare, quello è. Naturalmente, ogni lingua ha assunto anche per ragioni locali o di tradizione sfumature, parole diverse, modi di dire ma la lingua continua ad essere quella. È in corso da diversi anni a questa parte un processo di separazione linguistica tra il serbo, il croato e il bosniaco. I partiti nazionalisti al potere, sia in Serbia che in Bosnia che in Croazia, stanno investendo nei migliori linguisti per cercare di creare dei veri e propri vocabolari di ognuna di queste lingue ricercando arcaismi e inventando neologismi. Torniamo alla piramide del potere, con i tre presidenti al vertice che ogni 18 mesi esprimono un presidente della presidenza. Abbiamo quindi un paese di 4 anime che esprime 3 presidenti ed un presidente della presidenza a turno. A livello statale abbiamo un governo con un primo ministro e 5 ministri che si occupano delle materie di rilevanza collettiva. Abbiamo poi un parlamento statale, dopodiché passiamo alle entità che sono due. Una si chiama Repubblica SRPSKA di Bosnia: occupa circa il 49% del territorio statale ed è a forte maggioranza serbo-bosniaca. L’altra è la Federazione di Bosnia Erzegovina che si espande sul 51% del territorio ed è a sua volta suddivisa, cosa impensabile nel passato dei Balcani, in cantoni. I cantoni, proposti dalla Francia a Dayton sul modello svizzero, servivano per etnicizzare in misura ancora maggiore. Vengono infatti creati 8 cantoni a maggioranza musulmana e 2 cantoni a maggioranza cattolica, con ognuno il suo governo così come ogni entità ha il suo governo con il Primo Ministro e i ministri. Ad esempio, la sanità o l’istruzione sono demandate ai ministeri di ogni entità ed ogni entità ha il suo parlamento, così come ogni cantone ha il suo Primo Ministro, il suo governo,
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il suo parlamento. Poi ci sono le municipalità: la federazione di Bosnia Erzegovina è divisa in cantoni, la Repubblica SRPSKA in municipalità. Un paese di 4.200.000 persone ha quindi qualcosa come 14 costituzioni, 3 presidenti, un presidente della presidenza, 14 primi Ministri, oltre 100 ministri e una quantità mostruosa di politici di professione (circa 5.000) buona parte dei quali dopo 20 anni sono i protagonisti o i figli o i nipoti o i delfini dei protagonisti della guerra, perché sono ancora queste le persone che al momento sono al potere. Questa aberrante costruzione inventata a Dayton si riflette anche nella giustizia, o meglio nella mancanza di giustizia che è uno dei grandi capitoli della Bosnia Erzegovina. Perché in Bosnia Erzegovina non è stata fatta giustizia? Perché ci sono decine di migliaia di criminali di guerra a piede libero? Perché le donne di Srebrenica aprendo la porta di casa la mattina si trovano davanti a quello che forse gli ha ammazzato il figlio o il marito o quello che gli ha stuprato la figlia? In un paese in cui la giustizia è strutturata in questo modo non c’è possibilità, perché i giudici non sanno quale sia la materia a loro attribuita o che competenze abbiano e anche se lo sapessero non farebbero nulla perché i giudici sono legati, c’è il problema della corruzione all’interno delle forze giudiziarie e ancor di più all’interno delle forze di polizia. Per finire, inoltre, manca una legge che tuteli i testimoni o le vittime che sporgono denuncia. In Bosnia, tra il 1992 ed il 1995 sono stati compiuti dai 25.000 ai 50.000 stupri etnici a danno principalmente di donne musulmane ma se andiamo a vedere tra i processi, sia quelli in corso che quelli conclusi in primo grado, siamo sui 35 processi. Questo è lo stato dell’arte, poi se vogliamo parlare di istruzione la situazione si complica ulteriormente perché si apre un bara-
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tro. Tutto fa capo alla politica e finché questa sarà in mano ai partiti e ai gruppi nazionalisti il paese non avrà sostanzialmente possibilità di rinascere da un punto di vista politico, economico e sociale. Vedrete però che il paese è stupendo, a Sarajevo in poche centinaia di metri ci sono i luoghi di culto delle principali religioni monoteistiche e verso le sette di sera si possono sentire in successione le campane della cattedrale cattolica, quelle della cattedrale ortodossa e il muezzin che chiama i musulmani alla preghiera. Marco Cappuccini Sentendoti parlare ho come l’impressione che non ci sia la possibilità di trovare un’identità per un popolo che comunque ha vissuto lì da centinaia di anni. Quanto l’Occidente ha contribuito a ricreare, o almeno a gettare le basi, per la ricerca di quello che un popolo deve necessariamente trovare, cioè l’identità? Luca Leone I bosniaci liberi ti dicono di essere semplicemente bosniaci, che poi siano atei, agnostici, musulmani o cattolici questo rientra nella loro coscienza. L’identità bosniaca esiste, il problema è che con lo sfaldamento della Jugoslavia bisognava urgentemente dare un’identità a questi nuovi paesi e i partiti nazionalisti, messi alle strette, non sono riusciti a trovare nessun’altra scappatoia se non il rifugiarsi nella religione, grazie anche al sostegno aperto delle alte gerarchie ecclesiastiche. Si è creata questa confusione per cui l’elemento religioso è stato individuato come l’elemento cardine dell’individualità, dell’essere di questa popolazione. È stato facile in un paese omogeneo come la Croazia o in un paese omogeneo dal punto di vista religioso come la Serbia ma è diventato una bomba per la Bosnia Erzegovina, perché
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ad un certo punto tutte e tre le componenti maggioritarie, ortodossa, cattolica e musulmana, hanno voluto rivendicare gli stessi principi identitari. Da quel momento in poi si è creata la frizione che va avanti ancora oggi. Come si risolve? Mandando a casa i nazionalisti che hanno distrutto il paese, sia da un punto di vista culturale che economico perché hanno svenduto il paese e si sono messi in tasca un sacco di soldi. C’è gente che è diventata ricca durante la guerra e che continua ad arricchirsi anche dopo la guerra sulla pelle della popolazione, con una forbice sociale che si allarga sempre di più perché i poveri aumentano e i ricchi diminuiscono, sono sempre meno e sempre più ricchi e c’è una fortissima identificazione tra leadership politica e leadership economica. Marco Cappuccini Anche leadership religiosa? Luca Leone La religione è una scappatoia, un’invenzione, una sovrastruttura, qualcosa di costruito e messo lì ad arte, pronto per essere utilizzato. Se usata per fare politica, la religione è uno degli strumenti più pericolosi che ci siano. Non bisogna confondere la religione con la fede: una cosa è la fede, un’altra la religione che, come nel caso della Bosnia, viene utilizzata per nuocere e per fare politica. Non bisogna fare il gioco dei nazionalisti confondendo fede e religione, religione e identità. Se lo facciamo, come fanno ancora tanti giornalisti italiani, finiamo col fare solo il gioco di questa gente ed andiamo ad alimentare i loro interessi. Una delle tante cose chiare è che nel marasma bosniaco abbiamo messo il naso tutti e ci stiamo guadagnando tutti; per tutti naturalmente intendo i paesi che sono intervenuti durante la guerra e che adesso stanno esigendo indietro il dazio di quell’inter-
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vento. Non parliamo dei soliti cattivi, i francesi, gli inglesi, gli americani, ma anche quelli di cui spesso non si parla, i malesi, i kwaitiani, i sauditi, i turchi, gli iraniani, i libici. Tutti i paesi di cui sopra, durante la guerra hanno fatto qualcosa in Bosnia e adesso stanno ricevendo indietro qualcosa dalla Bosnia. Se osserviamo quelli di parte musulmana ci sono i kwaitiani che hanno messo le mani sulle autostrade, i libici che controllano il traffico navale commerciale bosniaco, gli iraniani e i turchi che sono quelli che hanno costruito tutte le moschee. Andiamo invece dall’altra parte e prendiamo ad esempio lo Zio Sam, gli americani. Loro ci sono sempre, sono stati amati per anni in Bosnia; oggi i bosniaci iniziano a capire chi siano realmente e cosa abbiano fatto. Ogni paese che ha fatto, o non ha fatto, qualcosa in Bosnia adesso sta avendo qualcosa indietro: petrolio e produzione idroelettrica, tanto per fare qualche esempio. Marco Cappuccini Mi piacerebbe tornare assieme a te sulla differenza tra fede e religione, su quello che adesso è la religione in quel territorio e su quello che sta cercando di accaparrarsi. Ho avuto la sensazione che questa terra potesse essere un laboratorio di convivenza, di contaminazione, ma mi rendo conto che in realtà la religione è soltanto strumento, un modo per affermare la proprietà di un territorio. Penso a una Sarajevo in cui effettivamente convivono tutte queste dottrine. Quello poteva essere un esperimento possibile in un territorio come la Bosnia. C’è ancora questa possibilità? Luca Leone A Sarajevo c’è una totale libertà di espressione religiosa, una perfetta convivenza e non ci sono problematiche di questo genere. La radicalizzazione è molto più
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pesante nelle piccole città, nelle zone rurali che sono le zone più povere e in cui chi ha un lavoro guadagna pochissimo, ha uno stipendio medio molto più basso di uno stipendio medio della capitale o della grande città: se lo stipendio medio a Sarajevo è 500 Euro, lo stipendio medio a Tuzla è 150 Euro. A Sarajevo la convivenza pacifica è reale, ma è anche la città da cui irradiano queste politiche impregnate d’odio e lo fanno principalmente attraverso i mezzi di comunicazione. È vero che dopo la guerra è nato il pluralismo dei media, sono aumentate le televisioni, sono aumentati i canali radio e le testate giornalistiche. Il problema è che i canali tv e radio sono gestiti dalla maggioranza al potere in quel momento e purtroppo da più di vent’anni i mezzi di comunicazione privati sono in mano a grandi gruppi o a privati ricchissimi. Come conseguenza queste persone, che non sono soltanto le più ricche ma anche le più potenti, sono quelle che poi dettano il menabò tutti i giorni al giornale che va in edicola o al programma che va in onda. Il potere mediatico, economico e politico è in mano a pochi. Questa è la situazione e questi pochi fanno il gioco del divide et impera, continuano a dividere e a creare odio come è stato fatto anche in passato. Aveva iniziato a farlo Karadžić sulle teorie di Rasković e con i soldi di Milosević, poi anche Tuđman in Croazia e Izetbegović in Bosnia hanno capito che la cosa era fruttuosa. Da quel momento in poi il modello serbo è diventato il modello per tutti e tre i grandi gruppi nazionalisti ed il paese non poteva che rimetterci. È dal 1990 che il paese non fa altro che rimetterci tutti i giorni.
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Marco Cappuccini Al momento c’è opposizione e manifestazione del dissenso oppure tutto è ancora troppo disorganizzato per potersi esprimere? Luca Leone Quattro o cinque anni fa tutti speravano nel partito fondato da Danis Tanović, premio Oscar per No Man’s Land. Esperimento parzialmente riuscito ma poi fallito perché Tanović, che rappresentava una speranza di opposizione in quel paese, si è fatto etichettare come oggetto in mano agli stranieri, come politico eccessivamente intellettualistico, lontano dalla popolazione. Fallito questo esperimento, quello nuovo è stato quello dei social-democratici che sono riusciti, con una politica abbastanza intelligente e trasversale, a catturare una quantità storica di voti tra coloro che sono andati a votare, quel 51% di cui parlavamo prima. E sono riusciti a prendere voti sia tra i delusi della politica sia tra coloro che in passato votavano per il partito estremista musulmano, ortodosso o cattolico, offrendo agli elettori un partito trasversale e alternativo di cui potersi fidare e da votare, invece del partito nazionalista. Questo è l’esperimento social-democratico, però c’è voluto un anno e mezzo per mettere su un governo e i social-democratici hanno iniziato a vendersi le poltrone e le cariche come tutti gli altri, per cui anche questo esperimento può considerarsi fallito. Dopo quasi un anno e mezzo, oggi il Primo Ministro dello Stato di Bosnia Erzegovina è un nazionalista croato. Marco Cappuccini Dal punto di vista culturale c’è fermento, voglia di crescita e di cambiamento? Nelle tue pagine ho letto che molti giovani non appena possono lasciano il
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paese ma c’è anche chi lotta e prova a cambiare. Ci sono dei focolai di rinascita in questo territorio? Luca Leone La più grande risorsa di ogni paese sono i giovani, il problema è che gli adulti non credono nei giovani e fanno di tutto per tagliare loro le gambe, per creare dei paesi a dimensione di vecchio o comunque di adulto e quando un giovane diventa adulto non è mai abbastanza adulto perché c’è sempre un adulto più adulto di lui. In Bosnia il 68% dei giovani vorrebbe andarsene via e non perché non si sentono bosniaci o perché si vergognano di esserlo ma perché non c’è prospettiva, non c’è lavoro, non c’è futuro. L’unica speranza che ha un giovane è delinquere. Se un giovane vuole restare onesto, come la maggior parte di loro è, l’unica speranza è studiare, arrivare non alla laurea ma minimo al Master o al Dottorato. Durante la Jugoslavia di Tito lo studio era gratuito, ti laureavi e fino agli anni Settanta c’erano prospettive di trovare un lavoro. Poi con la crisi degli anni Ottanta questa certezza è venuta meno ed hanno iniziato ad andarsene via anche gli jugoslavi perché non c’era più di che vivere, l’inflazione era arrivata a livelli spaventosi. Ti devi laureare ma la laurea non basta. Laureato in ingegneria, cerchi il primo lavoro: se non hai in tasca la tessera di un partito nazionalista, se non hai un nome e un cognome ben indirizzati da una o dall’altra parte difficilmente troverai lavoro. Se hai un cognome serbo non andare da un datore di lavoro musulmano e viceversa. Una volta che sei assunto, se vieni assunto, il primo stipendio sarà circa di 150 Euro al mese. E questo a Sarajevo, per un ingegnere. È chiaro che con queste prospettive uno se ne voglia andare, perché sa perfettamente che se va in Austria o in Germania la laurea vene riconosciuta. Per
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andare all’estero però servono i soldi, serve la grinta e non tutti ce l’hanno, per fortuna o per sfortuna, quindi restano lì e cercano di fare qualcosa. Da un punto di vista politico puoi fare ben poco perché il sistema è bloccato. È difficilissimo entrare nella casta e comunque devi diventare come loro e dimostrarlo. Il lavoro ti è precluso perché le possibilità sono pochissime e a quel punto, magari provi attraverso l’arte ad esprimerti e ad esprimere la rabbia che hai dentro. Sarajevo è sempre stata la San Francisco dei Balcani dal punto di vista del cinema, del teatro, della poesia, della letteratura. La Bosnia in generale e Sarajevo in particolare era il salotto culturale della Jugoslavia fino agli anni Ottanta. Oggi sta tornando ad esserlo. Tantissimi giovani, anche quelli che scelgono studi scientifici, hanno comunque una vicinanza molto forte con il teatro, la musica o l’arte. I giovani fanno cultura nei garage, nelle cantine, magari arrivano loro fondi da donatori internazionali, come il Centro Pavarotti a Modena, ma sanno di non potersi aspettare nulla dai partiti o delle istituzioni. Chi gestisce la cassa del paese non ha interesse a finanziare uno spettacolo che magari mette alla berlina i generali o racconta per quale motivo è scoppiata la guerra, preferiscono investire sull’omologo del nostro “Bagaglino”. Il contesto è questo, la situazione è bloccata ma l’unica cosa da non fare è disperarsi. I ragazzi lo sanno e dalla loro parte hanno una grande forza interiore ed una grande cultura, sono dei combattenti in positivo. Negli ultimi anni c’è stato un boom di iscrizioni alle facoltà artistiche, c’è una voglia fortissima di arte e cultura e questo i nazionalisti lo sanno perfettamente. C’è una forza positiva rappresentata dai giovani e dalle donne, alle quali si dovrebbe dedicare un intero capitolo. Le donne sono il vero nerbo non solo della famiglia ma dell’intera società, profon-
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damente maschilista sì, ma nella quale è la donna a mandare avanti la vita quotidiana e a tenere con le mai nude i lembi di questi paesi. Queste sono le forze positive, bisogna trovare il modo di togliere le catene, di mandare a casa i nazionalisti. Come fare? Se i nazionalisti avessero meno appoggi politici dall’esterno, la loro credibilità sarebbe minata. Ci sono invece paesi molto più organizzati e molto più rampanti come la Turchia, gli Stati Uniti o la Russia che fanno il bello e il cattivo tempo in quella zona. Stanno praticamente smembrando i Balcani, se li stanno mettendo in tasca rafforzando i gruppi nazionalisti al potere. Mi chiedo perché, pochi mesi prima di cadere, il presidente del Consiglio dei Ministri ha ricevuto in segreto, in compagnia di Frattini e della moglie che è serba, il Primo Ministro della repubblica SRPSKA di Bosnia, Dodik, uno dei personaggi più potenti e impuniti dei Balcani. È un nazionalista, secessionista. Gli hanno riconosciuto in un’udienza privata i diritti della repubblica SRPSKA all’indipendenza e alla secessione dalla Bosnia Erzegovina. Berlusconi e Frattini non hanno mai fatto la prova di prendere una cartina della Bosnia Erzegovina divisa tra Federazione di Bosnia Erzegovina e Repubblica SRPSKA e di mettere un puntino rosso per ogni fossa comune trovata in Repubblica SRPSKA. Ci sono parti di questa che sono completamente rosse. La Repubblica SRPSKA è un’entità inventata a tavolino da Karadžić, Mladić e Milošević, fondata sulla pulizia etnica e che ha avuto a Dayton dagli americani il via libera per esistere. Non è mai esistita prima, non ha nessun fondamento storico o culturale. È totalmente fondata su quei puntini rossi, sul genocidio.
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Marco Cappuccini Le persone della nostra età appartengono ad una generazione senza guerra. C’è stato un genocidio alle porte dell’Occidente, pensavamo di aver archiviato la questione con i campi di sterminio nazisti ma tu ci racconti che qualcosa di simile è stato fatto ancora. Addirittura sono state ideate fosse comuni primarie, secondarie e terziarie per occultare in luoghi diversi i resti delle vittime rendendone così impossibile il riconoscimento e per occultare la memoria di quanto avvenuto. A volte si ha la sensazione che quel territorio sia sempre sull’orlo dello scatenarsi di qualcos’altro, che ancora non sia finita. Questa sensazione è realistica? Luca Leone Noi abbiamo avuto la fortuna di non vivere le guerre in prima persona ma da italiano, non dimentico che in questo momento il mio paese è in guerra. Abbiamo fatto la guerra in Kosovo, bombardando Belgrado, abbiamo fatto la guerra in Iraq, abbiamo fatto la guerra in Afghanistan, siamo un paese che violando la propria Costituzione nasconde gli interventi bellici internazionali dietro la parola peace keeping, svuotata di significato e diventata strumento in mano ai militari. I traumi non sono stati curati, non c’è stata elaborazione perché non è stato fatto niente per aiutare le persone a farlo. Ricordo ancora qualche anno fa una tavola rotonda a Modena in cui alla presenza di scienziati, intellettuali e giornalisti io e lo storico Angelo Lallo parlammo ad un certo punto di Disturbo post-traumatico da stress raccontando, dati alla mano, dell’effetto della guerra sulla popolazione della capitale. A Sarajevo durante la guerra, dei circa 520.000 abitanti che la città aveva nel 1992, erano rimaste poco meno di 300.000 persone e più della metà
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di queste risultava colpita da stress post-traumatico. L’allora ambasciatore in Italia della Bosnia Erzegovina, che di professione è medico oncologo, si alzò in piedi e iniziò a protestare e a confutare quei dati. Io e Lallo gli facemmo presente che in calce ad un documento c’era proprio la sua firma e che se aveva firmato da medico ma rinnegava da politico nazionalista, il problema era solo suo. Per aiutare questa gente, per aiutare chi ha resistito a casa, per aiutare adulti e bambini, non è stato investito un centesimo. I pochi interventi fatti sono stati resi possibili grazie a finanziamenti internazionali di associazioni ma nessuna agenzia come l’ONU, nessun governo ha stanziato fondi per aiutare la gente a ricostruirsi e rigenerarsi. Sono stati dati soldi per ricostruire palazzi, autostrade, ponti ma non è stato fatto nulla per le persone. Durante la guerra in Bosnia le persone hanno vissuto il genocidio, gli stupri etnici, l’assedio di Sarajevo durato 1.350 giorni, quindi un trauma collettivo che è andato a sommarsi a tanti traumi individuali. E l’unica soluzione è stata la rimozione. La Bosnia è un caso di rimozione collettiva dei traumi e non c’è un solo bosniaco che voglia parlare della guerra. Tutti si rifiutano di parlare della guerra e nella maggior parte dei casi questo dolore profondo rimane dentro e viene vissuto in modo autodistruttivo. In altri casi, soprattutto quando a questo si sommano la disoccupazione, la disperazione, la mancanza di una prospettiva e soprattutto negli uomini sopraggiunge l’uso di alcool e da lì la violenza in famiglia, questo provoca a livello sociale problematiche grosse a molte famiglie. Si calcola che oggi, una famiglia su quattro abbia problemi di violenza domestica, nella maggior parte dei casi provocata dalla parte maschile. Questo è un altro problema perché non esistono centri pubblici che possano accogliere
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le madri con i bambini che lasciano casa in seguito ad atti di violenza. Gli unici rifugi per donne con bambini sono a Zenica, dove c’è un’associazione che opera da quasi vent’anni con la quasi premio Nobel Marijan Senjak che ha aiutato ed aiuta migliaia di persone in queste condizioni. A Tuzla c’è un altro centro, sempre finanziato con soldi privati internazionali, che si chiama “Tuzlanska Amica” per donne e bambini. A Sarajevo c’è qualcosa ma complessivamente è molto poco. Marco Cappuccini C’è una donna alla quale penso quando sento parlare di Bosnia, è la Miss Sarajevo cantata da U2 e Pavarotti. Luca Leone Gli U2 iniziarono un tour per sensibilizzare il mondo su quello che stava accadendo in Bosnia e riuscirono a creare dei collegamenti via satellite con Sarajevo durante i loro concerti. Questo poté andare avanti per poco tempo, perché ad un certo punto le persone chiamate in collegamento iniziarono a raccontare cose scomode ed i collegamenti via satellite furono fatti cadere. Vi racconto una di queste cose scomode ossia ciò che succedeva durante la guerra. A Sarajevo, laddove c’era fino a pochi mesi fa il Museo dell’Assedio, accanto al Museo di storia contemporanea, si può vedere, vicino al quartiere di Grbavica, uno strano monumento: una gigantesca lattina su una base di cemento armato. Quel monumento ha un duplice valore, è innanzitutto un monumento all’ironia balcanica e attraverso questa agli aiuti umanitari. Una delle cose di cui non si voleva che si parlasse durante i collegamenti satellitari ai concerti degli U2 erano proprio gli aiuti umanitari. Amor Mašović, che è
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stato il capo negoziatore durante la guerra per la Commissione della Federazione di Bosnia Erzegovina per lo scambio di prigionieri con la Commissione serbo-bosniaca e che da 18 anni a questa parte è Presidente della Commissione federale che si occupa di andare a trovare le fosse comuni, ha fatto tutto l’assedio a Sarajevo mentre la famiglia è riuscita ad andare via prima che la città si chiudesse. Un giorno bussa alla porta di casa sua un amico che, sfidando la quotidiana pioggia di granate che andava da 370 minimo per arrivare a più di 3.000 nei momenti peggiori, ha delle scatolette sotto braccio prese tra gli aiuti umanitari arrivati poco prima. Ne ha prese anche per lui, perché finiscono in fretta e non si sa quando le rimandano. Amor era ricco di famiglia e non aveva bisogno delle scatolette perché riusciva a comprare da mangiare per sé e per il suo cane, una specie di figlio per lui, al mercato nero. Pensa però che sia uno spreco non usarle, quindi ne apre una e la dà al cane. Vanno a letto e la mattina dopo il cane ha perso buona parte del pelo, perde bava dalla bocca ed è privo di conoscenza. Amor prende il cane e lo porta da un amico veterinario, anche lui rimasto a Sarajevo, che gli dice che non c’è niente da fare. Gli chiede se gli abbia dato da mangiare gli aiuti umanitari e gli raccomanda, visto l’effetto, di non mangiarne assolutamente. Cosa tiravamo su Sarajevo dagli aerei? Cosa portavamo con i camion? Abbiamo portato a Sarajevo scatolette di generi alimentari come pesce e carne essiccati oppure uova e latte in polvere, biscotti. Nel caso della carne e del pesce si trattava di scatolette scadute negli anni Settanta, fatte dal governo americano per i soldati in Vietnam. Il latte e i biscotti italiani erano scaduti da 5 o 10 anni. Tutto quello che avevamo di avanzato nei nostri magazzini lo abbiamo paracadutato su Sarajevo.
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Marco Cappuccini A una persona che ha conosciuto e vissuto questa terra, le sue contraddizioni mi viene da chiedere che cosa si può ed è giusto prendere da un viaggio in Bosnia? Luca Leone La prima volta che si va in Bosnia bisogna andarci senza preconcetti se si vuole ritornare con la valigia piena di belle sensazioni. Ci sono tante piccole cose che si possono fare, come assaggiare il cibo locale. Mangiare quel cibo vuol dire mangiare cibo che ha un’elaborazione di cinquecento anni di storia culinaria. Dovete andare a cercare i piccoli locali. Andate al Baščaršija, il grande bazar di Sarajevo, nella parte più antica della città, quella costruita dai turchi. Lì troverete la più antica moschea di Sarajevo, credo anche la più antica dei Balcani, e dietro ad essa, sulla strada che dà sull’ex biblioteca universitaria nazionale, uno dei primi bersagli dei bombardamenti perché simbolo della cultura multinazionale e multiculturale della Bosnia, c’è un locale che si chiama “Bosna”, un locale piccolo, con i tavoli fuori in cui fanno la pita più buona di Sarajevo. Altra cosa da fare è andare a mangiare i ćevapčići, salsicce di manzo condite con spezie stranissime, indigeribili ma buonissime! E poi i dolci…non mangiate quelli della tradizione austro-ungarica con crema, cioccolata o panna ma la baklava con miele e pistacchi! Se poi volete fare un acquisto non andate al centro commerciale, fate una passeggiata e andate fino a Markale. È un mercato all’aperto, famoso perché nel marzo del 1994 su di esso cadde una granata mentre la gente era in fila per comprare quel poco che c’era da comprare e morirono 69 esseri umani mentre oltre 200 rimasero feriti. Lì vedrete che tra i banchi e la strada ci sono alcune signore anziane che vendo-
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no le pape, delle grosse calze di lana per l’inverno, centrini e ogni sorta di oggetto prodotto a maglia o all’uncinetto. Se volete comprare qualcosa di bello, comprate un oggetto da queste signore, donne che hanno 190 marchi di pensione al mese e molto spesso hanno un marito o dei figli a carico. Se comprate delle pape da queste donne e le mettete in quei quindici giorni in cui in Italia fa freddo, indossandole tornerete indietro a Sarajevo. Andando a Srebrenica potete riportare in Italia i tappetini fatti dalle donne di Srebrenica. Queste donne hanno avuto il coraggio di tornare a Srebrenica dopo il genocidio. Prima della guerra a Srebrenica c’erano 35.000 persone: 2/3 erano musulmane e il resto serbe. Oggi a Srebrenica ci sono circa 8.000 persone vive, meno della metà sono musulmane e ci sono circa 5.000 persone sepolte a Potocari, il memoriale che non si può non visitare andando a Srebrenica. Quando tutte le vittime del genocidio, 10.701 persone, saranno state trovate, identificate e sepolte, a Srebrenica ci saranno più morti che vivi. In questo territorio ampiamente “serbizzato” attraverso la pulizia etnica, sono tornate a vivere e a lavorare alcune donne musulmane, donne come Hatidza Mehmedovic che ha perso qualcosa come 14 parenti maschi. Queste donne sono tornate, sono riuscite a mettere su una piccola fabbrica tessile e producono tappeti ed altri oggetti. Hanno un negozietto fuori dal memoriale, dando le spalle alla fabbrica nella quale venne consumata una parte consistente del genocidio nel luglio 1995. Una delle pagine più spaventose e mostruose della storia europea dopo la Seconda Guerra Mondiale. Per tanto tempo i nostri politici si sono riempiti la bocca con falsità, con i “mai più” e poi è successo di nuovo e non solo a Srebrenica. A Srebrenica sono state uccise 10.700 persone, in Bosnia più di 100.000,
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solo a Sarajevo sono morte più di 11.000 persone di cui 1.500 bambini. Le stesse identiche cifre che Sarajevo ha pagato durante la Seconda Guerra Mondiale. Pubblico Com’è nato il tuo libro? Luca Leone Ho cominciato a frequentare i Balcani e la Bosnia dopo la guerra, per cercare di rendermi conto di cosa fosse accaduto perché non affatto soddisfatto di quello che mi era stato raccontato. All’inizio ci sono andato a mio rischio e pericolo, e a mie spese, poi il pericolo si è ridotto fino a scomparire. Oggi non esiste nessun rischio a visitare la Bosnia Erzegovina. Ho iniziato a viaggiare ed è nato il mio primo libro, poi ne è nato un altro, poi ho scritto ancora. Sono tornato in Bosnia almeno due o tre volte l’anno, la maggior parte delle volte perché lì ho costruito amicizie, affetti. Ho avuto bisogno di approfondire i fatti di Srebrenica, ho scoperto che la maggior parte delle cose che ho sentito e letto in questo paese sulla Bosnia Erzegovina erano delle balle. Ho iniziato a conoscere, vedere, scoprire. Ho sempre dato spazio alle persone, non ho mai dormito negli hotel a cinque stelle ma sempre nelle case. Così è nato il mio lavoro su Srebrenica, poi è arrivato un altro mezzo libro sulla Bosnia Uomini e belve, dopo è esploso il bisogno di scrivere Bosnia Express e poi è arrivato Saluti da Sarajevo. Fondamentalmente nasce da un impegno personale, da una voglia di capire e di provare a spiegare.
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Intervista di Andrea Bigalli
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La giustizia non solo è un’aspirazione ad arrivare sempre al meglio, non solo dobbiamo dire alle persone, onestamente, che la giustizia perfetta non esiste, non solo è qualcosa per cui combattere giorno per giorno ma è una conquista costantemente a rischio, che può essere messa in discussione.
Giancarlo De Cataldo è Giudice di Corte d’Assise a Roma. Tra i suoi libri ricordiamo Romanzo criminale (2002), Nelle mani giuste (2007), L’India, l’elefante e me (2008), I traditori (2010).
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Andrea Bigalli Il presidente disse: la parola all’accusa. Don Fernando si alzò, indossò negligentemente la toga, si portò sotto il bancone della Corte e guardò il pubblico. Aveva un colorito giallastro. La carne delle guance gli pendeva ai lati del volto come le orecchie di un basset-hound. In mano teneva il suo sigaro spento, e con quel sigaro indicò un punto del soffitto come se indicasse qualcuno di preciso. «Comincerò con una domanda che rivolgo prima di tutto a me stesso – disse don Fernando – cosa significa essere contro la morte?
Il brano è tratto da La testa perduta di Damasceno Monteiro di Antonio Tabucchi e vorrei cominciare proprio con questa domanda: che cosa significa essere contro la morte? De Cataldo Tabucchi scrisse questo libro dopo aver conosciuto Cassese che è stato uno dei padri del diritto internazionale contemporaneo, in particolare del diritto internazionale penale, cioè di quella forma di aspirazione alla giurisdizione internazionale che permette di colpire crimini che fino a un certo periodo storico non erano considerati tali e perciò non perseguibili. Da Norimberga in avanti maturano la convinzione e la coscienza del mondo occidentale e poi del mondo intero che alcuni comportamenti, fatti passare per comportamenti politici, siano in realtà dei crimini veri e propri. Un libro come questo è un supporto di coscienza civile. Le critiche che gli sono state mosse credo dipendessero anche dalla diffidenza che molto spesso il mondo letterario e culturale ha nei confronti dello scrittore che viene accusato di occuparsi di cose che non gli competono. Il grande discrimine, secondo me, non è tra chi scrive delle storie di impe-
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gno sociale e civile e chi scrive delle storie disimpegnate, ma al contrario tra chi considera il ruolo dell’intellettuale come ruolo di puro intrattenimento e chi invece come Tabucchi sposta la frontiera un po’ più avanti intervenendo in modo molto deciso nel sostenere un ruolo anche attivo e propositivo dell’intellettuale. Questo ruolo è un eccellente antidoto contro la morte. La testa perduta di Damasceno Monteiro partiva da una morte reale: un’esecuzione, opera di alcuni poliziotti corrotti della Guardia Civil. Credo che il discorso fosse essenzialmente metaforico, cioè una contrapposizione tra cultura, cultura della legalità, cultura della giurisdizione, quindi cultura della vita contro incultura, prevaricazione, arbitrio, ingiustizia e quindi cultura della morte. Andrea Bigalli In Giustizia non è soltanto la storia di una persona e del suo iter professionale ma quella dell’Italia contemporanea. Dalla tua prospettiva, dal tuo angolo di visuale, ci racconti tanti passaggi che, in questa fase in cui è sempre più difficile far conoscere la storia attuale del paese, sono essenziali. Seguendo il filo della tua dimensione professionale, inizio questo incontro con il tema del carcere. Qual è la situazione attuale? De Cataldo Io ho fatto il giudice di sorveglianza come primo lavoro perché mi permetteva di stare vicino a Roma, città dalla quale non volevo andarmene. Tutti mi dicevano che il giudice di sorveglianza è il giudice che va in carcere e dà i permessi, la semilibertà, colui che attiva quel precetto costituzionale dell’Articolo 27 della Costituzione, che prevede che la pena non sia soltanto il carcere, la detenzione, ma anche un’occasione di rieducazione e reinserimento sociale.
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Questo incarico mi ha permesso di conoscere un mondo con il quale ho ancora dei profondissimi legami. Non so se qualcuno tra voi ha visto il film Cesare deve morire, che credo sia uno dei più bei film italiani degli ultimi tempi. È un film che nasce proprio da un’esperienza che anche io ho contribuito a inventare. Da giovanissimo giudice di sorveglianza, in intesa con alcuni direttori penitenziari intelligenti, prendemmo il coraggio contro tutto e contro tutti di dare il permesso ai detenuti di fare teatro in carcere. La prima rappresentazione, una fantasia napoletana ispirata a Raffaele Viviani fatta al Teatro Argentina di Roma nel 1987, aveva come protagonista Cosimo Rega, che allora stava finendo la sua pena e che è poi lo straordinario Cassio nel film dei Taviani. Adesso mi appresto a presentare il suo libro a Roma. Il carcere va preso con la giusta misura e la giusta distanza. Quando arrivi ti può provocare una visione di impatto tale che li metteresti tutti fuori. Vederli lì significa dimenticare il motivo per cui ci sono andati. Non vederli mai significa, come succede a molti magistrati che non hanno mai messo piede in un carcere, non capire che cosa significa la pena, la sofferenza. Con il tempo arriva naturalmente un giusto equilibrio. La situazione nelle carceri italiane adesso è ingovernabile e ci sono suicidi a catena, ce ne sono sempre di più e l’unica soluzione drastica sarebbe un’amnistia. Servirebbe, inoltre, una profonda revisione delle leggi penali, perché una delle cause fondamentali del sovraffollamento delle carceri è che si è creato un sistema per il quale è maledettamente difficile fare a meno del carcere in tutta una serie di casi in cui, invece, del carcere si potrebbe effettivamente fare a meno. A questo poi si possono aggiungere gli effetti della crisi economica: rapine, furti e ricorso alla violenza. Se mettete insieme tutte
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queste cose vedrete che il carcere ha continuato nel tempo ad aumentare il suo ruolo di contenitore ultimo di “spazzatura”, di raccolta degli avanzi della giustizia, come diceva il grande giudice Igino Cappelli tanti anni fa, autore di un libro bellissimo che si intitolava proprio Gli avanzi della giustizia. Tutto questo contrasta fortemente con il principio dell’Articolo 27 che la pena, cioè, serva fondamentalmente a migliorare, e non a peggiorare, la condizione di chi è sottoposto ad un regime detentivo. Sono e resto convinto nel profondo della necessità di lavorare sull’Articolo 27 della Costituzione. Andrea Bigalli Una cosa su cui insisti nel libro è l’idea che se c’è una figura totalmente incompresa dal mondo politico, dall’opinione pubblica, dal sentimento popolare, è la figura del giudice. Come mai e come si risolve? De Cataldo Detto molto semplicemente, chi è il giudice? Il giudice è un signore che sta in mezzo a due litiganti. Ci sono due persone che hanno una pretesa: “Questa casa è mia. – No, è mia” oppure “Tu hai dato uno schiaffo a Giovanni. – No, io a Giovanni non ho dato nessuno schiaffo”. Al centro c’è questo signore che deve decidere di chi è la casa e se lo schiaffo è stato dato o no. Siccome ogni decisione comporta sempre un vincitore e uno sconfitto, non sarà mai possibile che lo sconfitto ami chi gli ha dato torto, così come non sarà nemmeno possibile che lo ami il vincitore perché il rischio di avere torto c’è sempre. La diffidenza nei confronti della figura del giudice è ontologica; questo va messo in conto. Diceva un vecchio presidente magistrato “Con questa sentenza abbiamo scontentato tutti, quindi è la sentenza giusta”, nel senso che il giudice guarda soltanto al faro della legge. Met-
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tersi come diaframma tra due spinte, due tensioni opposte, questo è il ruolo fondamentale del giudice, quindi io so che non potrò mai essere amato come giudice. Amerei però essere rispettato, ma sul rispetto il discorso è molto complesso e richiede una prospettiva storica. Tremila anni fa la figura del giudice si identificava con quella del re, perché era il re che decideva se era stato dato lo schiaffo, a chi spettava la casa o quali erano i confini di due campi, e si identificava anche con quella del sacerdote. Poi il potere cominciò a derivare da un’investitura, da una famiglia, dal sangue, dalle conquiste fino a quando, due o trecento anni fa, si è inventata questa figura professionale di un signore che conosce la legge ed è chiamato ad applicarla, il Giudice. Una figura relativamente recente nella storia dell’umanità. Questa figura come la puoi mettere nei confronti della società? Richiamandoti alla sua origine di re o di capo religioso ne fai una figura mitica, lontana e distaccata dalle passioni umane e dalle stesse persone che giudica. Oppure lo puoi considerare, come è nella realtà, un signore che ha una certa competenza tecnica, che vive nella società, che capisce più o meno come vanno le cose e che sta alla pari degli altri. Quello che ho detto finora appartiene a un percorso storico ineluttabile. In Italia a partire dalla metà degli anni Sessanta sono successe due cose importantissime. La prima è che le donne sono entrate in magistratura portando un pensiero nuovo e l’attenzione a dei temi che prima non erano considerati come la famiglia e i minori. La seconda è che nel ’68 sono stati liberalizzati i piani universitari, quindi, chi aveva frequentato la scuola tecnica e non un liceo ha potuto anche iscriversi alla Facoltà di Giurisprudenza. L’ammissione di classi sociali, tradizionalmente escluse, all’interno della
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corporazione dei Magistrati ha comportato la circolazione di idee e un progressivo distacco del giudice dal suo ruolo di interprete dei desideri del potere. Questo è un passaggio non ancora accettato fino in fondo dalla società contemporanea, in particolare da quella italiana, che ha un’immagine di giudice come quella di un signore che acchiappa il ladruncolo e lo sbatte in galera, mentre quando si trova davanti una persona ricca, educata e ben vestita immediatamente pensa che non possa essere colpevole perché i colpevoli sono brutti, sporchi e cattivi. Da quando i giudici italiani hanno smesso di fare così sono diventati dei nemici, peggio ancora dei traditori del potere. In sostanza e concludendo, so che non potrò essere amato e che per essere rispettato bisogna che la società creda nel ruolo di riequilibrio e non semplicemente di certificazione del potere. Andrea Bigalli Ci puoi dire qualcosa sul tuo lavoro con i giurati popolari? De Cataldo Molti hanno un atteggiamento di prevenzione nei confronti della giustizia, frutto di trenta anni di martoria mento, e vengono da noi davvero convinti di trovare degli orchi che vogliono mandare tutti in galera o dei damerini che vogliono soltanto fare scena e a cui in realtà non frega niente. Poi piano piano capiscono che il loro voto deciderà il destino della persona in carne e ossa che hanno davanti. Allora tu puoi partire da casa dicendo che i giudici sono tutti imbroglioni, che non pagano mai, che non lavorano e non fanno niente, che sono scansafatiche, che gli albanesi sono tutti colpevoli, che i rumeni sono tutti colpevoli. Poi ti ritrovi davanti giudici in carne ed ossa, albanesi
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in carne ed ossa, senti come parlano, li vedi. Vai a dormire la sera e pensi che devi votare per dargli trent’anni di galera o l’ergastolo, e allora, questo fenomeno, noto agli psicologi e ai sociologi come individualizzazione dell’altro, li induce a fare un salto di qualità e a cambiare. Se a una cosa serve la giuria popolare, l’amministrazione della giustizia in nome del popolo è proprio questa: è una scuola di vita formidabile. Andrea Bigalli Il libro è estremamente interessante e diventa irresistibile sui casi giudiziari. Da quello che scrivi si capisce il tuo parere sull’ergastolo, cosa pensi invece del 41 bis? De Cataldo Sarei tendenzialmente favorevole all’abolizione dell’ergastolo, per una società che potesse farne a meno, ma c’è una fortissima resistenza da parte di coloro che lavorano in prima linea, ad esempio i Pubblici Ministeri antimafia che sono assolutamente convinti, non solo dell’ergastolo ma anche che il 41 bis sia un formidabile deterrente. A me il 41 bis ha sempre saputo vagamente di tortura ed io sono contrario alla tortura, però devo prendere atto anche di questi pareri autorevoli che provengono da persone che sicuramente ne sanno più di me. Io ho fatto dei processi per criminalità organizzata ma quando rientravo la sera a casa, da solo, al buio, non avevo bisogno della scorta. Anche quando facevo il famigerato processo alla banda della Magliana mi hanno offerto una tutela ma mi sono messo a ridere. Quelli della Magliana io li vedevo a piede libero al bar sotto casa o a Campo dei Fiori con la birra in mano che mi guardavano male o mi salutavano in modo ironico ma non ho mai
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avuto la sensazione di trovarmi in un territorio controllato dalla criminalità organizzata e quindi esposto al rischio per il mio lavoro. Questa è stata una fortuna. In terre in cui c’è il governo della criminalità organizzata chi sta in prima linea difende il 41 bis, quindi esito a prendere una posizione pubblica su questo. Andrea Bigalli Hai citato la banda della Magliana. Non vogliamo certo ridurti ad autore di un libro solo però Romanzo criminale è stato quell’evento editoriale e poi cinematografico che tutti conosciamo, per cui una domanda su di esso è inevitabile. C’è una ricostruzione rigorosa, c’è una parte anche di ricostruzione letteraria ma perché cambiare i nomi e non definire i personaggi con la loro autentica identità? De Cataldo La banda della Magliana al suo apice contava 200-250 aderenti. Il romanzo ne racconta bene quattro o cinque che chiaramente sono una fusione di caratteri e nel momento in cui devo scegliere tra la storia come è andata e l’invenzione drammaturgica, se quest’ultima funziona di più, scelgo quella. Ragiono da romanziere e ragiono anche da sceneggiatore. È realistica l’ambientazione storica, verosimile il contesto ma molti fatti sono assolutamente frutto di invenzione. Andrea Bigalli A tuo parere, tutt’altro che modesto visto che il processo ti ha visto in prima fila, la banda della Magliana è veramente l’esempio di come la malavita è in condizione di prendersi una città?
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De Cataldo A quel tempo tutti i poliziotti e i carabinieri stavano dietro alle Brigate Rosse perché quella era l’emergenza. Nel frattempo dei ragazzi abili come loro sono riusciti ad imporre il traffico di droga guadagnando un sacco di soldi e investendoli in attività immobiliari, nel gioco d’azzardo, nei cantieri, nelle boutique del centro e nei locali diventando così una specie di agenzia criminale alla quale tutti si rivolgevano se avevano bisogno di un favore. E con “tutti” intendo anche i servizi segreti, le logge massoniche, i terroristi, i neofascisti. Roma è però la città simbolo, in astratto e in concreto, del potere italiano ed un fenomeno così è riuscito a passare inosservato per quattro o cinque anni ma poi è scattata la repressione. Una repressione selettiva, come spesso accade in Italia, che ha colpito molto più duramente quelli che sparano per strada di quelli che accumulano i soldi e li fanno girare. È la dimostrazione che una banda può tentare di prendersi una città ma ci riesce solo se la struttura della città è malleabile a questo tentativo di aggressione. Andrea Bigalli Parliamo del processo a Marta Russo. Non tanto del processo ma della sua mediatizzazione. Se ne esce? De Cataldo Marta Russo era la prova generale, lo capii quando lessi un’editoriale sulla rivista Liberal in cui si diceva che avevo condannato due innocenti consapevolmente perché me lo aveva ordinato Scalfaro. L’uomo che ha scritto questo articolo ne era veramente convinto ed io per l’unica volta ho reagito con la velocità di un giudizio, chiedendogli i danni. Ma ho poi lasciato perdere, rimettendoci anche le
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spese dell’avvocato. Quelle prove generali mi resero molto nervoso. Adesso quindici anni dopo, quando si è aperto il processo di via Poma, mi sono stupito di me stesso per il grado di freddezza che ho raggiunto. Mi sono anestetizzato nei confronti di questa forma di spettacolo. La giustizia è una forma di spettacolo, lo è sempre stata. Penso a quella famosa opera del pittore inglese William Hogarth che ritrae l’impiccagione di un borsaiolo. E si vede che nel frattempo un altro borsaiolo, fra la folla, borseggia gli spettatori distratti e compiaciuti dall’esemplare punizione. È uno dei quadri più illuminanti sulla storia della giustizia. Intorno alla giustizia si sono scritti sempre grandi racconti e la giustizia è sempre stata vissuta anche come spettacolo. Non confondiamo questo aspetto di enfatizzazione che ci dà la tecnologia della televisione con la spettacolarità della giustizia, che è storico e tradizionale. Ogni epoca ha il suo segno per l’eccitamento che provoca la giustizia e questo è un aspetto ineludibile del rapporto con essa. In Italia si colora di una venatura particolare perché ricade nel famoso discorso dell’aggressione politica alla giustizia che caratterizza gli ultimi trent’anni, ovvero che ogni processo è un processo che i giudici sbagliano perché non sanno fare il loro mestiere. E perché non sanno fare il loro mestiere? Perché sono comunisti e ce l’hanno con Berlusconi. Secondo me però è una fase che sta finendo, anche se resterà sempre l’interesse intorno a qualche caso giudiziario, ci sarà sempre nella storia qualche caso che spiccherà più di un altro perché porrà a noi delle domande che entrano in risonanza con qualcosa di profondo del nostro essere umano. Noi ci domandiamo perché, come è possibile.. e questo aspetto non è ignobile, questo aspetto è naturale e nobile perché vuol dire che abbiamo ancora delle emozioni,
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che sappiamo reagire a qualcosa che ci colpisce profondamente. Ignobile è tutto il resto. Ignobili sono la speculazione e il plastico del luogo del delitto. Ma quella roba lì tramonta, mentre l’interesse autentico resterà sempre. Quello di cui si avverte la necessità e la mancanza è una corretta informazione sulla giustizia. Andrea Bigalli Questo è un tempo in cui alcuni fatti restano scolpiti anche perché il sistema mediatico vi insiste molto mentre altri lo restano un po’ meno. Sono rimasto stupito del sottotono del decennale di Genova, un momento storico di densità impressionante. Non pensavamo di essere un paese in cui i diritti civili potessero essere sospesi per oltre 48 ore e che la polizia potesse fare qualcosa del genere. De Cataldo Quello è il grande rimosso della storia italiana degli ultimi dieci anni. Io non ho mai smesso di dirlo e di scriverlo in tutti i modi. Lavoro nella magistratura a stretto contatto con i poliziotti e non ho mai smesso di dire che è una vergogna, non solo quello che hanno fatto ma anche che non abbiano mai sentito in dieci anni il dovere di chiedere scusa agli italiani e all’opinione pubblica mondiale per averlo fatto. Quella resta una ferita non sanata. È brutto, è brutto perché ha devastato l’immagine di una polizia democratica ed è singolare che alcuni “sbirrazzi” fascisti con cui ho parlato abbiano fatto una riflessione ben più profonda di quella di dirigenti che sono rimasti muti davanti a tutto questo. Muti. Pubblico La domanda è forse un po’ esistenziale, non lo so. Ci si appoggia tanto alla parola giustizia, fin da quando siamo bambini. “Non è giusto” è forse una delle prime
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cose che si vanno a dire anche ai grandi. Le mie bambine di due anni e mezzo e quattro anni usano questa parola già abbondantemente. Mi domando, e lo faccio da tanto tempo, e facendo attività con i ragazzi cerco anche di definire questo concetto.. ma la giustizia, cosa è? De Cataldo Nel mio libro ho un’aspirazione, esattamente quell’aspirazione che tutti abbiamo: equità, giustizia. Dopodiché giustizia è un concetto che si declina nella storia, al tempo di Hammurabi era giusto perché legale che il padrone uccidesse il proprio schiavo. E se uccideva lo schiavo altrui se la cavava con una pena pecuniaria. Oggi noi riteniamo ingiusto uccidere chiunque, salvo rarissime eccezioni di delitto di guerra o la legittima difesa. C’è questa fortissima evoluzione ed inoltre, la democrazia è una conquista recente. Per cui dico, la giustizia non solo è un’aspirazione ad arrivare sempre al meglio, non solo dobbiamo dire alle persone, onestamente, che la giustizia perfetta non esiste, non solo è qualcosa per cui combattere giorno per giorno ma è una conquista costantemente a rischio, che può essere messa in discussione. In sostanza direi, giustizia come percorso per raggiungere la maggior giustizia possibile, sapendo che è un’aspirazione che abbiamo dentro di noi ma che è contrastata da un altro tipo di aspirazione, quella alla prevaricazione, che hanno tutti, anche i bambini, anche i nostri figli.
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Intervista di Benedetto Ferrara
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La truffa di questi anni è stata quella di inculcare in maniera subliminale la convinzione di dover essere tutti somiglianti ad un canone unico per essere vincenti, attraenti, seducenti. Prima di essere una cosa cretina è una cosa falsa, perché non è vero che le cose stanno così e questo lo misurate nella vostra vita quotidiana. È pensando ai ragazzi ed alle ragazze che ho scritto questo libro perché la questione è che noi adulti queste cose le sappiamo, ci scherziamo e ridiamo su, ma le sappiamo; invece, i ragazzi non le sanno e quando gliele spieghi e gliele fai notare, si stupiscono.
Concita De Gregorio. Giornalista e scrittrice, firma storica de «la Repubblica» dove attualmente lavora, è stata per tre anni direttore de «l’Unità». Nel 2001 ha pubblicato Non lavate questo sangue. È autrice di Una madre lo sa. Tutte le ombre dell’amore perfetto (2006) e Malamore. Esercizi di resistenza al dolore (2008). Nel 2010 è uscito Un paese senza tempo. Fatti e figure in vent’anni di cronache italiane.
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Benedetto Ferrara Ci tengo molto ad essere breve perché lo spazio è tutto per Concita e le vostre domande. Ovviamente chi è Concita lo sapete, è tante cose ma soprattutto è una firma importante, una giornalista speciale che ha scritto un libro che mi ha colpito profondamente per la sua forza emotiva e per la leggerezza nella profondità. Così è la vita commenta la morte per scoprire la vita e le sue cose belle, ciò che nell’assenza possiamo ritrovare e riscoprire. Ti chiedo com’è nato e soprattutto se non hai avuto paura di affrontare un tema di fronte al quale, spesso, tutti si fermano. Concita De Gregorio Nel momento in cui l’ho scritto avevo lasciato la guida de L’Unità e, considerando l’abitudine di questo paese di preferire le polemiche alle attività di conciliazione, invece di un libro sull’esperienza del giornale o sulla sinistra italiana o sulla politica, ho scritto questo che parla della fragilità, della vecchiaia, della malattia, della morte. Tanti mi hanno chiesto il perché e io posso dire che è il libro più politico che abbia mai scritto; sono una giornalista e faccio questo mestiere da tanti anni, ma la mia identità non è solo quella di direttore di giornale, quello è un lavoro, ma io non sono solo quella cosa lì. Faccio anche altro e, soprattutto, sono una persona a prescindere da quello che faccio o comunque dal risultato di quello che faccio. In questi ultimi trent’anni mi sono successe altre cose: nascite, incontri, amori, sofferenze, contentezze, malattie, problemi della vita quotidiana, ciò che compone la parte essenziale della nostra esistenza. C’era un certo scollamento tra le cose che capitavano a me ed ai miei durante la mia vita privata, come capitano a
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ciascuno di voi, e la politica, che era il mio lavoro. Già da un po’ di tempo vivevo nell’arco delle 24 ore questa specie di sensazione estraniante, dovuta al fatto di avere un colloquio con gli insegnanti o di fare la fila alla ASL al mattino ed il pomeriggio andare a Montecitorio a seguire l’attività politica di coloro che abbiamo votato e che ci rappresentano. La distanza fra me e quello di cui mi occupavo per il giornale iniziava ad essere molto ampia, fino a diventare un baratro negli ultimi 5 anni. Nel frattempo i miei figli sono cresciuti, c’è stato un momento in cui ne avevo uno all’università, uno al liceo, uno alle medie e uno all’elementari, l’arco scolastico completo; i miei genitori si sono ammalati; noi stessi abbiamo cominciato ad invecchiare e i problemi di gestione di questa allegra comunità diventavano più complicati, mano a mano che la crisi si faceva sentire. Ho visto, da un figlio all’altro, precipitare la scuola nel decadimento e la sanità pubblica peggiorare ed era sempre più fastidioso entrare a Montecitorio e seguire la vita politica; anche a sinistra il dibattito ha cominciato a sembrarmi scollegato dalla realtà ed ho iniziato a chiedermi chi, tra quelli di cui seguivo le gesta al pomeriggio, dovesse occuparsi dei miei problemi del mattino. E nessuno di loro lo faceva, nessuno si occupava dei miei problemi e di quelli di una moltitudine di persone. Questo significa che chi abbiamo votato, perché ci rappresentasse, in realtà rappresenta qualcos’altro. Era sempre più viva la sensazione che le persone che si occupano di noi, a livello di rappresentanza politica, non sapessero di cosa parlavano. Dibattono di temi come le vita, la Legge 40, la scuola pubblica, l’articolo 18 senza che apparentemente sappiano davvero di che si tratta, di quale materia viva stanno parlando e questa è una sensazione molto dolorosa. Siccome faccio
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politica, faccio la giornalista e racconto quello che vedo, ho pensato che la cosa più importante in questo momento fosse ripristinare la verità, ricominciare a dare un nome alle cose, uscire dall’incanto, da questa specie di rappresentazione della realtà che non corrisponde alla realtà. C’è stato un momento lungo, in cui sembrava che la realtà esistesse attraverso la televisione ed io volevo segnalare a tutti quanti che la realtà invece è questa, siamo noi, che la televisione è solo un elettrodomestico come il frigorifero, come la lavatrice, che non è né buono né cattivo in sé. Il frigorifero non è un cattivo elettrodomestico, se ci metti un cibo avvelenato ti avvelena, mentre se ci metti un cibo buono ti nutre, allo stesso modo la televisione. Oggi, in questo paese sei persone su sette entrano in contatto con la realtà attraverso la televisione, quindi pensiamo a quanto è importante quello che passa da lì. In passato, l’idea di mondo te la potevi fare stando al mondo, uscendo fuori, andando al cinema mentre oggi è sempre meno possibile. Scusate se divago ma quando debuttò, alla fine degli anni Settanta, Canale Cinque aveva come jingle “Torna a casa in tutta fretta c’è il biscione che ti aspetta”. Sembrava una cosa innocua ma quello era il programma politico dei successivi trent’anni per un paese come l’Italia, dove la cultura dei mille paesi e dei mille comuni si è formata stando nelle piazze, seduti sulle panchine nei giardini, parlando con i vecchi per strada. L’Italia era un posto dove si stava fuori, si socializzava. Quel jingle significa dimenticati della piazza, della parrocchia, del concerto, di tutto. Quello che devi sapere del mondo arriva in televisione. Inoltre, c’erano sempre meno soldi per stare fuori e costruirsi un’alternativa al tornare a casa sfiniti ed accendere la televisione e basta. Attraverso la televisione è
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passato un messaggio subliminale che ci ha dato una rappresentazione diversa dalla realtà. Noi più grandi ci ricordiamo com’era prima la TV ma dagli anni Ottanta in poi quelli che sono cresciuti, o addirittura sono nati, con la televisione commerciale pensano che il mondo sia un mondo fatto di quello che si vede in quella tv. Quella lì è la realtà finché qualcuno non ti fa notare una cosa che non vedi più perché ti sei abituato, omeopaticamente giorno dopo giorno. Ma non è normale perché la nostra vita è fatta di persone calve, grasse, di varie bellezza ed età. Benedetto Ferrara Tu scrivi che l’ordine sociale cosmetico è il delitto perfetto, una perfetta bugia. Ci sono attrici che si rifanno, che cedono al botox compulsivo, e quando recitano perdono completamente di credibilità e poi ci sono quelle che se non si rifanno si vedono rifiutare il passaggio in video; vanno a lavorare dietro le quinte, fanno le produttrici, ma non hanno più visibilità. Parlando della morte e della vecchiaia citi artisti, intellettuali, persone che attraverso le rughe leggono la vera bellezza. È un messaggio molto bello ma temo che oggi sia completamente diverso. Concita De Gregorio Questa cosa mi sembra un po’ finita perché la gente non ne può più della grande menzogna dell’eterna giovinezza e del diktat di un solo canone estetico dominante. C’è un libro molto bello che s’intitola Appena ho 18 anni mi rifaccio, una raccolta di storie vere di adolescenti minorenni, che chiedono come regalo di compleanno un intervento estetico. Tra loro c’è Ivan, un ragazzo veneto convinto che per essere felice gli serva la mandibola come quella di Costatino il tronista. I genitori, invece di proporgli
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delle alternative, rispondono che va bene ma che deve solo attendere la maggiore età per fare l’operazione. È un’operazione importante, che prevede la terapia intensiva, per cui se si è minori non basta il consenso dei genitori ma serve anche quello di un giudice. Ivan aspetta con tutta la sua famiglia, padre, madre e sorella e finalmente il giorno del compleanno lo accompagnano all’ospedale. L’intervento prevede che si fratturi in più punti la mandibola, che si mettano dei divaricatori e si attenda che si formi un callo osseo che colma gli spazi vuoti. Otto mesi di divaricatori e alimentazione tramite cannuccia; un anno di scuola perduto. Questi ragazzi sono nati dentro il mondo dei tronisti e quindi pensano che quella sia la realizzazione del successo; il problema è che i genitori, anziché spiegargli le cose, accettano le loro richieste, condividendole. Questo mi fa pensare che c’è un tema di incultura o di perdita di senso che riguarda non solo i ragazzi, ma anche chi non ha offerto loro alcuna possibilità alternativa. Oggi il grande equivoco è che si debba essere tutti uguali a un modello, ma la democrazia non è essere tutti uguali, bensì trattare ugualmente le persone diverse e lasciare libero ciascuno di essere diverso. Questo però è molto più complicato ed allo stesso tempo pericoloso, perché il valore di ciascuno di noi non è dato dal nostro grado di somiglianza ma dal grado di differenza: ciascuno di noi vale per quello che può portare di diverso nel lavoro, nella vita, nell’amore, nel sesso, in qualunque tipo di attività. La nostra specificità, il nostro essere noi stessi, insostituibili ed unici, è data dal fatto che siamo diversi dagli altri, non dal fatto che siamo uguali.
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La truffa di questi anni è stata quella di inculcare in maniera subliminale la convinzione di dover essere tutti somiglianti ad un canone unico per essere vincenti, attraenti, seducenti. Prima di essere una cosa cretina è una cosa falsa, perché non è vero che le cose stanno così e questo lo misurate nella vostra vita quotidiana. È pensando ai ragazzi ed alle ragazze che ho scritto questo libro perché la questione è che noi adulti queste cose le sappiamo, ci scherziamo e ridiamo su, ma le sappiamo; invece, i ragazzi non le sanno e quando gliele spieghi e gliele fai notare, si stupiscono. La vita perché ha valore? La vita ha valore perché finisce ad un certo punto, non perché prendi il viagra, non perché sei immortale. Questa è una menzogna che toglie valore all’esistenza. La vita ha senso perché è finita e quindi è dentro questo spazio che si deve dare senso all’esistenza; se ci si ammala o si invecchia perché ci si deve vergognare? Se il tempo non ti passa sulla faccia, non ti passa nemmeno nell’anima, nella testa o nel cuore, se ogni giorno si fa il reset come ad un computer, diventa veramente difficile insegnare ai nostri figli. Bisogna dirlo con chiarezza: se non passa il tempo, non ci sono né ieri, oggi e domani con la conseguenza delle azioni, non ci sono né colpa né merito e dietro la cornice estetica dell’eterno presente sparisce il senso di responsabilità individuale e di conseguenza collettiva, perché ogni giorno è un giorno nuovo. Pubblico Tu hai parlato di questi “non-valori” attuali, dell’ estetica di una società degenerata, ma non pensi che questi “non-valori” facciano un po’ parte della storia
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dell’umanità? Basta pensare alle donne con il vitino di vespa o altre cose analoghe. Concita De Gregorio Penso che ci siano differenze nell’ideale di bellezza che è stato diverso in tutti i tempi e che ancora oggi è molto relativo. Ogni paese ha un suo modello di estetica ma fra questo e il forgiare una lettura dominante sul tema del successo che passa attraverso la bellezza e la mercificazione della stessa, c’è molta differenza. Pubblico Il concetto per cui si muovono gli italiani è quello di delegare gli altri, sempre. Concita De Gregorio Questo è dovuto al fatto che non siamo messi in grado di esercitare una consapevolezza critica, perché, come diceva Gramsci, quello di cui c’è bisogno è un’istruzione: “istruitevi noi avremmo bisogno di tutta la vostra intelligenza”. Senza un’ istruzione, vincono personaggi come Lele Mora! Ci sono donne completamente rifatte che fanno campagne e battaglie per “liberare le donne dal burqa”. Io scrivo nel libro che se ti cambi i connotati non lo fai per amore ma per disprezzo dei connotati, perché se ti piace il naso che hai te lo tieni, se ti fa schifo te lo togli, ma perché ti fa schifo? Poniamo che tu sia portato a corrispondere ad un ideale di bellezza che ti dice che per essere seducente o per trovare un marito miliardario devi avere quel naso lì, quelle tette lì, allora tu liberamente ti sottometti al cliché estetico che corrisponde allo sguardo dominante che decide cos’è bello, ti rendi desiderabile agli occhi del re perché sai che al re piaci così. Per alcune donne completamente velate il valore è che si è tanto più desiderabili quanto più si è coperte e non sco-
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perte. Perché loro non sono libere? Allora anche tu non lo sei; in entrambi i casi si tratta di una forma di sottomissione al piacere degli altri, allo sguardo degli altri. Quindi questo genere di crociate fatte da donne che sono altrettanto schiave fa vomitare, perché se vuoi fare una crociata per la libertà individuale devi iniziare dalla tua libertà. Tu sei libera di fare col tuo corpo ciò che vuoi, così come la ragazza che decide di portare il velo. Questo è, però, un ragionamento che si è in grado di fare solo se non si è succubi di quel modello. Pubblico Concita, è fantastico ascoltarti perché fai innamorare di nuovo di quello che è la politica, cioè passione, sogni, desiderio. Secondo te i “lor signori”, come li chiamava Fortebraccio, son degni di rappresentare il popolo sovrano o devono tutti, da D’Alema a Veltroni a Bersani, andare via? Noi cittadini ed elettori, non possiamo stare solamente a guardare ma ormai noi non ci fanno più parlare, non possiamo prendere il microfono e fare i dibattiti. Allora diglielo tu, Concita, ai “lor signori”, che se non ci ascoltano succedono dei problemi. Concita De Gregorio Io ho lavorato per Repubblica per vent’anni, ho iniziato da ragazza e poi ad un certo punto, nel 2008, uno di quegli anni come dicevo prima, in cui le vicende personali e professionali coincidono, mi ha chiamata Soru e mi ha chiesto se volevo dirigere l’Unità. Gli ho chiesto perché avesse chiamato proprio me, che non avevo mai avuto un’esperienza di direzione né tantomeno un’ansia da poltrona, anzi il contrario. Lui mi ha risposto che nemmeno lui aveva mai fatto l’editore ma che, dal momento che quelli che facevano il direttore e l’editore lo facevano male, ci stava
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che riuscissimo a fare meglio di loro. La mia idea era quella di fare un luogo aperto e di dare la parola a quelli che non ce l’hanno. Il tentativo che ho fatto è stato molto appassionante e gratificante, però il livello di libertà, di autonomia e anche di successo che il giornale in quegli anni aveva avuto rappresentava un fastidio, un elemento di disturbo, per una classe politica che non si è auto-prodotta ma è stata votata. I leader che hai nominato sono stati tutti votati segretari con primarie plebiscitarie. Diventa faticoso dire che non se ne può più, perché loro ti rispondono che sono stati votati ed eletti legittimamente! C’è un problema, lo so che è molto impopolare e brutto quello che dico ma è la verità perché non c’è stato un rinnovamento, perché le persone più giovani non si sono fatte avanti, perché non sono usciti fuori i nuovi leader, perché tutti i nuovi leader somigliano terribilmente ai vecchi leader e sembrano cloni, quelli di vent’anni sembravano più vecchi di quelli di ottanta. Il meccanismo è un meccanismo che si tutela. Così, anche la mia esperienza come direttore de l’Unità si è conclusa perché sentivo che questa apertura, questa voglia di far partecipare era diventata qualche cosa di molto fastidioso e di molto sgradevole per chi occupava già quei posti. Sono convinta che l’Italia sia piena di persone che la fanno funzionare, che sono molto migliori di coloro che tengono le redini del comando. Sono convinta che nelle città, nei comuni, nei piccoli luoghi ci siano decine e decine di persone che sono piene di passione e di ragione, perché ci vogliono tutte e due le cose insieme, ci vogliono la testa e l’anima per far funzionare le cose, perché sennò non si va da nessuna parte. Dobbiamo smettere di pensare che arriverà qualcuno che ci libererà, non è sempre qualcuno che arriva da fuori,
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l’uomo della provvidenza o del destino: la sovranità parte dal popolo. Riprendetevi la delega che vi appartiene, riprendetevela e ciascuno nel suo piccolo, nel suo ambito, nel suo mestiere decida, perché siete voi che decidete. Dobbiamo capire per bene fino in fondo che il destino delle comunità e poi del paese dipende da noi, siamo noi a decidere e se qualcosa non ci sta bene, abbiamo lo strumento del voto e della parola per cambiarlo. Pubblico Credo che noi siamo non disinformati bensì mal informati, nel senso che il nostro ex-Presidente del Consiglio ha tutta l’informazione cartacea, radio e televisiva. Concita De Gregorio Di cattiva informazione che ce n’è tanta, noi facciamo del nostro meglio, anche se c’è tanta cattiva informazione ma così come ci sono tanti cattivi medici, architetti, insegnanti. Sono le persone che fanno la differenza in politica o nel giornalismo. Ce ne sono tanti, Saviano nasce come giornalista e scrive mettendo a repentaglio la propria esistenza ma non è certo l’unico. Ce ne sono tanti, per uno di cui si conosce il nome ce ne sono trenta o quaranta che non conosciamo. Pubblico A Repubblica, dopo la morte di Giuseppe D’Avanzo, chi è che segue quel filone di analisi, o comunque che riesce a fare i racconti di certi fatti molto in profondità e anche abbastanza pericolosi? Concita De Gregorio La parte di D’Avanzo non la può fare più nessuno, non è sostituibile. Le sue inchieste sono state delle inchieste molto belle e molto importanti con un piglio molto caratteristico, molto suo. Oggi però ci sono den-
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tro il giornale molte persone, anche giovani e brave, che sono in grado di fare inchieste altrettanto importanti; forse il loro nome non è ancora famoso ma lo sarà tra qualche anno. Benedetto Ferrara Ti vorrei ringraziare per aver scritto un libro così toccante ed emozionante; chiunque di noi ha vissuto un lutto, ha vissuto l’assenza. In questo libro hai ricordato un collega con il quale ho lavorato spesso, Corrado Sannucci, un maestro silenzioso, di quelli che parlano poco ma quando lo fanno insegnano sempre qualcosa. Ritrovarlo tra le tue pagine mi ha commosso. Grazie.
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Incanto
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Intervista di Luigi Ricci
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In moto sono sempre andato, dai vent’anni in poi. La moto è quel luogo dove continui ad avere quindici anni, tutta la vita. È il massimo.
Pietro Grossi È nato a Firenze nel 1978. Esordisce nel 2000 con il romanzo Touché. Nel 2006 pubblica la raccolta di racconti Pugni. Nel 2007 esce il suo secondo romanzo, L’acchito. Nel 2010 pubblica Martini. Il suo ultimo lavoro, Incanto, ha vinto il Premio Nazionale Letterario Pisa 2012 per la Narrativa.
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Luigi Ricci Il tuo libro, Incanto, è uscito sei mesi fa. Un titolo che colpisce, è una bella parola. Approfondendo la tua storia di scrittore, ho notato che tutti i tuoi romanzi hanno come titolo una parola sola, perché? Pietro Grossi Il titolo è la prima cosa che inizio a scrivere. Touché è il mio primo libro pubblicato e sapevo che si sarebbe chiamato così prima ancora di sapere cosa avrebbe raccontato. Mi piaceva la parola e poi la cosa più elegante del libro è proprio il perché si chiama così. Il senso di quel titolo viene fuori nelle ultime due frasi. Non ho mai idea di dove vado a parare quando comincio a scrivere. In altri casi i titoli erano solo delle bozze ma sono piaciuti agli editori e così li ho mantenuti. Incanto ho sempre avuto paura che fosse il titolo sbagliato; avrei voluto intitolarlo Disincanto ma non ho potuto perché questo è il libro con cui ho momentaneamente tradito, diciamo così, Sellerio. C’è poi un libro a cui io e Antonio Sellerio siamo molto affezionati e che hanno ripubblicato, I disincantati di Budd Schulberg. Già gli avevo fatto lo scherzo di andare da un altro editore, se poi facevo un libro con quasi lo stesso titolo…potete immaginare quale sarebbe stata la reazione di Sellerio! Perché titoli con una sola parola? Questa cosa non me la so risolvere, ancora. Luigi Ricci Tu hai raccontato di non scrivere, ormai come quasi tutti, al computer ma di usare un quadernone. Pietro Grossi Per molti anni ho scritto in un modo molto metodico, il che mi ha portato anche dei buoni risultati e, soprattutto, una relativa serenità. Questo era il mio traguardo. Ho sempre scritto, ad un certo punto scrivere era diventata quasi un’ossessione e ho anche provato a smettere ma
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stavo peggio. Quando qualcuno mi chiede perché scrivo, di solito gli rispondo che se non lo faccio sto peggio. Per farlo in maniera serena e per stare meglio scrivo a mano su un certo tipo di quaderno e con una penna in particolare. È un po’ il mio ansiolitico ma ho anche il sospetto che vada a momenti alterni, per cui a volte mi sembra positivo e altre terrorizzante che tutto questo con la stesura di Incanto si sia dissolto. Con questo libro mi sono affacciato su qualcosa di molto più ambizioso, che mi ha completamente svuotato; inizio a sentire la voglia del largo respiro. Ho capito che per portare a termine Incanto, un’impresa per me che scrivevo di solito una settantina di pagine, dovevo far saltare tutti gli schemi e chi se ne frega del quaderno, della penna, delle ore del giorno o della notte. Ho capito che se volevo scriverlo dovevo fare tutto quello che per anni avevo giurato di non fare. Incanto è il libro che mi ha dato più soddisfazione e quindi non so cosa farò domani. Se prima ero riuscito a trovare un meccanismo per cui l’ansia che mi metteva scrivere la riuscivo a placare in un determinato modo, adesso che gli schemi sono saltati non ho idea di cosa succederà. Luigi Ricci Mi ricordo di essere cresciuto con il “cinquantino”, con il Fifty. Io avevo un vecchio motorino degli anni Settanta e mi ci sono voluti un paio d’anni per arrivare al Si. C’era tanta attenzione e invidia verso chi, tra gli amici, aveva comprato il motorino a cinque o a sei marce. Mi sembra che queste cose oggi non ci siano più. Sicuramente ci saranno altre cose che affascinano i quattordicenni o quindicenni di oggi, ma in giro vedo pochi motorini.
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Pietro Grossi Soprattutto non “smarmittano”, non fanno casino. C’è la storia di quel motociclista a cui chiesero perché non seguisse il calcio e che rispose “poco rumore”. Adesso i ragazzi si mettono il casco, ed è chiaro che lo debbano fare, ma non sapranno mai cosa vuol dire passare il sabato sera a truccare un motorino e poi andarci in due, senza casco. Era il massimo della vita. Ho avuto la fortuna di avere una sorella che per non bocciare la quarta volta è andata in collegio, lasciando a casa il suo Sì. Io volevo un motorino più figo ma i miei non me lo compravano, quindi chiesi a mia mamma il permesso di truccare quello di mia sorella. La mamma chiamò un amico assicuratore che disse che non c’erano grossi problemi ma che non avrei dovuto modificare la cilindrata. Io le assicurai che non l’avrei fatto e subito dopo andai a prendere un motore da competizione intero. Il mio Sì aveva due carburatori, una cosa straordinaria. Andava veramente come un cannone e durò un anno. Un paio di anni fa c’era qualcuno che mi chiedeva ancora che fine avesse fatto quel motorino. Luigi Ricci Hai una moto? Pietro Grossi Di moto ne ho quattro in questo momento, di cui una è la mitica “Sandra” del libro, che esiste davvero. Nella casa dove abito in campagna, un tempo il piano terra era una stalla, e quando siamo andati ad aprirlo, sotto un telo c’era proprio una moto. L’inizio del libro è abbastanza autobiografico, la scoperta di una moto che non si sa di chi sia, un po’ rugginosa e da rimettere. Mi piaceva l’asfalto, andavo in pista, da qualche anno ho scoperto i boschi. In moto sono sempre andato, dai vent’anni in poi. La moto è
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quel luogo dove continui ad avere quindici anni, tutta la vita. È il massimo. La domenica mi ritrovo a rotolare nel fango e torno a casa tutto rotto, sto mezzo acciaccato per tre giorni, perché non ho più vent’anni ma felice come una pasqua! Sai cosa dice mia madre? Che agli uomini l’unica cosa che cresce sono le dimensioni dei loro giocattoli e che ti devo dire, io sono la prova vivente che questo è vero. Luigi Ricci Vivere in campagna, in un posto isolato, aiuta a scrivere? Pietro Grossi Mi aiuta solo a svegliarmi prima perché scrivo bene di mattina. Un mio amico scrittore scrive benissimo quando è in viaggio, tutti i giorni in un posto diverso. Riesce ad alzarsi alle cinque di mattina e a scrivere per quattro ore, prima di fare quello che deve fare, che sia per piacere o per lavoro. Io non ci riesco, ho bisogno di quotidianità per lavorare. E la campagna è l’unica che mi permette di raggiungerla. Incanto l’ho scritto metà a Milano e metà in campagna, ma in campagna mi riesce più facile perché riesco ad andare a letto presto e svegliarmi alle 6-7 di mattina e lavorare. Campagna per questo, non per motivi particolarmente romantici come il cinguettio degli uccelli. Luigi Ricci Il protagonista di Into the wild ad un certo punto dice che non conta essere forti ma sentirsi forti. Quanto conta sentirsi forti e quanto i personaggi di Incanto hanno, chi più chi meno questa forza. Pietro Grossi È una bella domanda. Quello che ti posso dire pensando a me, alla mia vita, alla mia attività, è che mi sarebbe piaciuto avere un procedimento più lineare anche in
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relazione a questo. Così non è stato, di uniforme nella mia vita non c’è stato quasi niente. Ci sono stati momenti in cui mi sono sentito molto forte alternati a momenti in cui mi sentivo molto debole. Non avrei raggiunto tutto quello che volevo raggiungere dalla vita se non fosse stato per entrambi questi stati. Non avrei fatto dei balzi avanti molto forti, non avrei intrapreso dei percorsi molto ambiziosi, anche rischiando spesso, e ugualmente credo che non sarei qui se non avessi dovuto lottare contro la sensazione di non farcela. L’idea che sia sano sentirsi sempre forti non mi convince, ci sono delle persone che sembrano esserlo però mi fido poco. Qualche schiaffo lo devi prendere, come qualche volta puoi avere la percezione di essere il più forte del mondo perché in realtà ogni uomo, secondo me, un po’ lo è. Abbiamo più energie a disposizione di quante crediamo ed io ho avuto dei momenti nella mia vita in cui mi sono reso conto di questo, sono stato portato ad andare molto al di là di dove mi sarei fermato pensando di non farcela più. Ed ho scoperto la quantità di energie che abbiamo a disposizione e quanto possiamo fare, quindi questo è sicuramente sano. Ugualmente ci sono dei momenti in cui ti devi fermare e con umiltà alzare bandiera bianca. Pubblico Mi ha incuriosito soprattutto la seconda parte, in cui ci sono sentimenti ambivalenti: da una parte c’è il malessere del protagonista che vive una vita che non sa se è quella che vuole vivere e dall’altra il rapporto fra i due amici. Perché il protagonista prova rabbia? È per il vivere una vita che forse poteva essere un’altra o per il tradimento?
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Pietro Grossi Intanto i libri sono più di chi li legge che di chi li scrive; lo dico perché ci credo. L’autore di un libro è invece abbastanza l’ultima ruota del carro, quindi chi legge ha molto più diritto. Questa storia mi è montata dentro ma quando ho riletto quella parte, ho capito che era quella che mi intrigava e turbava maggiormente. Mi ha fatto affacciare su un luogo più oscuro di quello che credevo. C’è una parte grigio-scura del mio carattere e per molto tempo, soprattutto negli ultimi anni, ho avuto l’impressione di giocarci a nascondino, di girarci intorno un po’ per paura. Questa volta ci sono voluto entrare dentro e la cosa che mi ha molto turbato è che quando ci sono entrato era più profonda di quanto credessi, forse vederla nero su bianco mi ha messo in difficoltà. Era come se da un momento all’altro fosse diventata vera, roba mia. Io non so se il protagonista sia arrabbiato, credo che sia sostanzialmente molto spaesato. Forse, a differenza di me e di molti altri ci è arrivato tardi. Ha avuto un’infanzia tendenzialmente serena, senza molti dubbi finché un paio di eventi, che sono in realtà degli interruttori, non fanno nascere in lui il dubbio, che lo ossessiona. Quando scrivi in prima persona il tuo personaggio principale è il tuo narratore, anche se racconta di altre persone e tu devi sapere tutto di lui. Trasferire questa sorta di dubbio, che io sentivo già molto forte, nella vastità di sguardo di un cosmologo è stata da un lato un’esperienza straordinaria e dall’altro anche sconvolgente. Luigi Ricci Mi sembra di capire che dietro ad ogni personaggio ci siano un approfondimento e uno spaziare attraverso campi che spesso non sono familiari. Ti chiedo quanto
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tempo richiede e se è un atto necessario per non rischiare di cadere nelle banalità. Pietro Grossi Nei miei libri precedenti mi sono mosso in campi che conoscevo abbastanza bene. Rispetto a quest’ultimo libro, già prima di averne iniziata la prima stesura, leggevo libri di fisica. Mi intrigava l’idea, che in realtà mi appartiene da quando sono piccolo, del se si può arrivare all’immensamente piccolo, all’origine del mondo in termini di spazio e tempo. Poi è successo che non sapevo che scrivere, avevo voglia di parlare di moto e mi ha bussato questa nocca sul vetro, l’immagine con cui inizia il libro. Questo ragazzino che sveglia l’amico nel mezzo della notte e da lì ho raccontato come veniva. Alla fine di questa stesura, che è un po’ la prima parte di questo libro, mentre iniziavo a seguire le strade dei protagonisti da grandi sono accadute alcune cose determinanti. Uno dei due protagonisti dice all’altro una frase, che è quella con cui inizia la terza parte: “Ragazzo, vaffanculo te e il culto dei morti, ho già fatto abbastanza per Biagio finché potevo, adesso sono fatti suoi”. Mi sono visto scrivere questa frase e mi è parsa strana subito, non la capivo, pensavo che nascondesse qualcosa che io stesso non sapevo. Ad un certo punto ho iniziato a capire cosa significava, poi mi sono imbattuto in un testo di cosmologia e ho capito che quella era la storia che avevo lì. È la storia di un cosmologo che improvvisamente, per via di una frase strana di un suo amico, inizia a sentire il dubbio che lo rode dentro. La cura del dettaglio la faccio con divertimento ma anche con dovere, perché questo è quello che facciamo, se vogliamo tentare di raccontare di scrivere delle buone storie, lo facciamo attraverso i dettagli. Questo è ciò che ho imparato, più stai dentro
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a quello che racconti, più sei dentro ai personaggi a guardare quello che fanno, più vedi le sfumature più è credibile la tua storia, meglio fai il tuo mestiere. Questo siamo, vili illusionisti. Le persone leggono per essere illuse, per dimenticarsi per qualche giorno o per qualche minuto del mondo che hanno intorno. È questo quello che siamo, è inutile stare a fare tante filosofie in più. Questo lo si fa bene se siamo noi per primi ad ingannare noi stessi e questo lo si fa attraverso i dettagli. Pubblico Quando sei nella stesura di un romanzo e rileggi le cose che hai appena scritto, qual è la prima sensazione che hai? Pietro Grossi La prima sensazione che ho è abbastanza commovente, perché diverse cose non me le ricordo. Mi piacerebbe in realtà rileggerlo da zero, ma siccome scrivo molto a mano per rileggerlo devo ricopiare, quindi c’è una rilettura in mezzo che un po’ filtra e vizia. Mi piacerebbe rileggerlo così come è venuto, di getto, come scrivo io, in maniera abbastanza immediata ed istintiva. Quando poi riesco a ricopiarlo, lo lascio lì qualche settimana, qualche mese e me ne dimentico, ma quando lo rileggo è già in una forma distaccata. Lo scrivere per me è veramente come fare l’amore, quindi quando rileggi la prima volta è come quando ti svegli la mattina dopo. Quando l’hai già riletto è come quando litighi a colazione, quando lei già ti fa girare le palle, quando hai lasciato alzata la seggetta del water... Però i momenti più belli sono i momenti in cui ti viene bene ciò che scrivi, quando lo rileggi per la prima volta e anche le ultimissime bozze sono belle. È come un parto; anzi pubblicare un libro è come partorire una persona di vent’anni. Partorisci e lei se ne va
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subito di casa, non la rivedi più. È abbastanza doloroso dopo che gli hai dedicato tanto tempo e tante energie. Le ultime bozze sono quel momento un po’ malinconico un po’ nostalgico dove un po’ ti sono venute a noia però sai anche che se ne stanno per andare, ci scambi le ultime parole. Tu stai per mesi chiuso in una stanza con questi personaggi ed hai con loro un’intimità gigantesca. Poi da un certo momento il libro è finito, se ne va e loro se ne vanno. Se ti piace veramente scrivere, ti piace tutta quella parte che precede la pubblicazione, ma quello che accade dopo la pubblicazione lo senti come molto faticoso, come un mettere in piazza qualcosa di particolare e bello che c’è stato prima. Alcuni miei amici scrittori sembra che vivano solo per tutto quello che viene dopo ma per altri miei amici, che in realtà un po’ la pensano come me; tutto quello che viene dopo un po’ turba. Pubblico Quando termini la stesura e dai alle stampe il tuo lavoro sei già proiettato su un’altra storia oppure rimani attaccato alla storia che hai scritto? Pietro Grossi Ritengo che il mio lavoro finisca quando il libro esce e da quel momento in poi per me il libro muore, non mi appartiene più. È anche doloroso perché sento molto la mancanza dei miei personaggi, però so che è così e mi ci sono abituato. Finora lavoravo su più cose alla volta, adesso si è un po’ stravolto anche questo. Quando ho finito Incanto, quando se n’è andato, sono caduto in un vuoto, che un po’ succede sempre, ma stavolta è accaduto in un modo che non mi era mai capitato. Per settimane non ho ripreso in mano un libro da leggere, nemmeno la sera prima di andare a letto e non ho memoria di me che mi addormento senza un libro
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in mano. Per settimane non ho letto e adesso che sto pian piano ricominciando a entrare nell’ottica di scrivere non so dove andrò a parare, perché in questo libro sono accadute delle cose e quei meccanismi che usavo prima non funzionano più come prima. So di aver chiuso con una cosa molto importante della mia vita, come mio risultato personale e penso di aver detto tutto quello che avevo da dire. Credo che starò fermo un po’, magari è la volta buona che smetto di scrivere per davvero e se riuscissi a smettere di scrivere forse starei meglio. È un po’ come una tossicodipendenza.
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Vanni Santoni e Matteo Salimbeni
L'ascensione di Roberto Baggio
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Intervista di Benedetto Ferrara
18 aprile 2012
Si dice che una buona struttura romanzesca si basa sul conflitto e tiene quando i conflitti sono sufficientemente frequenti: conflitto persona-persona, conflitto persona-società, conflitto persona-cosa. La storia di Baggio è una storia esclusivamente di conflitti perché ha avuto gli allenatori sempre contro, il destino sempre contro, anche l’ambiente un po’ contro, i media compresi. Questo è il non plus ultra della materia romanzesca.
Vanni Santoni È nato a Montevarchi nel 1978. È laureato in Scienze Politiche. Suoi racconti e reportage sono apparsi sui principali quotidiani nazionali e sulle maggiori webzine letterarie. Tiene una rubrica quotidiana e una settimanale sull’inserto toscano del Corriere della Sera. Ha pubblicato i libri Personaggi precari (2007), Gli interessi in comune (2008), Se fossi fuoco arderei Firenze (2011). Nello stesso anno esce il romanzo L’ascensione di Roberto Baggio scritto a quattro mani con Matteo Salimbeni. Matteo Salimbeni È nato a Firenze nel 1982. Si diploma alla Scuola d’Arte Drammatica Paolo Grassi di Milano. È fondatore della compagnia teatrale ExpoiTeatro ed è autore e drammaturgo di varie opere teatrali rappresentate in giro per l’Italia. Come narratore ha scritto per le riviste Mostro, Collettivomensa e Sic. È autore di due e-book su Zlatan Ibrahimovic e Giampaolo Pazzini, pubblicati con la New Editing Libri.
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Benedetto Ferrara L’argomento Baggio va al di là del libro, del libro ne parlano loro. Io posso solo dire che l’idea è notevole, portata fino in fondo con grande classe, miscelando lo spirito fiorentino con la classe di chi sa scrivere e sa dosare una materia come Baggio. E qui sta il tocco geniale, perché Baggio è tanta roba. Già prima di venire qui stasera, pensavo cosa significasse nella mia vita e significa molto perché con lui e con gli scontri in piazza ho iniziato a fare il mestiere di giornalista. L’argomento Baggio è pieno di storia e emozioni. Io Baggio l’ho amato e lo amo ancora, ma al tempo stesso mi ha fatto anche arrabbiare perché è stato gestito male, si è messo in mano a persone sbagliate. Esiste però anche il Baggio buddista, il Baggio che gli allenatori non amavano ma che la gente amava, il Baggio che ci fa venire in mente sempre due versioni, una che poteva smettere di giocare per via dell’infortunio e l’altra che forse ha avuto meno di quello che poteva avere perché era un talento assoluto, il più forte calciatore di sempre. Qual è la vostra idea personale su questo campione? Vanni Santoni Intanto, vale la pena fare una piccola cronologia e genesi di questo libro. Questo libro è stato cominciato quando Baggio smetteva, anche se poi è uscito molto dopo per una serie di vicende editoriali ed è anche molto cambiato rispetto alle prime stesure. Questo libro ci fa quasi sognare che Baggio sia ancora in attività. Abbiamo cominciato il libro nel 2005, poi lo abbiamo cambiato nel 2006, quando l’Italia ha vinto i mondiali perché dopo eventi simili la mitologia calcistica cambia e tutti i valori diventano differenti. Poi il libro è rimasto sepolto per tre anni e quando Mattioli ha deciso di pubblicarlo, abbiamo ripreso
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Baggio dall’armadio dei ricordi e per noi è stato prima di tutto, un gesto di affetto. Quando scrivevamo il libro nelle prime stesure eravamo più severi nei confronti di Baggio. Più passa il tempo e più la dimensione dell’affetto diventa preponderante nel vivere Baggio. Matteo Salimbeni Il libro è strutturato con questi due viaggiatori, narratori, a cui viene commissionato di scrivere un libro su Roberto Baggio. Loro però non si ricordano chi è ed iniziano un viaggio per l’Italia e per le capitali calcistiche e spirituali di Baggio, ed in ognuna delle loro tappe incontrano una persona che racconta un episodio su di lui. Ovunque c’è qualcuno che racconta una storia differente, perché ogni città ha assimilato a suo modo Baggio, che non è un giocatore di una città sola ma di tutta l’Italia. Io abito a Milano dove c’è una sensibilità “baggistica” di tipo completamente differente: per quello che riguarda la sponda interista, Baggio si è legato indissolubilmente a due momenti topici della storia dell’Inter, la partita col Parma per lo spareggio di Champions League e la doppietta col Real Madrid. Per la sponda più milanista che, comunque, è abituata ad una quantità innumerevole di miti a cui affezionarsi, Baggio non ha lasciato un grande segno. Ora per tornare alla tua domanda, la mia storia di Baggio inizia esattamente quando inizia la tua carriera di giornalista. Avevo 8 anni, era il 1990, e i ricordi calcistici più nitidi sono io che salgo le scale di casa di mia nonna e le chiedo “Ma l’hanno venduto o no?” e lei mi dice “Ora si chiama Luca, il cugino del babbo, lui lo sa di sicuro”. Mi ricordo di
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me bambino, ansimante dietro la nonna mentre salivo di corsa le scale per sapere se l’avevano venduto o no. Fu uno dei primi forti abbandoni anche a livello emotivo, rimasi traumatizzato dalla vendita di Baggio, per quanto ancora di calcio non ne masticassi un granché. Vanni Santoni Matteo ha centrato un punto rilevante cioè il fatto che Baggio, per il forte portato emotivo della sua carriera, per il fatto che spesso c’era da interpretarlo e capire perché facesse certe cose o perché altri ne facessero a lui, si associava moltissimo al vissuto emotivo delle persone. Il mio primo ricordo è Baggio che raccoglie la sciarpa viola e per me, allora undicenne e tifoso della Juve perché allevato al calcio da un padre montevarchino e da uno zio pratese, saltò un sistema. Fu una rivoluzione copernicana, perché improvvisamente quel pubblico, quel Baggio e quel gesto assumevano una valenza simbolica. Lì saltò quella matrice che i miei parenti avevano cercato di impormi ed abbracciai la fede vera. Benedetto Ferrara Il giorno della sciarpa anch’io ero lì, andai negli spogliatoi, lo vidi piangere, vidi degli amici suoi che piangevano, delle scene che non erano calcio, erano una tragedia, come gli scontri in piazza. Si sta parlando di calcio. Nella prima conferenza stampa alla Juve era un uomo tristissimo; 2 miliardi sul conto in banca e aveva la faccia di uno che sembrava aver perso il lavoro. Se vai a chiedere alla gente di elencare le squadre in cui ha giocato Baggio, fa confusione. Ci si può chiedere perché uno così vada a trovare la pace a Bologna o a Brescia. Cos’è che mancava a questo ragazzo?
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Matteo Salimbeni Il titolo del libro a cui inizialmente avevamo pensato non era questo, bensì La maledizione di Roberto Baggio, ma era una gabbia, non apriva a universi possibili e a percorsi diversi. L’ascensione, invece, ti permette di rispondere a domande di questo tipo e di poter raccontare il movimento letterario e spirituale che avviene all’interno del libro. Partiamo da un Baggio che è un Baggio fortemente ancorato alla realtà dei fatti per arrivare a una dissoluzione, ad un’ esplosione di significati che ruotano intorno a Baggio. Baggio ha vinto poco o niente e il rapporto fra classe e squadre in cui lui ha giocato e trofei è grottesco. Baggio è un campione indiscutibile, uno dei più grandi o forse il più grande, che non è mai stato dentro ad una squadra ad una mitologia calcistica per un lungo periodo di tempo. Il periodo più lungo forse è stato la Juve, con cui però non ha mai legato a livello spirituale. Nell’ultima parte del libro Baggio arriva a diventare una grandissima metafora, non univoca, che permette di interpretare, leggere, attraversare, raccontare gli ultimi vent’anni di calcio. Vanni Santoni Credo che tra l’altro nel calcio avvenga proprio un processo che potremmo definire “chimico”, ovvero quando un calciatore si rende protagonista di una grande vittoria quella vittoria si sedimenta e si cristallizza in lui che finisce per rappresentarla e questo gli impedisce di aprire il discorso a qualcos’altro. Se dovessi fare una mia personale “analisi chimica” di Baggio, direi che ha avuto un’ ostilità da parte degli allenatori davvero inspiegata. Però, probabilmente, il problema era caratteriale. Penso che questo inquadri anche l’approccio che ha Baggio rispetto a sé stesso, molto schivo, molto mite,
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molto timido, carattere che non si confà molto al numero dieci, che proprio in virtù della sua classe superiore e punto di riferimento dei compagni è anche quello che piglia per il culo l’avversario, che lo sfotte dopo averlo battuto! Queste cose sono fuori dallo spettro comportamentale di Baggio. Baggio sfugge al principale generatore di significato, la vittoria. Si dice che nel calcio conta la bacheca, i trofei, ed è vero, ma lui è riuscito ad entrare nel cuore della gente senza però mai imporsi da quel punto di vista. Purtroppo, mai nessuno si sognerebbe di paragonare Baggio a Maradona ed anche nelle più lusinghiere classifiche lo trovi al terzo posto al massimo. Gli altri hanno vinto, ma proprio questo conferisce a Baggio la capacità di entrare in un territorio che è quello umano, che è quello anche romanzesco, perché la vita di tutti i giorni, la vita degli uomini, di solito, non è fatta di grandi vittorie. Baggio descrive una rappresentazione del corso di ciascuno di noi molto più grande di quello di un giocatore che ha impersonato la vittoria. Benedetto Ferrara A me è successo per tanti anni che quando segnava o faceva una bella giocata, anche se era in squadre che non mi piacevano, ho continuato a sentirlo comunque mio. Il calcio è un mondo che ti dà dei riferimenti molto forti, decisi, le sfumature non ci sono, invece lui era quasi impalpabile rispetto a quei tratti, quindi, alla fine ti chiedevi perché sbagliasse un rigore. Li calciano bene giocatori che hanno piedi che sono mattoni e te che sei un fenomeno lo sbagli perché hai questa fragilità esistenziale che curi attraverso il buddismo, attraverso qualcosa che forse ti ha dato la possibilità di crearti un tuo mondo, delle amicizie fuori
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dal calcio. La cosa più bella di Baggio è che è stato sempre ai margini e devo dire di averlo visto presentarsi a lezione con il quaderno, umile, normale. Vederlo prendere appunti seduto accanto a giocatori che nemmeno sono stati nelle figurine Panini dava la misura di questo personaggio. Ma questo romanzo glielo avete inviato? Vanni Santoni e Matteo Salimbeni Gliel’abbiamo dato di persona. La scena fu grottesca perché io avevo cercato di contattarlo in tutti i modi possibili, ma evidentemente Baggio dice “no” a tutti. Poi venne la Hall of Fame e noi ci appostammo sulle scale, con signore, che ai tempi in cui lui giocava avevano quindici o sedici anni. Passavano continuamente personaggi del mondo del calcio, Galliani, Platini, Sacchi, Prandelli poi però il tempo ha rallentato improvvisamente ed è passato Baggio. Abbiamo capito che ha una portata simbolica diversa dagli altri campioni e quando passa tra le persone, fa lo stesso effetto che fanno Madonna o Michael Jackson. A quel punto gli ho dato il libro, lui l’ha preso e l’ha passato ad un suo aiutante, dovevamo dirgli delle cose ma in quel momento si è sciolto tutto il tempo, siamo tornati bambini anche noi. Eravamo veramente il Matteo di 8 anni con la nonna e il Vanni di 11 a vedere la partita con lo zio e il libro che gli abbiamo dato era come un foglio per gli autografi. Riscontri poi non ce ne sono stati, però. Benedetto Ferrara La gente l’amava più di quanto l’amassero i mezzi di informazione, perché per la gente lui era un eroe, mentre i media gli imputavano di non essere perfetto, di avere il codino, di essere uno a cui gli allenatori
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non piacevano. Di solito, succedeva che i presidenti se ne innamorassero, lo comprassero, ma che poi gli allenatori non sapessero dove farlo giocare e gli spogliatoi non lo accettassero completamente. È un personaggio che da questo punto di vista mi ha fatto anche arrabbiare, ma continuo a volergli bene come ad un fratello. Secondo voi, esistono altri personaggi, altri campioni che in qualche modo possono sfuggire alla retorica del calcio? Vanni Santoni e Matteo Salimbeni Baggio ha avuto un equilibro magico nell’essere forte e famoso e nell’essere altrettanto capace da aprire a tante possibilità di racconto; se vai nei borderline ci sono George Best, Edmundo, Ezio Vendrame o Maradona però Baggio è riuscito in un’ operazione rarissima. Baggio è riuscito a mettere in circolo la possibilità di creare una grande architettura letteraria su di lui perché è stato l’anima, il volto, il riflesso dell’Italia per vent’anni. Le persone la domenica chiedevano cosa avesse fatto Baggio, come se lo chiedessero di una squadra. In questo senso, Baggio ascende. Baggio era una squadra; non era la Fiorentina, era Baggio. Non stava sul palcoscenico, stava dietro, ma riusciva a creare spazi magici nel campo, nella mitologia, pur non essendo un pilastro di vittorie e di tecnica e basta. Si dice che una buona struttura romanzesca si basa sul conflitto e tiene quando i conflitti sono sufficientemente frequenti: conflitto persona-persona, conflitto persona-società, conflitto persona-cosa. La storia di Baggio è una storia esclusivamente di conflitti perché ha avuto gli allenatori sempre contro, il destino sempre contro, anche l’ambiente un po’ contro, i media compresi. Questo è il non plus ultra della materia romanzesca.
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Benedetto Ferrara Il nome di Roberto Baggio associato ad un romanzo vi ha aiutato con gli editori oppure, siccome era sport, si pensava più all’idea di una bella biografia? Vanni Santoni Ti racconto solo una storia: Giugno 2008, ero a “Scrittori in città”, una manifestazione del settore letterario. Avevo appena esordito con Feltrinelli, quindi, ero stato invitato ad un tavolo pieno di pezzi grossi, tra cui Lucarelli, ed io ero lo sconosciuto. Ad un certo punto uno di loro mi chiese cosa stessi scrivendo ed io risposi un libro su Baggio. E loro giù a ridere! Pensavano avessi fatto una battuta. Come se avessi detto che stavo scrivendo un libro su Paperino. Anche la vicenda stessa di questo libro parla da sé. Ci furono diversi interessamenti da parte di case editrici che però non portarono alla pubblicazione perché ritenevano che un libro di taglio letterario sul calcio non avesse futuro. Matteo Salimbeni Oggi, esiste un modo differente di raccontare il calcio rispetto a quello che c’era una volta e questo ha creato una lontananza del mondo della letteratura rispetto al calcio. Ma il mondo del calcio ha tutti gli elementi per essere una grande storia: ci sono undici persone con dei pantaloncini corti che stanno in un enorme valle, collina, taiga o steppa, esposti a tutte le condizioni atmosferiche, c’è il fango, la pioggia, la neve e queste persone si sfidano l’una l’altra, osservate da migliaia di altre persone. Questi sono elementi che hanno le caratteristiche della leggendarietà dello scontro e che nel calcio sono preminenti e permettono di raccontarlo anche tramite la finzione letteraria.
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Benedetto Ferrara Non vi sembra che l’addio di Roberto Baggio al calcio sia stata una cosa che… Vanni Santoni L’ addio al calcio di Roberto Baggio è stato un momento molto toccante, ma era anche l’addio giusto. Noi giochiamo sul fatto che il percorso di Baggio è un percorso mitologico e anche spirituale, quello tipico di un certo tipo di Messia sacrificale che parte da Horus, passa da Gesù Cristo e arriva a lui. Chiaramente, questa cosa la devi pensare solo ironicamente perché sennò sei un allucinato. Benedetto Ferrara Io ho conosciuto Roberto nel periodo in cui cominciò a praticare il buddismo, perché era infortunato Non era Siddharta, non voleva trovare l’illuminazione. La verità è che era un ragazzino che temeva di non giocare più, al quale dissero di trovare la forza dentro di sé e trasformare l’impossibile semplicemente con un nuovo e diverso atteggiamento nei confronti della vita. Baggio era un tipo molto timido e chiuso, veniva da una famiglia semplice, aveva un rapporto con la vita quasi indifeso e il buddismo gli ha dato il coraggio. Mi chiedo a volte se dietro questa sua fragilità non ci sia, invece, una grandissima forza che è quella, per esempio, di fregarsene di quello che dicono i media e dei giudizi degli altri. Noi constatiamo che non ha vinto quanto altri suoi colleghi, ma essendo lui buddista bisogna vedere qual era il suo karma, vedere la cosa dal suo punto di vista. Il buddismo era un aspetto importante, fondamentale che lo ha portato ad andare ai Mondiale e sbagliare un rigore. Se uno è onesto mette quel rigore su un piatto della bilancia e altre dieci cose che ha fatto sull’altro.
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Lui incarna la paura che ognuno di noi ha, che il nostro talento, letterario o calcistico, non sia compreso. Pubblico Aver scritto una storia su un personaggio così grande immenso, in qualche modo leva qualcosa all’autore? Vanni Santoni Questo è proprio uno degli elementi centrali sul che cosa significa scrivere un romanzo così. Quando scrivi un libro con protagonista Baggio c’è un doppio livello: c’è il narratore che ti presenta Baggio e poi esiste un ipotetico luogo condiviso fra scrittore, narratore e lettore, che è la memoria condivisa, il Baggio narrato. Quando io narratore scrivo a te, lettore, un capitolo e tu lo leggi ci stiamo riferendo ad un’immagine condivisa di Baggio. Se avessimo scritto su un giocatore immaginario tutto sarebbe stato completamento diverso, perché non si poteva giocare di sponda sulla realtà, mentre qui si inizia subito a giocare su quella sponda richiamando il Baggio ricordato. Secondo me è quello lo spazio dialettico su cui si costruisce il romanzo e che ha come punto centrale un personaggio reale. Vanni Santoni e Matteo Salimbeni Nell’ultimo capitolo parliamo di goal che non esistono, quindi, arriviamo ad aderire al modo di fare letteratura sul calcio ma per arrivarci partiamo da una memoria collettiva. Il finale è un’antologia di momenti che nessuno ricorda e che non sono mai esistiti, ma che il percorso precedente del libro ci ha permesso di rivedere e ricordare. Baggio è il calciatore di cesura fra il mondo prima e il mondo dopo e questo è sicuramente un libro che guarda con nostalgia al calcio del passato, su questo non c’è dubbio.
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Intervista di Marco Cappuccini
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Quando uno varca la soglia di una sede leghista, si confronta con discorsi che rovesciano tutto. I leghisti sono convinti di essere loro le vittime della xenofobia. Si pongono sempre come vittime nelle interviste e ad un certo punto anche io non capivo più niente! Sono arrivata a chiedermi se la Padania non fosse realmente esistita, se loro non fossero stati schiacciati per anni e anni dall’Italia!
Lynda Dematteo È un antropologa e politologa francese. Nel dicembre 2002 svolge la tesi di dottorato sul tema De la bouffonnerie en politique. Ethnographie du mouvement Lega Nord en Bergamasca, premiata con la menzione d’onore dalla commissione. Tale tema è l’argomento più noto della successiva analisi sui fenomeni sociali italiani: nel 2007, infatti, pubblica il saggio L’idiota in politica. Antropologia della Lega Nord, edito in Francia nel 2007 e tradotto e pubblicato in italiano nel 2011.
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Marco Cappuccini Attraverso L’idiota in politica si impara a conoscere non solo il fenomeno Lega ma anche il modo in cui ci siamo approcciati ad esso. Fenomeno che nasce in sordina e che inizialmente viene snobbato, considerato come passeggero e che arriva invece a contraddistinguere una stagione politica intera e diventando un fenomeno da cui non si può più prescindere. Partiamo dal titolo del tuo libro. Tu scrivi che: L’uso della parola idiota impone qualche precisazione. In senso etimologico, significa uomo del luogo ed è un termine la cui radice greca vuol dire “particolare”, per gli antichi greci, idiota era colui che non aveva accesso alla dimensione universale, quello che viveva ancora nella caverna, o meglio, nella sua caverna. […] L’idiota è quel soggetto votato alla più irriducibile autoctonia, al ripiego identitario. Quando un simile soggetto valica i confini del proprio universo culturale, si comporta spesso in modo improprio, grottesco. Preso singolarmente o all’interno della cerchia di amici e familiari, nessuno è idiota. I problemi cominciano fuori, quando si passa ad un universo poco o per nulla conosciuto.
Leggendo queste parole mi viene da pensare che l’esperienza leghista deve aver dato necessariamente delle risposte a delle domande presenti in un determinato territorio. Mi chiedo come fa un fenomeno come questo a prendere così campo, a riuscire a contaminare un elettorato che ora è vasto. Quali sono le domande della popolazione, specialmente quella bergamasca che tu hai conosciuto più a fondo, a cui Bossi e la Lega hanno saputo rispondere?
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Lynda Dematteo Partirei proprio dalle parole di uno dei fondatori della Lega, che durante un’intervista mi ha detto che la popolazione bergamasca si sentiva più disprezzata dei meridionali. Credo che la Lega abbia usato questo sentimento di essere stati a lungo disprezzati, abbia saputo gestirlo e ne abbia fatto politicamente quello che la Lega è. La questione del dialetto è centrale in questo: i bergamaschi si sentono disprezzati per il loro modo di parlare, vengono derisi per questo. È una tradizione che comincia con Arlecchino, che viaggiava per tutta Europa, mettendo in scena gli stereotipi di questa provincia italiana. Questo è stato messo in rilievo e usato con abilità dai rappresentanti leghisti. Penso che in Veneto la Lega sia più legata al mondo dell’impresa e dunque che la ribellione fiscale, ad esempio, sia per loro una cosa centrale, mentre per i bergamaschi lo è la questione del dialetto. Marco Cappuccini All’inizio Bossi annuncia infatti che parlerà solo in bergamasco. Cerca di stabilire una relazione particolare col proprio elettorato, poi abbandona il dialetto per rivolgersi a tutti, diventando espressione anche di Milano e di altre province lombarde. Lynda Dematteo I leghisti sono partiti fin da subito parlando dialetto nei consigli comunali dove venivano eletti; questo ha avuto un effetto dirompente, era sovversivo quando hanno iniziato a farlo fra la fine degli anni Ottanta ed inizio anni Novanta. Poco a poco Bossi si è reso conto che questo non bastava e che se voleva fare l’unione di tutti i movimenti autonomisti del Nord Italia bisognava andare oltre la questione linguistica e quindi è tornato all’italiano. Assai
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velocemente ha abbandonato questo tema per far valere una specificità politica più che linguistica anche se il linguaggio è rimasto assolutamente centrale. I leghisti hanno creato un nuovo linguaggio politico in quegli anni di ribellione, gli anni delle azioni del pool di Mani Pulite. Si sono distinti dagli uomini politici di potere parlando questo linguaggio viscerale, portando la rabbia della gente semplice, di quelli che avevano il sentimento di essere stati ingannati dai politici di professione per anni, in particolare delle province democristiane. Loro avevano sempre votato per le stesse persone e d’un colpo, quando è caduto il muro di Berlino non era più necessario votare democristiano in funzione anti-comunista. La minaccia rossa non c’era più. Tutto il sistema politico italiano in questo periodo tramonta, o meglio, crolla. Questo ha creato un vuoto e i leghisti si sono infilati in tale vuoto usando un linguaggio dirompente portatore della rabbia delle persone. Questo ha funzionato in pieno, a tal punto che sono arrivati a Milano solo con degli slogan. Parlo di idiozia non a caso, perché queste persone non avevano mai fatto politica, molto spesso provenivano dal mondo privato quindi non sapevano neanche come funzionasse un Comune. Non è un senso negativo, è che proprio non sapevano come fare. E questo piaceva alle persone, perché in un certo senso voleva dire che erano anche più “puliti”, non erano politici di professione. E all’inizio sono stati votati proprio per questo. Marco Cappuccini Quando i leghisti iniziano ad avere i primi posti in Parlamento entrano in contatto con la vecchia tradizione politica italiana ed è molto interessante l’approccio che Bossi ed i leghisti hanno nei confronti degli altri politici.
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A Bossi è concesso tutto e rimane nelle più alte sfere della politica e del potere, pur continuando a rilasciare frasi cariche di violenza. Come gli è stato permesso questo? Lynda Dematteo Non è vero che a Bossi è permesso dire tutto impunemente, anzi ha avuto talmente tanti problemi con la giustizia che ha finito per seguire Berlusconi nella sua crociata contro i giudici. I giornalisti hanno sempre usato un linguaggio ironico per descrivere il fenomeno Lega ed il personaggio di Bossi è stato prima di tutto creato proprio dai giornalisti italiani, in particolare Daniele Vimercati, che costruisce questa figura di uomo semplice, rozzo, che porta la rabbia delle classi popolari del Nord Italia, che lavorano e che sono stufe di pagare le tasse per gli altri. Bossi assume questo ruolo: la canottiera diventa simbolo di questo, in un certo senso. Marco Cappuccini Qual è stato il metodo che hai utilizzato per scrivere il libro, per conoscere profondamente il fenomeno Lega? Lynda Dematteo Credo di avere un punto di vista molto particolare perché sono francese, vengo da fuori e quindi porto uno sguardo “straniero” su questa realtà italiana che però ho studiato dall’interno, cosa che non tutti hanno fatto. Si è parlato tanto di Lega, senza però fare un’inchiesta in immersione come ho fatto io. Così, ho potuto osservare cose che sorprendono anche gli italiani. Questo fa la specificità del mio lavoro e del mio libro. Potrei raccontarvi tutto il mio percorso perché ormai da dieci anni lavoro sulla Lega Nord. Ho cominciato ad interessarmi a questo partito nel 1997 quando ero studentessa Erasmus. È successa una cosa
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particolare che è rimasta in testa a tutti, immagino: l’assalto al campanile di Venezia. È una cosa che mi ha scioccata e incuriosita, perché non capivo bene come mai una parte dell’Italia volesse staccarsi dal resto del paese. Volevo capire perché. Sono tornata in Italia un anno dopo per il Master in antropologia e ho deciso di studiare, sul campo, proprio il giuramento di Pontida. Tutto parte da qui, perché il giuramento di Pontida è un vecchio simbolo nazionale, risorgimentale, citato da Mazzini e da Garibaldi. I leghisti ne fanno una lettura che non è quella originaria. Il giuramento di Pontida risale alla tradizione neoguelfa, al momento della riconciliazione tra i cattolici rimasti fuori dalla vita politica nazionale e lo Stato italiano. I leghisti ne capovolgono il simbolismo originario per trasformarlo in un patto contro Roma. L’esatto contrario del significato attribuito dalla tradizione neoguelfa che vedeva in Roma la sede del papato. I cattolici bergamaschi vanno a Pontida accettando finalmente di appartenere a questa nazione italiana e Bossi ritorna proprio a Pontida per ribaltare tutto. Per questo credo che la Lega Nord non sia un partito autonomista come altri, come possono essere il partito nazionale bretone, il partito autonomista catalano o quello alsaziano. La Lega è una cosa diversa, rimanda piuttosto alla volontà di tornare indietro nella storia, di tornare agli antichi stati pre-unitari. Marco Cappuccini In una parte del tuo libro dici che Bossi cavalca il razzismo anche perché glielo suggerisce direttamente un giornalista, promettendogli che farà articoli su di lui se si proporrà come il grande razzista. Una certa fase politica non dà peso a quello che fa Bossi, cerca di ignorarlo. Ci sono stati quindi degli errori sia da parte degli organi di
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stampa che degli avversari politici. Leggendo questo libro mi sono trovato in difetto, come italiano, perché non ho saputo reagire ad una determinata dialettica a cui non ero abituato. Quali sono stati gli errori più grossolani della classe politica nei confronti del fenomeno Lega? Lynda Dematteo Non so se sono errori o, piuttosto, una difficoltà a confrontarsi con questa realtà. Poco dopo aver fatto la mia inchiesta nella bergamasca, dopo aver discusso la mia tesi di dottorato, sono andata a Roma perché volevo fare un’osservazione in Parlamento. A Roma ho parlato con giornalisti, politici ed ho capito che la realtà leghista proprio non la conoscevano. Era una cosa totalmente estranea ai romani. Secondo me vedevano arrivare questi eletti del Nord Italia e li guardavano chiedendosi da dove uscissero. C’era anche poco interesse, alla fine, perché non veniva percepito come un problema da loro, era il problema del Nord e poi c’era tanto disprezzo, che veniva anche sfruttato dai leghisti veneti. Marco Cappuccini Come viene visto all’ estero questo movimento? Lynda Dematteo Direi che la Lega è qualcosa di molto particolare, perché è un partito etno-nazionalista, può sembrare un partito autonomista come gli altri e insieme è un partito populista; ci sono i due aspetti e questo ne fa una cosa assai particolare. Il partito a cui assomiglia di più la Lega Nord è il Vlaamse Belang in Fiandra, che può essere anche molto più radicale. La Lega guarda con attenzione a ciò che sta succedendo in Belgio. I francesi lo vedono così, credo che ne percepiscano la pericolosità. Il paragone che
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a noi viene subito in mente è quello con il Front National, perché è un partito di protesta che ha un discorso xenofobo molto violento. Marco Cappuccini Immagino che nel tuo percorso tu abbia avuto modo di chiedere e scoprire cosa vuol dire vivere in un paese leghista e non essere leghista. Lynda Dematteo Penso che in alcuni paesi della bergamasca, dove la Lega ottiene il 70% dei voti, ci sia un consenso larghissimo e che le persone che non sono leghiste vivano male questa realtà. Direi che c’è timore, perché i leghisti hanno comunque un modo di fare spesso sgradevole, c’è un discorso violento e riescono ad intimidire le persone; la gente non osa più dire niente. C’è silenzio da parte degli altri. Spesso, quando ho cercato di fare parlare le persone, ho avuto un rifiuto come risposta. Marco Cappuccini I discorsi della Lega sono pieni di violenza ma qual è il rapporto reale con essa? Lynda Dematteo Direi che la violenza leghista è essenzialmente una violenza verbale, perché all’interno del partito c’è un controllo di quella che potrebbe essere violenza fisica. I leghisti sono molto attenti a come si comportano i militanti, l’ho visto seguendoli nelle manifestazioni. C’è uno stretto controllo della violenza ed è merito loro perché con i discorsi violenti che fanno possono anche attrarre persone disposte a menare. Hanno sempre cercato di mandare via dal partito i personaggi pericolosi perché fin da subito hanno capito che gli episodi di violenza avrebbero potuto se-
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gnare la loro fine. Fin da subito hanno messo nella struttura personaggi in grado di gestirla. Marco Cappuccini Nella Lega c’è un forte maschilismo ostentato, con la valorizzazione dell’uomo e del padre di famiglia, ma nono ci sono quasi mai figure femminili. Lynda Dematteo Quello che caratterizza l’ideologia leghista in questo campo è proprio una concezione molto stereotipata dei ruoli sessuali ed anche le donne difendono una concezione della famiglia tradizionale. Questo ci aiuta anche a capire il modo il cui la Lega vede i rapporti con gli stranieri. Il mondo leghista è un mondo di macchiette, funziona con gli stereotipi, la realtà viene impoverita nei discorsi leghisti. L’uomo leghista ostenta una virilità un po’ grezza che però non è la virilità del fascismo; mentre il fascismo esaltava un’immagine dell’uomo che era quella della mascolinità borghese e della cultura fisica, nel leghismo c’è una decostruzione dell’immagine maschile borghese ed il riferimento alla fisicità dell’uomo del popolo. Marco Cappuccini Tu indaghi anche il rapporto tra uomo leghista e uomo della cerchia berlusconiana, che sembrano in antitesi di primo acchito. Il milanese cittadino ha sempre deriso il bergamasco montanaro, eppure poi alla fine si sono trovati riuniti dall’alleanza Bossi-Berlusconi. Lynda Dematteo Credo che Bossi abbia cercato di conquistare Milano agli inizi degli anni Novanta ma la cosa non ha funzionato, perché l’incontro con la borghesia milanese non è avvenuto. Si sono resi conto che il personaggio a loro non conveniva, poi è sceso in campo Berlusconi che all’epo-
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ca riconosceva anche pubblicamente di condividere con la Lega tanti temi. Questa affinità c’è stata all’inizio, poi il rapporto tra Berlusconi e Bossi che è assai particolare, non è sempre stato felice. C’è stata una rottura nel 1995 quando Bossi decide di uscire dal governo e far cadere Berlusconi e per diversi anni l’ha infamato in tutti i modi. Io ne ho fatto il mio campo di ricerca proprio nel periodo in cui Bossi infamava Berlusconi e nel giro di un anno un anno e mezzo si sono alleati. È stato sconvolgente per me e anche per i suoi militanti! Bisogna ricordare il contesto di questa alleanza: la Lega è tornata a Roma con Berlusconi perché la dirigenza si è resa conto che la via dell’isolamento padano era uno scacco. Si sono resi conto che la Padania non funzionava, era inutile intraprendere quella via, perché gli italiani del Nord non li seguivano sulla via dell’indipendenza. Nel 1999 hanno ottenuto un risultato catastrofico ed hanno deciso di tornare a Roma con Silvio Berlusconi, cercando di negoziare quello che potevano in termini di autonomia e di federalismo fiscale. Si sono fatti più pragmatici inserendosi ovunque, nelle istituzioni, nei CDA delle banche; insomma, hanno cercato di prendere il potere al Nord. Da questo punto di vista c’è una differenza tra la Lega degli anni Novanta e quella degli anni Duemila che ha dimenticato i suoi ideali di purezza, facendo sempre gli stessi discorsi contro Roma ladrona perché nei discorsi, Bossi, non si è evoluto nel frattempo. Marco Cappuccini Quanto è cambiato il personaggio Bossi al momento della malattia? Bossi ha fatto di sé l’uomo forte, virile e ha fatto della forza fisica una bandiera. Poi la malattia l’ha colpito, cambiandone radicalmente l’immagine. La voce di Bossi, rauca e profonda, è sempre stata capace
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di affascinare, ammaliare le folle e adesso si è persa completamente. Lynda Dematteo Io sono andata ad ascoltarlo diverse volte a Pontida e penso che la sua seduzione parta proprio dalla voce, al di là di quello che può dire. La voce roca e profonda che porta la rabbia della gente è centrale nel suo carisma. Dopo l’ictus ovviamente questa voce si è spenta e questo è fonte di tristezza per i leghisti che sentono proprio di aver perso qualcosa. C’è una grande tristezza, ma Bossi resta comunque il loro centro. Oltre alla Padania, ritengo che sia Bossi la fonte dell’identità di questo movimento perché le persone che votano per lui si identificano con lui, si riconoscono in lui. C’è un legame profondo, per cui lui può fare tutto e rimarrà sempre il duro e puro per loro. Hanno bisogno di salvare sempre questa figura e per questo accettano le purghe interne al partito. Marco Cappuccini Qual è il futuro della Lega, dopo tutti questi scossoni, dopo che le carte hanno dimostrato che duri lo sono meno, puri probabilmente non lo sono mai stati? C’è ancora un futuro per questo movimento oppure qualcosa si è rotto ed è difficile da rimettere insieme? Lynda Dematteo Credo che ci sia un futuro. Credo che adesso si sia arrivati probabilmente alla fine del percorso politico di Bossi e che i leghisti debbano gestire la transizione, che è un problema che si pone da quando ha avuto l’ictus. Sono stati in difficoltà anche per gestire il periodo della malattia e quindi dell’assenza. Credo che il modo in cui l’hanno gestito sia stato catastrofico, tutto in mano alla famiglia, alla moglie ed agli amici più vicini. Non possono fare a meno
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di questa figura che è fonte dell’identità del movimento e che sarà sempre lì, anche solo come totem. Hanno bisogno adesso anche di una direzione politica diversa ed hanno pensato, secondo me, di far entrare in politica il figlio Renzo, che è quello che assomiglia di più al padre alla stessa età. Gli somiglia anche fisicamente, elemento da non sottovalutare, vista l’importanza anche della dimensione fisica nel legame con i militanti e nell’immaginario leghista. Pubblico Vorrei chiederle come ha fatto a gestire l’atteggiamento dei leghisti. Lynda Dematteo C’è una questione di rovesciamento perché, quando uno varca la soglia di una sede leghista, si confronta con discorsi che rovesciano tutto. I leghisti sono convinti di essere loro le vittime della xenofobia. Si pongono sempre come vittime nelle interviste e ad un certo punto anche io non capivo più niente! Sono arrivata a chiedermi se la Padania non fosse realmente esistita, se loro non fossero stati schiacciati per anni e anni dall’Italia! È stato molto destabilizzante perché non essendo italiana, non avendo un background culturale così ampio per me era difficile. All’inizio vedevo la Lega come un partito autonomista, con delle caratteristiche particolari ma non vedevo bene le sue specificità; dunque sono riuscita a capire quello che stava succedendo, questo gioco sul rovescio che era fatto coscientemente da alcuni esponenti leghisti, con la volontà di imbrogliare la gente. C’è poi una forza seduttiva perché dall’inversione nasce anche il comico e questa è una cosa molto particolare. È una cosa che si ritrova nell’esperienza del carnevale, nel suo rito nella tradizione europea. Ma non soltanto, perché que-
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sto modo di fare, di propagandare è stato anche teorizzato dall’estrema destra francese all’inizio degli anni Novanta. Per me la cosa più difficile erano la violenza verbale, i discorsi xenofobi. Mi ricordo pomeriggi sul campo di Pontida: le persone ci vanno per sentire insultare gli stranieri e gli avversari politici, non c’è elaborazione politica ma solo un continuo di insulti. Non è un caso se Borghezio è quello che ha più successo tra gli esponenti leghisti, perché è quello che ha il discorso più violento! Le persone vanno ad ascoltare i leghisti per questo, perché si sfogano. Alla fine uno si abitua anche a questo. E fa paura. Pubblico C’è un parallelismo tra l’atteggiamento dei leghisti e la cultura? Lynda Dematteo In questo partito c’è un anti-intellettualismo viscerale. Credo che ci sia una strategia ben precisa: invece di far portare la ribellione della gente semplice contro quelli che sono più ricchi, la fanno portare contro quelli che sono più sapienti. È un modo per dirottare la ribellione popolare, secondo me. Pubblico Lei viene da un paese in cui nel 2002 Chirac è andato al ballottaggio con Le Pen e c’è stata una chiamata alle armi da parte di Chirac e di Jospin per non votare Le Pen; lo ricordo bene per la differenza col nostro sistema politico in cui per anni, da quando è nata, la Lega è stata corteggiata da chiunque, non solo da Berlusconi ma anche dalla sinistra stessa. Quanto incide la responsabilità della politica italiana su un movimento che va a braccetto con Marie Le Pen da tanto, tanto tempo, soprattutto anche in sede europea?
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Lynda Dematteo Di fatto, gli italiani ed i francesi hanno assunto due posizioni molto diverse rispetto all’estrema destra. I francesi, sia la sinistra che la destra, hanno deciso di tenere Marie Le Pen alla larga e suo padre ancora di più, perché il Front National in Francia ha una storia molto pesante. Tra i suoi fondatori ci sono ex del governo di Vichy, dunque c’è un filo storico che ci lega alla collaborazione con i tedeschi e anche a quello che è successo in Algeria. Tutti i francesi conoscono questa storia e sanno che dietro c’è qualcosa che rimanda alle pagine più nere della nostra storia. È per questo che abbiamo il bisogno di tenere il Front National alla larga e non abbiamo neanche voglia di vedere cosa c’è dietro. Ad un certo punto, però, bisognerà farlo perché non possiamo più far finta di niente se più del 20% della popolazione francese vota per Marie Le Pen.
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Intervista di Irene Grossi
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Essersi svegliati alla vita cosciente quando già l’Italia era l’Italia di Berlusconi. Questa non è una cosa né bella né brutta, è una cosa vera. Non è che uno sceglie il tempo in cui nasce ma quello che poi diventa, viene definito dai contorni sfumati del tempo in cui cresce. Mi divertiva vedere come e se ciò che viviamo pubblicamente, e quindi anche politicamente, ha un rapporto con il nostro privato.
Paolo Di Paolo è nato nel 1983 a Roma. Nel 2003 è stato finalista al Premio Italo Calvino per l’inedito. Ha pubblicato libri-intervista con scrittori italiani come Antonio Debenedetti, Raffaele La Capria e Dacia Maraini. È autore di Ogni viaggio è un romanzo. Libri, partenze, arrivi (2007) e di Raccontami la notte in cui sono nato (2008). Ha lavorato anche per la televisione e per il teatro: il respiro leggero dell’Abruzzo (2001), scritto per Franca Valeri; L’innocenza dei postini, messo in scena al Napoli Teatro Festival Italia 2010.
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Irene Grossi Chi ha oggi 25-30 anni ha già, se vogliamo dire, molte delle responsabilità per la situazione che stiamo vivendo? Paolo Di Paolo Diciamo che c’è una soglia anagrafica che ti mette a riparo dalla responsabilità ma questa soglia anagrafica non può protrarsi oltre un certo limite. Nel momento in cui senti, avendo 18 o 20 anni, che il presente che sei costretto ad abitare non lo hai deciso tu, come non hai deciso il luogo in cui nasci, i genitori da cui nasci, puoi sentire questo senso di oppressione che ti spinge anche ad una ribellione. Però, è pure vero che nel momento in cui superi questa soglia devi sentirti non corresponsabile ma parte in causa rispetto ad un’ipotesi di cambiamento. È vero che molti hanno interpretato il titolo del mio romanzo come una petizione, se vuoi moralistica di chi si volta indietro e chiede conto alla generazione dei padri, però è pure vero che io non ho inserito il punto interrogativo, proprio per non fermarmi alla domanda, ma contemplare un orizzonte in cui questo “dove eravate tutti” diventi “dove siamo” e anche “dove saremo”. Irene Grossi Volevo parlare un po’ di te, del tuo profilo di scrittore, che è un profilo da scrittore vero e proprio. Hai esplorato tutti gli ambiti della scrittura, dai romanzi alle videointerviste con nomi importantissimi della letteratura italiana, da Dacia Maraini ad Andrea Camilleri, e hai collaborato con autori importanti quali Tabucchi. Hai anche scritto opere teatrali e sei autore di programmi televisivi. A parte farti i complimenti perché hai fatto tutto questo prima di aver compiuto 30 anni, volevo chiederti qual è la cosa che
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ti appassiona di più di tutti questi progetti che porti avanti e che cosa credi che manchi a questo curriculum notevole, se pensi che manchi qualcosa. Paolo Di Paolo Non ho mai pensato che la scrittura potesse diventare un mestiere e in realtà anche adesso, che comunque fa parte del mio orizzonte di vita dal punto di vista lavorativo, pensare alla scrittura come mestiere mi spaventa un po’. Quello che mi colpisce nella professione di scrittore è che sei in balia di te stesso fino in fondo, come forse in ogni professione artistica, e da un giorno all’altro potresti trovarti a non avere più niente da scrivere. In quest’ultimo periodo sto lavorando alla vita di uno scrittore che è quasi impossibile da ricostruire, quella di Salinger, l’autore de Il giovane Holden. Che cosa c’è di misterioso in quella vita? Il fatto che a un certo punto Salinger si è sottratto al suo stesso mestiere, è come scomparso. Per far capire qual è la mia relazione con tutto questo, faccio riferimento anche all’esperienza dello scrittore italiano Goffredo Parise. È cristallina questa esperienza perché lui prova quasi programmaticamente a scrivere una serie di racconti che poi finiscono in un libro che si chiama Sillabari, dedicati ciascuno ad un sentimento, amicizia, amore, oppure a qualcosa di immateriale come il bacio o la felicità. Ogni racconto ha un titolo che deve poi andare a comporre una sorta di alfabeto, di sillabario appunto. Parise si ferma alla lettera S. Nella prefazione scrive “Avrei voluto arrivare alla lettera Z, questo era il mio progetto, ma a un certo punto la poesia mi ha abbandonato”. Ho trovato questo di una straordinaria sincerità, come a dire “non sono uno che si può mettere qua con degli
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attrezzi, degli strumenti a costruire delle storie. Le storie devono anche un po’ abitarmi, devono venirmi incontro”. Irene Grossi Entriamo dentro al romanzo che è la storia di Italo Tramontana, un bambino che diventa ragazzo e poi uomo, dalla metà degli anni Ottanta in poi. La storia occupa un ruolo molto importante nel libro, sia perché Italo vuole intraprendere gli studi di storia all’università, ma anche perché è una sorta di viaggio della memoria, di ricordo dei fatti storici più importanti che scandiscono la vita di Italo. Perché il libro ci pone di fronte a un forte bisogno di ricordo? E perché, tra i tanti fatti accaduti in quel periodo, hai deciso di sceglierne proprio alcuni e non altri? Paolo Di Paolo Tutto nasceva dalla volontà di capire se è possibile archiviare una memoria recente. Mi chiedevo fino a che punto potesse essere accettabile occuparsi di una zona del passato recente e considerarla storicizzabile. Qual è la soglia per cui se mi occupo di qualcosa accaduto cinque anni fa casco nella cronaca quando, invece, la mia volontà è quella di storicizzare? Allora mi sono inventato un personaggio che va dal professore e gli chiede di potersi laureare sull’Italia berlusconiana. A mio parere, un professore standard nicchia di fronte a questo dicendo al proprio studente che rischierebbe di andare ad impelagarsi in uno spazio ancora troppo inquinato dalle tensioni del presente. Al giovane Italo Tramontana questa tesi non viene rifiutata, però il professore prende tempo e lo manda dall’assistente dicendogli che magari assieme troveranno un argomento di tesi carino. Mi divertiva il fatto che il protagonista volesse in modo ostinato fare ordine in ciò che aveva vissuto e provare a guardare,
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dall’alto e da dopo, come fa uno storico, un qualcosa che invece apparteneva alla sua vita, alla sua biografia. Quando però questo libro è uscito è stato letto come un libro su Berlusconi, ma io non volevo scrivere un libro su di lui. Ero partito semplicemente da un elemento che è comune a molti nati negli anni Ottanta o a inizio anni Novanta: essersi svegliati alla vita cosciente quando già l’Italia era l’Italia di Berlusconi. Questa, come faccio dire al personaggio, non è una cosa né bella né brutta, è una cosa vera. Non è che uno sceglie il tempo in cui nasce ma quello che poi diventa, viene definito dai contorni sfumati del tempo in cui cresce. Mi divertiva vedere come e se ciò che viviamo pubblicamente, e quindi anche politicamente, ha un rapporto con il nostro privato. Sono convinto di sì, sono convinto che la storia pubblica sia come l’acqua che infiltra il pavimento di parquet: c’è un pavimento, che è la nostra vita, e c’è quest’acqua che comunque crea delle infiltrazioni. Che rapporto c’è tra il parquet e le infiltrazioni? Nessuno, almeno direttamente; è un accidente che questo parquet sia infiltrato dall’acqua, però quell’infiltrazione gonfia il parquet, lo scolla e quindi lo modifica. Penso che ricordare qualcosa della nostra vita privata abbia sempre un retaggio, uno sfondo, un inquinamento acustico che riguarda la storia che chiamiamo pubblica. Il libro, quindi, non voleva essere un libro su Berlusconi, ma un libro sul nostro modo di pensare la storia o, meglio ancora, quel tratto di storia che abbiamo attraversato e su quanto è falsato dal nostro sguardo, quanto è impossibile per chi ha vissuto qualcosa prenderne le distanze totalmente, quanto in realtà è impotenza e sempre un fallimento il lavoro dello storico. Amo molto la storia e la storiografia,
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sono certo che uno storico mi smentirebbe immediatamente ma sono convinto che la storia ed il lavoro dello storico siano nient’altro che un’approssimazione. Non potremmo mai scendere nella verità di un qualcosa che nel momento in cui la enuncio è già esaurita, svanita, quindi il passato è qualcosa di inconoscibile nella sua profondità. Alberto Moravia addirittura arrivava a un paradosso: diceva che il passato non esiste e lo ripeteva, veramente come una sorta di mantra. A Cesare Garboli che gliene chiese il perché, Moravia rispose che il passato non esiste come luogo, che non è uno spazio al quale è possibile tornare, quello che è stato detto un attimo prima è passato e non esiste più, in qualche misura. Se ne ha una proiezione che però è transitoria, fragile e labile, soprattutto. In questa approssimazione alla verità storica c’è una volontà che viviamo anche nei nostri rapporti privati. Noi pretendiamo che gli altri ci raccontino la loro storia perché in qualche modo ci aiutino a capire la nostra, a che punto siamo sulla linea del tempo. Quando io ho collocato mio nonno, mia nonna, mia madre, mio padre, ho cominciato a capirli meglio perché li ho messi dentro una storia che non è soltanto la loro, ma è una storia più grande. La nostra volontà di essere storici è però sempre sbarrata da un muro, il muro che divide noi e il passato, noi e le scelte fatte da altri, noi e addirittura le nostre scelte dettate non so da quale contingenza del momento. Avrei dovuto scrivere un saggio su questa cosa e invece, alleggerendo molto i contenuti, l’ho scritto in forma di romanzo. Un romanzo su come sia impossibile fidarsi della storia mentre dobbiamo, invece, fidarci di bagliori, di qualcosa che non sarà mai del tutto preciso, attendibile e univoco.
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Irene Grossi Italo con questa tesi di laurea ci dorme, è diventata la sua ossessione, non ne vuole più fare una tesi ma un libro, metterci un po’ anche della sua vita, e c’è un momento, nel romanzo, in cui parla di una ragazza, che a lui piace molto e con la quale ha un rapporto molto particolare. Le dice che gli piacerebbe metterla nella sua tesi, scrivere anche di lei. Lei si arrabbia, si indispone, perché pensa che mettere la vita vera nei libri sia un atto di cannibalismo, un atto crudele, come rubare la vita a qualcuno. C’è un po’ di cannibalismo nel tuo romanzo o la pensi come la ragazza che piace a Italo? C’è qualcosa di te nel tuo protagonista? Paolo Di Paolo C’è molto e anche se non è un alter ego è comunque molto vicino a me come sensazioni, come modo di guardare le cose. Forse la mia storia non è esattamente andata come va a Italo per cui lui è, a tutti gli effetti, un personaggio, però, come faccio sempre nelle cose che scrivo, ho operato un prestito dal vissuto. Ho prestato a Italo e ai personaggi che ha intorno dei pezzi di vissuto, perché questa mi sembra l’unica garanzia di autenticità, perché se devo raccontare anche solo una carezza, fatta da due personaggi completamente partoriti dalla mia fantasia, e non ho mai provato che cosa significa riceverla, al lettore risulterà fredda. Per ogni cosa che tu racconti dovresti operare un prestito di vissuto, al punto che dovresti poter pensare per un attimo che l’unico libro possibile sia quello che scrivi alla fine della tua vita, in modo che tutto quello che puoi sapere sull’esistenza lo presti ai tuoi personaggi. In realtà si ha voglia di scrivere libri ben prima! Un mio libro precedente, Questa lontananza così vicina, è proprio la storia biografica di un’insegnante che è morta molto presto e di cui poi io ho ricostruito la vicenda
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umana. È vero che a volte ti senti di violare un’intimità, di andare oltre, perché tu schiacci dentro a un libro qualcosa che è vero, qualcosa che appartiene al privato di qualcuno. Ci sono dei casi paradossali e anche dolorosi su questo; mi sono occupato a lungo di Lalla Romano, una scrittrice del Novecento che ha scritto un libro su suo figlio che si intitola Le parole tra noi leggere. È stato pubblicato nel 1969 ed è stato un grande successo. Quando il figlio lesse quello che la madre aveva scritto di lui le tolse la parola perché disse che gli sembrava che la madre avesse violato la sua intimità. A chi chiese alla Romano se, sapendo che avrebbe perso il rapporto con il figlio, avrebbe comunque scritto il libro lei rispose “Sì, perché scrivere è la mia maniera di essere e quindi anche la mia maniera di capire”. A me sembra una risposta molto crudele. Mi rendo conto che quando si fa autobiografia si rischia sempre di scottare o di essere scottato dalla verità dell’esistente. In Dove eravate tutti quello non è mio padre, Italo non sono io fino in fondo, però tantissime cose ci sono. Anche piccoli particolari, come i ritagli di giornale che io inserisco; erano giornali che avevo ritagliato negli anni, che avevo conservato e che poi sono finiti nel libro. Irene Grossi Qual è secondo te il peso che gli anni di governo Berlusconi portano nella vita privata di Italo, nei ragazzi come Italo e nei ragazzi come te? Dal libro non si capisce se la vedi come una cosa positiva o negativa e quale effetto può avere avuto. Lo prendi come dato di fatto, come constatazione. Paolo Di Paolo L’unica esperienza fatta non sotto il governo Berlusconi è il primo bacio, che era sotto il gover-
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no Prodi. Dopodiché, io dico che non c’è stato nient’altro perché i governi di centrosinistra cadevano così in fretta che volendo fare esperienze decisive non facevi in tempo. Adesso uno ci ride sopra, ma in realtà fa anche un po’ piangere. Noi per diciotto anni abbiamo quasi tutti i giorni parlato e nominato Berlusconi, che lo amassimo o che lo odiassimo è stato impossibile non parlarne. Adesso non ce ne importa più niente di sapere se ho fatto la comunione mentre c’era Berlusconi perché per fortuna siamo fuori da quella cosa lì, ma in realtà quel Berlusconi lì è diventato metafora di se stesso, cioè è diventato, estendendosi per via letteraria, lo spazio politico dentro cui ciascuno di noi è cresciuto. Una volta, mentre raccontavo queste cose, un signore sessantenne mi chiese se pensassi fosse stato divertente invece, crescere nell’Italia di Andreotti o nell’Italia del terrorismo. Io, forse ingenuamente, ho risposto che non me lo ero mai chiesto e lui mi ha detto che in realtà questa non è stata la peggior Italia possibile, ma che ce ne sono state altre e che comunque dentro quest’Italia c’è stato anche uno spazio di resistenza. La risposta più autentica che si può dare alla domanda “dove eravate”, è che io so esattamente dove ero e dove sono e lo so con grande consapevolezza al punto da potermi sentire difeso da qualcosa che magari non condividevo. Come dire che in fondo c’è quell’infiltrazione cui accennavo prima però posso arrivare al paradosso di dire che ho voluto un po’ bene a questo tempo e penso di non essere il solo, perché pure se c’era Berlusconi al governo dentro quello spazio di tempo le persone hanno vissuto anche delle cose belle, straordinarie. Irene Grossi Parliamo del rapporto di Italo con il padre. Italo lo ama molto ma è anche molto deluso dalla mancanza
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di una sua guida. Gli rimprovera di non averlo aiutato a formarsi una coscienza politica, di non avergli dato una mano a districarsi fra i fatti del mondo. Quella che racconti tu è una storia che però assomiglia a molte storie reali, perché si sono create situazioni in cui genitori davanti a figli bisognosi di una guida, non hanno parole, forse per mancanza di opinione o per pigrizia o superficialità. E non ci si rende conto che in realtà è importante. Paolo Di Paolo In realtà ho provato soltanto a raccontare una storia, una delle tante storie possibili in cui c’è un figlio che pretende dal padre quello che non ha ricevuto, però poi si rende conto che, in fondo, quello che noi abbiamo dai nostri genitori è anche ciò che ci fanno mancare. Questa mancanza è essa stessa una ricchezza insostituibile. Forse la responsabilità sta nel mezzo, ma se c’è una cosa che è mancata in questa staffetta generazionale, tra la generazione nostra e quella dei nostri padri, è qualcosa che mettesse al riparo dal disincanto. A me capita di andare nelle scuole, incontrare ragazzi di sedici, diciassette anni e sentirli parlare con un cinismo che è disarmante. Parlano non solo con la voce dei padri, ma vanno anche oltre perché sentono che niente è destinato a cambiare. L’unica soluzione alla fine è la fuga, che può essere non solo fisica ma anche mentale, un assentarsi dalla propria responsabilità. La mia generazione è una generazione profondamente disincantata, il disincanto dei padri ed il disincanto dei figli hanno generato qualcosa che si avvicina pericolosamente al cinismo. È l’eredità peggiore di tutti questi anni di berlusconismo.
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Irene Grossi Come è stato lavorare con Tabucchi? Se vuoi dire qualcosa su di lui. Paolo Di Paolo La sua morte è una delle cose che più mi hanno turbato nell’ultimo periodo, perché sapevo che stava male, ma non immaginavo che sarebbe accaduto così in fretta. Per me negli ultimi tre, quattro anni è stato una presenza molto, molto importante. Ho lavorato con lui a un libro che si chiama Viaggi e altri viaggi. Lui ha viaggiato moltissimo in tutto il mondo ed ha avuto l’esigenza di sistemare i suoi scritti di viaggio. L’abbiamo fatto un po’ a Parigi, un po’ a Lisbona, un po’ a Vecchiano. Tabucchi è stato per me una presenza a tal punto decisiva, ancora prima di conoscerlo, che se non avessi letto alcuni dei suoi libri forse non avrei cominciato a scrivere. Soprattutto ho imparato da lui delle cose che non aveva deciso di insegnarmi. Poteva capitare che lui stesse finendo di cucinare, perché si dilettava anche in questo, che io fossi al computer e che mi dovesse dettare qualcosa, un piccolo cambiamento ed invece veniva fuori un racconto, lo dettava e io rimanevo sconvolto perché indicava anche la punteggiatura, tanto che mi dicevo: “Questo racconto lo ha già scritto in testa per dirlo così bene, senza tornare indietro, senza esitazioni”. Ho saputo dal figlio che negli ultimi giorni Tabucchi, ricoverato in una clinica a Lisbona, aveva manifestato il bisogno di dettargli un racconto. E lo ha dettato tutto, si toglieva ogni tanto la mascherina del respiratore e dettava. Questo racconto adesso esiste, anche se ancora inedito. È la storia di una donna che si trova in un salone di bellezza, a Parigi. Non c’è nessuno intorno a lei ed a un certo punto lei si guarda allo specchio e le sembra che l’immagine che lei produce non
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sia esattamente lei, bensì un riflesso. Qualcosa che prescinde da noi, dalla nostra verità. Una possibile immagine. Le luci si spengono e lei uscendo dal salone di bellezza dice addio all’immagine che è rimasta nello specchio. Dice “Io me ne vado, tu resti”. Questo suo ultimo scritto fa pensare che in fondo sia una riflessione su quello che la scrittura dice di noi. È come l’immagine che resta nello specchio. Io me ne vado, me ne vado nella mia complessità, nella mia imprevedibilità e tu resti. È soltanto un riflesso, un riflesso fondamentale ma un riflesso, no? E lui questa cosa l’ha dettata sul letto di morte, perché sarebbe morto poi dopo due giorni. Resti sconvolto perché, evidentemente la scrittura, come dicevo all’inizio, non è una cosa che fai per guadagnare. È una cosa che ti possiede, è una cosa che fa parte di te come l’aria che respiri e non potresti pensarti senza scrittura. Pubblico Quanto c’è di Tabucchi in te? Paolo Di Paolo I miei primi racconti sono usciti con una prefazione di Dacia Maraini. Io, allora, conoscevo Tabucchi come scrittore ma non come persona e lei mi disse che la mia scrittura glielo ricordava molto. Allora ho capito che ero stato molto influenzato da lui ma non ci avevo mai pensato. Credo che una cosa che ha molto sedimentato nella mia scrittura sia il senso del tempo, che nei libri di Tabucchi è l’ossessione di tutti i personaggi ed anche dell’autore. Tempo che si accorcia, si dilata. Non a caso una delle sue ultime raccolte s’intitola Il tempo invecchia in fretta. A proposito, in essa è contenuto un racconto che vi invito a leggere, I morti a tavola. Tabucchi una volta mi disse: “Sai, a volte i morti sono più vivi dei vivi perché vengono a visitarci, hanno bisogno di
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parlarci, ci dicono delle cose e ce le dicono nei momenti più impensati. Una volta mi trovavo in un hotel di Singapore, nel posto più lontano che conoscevo da casa mia, da Vecchiano, e un mio zio di Lucca è venuto da me per sussurrarmi una cosa all’orecchio. Di notte. Ma è mai possibile che sia dovuto venire fino a Singapore? Perché non me l’ha detta quando stavo a Pisa, che era anche più vicino?”. Scherzava, però stava dicendo che i morti hanno bisogno, come i cetacei, di un’acqua acusticamente pulita perché altrimenti noi vivi non riusciamo a sentire il loro sonar.
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Paolo Roversi e Marco Vichi
Il giallo del Mercoledì giallo
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Intervista di Leonardo Sacchetti
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Il piacere della scrittura è quello di cercare dei modi perché alla fine tutto torni e che, quindi, l’assassino sia lui, però cercando in tutti i modi di far credere che sia stato un altro. È quella la sfida con il lettore, è per quello che leggiamo i gialli.
La parte poliziesca dei miei romanzi è talmente minima che mi serve solo come pilota; in realtà, fino a che non è finito il romanzo non so cosa contiene e questo è il mio massimo divertimento.
Paolo Roversi È nato nel 1975 ed è uno scrittore, giornalista e sceneggiatore italiano. Studioso di Charles Bukowski, a cui ha dedicato tre libri, è un importante giallista, uno degli esponenti del cosiddetto noir metropolitano. Dirige il web press e casa editrice digitale MilanoNera, sito dedicato interamente alla letteratura gialla. Ha collaborato con riviste e giornali come « Corriere della Sera», «Rolling Stone», «Diario», «Detective Magazine». Vive a Milano e i suoi romanzi sono tradotti in Spagna, Francia, Germania e Stati Uniti. Marco Vichi È nato nel 1957 a Firenze e vive nel Chianti. È autore di testi teatrali, racconti e romanzi. Nel 2002, con Il Commissario Bordelli, ha fatto la sua prima apparizione l’amatissimo personaggio del commissario, protagonista di una serie di polizieschi ambientati nella Firenze degli anni sessanta. Nel 2009 vince il Premio Scerbanenco con il romanzo Morte a Firenze.
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Leonardo Sacchetti L’idea di presentare insieme Paolo Roversi e Marco Vichi, due autori di gialli molto diversi tra loro, è legata alla volontà di pensare a come due scrittori possano raccontare le città di oggi, ma anche quelle dei nostri ricordi perché entrambi hanno fatto un’operazione particolare, raccontando Firenze e Milano nel passato, in epoche diverse. Partirei da Paolo Roversi di cui di recente ho letto Milano Criminale e sono rimasto colpito dall’ amore per la città che nel libro è raccontata in un momento molto violento della sua storia ma che, in ogni caso, non riesce a scalfire questa passione. Come nasce il tuo amore per Milano? Paolo Roversi Io non sono di Milano ma vivo lì da 12 anni. È una città che all’inizio è respingente, non ti accoglie bene, nessuno ti saluta e io, venendo dalla provincia, avevo altri tempi e altri modi. Però, è una città che alla fine ti accetta. Sono arrivato a Milano con l’idea di cercare la mia occasione e devo dire che l’ho trovata. Quando all’inizio a Milano mi sono sentito respinto, ad aiutarmi a scoprirla è stata la letteratura, sono stati i libri di Giorgio Scerbanenco. Mi immaginavo il “Piccolo hotel per sadici” che è un hotel in Piazza Duca d’Aosta; mi immaginavo questa città piena di nebbia; mi immaginavo l’ispettore Duca Lamberti, protagonista principale dei libri di Scerbanenco con la macchina verde oliva della polizia, con Mascaranti che gli faceva da autista. A Milano c’è stata una cosa importante, quella che nel secondo dopoguerra veniva chiamata la Ligera, la malavita milanese, quella che era leggera, quella che rubava per fame. Se vogliamo era una malavita romantica e con essa ed alcuni
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dei suoi personaggi, che poi hanno ispirato questo romanzo, sono venuto in contatto. I primi sono quelli che, nel 1958, si sono inventati di fare la rapina del secolo, una rapina che ancora oggi non ha eguali in Italia e, probabilmente, anche in Europa; qualcosa di totalmente inaspettato e straordinario in cui sette uomini hanno simulato un incidente autostradale e si sono portati a casa quello che per l’epoca era un bottino favoloso, 580 milioni di lire che, rapportato ai giorni nostri, come dice uno dei miei protagonisti, “sono duemila anni di stipendio di un operaio della Marelli di allora”. Il cambiamento è epocale perché prima erano tutti cani sciolti, invece, qui si sono messi d’accordo ed hanno rubato 14 autoveicoli per simulare quest’incidente e realizzare una rapina che poteva essere fatta solo una volta al mese, il 27, giorno di paga, che all’epoca veniva data in contanti. Giorni in cui il furgone portavalori era strapieno di soldi. Il primo mese non ce la fanno, il secondo mese sbagliano furgone...e ogni volta devono simulare un incidente con tutte quelle auto! Il terzo mese il colpo va a segno e loro si portano a casa un grisbì della Madonna! All’epoca fu Indro Montanelli, già perla storica del giornalismo del Corriere della Sera, a raccontare la rapina di Via Osoppo. E lui è una delle fonti su cui mi sono basato per il romanzo, perché tutti gli avvenimenti in esso narrati sono assolutamente autentici. Stupisce la perfezione e l’organizzazione di questi uomini in un paese che organizzato non è. È passato molto tempo da allora, ma mi sono detto che è ancora attuale parlare di quella Milano lì. Leonardo Sacchetti Questo è il rapporto d’amore che Roversi ha con Milano. Parlando, invece del rapporto che ha
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Vichi con la propria città, Firenze, non verrebbe da definirlo tale. Il rapporto è strettissimo, ma si ha l’impressione che Firenze sia una città che non si lascia amare. Marco, come racconti la città attraverso i tuoi libri? Quali sono i particolari che vuoi sottolineare per raccontare questo rapporto? Marco Vichi Mi faceva sorridere Paolo quando diceva che Milano è una città che non ti accoglie vuoi venire a Firenze ad abitare? Abiti da 12 anni a Milano. Hai qualche amico milanese? Paolo Roversi Si Marco Vichi A Firenze potresti abitare 40 anni e non riuscire mai ad avere un amico fiorentino. Considero Firenze una delle città più inospitali del mondo e questo va insieme alla sua attrattiva che è la bellezza, l’armonia. Guardando Firenze dall’alto o camminando in mezzo alle strade si percepisce la bellezza di questo passato grandioso, che spesso è anche la sua maledizione, come per tutte le città d’arte. Ad un turista che viene qua in un periodo di sole, va in giro per le strade e vede tanti altri turisti, sente parlare mille lingue, Firenze sembra una città internazionale, piacevole e luminosa. Io, invece, anche col sole la trovo una città cupa, scura. Sono cresciuto a Firenze quando non c’era tutto questo turismo e quando camminavi per la città, camminavi in mezzo ai fiorentini, che era peggio secondo me. Io ambiento i miei romanzi a Firenze, perché è buona regola, secondo me, ambientarli in luoghi che si conoscono bene, per non descriverli in modo troppo didascalico.
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Paolo Roversi Dei miei amici a Milano non ce n’è neanche uno che sia milanese! A Milano siamo tutti “non di Milano”, perché i veri milanesi sono a Monza. Milano è veramente una metropoli cosmopolita, in questo senso, perché tutti vengono a stare a Milano prima o poi e quindi, alla fine, siamo tutti degli sradicati. Marco Vichi Invece Firenze non è una città cosmopolita. È una città dove passano tutti e qualcuno si ferma, ma non ha lo spirito della città internazionale che riesce a guardarsi intorno e a cogliere ciò che viene dall’esterno; è come una bella donna che si guarda allo specchio, ma è talmente vanitosa da non riuscire a vedere quello che la circonda. Leonardo Sacchetti Ritornando al genere letterario, se penso agli autori di gialli che mi vengono in mente i vostri libri sono completamente diversi. Chiedo a Paolo dove è nata la voglia di usare questo registro per raccontare Milano? Paolo Roversi Io a Milano ho ambientato almeno quattro romanzi. C’è la quadrilogia con Enrico Radeschi, ambientata a Milano e nella bassa, da cui provengo. Quella è stata la palestra su come raccontare la città. Gli unici scrittori che sono di Milano e che penso siano davvero milanesi sono Gianni Biondillo, che poi è di Quarto Oggiaro, nemmeno di Milano, e Pinketts, vero milanese. La cosa bella è che sono tutte Milano una diversa dall’altra: Biondillo racconta solo Quarto Oggiaro, il resto della città non esiste e Pinketts ha solo via Washington e poche altre zone di una città così grande. Marco Vichi C’è anche Pietro Colaprico.
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Paolo Roversi Sì, Piero Colaprico si concentra sulla zona della Questura e della sede dei Carabinieri e poi c’è Scerbanenco che racconta un’altra Milano ancora. Sembrano tante città, tante anime, ma è in realtà la stessa città che, raccontata da personaggi diversi e, vista da occhi diversi, appare diversa. Il mio protagonista racconta quello che io vedevo, quello che io conoscevo, i luoghi che mi erano cari. Invece in questo romanzo, che alla fine più che un giallo è un romanzo storico, ho ricostruito 14 anni di vita criminale, dal 1958 al 1972, in cui la storia dell’Italia è passata per Milano: nel mio romanzo trovate la strage di Piazza Fontana, lo sbarco sulla luna, Italia - Germania 4 a 3, il movimento studentesco e Mario Capanna. Sono gli anni che secondo me hanno cambiato l’Italia, sotto certi aspetti, e il romanzo finisce proprio prima degli anni di piombo. Forse ce ne sarà un altro, perché non ho finito di raccontare la storia milanese. In Milano criminale c’è Vallanzasca, c’è Luciano Lutring, un’altra delle persone che mi hanno ispirato. Ho scritto questo libro perché avevo conosciuto delle persone che avevano storie su Milano che erano talmente potenti da dover essere raccontate. All’inizio degli anni Settanta a Milano arrivano i “marsigliesi”. Il clan del marsigliesi cosa ha fatto a Milano? Una spaccata alla gioielleria Colombo in via Montenapoleone, il salotto buono della città, dove andavano le signore ingioiellate a comprare cose che la gente normale non si poteva permettere. I rapinatori avevano preso quattro Alfa Giulia e le avevano lasciate davanti alla strada per impedire il passaggio
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alle auto della polizia. Durante la rapina i banditi sparano in aria, un’americanata terribile. All’epoca non c’era Studio Aperto ma giornali del pomeriggio, come La Notte, un giornale strillato che per rendere il pathos e fare colpo sulle persone cosa fa in questa occasione? Fa vestire i propri giornalisti come i rapinatori, noleggia quattro Alfa Giulia, fa chiudere Via Montenapoleone dalla polizia e poi fa il fotoromanzo, minuto per minuto, con questi giornalisti che fingono di sparare dalle auto. E lo stesso avevano fatto per la rapina di Via Osoppo. Credo che valga la pena scrivere un libro per raccontare episodi come questi. Marco Vichi Mio nonno abitava a Milano ai tempi della banda Cavallero, a metà anni Sessanta. Una sera, telefonò a casa e con la voce tremante mi chiese di passargli la mamma subito. Mia mamma ci parlò e poi, tutta impressionata, ci raccontò che mio nonno si era ritrovato, col suo autista, in mezzo ad una rapina, con questi che sparavano e che l’autista ferito alla schiena l’aveva fatto nascondere sotto l’auto. Questo episodio ti mancava, eh? Paolo Roversi La banda Cavallero, che ha proprio nel DNA il fatto di dover stare a Milano, visto che si forma nel quartiere torinese di Barriera di Milano, comincia a fare le rapine con le armi recuperate dalla Resistenza. Dopo un po’ il terreno scotta e da Torino questi rapinatori arriva a Milano, dove diventano famosi per “la triplice”, una roba che fa incazzare da morire la polizia, perché consiste in tre rapine una di fila all’altra lo stesso giorno. Si inizia col rapinare una banca, poi si esce e se ne rapina una seconda e poi una terza.
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La polizia arriva alla prima banca rapinata che la banda ha finito ed è già a casa. Al Banco di Napoli, in Largo Zandonai, la polizia arriva proprio mentre stanno uscendo dopo la rapina ed inizia un inseguimento che si conclude con tre morti e numerosi feriti. Quello è il momento in cui la malavita milanese cambia anche agli occhi delle persone, perché fino a quel momento non aveva mai ucciso, invece questi iniziano a sparare su persone innocenti. Marco Vichi Anche se Cavallero ha sempre negato e ha sempre detto che è stata la polizia ad ammazzarli. Leonardo Sacchetti Chiedo adesso a Marco, come racconti tu la città? Spesso, anche nell’ultimo libro, Firenze non viene nemmeno nominata ma è evidente che è lei, si possono riconoscerne le strade e i vicoli, ma i luoghi non vengono mai citati. Marco Vichi Evidentemente ho un legame forte con Firenze, ci sono cresciuto. Diciamo che conoscere tutto quello da cui ti devi difendere vivendo a Firenze, è un allenamento alla vita molto forte: il sarcasmo, l’ironia, la presa in giro, la durezza si nascondono dietro al sorriso e alla simpatia fiorentina, come viene percepita spesso da chi viene da fuori Firenze. In realtà c’è cattiveria e conoscere quel lato di Firenze ti aiuta a vedere le cose e a farti i muscoli per riuscire a resistere. Ho sentito il peso di crescere in questa città senza saperlo, perché quando sei ragazzino pensi che tutto il mondo sia come il luogo in cui cresci, così come pensi che tutti
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i genitori siano come i tuoi solo perché tutti gli altri non li conosci ancora. Leonardo Sacchetti Infatti i tuoi personaggi sono un po’ tutti sofferenti. Marco Vichi Forse perché, comunque, almeno per me, raccontare è la parte anche più sofferente, più dolorosa, più triste e più malinconica, la parte più negativa che è quella a cui evidentemente bisogna allenarsi di più. Anche nelle fiabe per i bambini le uniche parole dolci sono le ultime: “e tutti vissero felici e contenti”; prima ci sono sangue, mostri, streghe, pentoloni, bambini bolliti e mangiati. Solo alla fine ci sono felicità e contentezza, prima si parla di altro, perché sono quelli i sentimenti che devono servire per prepararsi alla vita. Leonardo Sacchetti Paolo Roversi usa il linguaggio, il dialetto milanese, per dare colore alle sue pagine. Alla fine, porta il lettore a fare il tifo per i cattivi. Paolo Roversi Questo, perché i cattivi erano simpaticissimi. Ho cominciato con un gergo che alla fine ti entra dentro; ho voluto far parlare i miei personaggi così come parlavano, utilizzando tutti questi termini con cui però entri subito in confidenza. Nessuno dei miei lettori mi ha mai detto di non aver capito. Loro parlavano così. Erano così. Prendiamo il personaggio di Lampis, che è ispirato a Luciano Lutring, “il solista del mitra”, chiamato così perché andava nelle banche con una custodia di violino e quando l’apriva c’era dentro un mitra, oppure andava nelle gioiellerie con un gran mazzo di fiori che porgeva alle commesse e
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tra i fiori c’era la pistola puntata. Lutring è uno che ha fatto anni e anni di latitanza a Milano senza che le persone lo denunciassero, perché gli volevano bene. Come racconto nel libro, una volta va a fare una rapina in un ufficio postale e c’è questa vecchietta terrorizzata, lui è con il complice, si sta facendo consegnare tutti i soldi e osserva questa vecchietta perché teme che muoia di paura da un momento all’altro. La vecchietta resiste fino alla fine della rapina e lui, che ha tutti quei soldi in mano, gliene dà un po’ dicendole “Tié, ciapa su un po’ anche te!”. Le era riconoscente per non essere morta e la cosa più esilarante è il titolo del giornale del giorno dopo: “Vecchia pensionata recupera parte della refurtiva”. Non potevi non volergli bene. Marco Vichi Lui è quello che sentito il commento su quanto fosse bella una pelliccia esposta nella vetrina di un negozio fatto dalla donna con cui è a passeggio per strada, le chiede di aspettare un momento, spacca la vetrina e prende la pelliccia. Paolo Roversi Tra l’altro questo avviene la notte della vigilia di Natale. Lui le dice che andrà a parlare col proprietario del negozio ma aspetta che tutti escano dalla messa di mezzanotte e vadano a casa e poi comincia a girare. Ruba un’ auto e si lancia contro la vetrina. La pelliccia è su un manichino e quando fa per strapparla si accorge che è appuntata con tanti spilli, allora prende il manichino, se lo carica in macchina e scappa. Leonardo Sacchetti Proviamo a raccontare un po’ la Firenze degli anni Sessanta come si pone nei libri di Marco. È una città che cambia, che cresce, che diventa sempre più
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moderna. Il tuo personaggio Bordelli ad un certo punto decide però di lasciarla Marco Vichi Siamo alla vigilia del Sessantotto, i giovani sono in fermento e lui, che è nato nel 1910, non li capisce. Nel romanzo che si svolge nel 1965 Bordelli si trova di fronte a dei giovani che hanno un linguaggio, un modo di vedere e una rabbia proprio senza direzione. Lui cerca di capirli, non è uno stupido, non è che non vuole conoscere, è che non ce la fa. Ho preso un po’ lo stupore di mio padre che guardava con incredulità mio fratello, quando all’epoca tornava a casa dalle manifestazioni e lo chiamava “borghese”. Avrebbe preferito Vallanzasca come figlio, non uno che attraverso slogan politici rinnegava la famiglia in cui era nato. Questo per lui era incomprensibile, ed è quello che è successo nelle famiglie borghesi italiane. Non capivano cos’era questa forza che loro credevano rimanesse nelle manifestazioni; mio padre credeva che quella cosa non sarebbe mai entrata nella nostra famiglia e quando è successo non riusciva a crederci e diceva che quello non era figlio suo, che l’avevano scambiato nella culla. Leonardo Sacchetti A partire da un genere, il giallo, che spesso viene considerato un sottogenere, stiamo parlando di sociologia, stiamo parlando di come sono le città e di come cambiano. Com’è che hai iniziato a scrivere, Marco, visto che parlavamo di questo? Marco Vichi Da ragazzino ho sempre scritto più o meno per giocare, fino a che verso i vent’anni si è intensificato un po’ il gioco. Io portavo le cose scritte ad una persona, che ad
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un certo punto mi chiese se la mia intenzione fosse quella di continuare a giocare o iniziare a fare lo scrittore. Questa cosa mi impressionò, perché una persona da fuori mi diceva che forse potevo fare lo scrittore; io non ci avevo mai pensato in vita mia, sebbene scrivessi ormai da anni. Tornai a casa, mi chiusi in camera di nascosto da tutti, e mi misi a scrivere. Ho cominciato così, cercando di non trascinare la mia famiglia nel mio sogno, nel mio possibile, probabilissimo fallimento, nelle mie speranze. Però, mi divertivo talmente tanto che non potevo smettere ed ho continuato per una ventina d’anni fino a che non ho pubblicato. Venti anni. Lo so Roversi, che tu sei invece uno di quelli che ha inviato il primo romanzo e subito gliel’hanno pubblicato. Paolo Roversi Adesso ti racconto com’è andata. Faccio lo scrittore, o meglio, cerco di farlo, grazie ad un autore. Era l’anno della maturità e dovevo scegliere dove andare all’università e cosa fare della mia vita e nel mentre leggevo gli autori russi. Sullo scaffale della libreria, accanto a Bulgakov, che avevo appena letto, c’era Bukowski e lì ho capito due cose: uno che Bukowski non era russo e due che mi ero perso una gran cosa fino a quel momento. Il libro che mi era capitato in mano era Post office, un manifesto per chi vuol fare lo scrittore. Bukowski aveva fatto lavori che odiava perché per tutta la vita aveva sognato di fare lo scrittore. Post office l’ha scritto a 50 anni, una volta licenziatosi finalmente dalle poste, perché aveva incontrato un editore che gli aveva promesso cento dollari al mese e che avrebbe pubblicato tutto quanto da lui scritto. In Post office, scritto in 18 giorni e pubblicato, Bukowski dice “da domani
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faccio lo scrittore, rubo dalla mia vita”. Inizio a leggere tutti i suoi libri, i suoi romanzi e sottolineo le frasi che mi piacciono; tutti questi aforismi li metto in una busta e li mando a Roma a Baraghini, Stampa Alternativa, che fa uscire per la collana Millelire la mia prima opera letteraria Seppellitemi vicino all’ippodromo così che possa sentire l’ebbrezza della volata finale. Quando sono arrivato a Roma ho aperto l’elenco del telefono e chiamato più volte Fernanda Pivano finché lei non ha accettato di ricevermi a casa sua, dove le ho fatto una lunghissima intervista perché volevo scrivere la biografia italiana di Bukowski. Quello sì il mio primo libro. Quando leggi Bukowski impari a non buttarti giù; esattamente come a noi dicono che scriviamo dei gialli quindi non siamo scrittori, a lui dicevano che non era uno scrittore ma solo un vecchio sporcaccione. Se uno ti legge vuol dire che hai toccato delle corde, indipendentemente da ciò che scrivi. Ho poi concluso questa mia trilogia bukowskiana quando ho scritto Taccuino di una sbronza. Senza Bukowski non sarei qua. Leonardo Sacchetti In Milano criminale poni molta attenzione ai dettagli dell’epoca, il dialetto ma anche la musica. Paolo Roversi In questo libro mi sono intrippato in tre cose: le canzoni; i vestiti e le automobili, perché mi sono sempre immaginato questi personaggi come Vallanzasca che per andare al Bar Basso, che esiste ancora, si metteva alla guida di una Zagato, dalla quale scendeva indossando occhiali scuri e una pelliccia di lupo.
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Per ogni anno racconto le automobili e come erano vestiti, e per ogni anno ci sono queste canzoni che scandiscono la mia storia, perché un libro lo rendi dalle atmosfere. Ci sono due esempi di canzoni che ho scelto per due momenti importanti, uno carino e uno tragico. Inizio dal primo: è la sera dello sbarco sulla luna ed a Milano in giro non c’è nessuno. Serra, allora commissario, che diventerà poi anche Questore di Milano, racconta che quella sera aveva ordinato delle pizze perché nessun ladro, nessun zanza, era a giro; la canzone che ho scelto per questo momento è Città vuota di Mina, proprio del 1969. L’altro esempio fa riferimento al 12 dicembre di quello stesso anno: la bomba, la città sconvolta, tutto in fiamme. Quella sera si sarebbe dovuta tenere la finale di Canzonissima tra Gianni Morandi e Massimo Ranieri durante la quale Ranieri avrebbe cantato Se bruciasse la città. Quella era la canzone adatta a fare da sfondo. Quello che volevo fare era raccontare non soltanto quei banditi ma quell’epoca, anche con questi dettagli. Pubblico Avrei una curiosità, Marco. So qual è la tua visione della scrittura e so che non sei un grande amante delle scalette anche se in genere tutti i giallisti, o chi si approccia a questo genere, tende, prima di scrivere, a dover sapere come iniziare la storia e come finire. Io sono d’accordo con la tua visione della scrittura, ma mi chiedo quanto questo tuo approccio si scontri con il bisogno di far quadrare, comunque, le cose all’interno della storia. Marco Vichi Per scrivere il primo romanzo con Bordelli ci ho impiegato tantissimo, non sapevo nulla e mi sono ritrovato alla fine, con il romanzo concluso, a pensare, riflettere,
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per chiudere e riuscire a far tornare tutto. Quando non ce la faccio vado dagli specialisti; ad esempio, una volta che non riuscivo a venirne a capo sono andato da Lucarelli, che in quattro e quattro otto ha trovato la soluzione; un’altra volta, sono andato da Leonardo Gori. Avevo in mente due o tre elementi, sapevo che c’era l’alluvione e sapevo che c’erano altre piccolissime cose ma avevo bisogno di sapere come legarle assieme. Dopo aver camminato, pensato, meditato, chiamo Leonardo e gli chiedo di vederci per aiutarmi e in due ore mi risolve la cosa. Poi in corso d’opera cambia tutto, o meglio, prendo quella traccia lì e affogo talmente tutto il resto del racconto che poi non lo riconosci quasi più, però almeno sai che non vai al buio. Ai primi romanzi non sapevo assolutamente niente, però secondo me si può fare ugualmente, almeno a me piace così, proprio perché la parte poliziesca dei miei romanzi è talmente minima che mi serve solo come pilota; in realtà, fino a che non è finito il romanzo non so cosa contiene e questo è il mio massimo divertimento. Leonardo Sacchetti Nel romanzo di Paolo non so se c’è una vera e propria scaletta, ma sicuramente una scansione temporale, una serie di fatti. Come hai intrapreso l’inizio della scrittura per questo romanzo? Paolo Roversi Sono tra i promotori della scaletta soprattutto per i gialli, ma qui non l’ho usata perché avevo gli anni come riferimento e per ognuno di essi avevo pensato agli avvenimenti importanti. Quando ho scritto il primo libro ho fatto esattamente come Marco: ho pensato di scrivere un giallo per divertirmi ma alla fine non tornava e ho dovuto
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riscriverne la metà. Dopo ho capito, ma è una cosa opinabile, a seconda del giallista, che io inizio a scrivere sapendo chi è l’assassino mentre molti cominciano a scrivere senza saperlo. Io mi trovo meglio così, è un po’ come andare su un aereo, partire e sapere dove atterrare, per tranquillizzarti, invece che andare su un aereo e dire “boh!”. Il piacere della scrittura è quello di cercare dei modi perché alla fine tutto torni e che, quindi, l’assassino sia lui, però cercando in tutti i modi di far credere che sia stato un altro. È quella la sfida con il lettore, è per quello che leggiamo i gialli.
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Intervista di Giovanni Grossi
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Penso che quando un autore ha finito di scrivere un libro dovrebbe scomparire perché il libro e la storia diventano completamente diversi a seconda degli occhi da cui vengono visti e letti. A me piace che i lettori siano liberi, totalmente liberi.
Dario Franceschini È un politico, avvocato e scrittore. Dal 1985 esercita la libera professione come avvocato civilista cassazionista. È stato segretario nazionale del Partito Democratico dal 21 febbraio al 25 ottobre 2009. Il 17 novembre dello stesso anno è stato eletto Presidente del gruppo del PD alla Camera dei deputati. Daccapo è il suo terzo romanzo.
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Giovanni Grossi Dario Franceschini è un personaggio noto, un uomo politico e un capogruppo alla Camera del Partito Democratico, ma è con noi in veste di scrittore. Le sue presentazioni non sono un’occasione per parlare di politica ma hanno al centro un romanzo. Un libro assolutamente inaspettato, pieno di riferimenti al bel cinema e al cantautorato nazionale. La storia al centro del libro è quella di un figlio che deve cercare i propri fratelli, ben 52, che il padre ha avuto tutti da madri diverse. Tutte prostitute. Non è un giallo, ma durante il libro accadono cose inaspettate come è inaspettato il finale. Perché proprio questa storia così particolare? Dario Franceschini Ci sono alcuni scrittori che hanno la straordinaria dote di mettersi davanti al foglio bianco o al computer ed avere già in mente tutto. Hanno pensato, hanno macerato dentro di loro, quindi quando si mettono a scrivere sanno la trama, i personaggi, cosa succede. Altro modo di scrivere è il mio: ho in mente l’immagine iniziale, quella dell’incipit del libro ma non so assolutamente cosa succede dopo. Nel caso di Daccapo ho avuto l’immagine di questo anziano notaio di provincia, persona seria, rispettabile, austera con un unico figlio notaio per cui ha deciso tutto, famiglia e carriera. Ad un certo punto l’anziano padre, capisce che sta morendo e chiama al capezzale il figlio a cui racconta questa sua vita segreta e a cui chiede di andare a cercare i fratelli e le sorelle. Avevo in mente solo quest’immagine, poi la storia è venuta da sola. I personaggi sono davvero ribelli: se uno vuol far fare una cosa ad un personaggio e questo non vuole farla, non riesci proprio a scrivere! La storia è venuta ed io l’ho inseguita. È la cosa più bella dello scrivere.
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È un atto di libertà e quindi non si possono imporre le cose ma si seguono i personaggi che ti si animano nelle mani. Ho sempre in mente quell’episodio raccontato da García Márquez nella sua autobiografia, episodio assolutamente autentico riportato anche dalla moglie, in cui lo scrittore va a letto molto tardi e scoppia a piangere. La moglie Mercedes si sveglia, gli chiede cosa sia successo e lui risponde che il capitano Aureliano Buendía è morto. Non posso raccontare la trama del libro. Diciamo solo che questo figlio, Iacopo, siccome ha sempre ubbidito al padre, seguendo le indicazioni di un quaderno nero, attraversa il Po, arriva in una città lontana da casa sua, Ferrara, ed entra in contatto con questo mondo per lui sconosciuto di prostitute, ladri e povera gente. Giovanni Grossi Il libro si apre con una citazione molto importante da Verranno a chiederti del nostro amore di De Andrè: “continuerai a farti scegliere o finalmente sceglierai”. Il protagonista, dopo essere stato scelto, non aver mai fatto niente di propria iniziativa, scopre se stesso e questa vita sconosciuta, attraverso le persone che incontra. Viene così introdotto in un altro mondo parallelo: un quartiere con il proprio cimitero, la propria anagrafe, il proprio postino. Una cosa a se stante. Dario Franceschini Iacopo prende il treno, arriva a Ferrara e lì, seguendo un indirizzo arriva in questo quartiere di povera gente. Quartieri così c’erano in tutte le città dopo l’entrata in vigore della Legge Merlin. Erano quartieri malfamati. Ricordo che da bambino la massima trasgressione era percorrere in bicicletta questa via in cui era assolutamente
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vietato andare perché era “pericolosissimo” secondo le famiglie. Noi, invece, l’attraversavamo con le nostre biciclette per respirare proprio l’aria di proibito e c’erano queste “signore” sulle porte delle case, c’erano i ladri, c’era il malaffare. C’era questa umanità caratterizzata da molta povertà e molta solidarietà. Iacopo arriva tutto diffidente e preoccupato in questo mondo e incontra Mila, una ragazza meravigliosa. Seguendo le indicazioni va all’indirizzo della sua prima sorellastra e nella casa incontra questa ragazza che lo travolge in un turbinio di colori, sensazioni e gli fa scoprire un mondo tutto diverso. La prima sorella è morta e quindi Mila porta Iacopo nel cimitero del quartiere. Giovanni Grossi Un cimitero che fa subito pensare all’ Antologia di Spoon River. Dario Franceschini Quando ho pensato di rendere omaggio a De Andrè pensavo di prendere le ultime parole di Via del Campo “…dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori”. Alla fine, leggendo il libro, ho invece scelto le parole di Verranno a chiederti del nostro amore perché nella storia Iacopo e anche tutti gli altri personaggi, hanno un momento di rottura e scoprono che hanno vissuto una vita che non era quella che avrebbero voluto vivere ma che altri avevano deciso le regole per loro. Anche oggi viviamo comunque secondo regole che ci sono imposte da fuori, modelli televisivi, modelli di successo o ricchezza, che magari non hanno nulla a che vedere con il nostro percorso individuale verso la felicità. Ecco perché ho scelto questa frase,
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questa domanda che credo farebbe bene ad ognuno di noi porsi più volte nel corso della vita. Giovanni Grossi Nel libro ci sono personaggi come il commerciante, che ogni volta che vende un oggetto piange; Sante, il ciclista; l’uomo dell’anagrafe a cui tutti vanno a raccontare i propri segreti. Questi personaggi sono tutti frutto della fantasia o c’è qualcuno di essi che è reale? Siccome ci sono le citazioni nascoste, magari dietro a qualcuno di essi si cela un personaggio noto! Dario Franceschini Quando si scrive, i confini scompaiono un po’, si attinge alla memoria, si mescolano fantasia e realtà e diventa assolutamente secondario, ininfluente se una cosa è ispirata a un fatto reale o se è frutto della fantasia. Il padre Ippolito scrive una lettera a Iacopo dicendogli che quando andrà in quel quartiere la vita la vedrà dappertutto. Io credo che se ognuno di noi scavasse nella vita degli altri troverebbe un mare di originalità, desideri, passioni, segreti custoditi magari per tutta la vita. Basta avere la voglia di vedere dentro ogni persona, anche dentro quella che sembra la più grigia, la più mediocre, la più banale per trovarvi, in realtà, un mondo meraviglioso. Quando Iacopo va a Ferrara, salito sul treno usa quell’atteggiamento difensivo che spesso si ha proprio su quel mezzo. Il treno è quel luogo straordinario in cui le persone si raccontano tutta la vita dopo essersi appena conosciute, poi scendono alla loro stazione e non si sa nemmeno chi fosse la persona a cui si sono raccontati vita, amori, tradimenti e dolori. Iacopo sceglie lo scompartimento in cui immagina che gli daranno meno fastidio, si copre dietro il giornale perché non vuole essere infastidito.
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Quando ritorna, cambiato e aperto dal contatto con questa nuova vita, viaggia sullo stesso treno e decide di provare a fare questa cosa, mai fatta prima: prestare attenzione agli altri viaggiatori e aprirsi loro. Giovanni Grossi Il libro è così pieno di citazioni tanto che c’è una pagina su Facebook in cui le persone si divertono a ritrovare tutte le citazioni. Alcune di queste sono davvero molto belle. Dario Franceschini Per chi non lo ha letto, spiego però cosa vuol dire citazioni nascoste: sono partito dall’idea che quando uno scrive attinge da tutto, fantasia, realtà, racconti, ricordi e quindi perché non attingere nella descrizione di una scena, a un’immagine, a una canzone, a un film, a un quadro e nascondere nel testo il riferimento? Poi è iniziato questo gioco, la ricerca delle citazioni. Cosa vuol dire citazione nascosta? Che volevo che non si vedesse! Ad esempio, il protagonista va in macchina, guarda fuori e c’è un paesaggio della Pianura Padana preso dalla realtà; guarda dall’altra parte e c’è un altro paesaggio descritto puntigliosamente: un famoso quadro di Van Gogh. Ho attinto da tutto ed in questa pagina di Facebook i lettori che si sono messi a cercarle quando le trovano le condividono con gli altri. Ce ne sono alcuni che hanno trovato citazioni che ritenevo impossibili, mentre altri che ne hanno trovate altre a cui non avevo pensato! Quello appartiene alla libertà del lettore. La libertà della letteratura è potersi appropriare delle cose che piacciono e poterle usare come si vuole. Ad esempio, nel film Qualcuno volò sul nido del cuculo c’è un indiano che prima uccide Jack Nicholson, ormai lobotomizzato, e poi rompe una vetrata e
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fugge. Alla fine del film ti chiedi dove scappa, a me piaceva l’idea che scappando alla fine fosse arrivato a Ferrara, sulla terrazza dove c’è una festa, alla quale partecipano Mila e Iacopo. Se leggere è un atto di libertà perché ti porta in altri tempi, in altri luoghi, in altre vite, scrivere lo è moltiplicato per cento! Scrivere fa bene perché si raccontano parti di se stessi che non vengono svelate in altro modo e perché è un modo straordinario di conservare la memoria; se uno scava nella vita della propria famiglia si scoprono episodi che sono fantastici in quanto a creatività, immaginazione, vita, tali da meritarsi la scrittura di romanzi meravigliosi. La mia è una terra piatta e quindi apparentemente calma mentre invece, sotto, ha il germe dell’imprevedibilità, della follia. In fondo è la terra di Zavattini, di Fellini, di Antonioni. Gran parte delle storie che sembrano frutto della fantasia sono, invece, reali. Le ho incontrate, mi sono state raccontate. Molti mi hanno detto che i nomi dei personaggi sono un capolavoro della fantasia, perché si chiamano Nellusco, Genisca, Nivardo, Mendez. Ebbene, sono tutti presi, rigorosamente, dall’elenco telefonico. Una miniera incredibile di storie di identità dove c’è la storia dell’Italia più vera, dell’identità più profonda. Nel mio primo libro ho raccontato la storia autentica di una famiglia contadina della mia terra che aveva scelto di chiamare i figli maschi, come si faceva in molte parti d’Italia, numerandoli: Primo, Secondo, Terzo, Quinto o Quintino, Sisto, Settimio, Ottavio La storia di questa famiglia è che il padre, autorevole come i padri di una volta, già con sei figli quando nasce un altro maschio lo chiama Ultimo. La suocera inizia a protestare, dicendo che non si può fare, che non si deve sfidare il Signore e che lo deve chiamare Settimio. Il padre decide per Ultimo e Ultimo è. Passa
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un anno e con grande soddisfazione della suocera nasce un altro maschio e il padre, con la stessa determinazione e autorità, lo chiama Seguito. È tutto vero. Quando ho raccontato la storia di Ultimo e Seguito, una lettrice mi ha detto che succedeva anche dalle sue parti, perché sua zia si chiamava Finimola. La zia Finimola ritengo che sia oltre la fantasia, oltre il Realismo Magico! Giovanni Grossi La storia non ha una definizione temporale, la si intuisce ma non c’è nessun riferimento preciso ad un’epoca. Non c’è anche un elemento di tristezza in questo, nel fatto che questo mondo non c’è più e che per ritrovare della semplicità, della genuinità bisogna ritornare ad un tempo che non c’è e che forse non c’è nemmeno mai stato? Dario Franceschini Non penso che sia così. Penso che quando un autore ha finito di scrivere un libro dovrebbe scomparire perché il libro e la storia diventano completamente diversi a seconda degli occhi da cui vengono visti e letti. A me piace che i lettori siano totalmente liberi. È anche per questo che non metto le date, anche se ci sono indizi che aiutano a collocare i fatti nel tempo. Non c’è però alcuna nostalgia; si ambienta una storia nel tempo e nei luoghi che si conoscono meglio, ma trovo che sia sempre sbagliato giudicare migliore il tempo in cui siamo stati giovani. Ci sembra migliore semplicemente perché eravamo giovani. State sicuri che i ragazzi di oggi tra cinquant’anni parleranno di questi tempi come dei più belli. La bellezza è dappertutto, anche adesso. Giovanni Grossi È più divertente scrivere un libro o un discorso parlamentare?
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Dario Franceschini Dipende. Io, avendo due vocazioni, per lungo tempo ho pensato che una andasse tenuta nascosta e avevo ragione. Pensavo, cioè, che il ruolo del politico mal si conciliasse con quello di scrittore, forse perché dal politico ci si aspetta freddezza, razionalità, concretezza mentre dallo scrittore ci si aspetta trasgressione, libertà, fantasia, sregolatezza. E ho avuto tutte conferme. È il rapporto lettore-elettore. Molti librai mi hanno raccontato che tanti davanti al libro esclamano “Ma anche questo fanno? Ma che vergogna!”. Questo è il lettore; l’elettore, invece, pensa che “con tutti i problemi che ci sono nel paese, questo perde tempo a scrivere un romanzo!”. A un certo punto ho deciso di rompere il ghiaccio e di pubblicare, avendo capito di non avere due vite a disposizione e decidendo di fare entrambe le cose nella stessa vita. Scrivere è il mio tempo libero, la politica è il mio lavoro. Quindi, un discorso appassionante, in cui si crede, può dare la stessa soddisfazione che scrivere un bel racconto. Giovanni Grossi Daccapo potrebbe anche essere il titolo di un programma elettorale! Dario Franceschini Il libro è un’utopia individuale, non un’utopia collettiva. Alla fine ciò che i protagonisti capiscono è che non c’è un momento in cui è troppo tardi nella vita. Se ad un certo punto decidi di vivere la vita come la vuoi e di ricominciare daccapo, puoi farlo. Non è un problema di età. È una scelta. È un’ utopia individuale, non c’è nessun messaggio implicito, sociale o politico nel romanzo. Credo che l’Italia abbia bisogno di ricominciare daccapo, su questo non c’è dubbio. Il paese ha bisogno di guardare avanti, di re-
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cuperare fiducia, di ricostruire quei valori che lo hanno reso così forte in altri momenti di difficoltà. Gli italiani tendono sempre a dare il meglio quando tutto è più difficile però devono credere in qualcosa, in una possibilità di miglioramento, di riscatto. Così come è stato nel dopoguerra. C’erano anche allora i grandi scontri politici, le grandi divisioni ideologiche, molto più di adesso anche. Però c’era qualcosa che univa gli avversari: i valori ed i princìpi. Credo che l’Italia abbia bisogno di questo, tornare a credere in qualcosa. Allora si può pensare il futuro. Pubblico La figura di Mila è una specie di Virgilio che accompagna Iacopo alla scoperta di un mondo a lui sconosciuto? Dario Franceschini Sì, un Virgilio inconsapevole che prende Iacopo e lo porta a vedere il cimitero del quartiere, lo porta in un ristorante bellissimo frequentato da ladri, lo porta alla festa in terrazza, lo porta all’anagrafe segreta. Lo porta a scoprire una vita che Iacopo non aveva mai conosciuto. In quei quartieri c’era un po’ la coralità della povera gente in cui ci si aiutava a vicenda, ci si sosteneva, ci si perdonava. Erano sicuramente vincoli molto forti. Per Iacopo sicuramente una rottura e da lì scopre se stesso, scopre l’amore. Molti mi chiedono cose sulla fine del romanzo, cosa faranno Albina e Iacopo ma non rispondo, non solo perché chi non ha letto il libro ha il diritto che non sia svelato il finale, ma perché cosa succede dopo non appartiene più a me, non posso certificare cosa sia vero e cosa sia falso nelle interpretazioni che mi danno i lettori.
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Don Andrea Gallo
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Il mio quinto Vangelo è una poesia, la poesia che guarda sempre al fondo, la speranza. Il mio Vangelo è la musica. E quando la musica è buona entra nel nostro profondo. Ci dà le ali. Il mio Vangelo è una voce, che si ispira agli ultimi, ai fragili. Il mio Vangelo è una brezza, è non violenza. Il mio Vangelo è anticapitalista, cerca modelli di sviluppo nuovi. Il mio Vangelo è antifascista, contro ogni empietà, arroganza, superiorità, superbia, razze superiori. Il mio Vangelo è anarchico, non bombarolo. È il rifiuto di ogni sopruso.
Don Andrea Gallo È sacerdote dal 1959. Nel 1975 ha fondato la Comunità di San Benedetto al Porto di Genova le cui porte sono sempre aperte per accogliere persone in difficoltà. Si definisce “un prete da marciapiede” e “angelicamente anarchico”. È autore di Io cammino con gli ultimi, con Federico Traversa (2007); Ancora in strada. Un prete da marciapiede, con Bruno Viani (2011); Se non ora, adesso. Le donne, i giovani, la liberazione sessuale (2011); La buona novella. Perché non dobbiamo avere paura (2012).
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A tutti: restiamo umani Don Gallo Ho voluto seguire Gesù, mi ha dato il suo biglietto da visita quando sono andato al noviziato a vent’anni, ai Salesiani. Per farvela breve, io ho ricevuto nel 49, chierico, la mia missione dalla Chiesa. State a sentire. Alla fine c’è il congedo, allora si usava baciare la mano. Io ero il più alto ed ero l’ultimo. Vado lì, bacio la mano al vecchio salesiano. Lui si alza, mi guarda e dice: “Come ti chiami?”. E io, dopo un anno di preghiere e formazione, gli dico sommessamente: “Padre, Chierico Gallo” – “Parla un po’ più forte! Sono sordo!”. Allora mi sono fatto coraggio: “Chierico Gallo!”. Ha fatto un passo indietro, poi mi ha dato la missione: “Caro Chierico Gallo, nella nostra Chiesa non sarai mai Papa. Perché dire Papa Gallo sarebbe troppo disdicevole!”. Oh, non mi hanno manco fatto parroco ma cappellano feriale festivo, sapete cosa vuol dire? Che non conta un cazzo! Ad ogni modo, devo coniugare la mia fede con l’impegno civile. Recentemente un manager, mio amico mi ha detto: “Vieni via da quella Chiesa cattolica, stai stretto! Ti do io un bell’appartamentino vista mare! Così tu dirigi le tue comunità e lasci stare 'sta Chiesa...”. “Ma che dici? Io nella Chiesa cattolica sono a casa mia! E perché me ne devo andare da casa mia?Mi sa che è qualcun altro che se ne deve andare!”. Tanto è vero che io sono arrivato a Firenze e ho detto a quei bravi ragazzi che mi sono venuti a prendere “Prima di tutto...”. Un bravo prete doveva dire: vado a salutare il Cardinale. “Prima di tutto voglio salutare Don Alessandro Santoro alle Piagge”. Mi sa che se c’è qualche cristiano a Firenze, Alessandro lo è di sicuro. Ad ogni modo, devo coniugare la mia fede con l’impegno civile. E dove la trovo la fede? Nella mia Chiesa?
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Nelle crociate moralistiche? Fra un po’ dalla nostra Chiesa verrà la crociata contro il testamento biologico: non ci lasciano neanche morire in pace! Ma allora, che figlio di Dio sono? Dove la trovo la fede in questa ingerenza, in questo moralismo? Dove trovo la politica? Nei palazzi del potere, nei partiti? Io sono per la giustizia sociale e fan bene a chiamarmi anarchico. Io cerco di vedere il bene nel mondo, nella nostra patria, nella nostra città. Lo scorso mese quando ho letto che l’Italia galoppa verso il 30% della disoccupazione giovanile mi sono messo a piangere. Che cosa posso dire io ai giovani? Intanto come prete vi butterò lì della giaculatoria. Il mio caro amico, che quasi nessuno ha ricordato, è andato in Palestina per la pace, per difendere quel popolo oppresso ed è stato massacrato. E allora la prima giaculatoria che do, a voi che siete venuti qui stasera: l’ultimo messaggio di Vittorio Arrigoni grida agli italiani “Restiamo umani”. Quindi voglio essere più umano, più cristiano, più non violento. Nella mia Chiesa allora basta che io segua Gesù. Voglio essere più anticapitalista: modelli nuovi di sviluppo, chilometro zero, incentivi alle campagne. Voglio essere anche antifascista. Il fascismo è un’ empietà, è arroganza, è potere, è la razza superiore. Ai giovani: agitatevi, organizzatevi, studiate Don Gallo Un anno e mezzo fa, due drogati nel mio ufficio: “Gallo, Gallo, è arrivata la limousine”. Io ero ancora assonnato. “Ma la limousine? Ma da dove viene?”. Un drogato: “Non lo so, è targata SCV”. E l’altro drogato: “Te lo dico io cosa vuol dire SCV: Se Cristo vedesse è un casìn!”. Ad ogni modo, ve la faccio breve, siamo io e il Papa a Roma.
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“Don Andrea siediti. Lo sai che ogni tanto ti chiamo, ho bisogno di consigli. Tu, che giri in mezzo ai giovani, al popolo...”. Sembra proprio un pastore tedesco, eh! “Lo sai che con il mio predecessore abbiamo sempre sostenuto il governo Berlusconi. Io faccio per parlare, eh...”. Stavo per dire: lo credo, per l’ICI, le scuole cattoliche, i soldi per qui, i soldi per là, lo credo! Dice: “A questo punto che io sono Papa, ho qualche dubbio”. Te lo immagini: Berlusconi era sputtanato in tutto il mondo, finalmente anche al Papa gli viene qualche dubbio!Eh, va beh! “Don Andrea, tu che conosci il popolo e la gente, dimmi, Don Andrea ” “Mi dica Santo Padre” – dice – “Ma Berlusconi, Don Andrea, è veramente un uomo di fede?”. “Santo Padre, guardi che si sbaglia! È Fede che è un uomo di Berlusconi!”. Capite allora che ci vogliono prospettive! Da dove dobbiamo partire, se non dai giovani? I giovani devono essere collocati al loro posto, nella loro dignità, nel loro rispetto, come dice la Costituzione. Ed invece li continuano a distruggere. Ve lo ricordate quello lì, come si chiamava Brunetta. “Fannulloni, fannulloni..”. Che vergogna! Distruggono la dignità delle persone e poi si lamentano dell’assenteismo. Hanno massacrato la volontà popolare. Certo, restano delle responsabilità, ma chi sono i maggiori responsabili? Noi siamo qua, sotto anestesia totale. Siamo sbandati, non ci pensiamo. Siamo stati, come dire schiacciati! E siamo dipendenti da quella che chiamerei la società dello spettacolo. Partiamo da noi perché la democrazia nasce nelle nostre case, poi va in piazza e nella strada. Solo la strada ci può salvare. Gaber: libertà è partecipazione. È difficile per ciascuno di noi dire “Cosa posso fare per il mio condominio? E poi, cosa posso fare per il mio quartiere, per la mia città, per la mia regione? Cosa posso fare per l’Italia? Cosa posso
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fare per il mondo?”. Possiamo metterci in ascolto degli altri. E qui nasce la democrazia, il rapporto, l’incontro con l’altro. Un’altra giaculatoria me l’ha data Don Luigi Di Liegro di Roma. Grande, grande, grande uomo, i suoi superiori invece lo hanno massacrato. Non vi dico come ha dovuto lottare. Mi ha detto “Quando vai in giro Gallo, tu che hai la fortuna di andare... È tanto bello il proverbio ’dimmi con chi vai e ti dirò chi sei’. Tu cambialo, guarda negli occhi la gente, guardali, guardali e digli 'dimmi chi escludi e ti dirò chi sei!’.” Se non riusciamo a entrare nell’accordo siamo nell’assenza, questo è il punto. Allora, partiamo dai giovani: non è possibile che i giovani non abbiano neppure lo sbocco del lavoro. Mario Capanna, nel ’68, ai giovani studenti universitari riuniti in assemblea disse “I poteri non sono forti, sono fortissimi! Però, non sarà che strisciamo per terra?” e facendo uno slancio in piedi gridò a tutti “Su la testa!”. Come lo grido a voi. Vi cito tre verbi che dovete applaudire perché non sono miei. Prima di tutto qui, fiorentini, tutti: agitatevi! Perché abbiamo bisogno del vostro entusiasmo. Organizzatevi! C’è bisogno della vostra forza. Studiate! Perché abbiamo bisogno della vostra intelligenza. Chi le ha dette queste parole? Pubblico Gramsci. Don Gallo Brava! Nel 1919. Chi lo ha ascoltato? Nessuno. E il potere ha schiacciato di nuovo. Alle donne: per una sessualità liberata Don Gallo Passiamo alle donne. Donne, fintanto che rimanete in questo stato di inferiorità voluto dai poteri, tutti, guardate che se andate in Chiesa perdete. Dovete andare in
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Chiesa con l’aspiratore così il parroco è contento! “Oh venga signora, signorina. C’è la Chiesa da pulire”. Nella Chiesa di Gesù tutti fratelli. Non mi sembra che Gesù sia arrivato dicendo “Io amo tutti i fratelli, tutti, tutti. Le donne un po’ meno!”. A questo punto quando parlano ancora oggi di quote rosa, vi pigliano per il culo. Quote rosa, ma cosa vuol dire? Si merita solo perché si è donna? La donna è al centro dei piani della natura, noi maschi veniamo dal grembo materno. Siete sorelle, spose, madri. Guardate, la Chiesa continua ad essere misogina. Siete pericolose e infatti in stato di inferiorità, ricordatevelo! Misogina e sessuofobica. Una volta ho abbrancato un Cardinale e gli ho detto “Sta un po’ a sentire. Ma dimmi un po’, la sessualità è un dono di Dio o del demonio?”. “Ma cosa dici?”. “No, io ho già detto! Rispondi tu!”. “Eh ma sai ma qui ma là ”. “Ma da chi sei nato? Eminenza, sei nato dal grembo materno! Hanno scopato, hanno fatto l’amore!”. “Ecco, sei il solito esagerato!”. E allora, donne, come avete fatto a non reagire prima? La Chiesa per secoli vi bruciava come streghe, in nome della Santissima Trinità. Quando ho sentito il vostro grido, donne. Se non ora, adesso! Donne, se non ora.. Pubblico Adesso! Don Gallo Il titolo del mio libro l’ho scelto in onore e a sostegno del corpo femminile. Voi donne potevate salvarci, lo so che siete bastonate da tanto. Lo capsico che avevamo un premier che diceva “Ah che bella figa! Ministro dell’agricoltura!”, “Oh, che belle tette... Ministro della... Oh, che bel culo!”. Allora donne, siete voi che potete fare l’educazione sessuale. Bisogna avere l’obiettivo di una sessualità libera-
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ta, senza orge, senza deviazioni. L’amore, il piacere anche sessuale, è proprio l’assenza totale della violenza. Quindi, è ancora un enigma da capire fino in fondo. Adesso fanno tanti discorsi, pontificano, ma secondo me l’unica religione è l’amore, il piacere, l’assenza totale di violenza. Non mercificazione, non scambio. Siete voi, donne, che fate educazione sessuale. La scuola non la fa, la Chiesa se non la fa è meglio. “Voi siete sposati in Chiesa? No?! Gravee! Andate all’inferno!”. “Voi avete esperienza prematrimoniale? Eh, Dio mio, il diavolo, il serpente!”. “Voi siete due gay? Ah!”. “Tu giovanotto, cosa mi hai detto in confessione? Masturbazione?!”. Una volta ero in una parrocchia a Genova ed i giovani volevano parlare con me. Sono al confessionale, arriva un ragazzo. “Ho disobbedito, sono nervoso...”. Poi si inceppa “Padre, sono amareggiato, sono in peccato mortale!”. A un certo momento dice “Mi sono masturbato..”. Allora io mi diverto. Per sdrammatizzare. “Ah, siii?? Ti sei masturbatooo?”. “Si Padre, sono in peccato mortale”. “Ah sì? Quindi se morivi prima di confessarti andavi all’inferno?”. “Sì Padre, mi perdoni!”. Sono uscito fuori: “Ti do un calcio nel culo e ti ci mando io!”. Ma che concezione hai di Dio? Ma vuoi che a un certo momento Dio onnipotente, onnisciente, onnipresente, viene a guardare te che sei là dietro e che ti fai una sega? Povero Dio che hai in testa! Io sono stato ordinato nel ‘59. Mi ricordo le ultime due lezioni di morale. “Voi fra due mesi sarete preti, andrete a confessare agli oratori ragazzini e ragazzine. Prudenza, prudenza, prudenza. La domanda che dovete fare è famosa: allora, ragazzo, ti tocchi?”. In aula magna 24 nazioni rappresentate, chierici, salesiani, quindi cultori, volevamo ridere ma avessimo riso ci sospendevano. “Se alla domanda ‘Ti tocchi?’ risponde affermativamente, allora
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dovete fare un’altra domanda. ‘Ragazzino, ragazzina, quando ti tocchi provi piacere?’ Se risponde affermativamente, che prova piacere..” e dà un pugno sulla cattedra “È peccato mortale!”. Io già allora ero malvagio: “Obiezione”. “Cosa ha da dire il diacono Gallo?”. “Ho da dire, professore, che siamo qui da quattro anni sui libri e abbiamo cercato di arrivare all’essenza del peccato, che è odio di Dio, distruzione di Dio, nichilismo totale, e Lei solo perché uno si tocca un po’, lo manda all’inferno?”. “Sarai chiamato dal Rettore Magnifico”. Meno male che il Rettore era un santo uomo “Ma Gallo, ma cosa succede?”. “Guardi, Rettore....”. “Eh, deve avere pazienza, perché la Chiesa è prudente, cammina adagio”. “Capisco, ma la Chiesa è sempre ferma lì!”. Restiamo su questo, sulla pedagogia, sulla psicologia, sul gioco, sul poter crescere anche in un ambito sessuale. Noi siamo una delle prime unità di strada ed è chiaro che per strada alla ragazze diamo anche il preservativo. Una volta mi chiama il Cardinale Canestri, ormai anni fa. Il tema è delicato perché il cardinale voleva che non distribuissimo il preservativo. Qualunque rapporto sessuale può provocare contagi e malattie infettive. Per l’HIV non c’è ancora il vaccino e lo sapete perché? Perché la Bayer vuole arrivare prima. Si fanno la guerra e intanto la gente muore disperata, malata, con pochi farmaci, ancora sperimentali. Mi accoglie il segretario. “Il nostro cardinale, che è tanto buono, è molto sensibile, non può sentire la parola preservativo”. “Vabbè, sarò molto tecnico, lo chiamerò profilatt...”. “Non dica profilattico perché il cardinale sviene!”. “Cosa devo dire?”. “Si mantenga sull’anticoncezionale!”. Entro dentro. “Tu devi dare dei principi! Ai giovani, dei principi!”. Il Cardinale gridava. “Eminenza, Lei, se ci fosse il rogo... Lei andrebbe al rogo”. “Non è il momento di scher-
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zare!”. “Eh, no! Lei va contro la libertà di coscienza. Lei può proporre, come faccio io, la morale cattolica, la preparazione al matrimonio, la purezza. Ma Lei deve rispettare la scelta personale!”. Tre giorni dopo mi scrive “Caro figliolo, è vero. Nella nostra Santa Madre Chiesa il primato della coscienza personale è dottrina certa. Tuttavia, caro figliolo, una coscienza per dirsi retta deve fare riferimento alla verità”. Io gli ho scritto subito “Eminenza, finalmente siamo in sintonia! Perché da questo momento la verità non la cerchiamo tutti insieme?”. Non mi ha più risposto. Il Vangelo quinto: secondo De Andrè Don Gallo Ringrazio di essere stato introdotto da una canzone di Fabrizio. Verso gli ultimi tempi Fabrizio mi diceva “Oh prete, lo sai perché ti sono amico anche se sei prete? Perché ho capito che come prete non mi vuoi mandare in paradiso per forza”. Tutta l’opera di Fabrizio viaggia su due binari. Primo binario: questa inquietudine ed ansia per la giustizia sociale. Secondo binario: un nuovo mondo è possibile. Un Cardinale una volta mi disse, scherzando “Gallo, vieni un po’ qua. Ti faccio delle domande”. “Ecco, pronto”. “Quanti sono i Vangeli canonici?”. “Quattro”. “Quali?”. “Matteo, Marco, Luca e Giovanni”. Poi dico “Guardi Eminenza, io sono un quinto”. Eminenza, il mio quinto Vangelo è una poesia, la poesia che guarda sempre al fondo, la speranza. Il mio Vangelo, Eminenza, è la musica. E quando la musica è buona entra nel nostro profondo. Ci dà le ali. Il mio Vangelo è una voce, che si ispira agli ultimi, ai fragili. Il mio Vangelo, Eminenza, è una brezza, è non violenza. Il mio Vangelo è anticapitalista, cerca modelli di sviluppo nuovi.
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Cara Eminenza, il mio Vangelo è antifascista, contro ogni empietà, arroganza, superiorità, superbia, razze superiori. Il mio Vangelo è anarchico, non bombarolo. Il rifiuto di ogni sopruso. Il mio Vangelo, Eminenza, è quinto, secondo De André. L’11 gennaio 1999 Fabrizio partiva per le praterie celesti. Mi arrivavano da tutte le parti, anche dalla comunità, degli scritti, per portarli a Dori Ghezzi. Alla Don Milani abbiamo fatto una lettera collettiva che è un po’ il manifesto della nostra comunità. Capirete forse anche qualche aspetto nuovo di Fabrizio ma soprattutto che cosa è questa comunità di San Benedetto, che dal ’70 è al porto di Genova. Caro Faber, da tanti anni canto con te per dare voce agli ultimi, ai vinti, ai fragili, ai perdenti. Canto con te, con tanti ragazzi e ragazze in comunità e per le strade. Quanti Michè e Marinella e Bocca di rosa vivono accanto a me, nella mia città di mare che è anche la tua, Faber. Anche io ogni giorno, come prete, verso il vino e spezzo il pane per chi ha sete e ha fame. Tu Faber, mi hai insegnato a distribuirlo non solo fra le mura del tempio ma per le strade, nei vicoli più scuri, nell’esclusione, nell’emarginazione, nella carcerazione. E ho scoperto con te, camminando in via del Campo, che dai diamanti non nasce niente, che dal letame nascono i fior. La tua morte ci ha migliorato Faber. Abbiamo riscoperto tutta l’antologia dell’amore, una profonda inquietudine dello spirito che coincide con la libertà. Soprattutto, il tuo ricordo, le tue canzoni, ci stimolano ad andare avanti. Caro Faber, tu non ci sei più ma restano gli emarginati, i pregiudizi, i diversi. Restano l’ignoranza, l’arroganza, i poteri, l’indifferenza! La comunità San Benedetto ha aperto una porta in città nel ’70, e nel ’71 leggevamo il tuo album Non al denaro, non all’amore né al cielo. In comunità, da allora, bussano
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tanti personaggi, derelitti abbandonati, puttane, impiccati, immigrati, tossicomani, suicidi, adolescenti traviati, bimbi impazziti per l’esplosione atomica. Il tuo album ci lasciò una traccia indelebile. In quel tuo racconto crudo e dolente che era ed è la nostra vita quotidiana abbiamo intravisto una tenue parola di speranza perché, come dicevi nella canzone, la solitudine fa sorgere l’amore come all’inverno segue la primavera. È vero, Faber. La mia comunità, che di quel mondo è e si sente parte, ti lasciava cantando Storia di un impiegato, Canzone del maggio. Ci sembra troppo attuale. Ti sentiamo oggi così vicino, così stretto a noi! E se credete, ora, che tutto sia come prima, perché avete votato ancora la sicurezza, la disciplina, convinti ad allontanare la paura di cambiare verremo ancora alle vostre porte e grideremo ancora più forte per quanto voi vi crediate assolti siete per sempre coinvolti! Caro Faber, parli all’uomo. Parli all’uomo e parlando all’uomo stringi la mano al cuore e sleghi il dubbio che Dio esiste. Grazie, i ragazzi, le ragazze e Don Andrea, prete del marciapiede.
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Sandrone Dazieri
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Intervista di Paolo Ciampi
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Quando il Gorilla entra in contatto con persone che hanno subìto violenza o ingiustizie non pensa di essere l’eroe giunto a salvarli, ma sa di essere come loro e quindi li capisce. Questa è la grande tematica che ho cercato di sviluppare, l’empatia verso la sofferenza e le vittime, quella cosa che ti permette di comprendere il mondo e quello che accade.
Sandrone Dazieri È nato a Cremona nel 1964 ed ha iniziato a scrivere dopo aver intrapreso numerosi mestieri, dal cuoco al facchino. Si è avvicinato al mondo dell’editoria come correttore di bozze ed è diventato direttore dei Gialli Mondadori, lavoro che ha abbandonato per dedicarsi alla scrittura a tempo pieno. Ha collaborato anche con il cinema e con la televisione in qualità di sceneggiatore. La bellezza è un malinteso è il suo nuovo romanzo, nel quale ritroviamo il Gorilla.
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Paolo Ciampi Sandrone Dazieri è un autore che ci ha regalato storie intense, coinvolgenti e belle e non è solo autore di noir, ma anche uno scrittore che attraversa generi e tipi di scrittura come le sceneggiature per fumetti e quelle per film e telefilm. In più, Sandrone è molto dentro al mondo dell’editoria italiana perché ha collaborato e collabora tutt’ora con case editrici di assoluto rilievo nazionale e cura collane importanti. Da qualche parte ha scritto che lavora come talent scout per far emergere nuove firme nel nostro panorama editoriale per cui sarebbe sicuramente interessante fare qualche riflessione sul futuro dei libri, dell’editoria della scrittura. Il tuo blog ha una sorta di sottotitolo: Suono la tastiera mentre la nave affonda. Qualcuno deve farlo. Immagino che tu faccia riferimento alla tastiera del computer e non a quella di un pianoforte; inizierei chiedendoti perché ti sei avvicinato a questa tastiera e perché lo devi fare? Sandrone Dazieri Mi sono avvicinato alla scrittura perché non me ne sono mai allontanato. Come dico sempre ci sono ragazzi e bambini che sono bravi a giocare a pallone e poi ci sono quelli che non li vogliono neanche in porta. Io ero uno di questi ultimi. Ho cominciato a leggere presto, molto e bene. Leggevo fumetti e romanzi e le storie che leggevo erano in qualche modo un’apertura a altri mondi e quando i tuoi amici più veri sono dentro ai libri, ti viene voglia di continuare il dialogo con loro, anche quando il libro è chiuso, e stare nelle storie di cui loro sono protagonisti. Poi cominci a pensare che puoi inventare dei personaggi che ti rappresentano. Questo è stato un processo naturale, per cui era naturale pensare che potessi fare lo scrittore. Ricordo che a 14 anni decisi di andare a fare il cuoco perché credevo che
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fare il cuoco fosse importante per diventare scrittore. Sono andato via di casa, ho fatto l’alberghiero, poi ho imparato a fare altri mestieri e in testa avevo il fatto che volevo scrivere. Ho cominciato a scrivere per riviste di bassissima lega avendo l’opportunità di esercitarmi, sono passati gli anni e finalmente, a un certo punto, ho scritto il primo racconto che è stato pubblicato dentro un’antologia. Lì cominciai a pensare che potevo scrivere professionalmente. Scrivo perché fa parte di me e non so stare senza, anche se non ho mai visto me stesso come lo scrittore di una cosa sola. Per me la scrittura va sempre bene purché sia raccontare storie: ho fatto fumetti, cinema e televisione, ma fare romanzi è per me più forte e più importante. Questo è stato il percorso. Paolo Ciampi Ne La cura del Gorilla tu scrivi: Eccola lì la morte paziente. Sono abituato a quella feroce, che ti prende di colpo con un coltello o un proiettile. O a quella crudele, che ti lascia sanguinare sul pavimento. So come trattarla, a cosa pensare quando mi chino su un cadavere. Quella lenta, che ti scava dall’interno, mi incute timore. È il destino inevitabile, il saldo del conto.
Il Gorilla si muove sempre in una realtà di sangue, omicidi, ferocia. Perché come lettori e come scrittori abbiamo questa attrazione per la morte, che ci fa cercare delitti e sangue nelle fiction e nella narrativa, gialla o nera che sia? Sandrone Dazieri Fa parte della storia della letteratura. I primi romanzi erano le vite dei santi e subito dopo arrivano le vite dei briganti, legate ai temi del martirio e della soffe-
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renza nel primo caso ed all’omicidio ed alla violenza nell’secondo. Queste cose hanno sempre affascinato, come hanno sempre affascinato le storie di delitti della Londra di fine Ottocento, letti dalla parte più colta del paese che vi vedeva un modo per allontanarsi dalle morti reali cui assisteva sotto casa, un modo per trattare e trasformare una cosa che fa paura in qualcosa che dà un brivido tranquillo. Quando ho costruito il personaggio del Gorilla e tutti i personaggi che sono venuti dopo, l’idea era quella di creare un personaggio che avesse dentro di sé una sofferenza, che fosse una vittima, un perdente. Il Gorilla è schizofrenico, nasconde al mondo di essere malato e deve gestire una doppia personalità che gli rende impossibile una vita normale e questa sua sensibilità gli permette di essere molto vicino alla parte sofferente del mondo. Quando il Gorilla entra in contatto con persone che hanno subìto violenza o ingiustizie non pensa di essere l’eroe giunto a salvarli, ma sa di essere come loro e quindi li capisce. Questa è la grande tematica che ho cercato di sviluppare, l’empatia verso la sofferenza e le vittime, quella cosa che ti permette di comprendere il mondo e quello che accade. Philip K. Dick ne Il cacciatore di androidi da cui è stato tratto Blade Runner scriveva che ciò che distingue gli essere umani dai replicanti è la capacità di essere empatici, cioè capire cos’è la sofferenza negli altri, anche se non è provata su di sé. Nei miei romanzi ci sono personaggi che sono istintivamente empatici. Non ho una passione per i vincenti, per gli eroi, ma ho la passione per i perdenti che hanno la capacità di reagire nella loro condizione. Questo è più o meno il senso di quello che scrivo. Nel pezzo che hai letto il Gorilla dice di essere incapace di gestire la sofferenza che ha di fronte. Incapacità che poi è di molti di noi.
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Paolo Ciampi Loriano Machiavelli afferma che “il giallo dovrebbe dare fastidio, dovrebbe essere sovvertitore inquietante, solo che non riesce più. Il giallo non trova più denigratori e soprattutto la società si è vaccinata contro il suo sano virus dell’inquietudine”. Sandrone Dazieri Ho cominciato a scrivere gialli a fine anni Ottanta e facevo parte di quella generazione dei cosiddetti “Nulla Autori” in cui c’erano dentro anche Camilleri, che non era tanto giovane, ma che comunque cominciava a fare successo in quegli anni, Lucarelli, Pinketts, Carlotto e Vinci. La letteratura italiana non parlava più di niente, era noiosa e avvolta su se stessa, parlava sempre di crisi borghese e mai del presente. Noi, invece, volevamo farlo anche con tecniche riprese dalla letteratura americana e dal thriller, sempre riadattando il tutto alla nostra realtà, anche regionale. C’era una fase in cui eravamo molto regionali, c’era lo scrittore bolognese, quello genovese e questo è stato, secondo me, un nobile intento che ci ha fatto uscire da quel sottoposto di scrittura in cui eravamo perché era una specie di manifesto implicito. Adesso che sono passati tanti anni la questione vera è che tutte le forme di letteratura se son tali, cioè se partono per essere letteratura, non possono raccontare il presente e i libri più belli che ho letto negli ultimi anni e che parlano del presente non sono romanzi gialli, thriller. Ad esempio, Cosmopolis di Don DeLillo, da cui è stato tratto il film omonimo di Cronenberg, racconta il mondo e la crisi che viviamo adesso. L’ha scritto dieci anni fa ed è tutto tranne che un thriller; ha un sapore noir, per me, che trovo il noir ovunque. Racconta, però, il presente, come altri non hanno fatto. Questi romanzi non sono di genere
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stretto, ma riescono a raccontare il presente molto bene. Perché la letteratura sia tale, perché abbia un valore, penso che uno scrittore debba sforzarsi di raccontare il proprio mondo e parlare di quelle cose che realmente hanno un effetto su di lui. Ne La bellezza è un malinteso la mia esigenza era a di parlare del senso di colpa, su cui per mille motivi stavo ragionando e, quindi, volevo che il mio protagonista ne soffrisse, avesse un forte senso di colpa che lo motivasse nelle sue azioni e venisse a patti con esso. La vita ti pone davanti a delle scelte, puoi scegliere una vita tranquilla e quindi ottenere quello che vuoi, semplicemente facendoti gli affari tuoi, oppure mettere a rischio questo per fare quello che ritieni giusto. Questo è il grande dilemma nel quale si dibatte il protagonista del romanzo perché ha un buon lavoro, una bella vita, sta bene, ha una casa, e alla fine si chiede se debba continuare a far finta di niente o se debba, invece, fare scelte dolorose che possono mettere a rischio tutto. Altro tema che mi interessava trattare è quello della violenza alle donne che, in quanto uomo, ho sempre vissuto con orrore vedendo la colpa del mio genere. Non volevo raccontare delle donne violate, picchiate, vittime ma di quelle che lottano, si battono e si auto-organizzano. Paolo Ciampi Nel libro c’è una battuta bellissima “conosco quello sguardo, ce l’ abbiamo tutti noi che dobbiamo sopravvivere nel mondo dei normali”. Sandrone Dazieri Come dicevo, mi interessava un personaggio che avesse dentro delle complessità, mi interessava capire meglio la sofferenza. È un personaggio che nasce da me, quindi ha delle mie caratteristiche, mi rappresenta, ed
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il dubbio di essere più o meno normale io l’ho sempre avuto Il protagonista si chiama come me e questo è un particolare non da poco. La costruzione adesso ha un nome, autofiction, ma quando ho iniziato io non ce l’aveva; tu costruisci dei personaggi che hanno il tuo nome e parte della tua biografia e li muovi in un mondo che non è quello reale. È una cosa che hanno fatto tanti altri prima di me. La questione è che a me interessava costruire una specie di continuità fra il mondo in cui vivevo e quello che inventavo, in cui fosse difficile distinguere la realtà dalla fantasia. Uso il mio nome, la mia vita, i miei amici, mia moglie, però sempre mettendoci qualche cosa che non è reale. Alla fine, per come ho vissuto e per le cose che ho fatto è chiaro che non sono normale, nel termine che potrebbe intendere mia madre; ho sempre fatto delle scelte di vita borderline: ho vissuto per strada, ho fatto lavori strani e ad un certo punto ho iniziato a fare il lavoro più strano di tutti, lo scrittore. La scrittura è quella cosa che, quando sei in società, può avere anche una funzione ma in realtà è assolutamente una forma di devianza, nel senso che lo scrittore per fare bene il proprio mestiere deve chiudersi al mondo almeno nella fase in cui scrive, dopodiché va in giro e conosce persone, ma una parte del suo cervello continua ad andare da un’altra parte e pensa a ciò che scriverà, pensa a quella cosa che lo ha colpito e che lui prenderà, ruberà, trasformerà e farà diventare parte del suo libro. Io sono sempre stato un tipo con delle grosse difficoltà relazionali e peggioro perché se la lettura è una cosa che ti apre al mondo e ti migliora, la scrittura è il contrario, ti peggiora. I miei amici scrittori sono dei pessimi esseri umani, non totalmente, perché si battono spesso per delle cause giuste, fanno sentire la loro voce e prendono posizione, ma
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dal punto di vista della loro vita come esseri umani sono tremendi. Stanno bene quando stanno da soli, hanno delle relazioni schifose con la propria famiglia e quando fanno cose normali, come andare in vacanza, pensano che quella cosa stia sottraendo tempo a ciò che vogliono davvero fare. Penso che davvero sia una forma di devianza e malattia ma sono certo che chi non è così sia un cattivo scrittore. Paolo Ciampi Però il Gorilla è cambiato negli anni. Ho letto che questo libro hai dovuto riscriverlo in alcuni punti perché ti sei accorto che il Gorilla era quello di qualche anno fa e non quello che nel frattempo era diventato. Come è cambiato? Sandrone Dazieri Ci sono due modi di scrivere il giallo. C’è il giallo classico, quello di Nero Wolfe, Ellery Queen, Perry Mason, la Signora in giallo, Colombo, in cui i personaggi non invecchiano mai, non cambiano mai e ogni volta che comincia un’avventura, ricominciano da zero. Questo funziona nei romanzi ed anche nelle serie tv. Prendiamo il tenente Colombo: risolve sempre i casi ma resta per sempre tenente; dopo vent’anni dovrebbe essere capo della polizia! Oppure Perry Mason che stava sempre nel proprio studio, non andava mai a casa ed aveva questa storia platonica con la segretaria, che non aveva una casa nemmeno lei. Alla fine sembrava che il personaggio fosse una maschera eterna perché il piacere per il lettore era ritrovare le cose sempre uguali. Sta poi allo scrittore adeguarsi e questa roba a me non interessava, perché non mi sono mai sentito uno scrittore seriale. Invece, il mio personaggio viveva e continuava a vivere fra
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un libro e l’altro. La storia del Gorilla si svolge in un arco di tempo di circa 13 anni, durante i quali gli hanno sparato due o tre volte, lo hanno pugnalato un’infinità di volte, ha visto morire alcuni amici ed uno lo ha arrestato perché ha scoperto che era un serial killer, gli hanno ammazzato un paio di amanti ed altre sono partite. Uno così, può rimanere uguale? All’inizio era scanzonato, dava la caccia ai serial killer, poi uccidono persone a lui care e diventa cinico, duro e cupo, ride meno e invecchia; se nel primo romanzo faceva a botte con due persone e le stendeva, adesso le prende e basta. Ha 45 anni, ha male al cuore e allo stomaco ma è anche più capace di capire le cose ed è più serio. Inoltre, ero cambiato anch’io. Quando ho iniziato a scrivere del Gorilla vivevo ancora in una casa occupata, ero un militante del Leoncavallo e poi è finita che sono andato in Mondadori, mi sono licenziato ed ho iniziato a scrivere per il cinema, guadagnandoci dei soldi. Il mio alter ego non poteva restare immutato e continuare a vivere in una casa sgarrupata. Però poteva continuare a essere disposto a rischiare tutto in nome di un’idea, della cosa giusta da fare. Il Gorilla lo fa perché è anche migliore di me, ovviamente nei romanzi è più facile, ma paga dei prezzi. Paolo Ciampi Che effetto ti ha fatto vedere Bisio portare sul grande schermo il Gorilla? Sandrone Dazieri È sempre difficile. Penso che il cinema e i libri abbiano poco a che fare. Ho seguito tutta la costruzione di quel film, quindi non mi ha sorpreso vedere Bisio sullo schermo; credo che fosse adatto e bravo, ma penso anche che il film fosse brutto. Questo l’ho sempre detto ma ho avuto la soddisfazione di portare il mio personaggio al
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cinema, però, il film non ha fatto successo e questo mi ha tarpato un po’ le ali. C’è un problema di base che non dipende dal regista, dallo sceneggiatore, ma dal fatto che in Italia si è smesso di fare i film noir. Il cinema di genere non si è più fatto, né di fantascienza né horror, quel poco di genere che è rimasto è in televisione, simile a quello che si faceva negli Stati Uniti negli anni Settanta: storie molto semplici da digerire, buoni contro cattivi, il prete che indaga, il commissario. Strutture molto tradizionali. Io ho fatto la serie Squadra antimafia applicando anche ad essa la strategia che adotto per i miei romanzi: i personaggi invecchiano, muoiono, restano feriti. Sono, comunque, molto limitato dal mezzo che mi piace ma certamente non permette di fare qualcosa come Lost, proprio quello che vorrei fare! Pubblico Nei tuoi libri il rapporto con Milano è sempre stato molto forte. Come è invecchiato nel corso degli anni questo rapporto? Sandrone Dazieri Milano è una città che ormai attraverso soltanto e che non vivo più. È una città che con gli anni è cambiata moltissimo, sono cambiato io ma è cambiata anche lei. Per me che venivo da Cremona Milano era meravigliosa, perché le librerie e le edicole erano sempre aperte, c’erano centinaia di cinema d’essai e di attività culturali. Gli anni Novanta erano gli anni di Craxi, della cocaina e delle veline. Erano anni schifosi, però, erano anni in cui la cultura aveva un peso. Mi ricordo che Pillitteri, diventato sindaco di Milano perché era il cognato di Craxi, fece coprire una serie di graffiti che avevamo fatto attorno ad un centro sociale che rappresentavano le storie di alcuni compagni morti. An-
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dammo da lui a dirgli che quei graffiti erano una cosa importante e lui rispose che avevamo ragione, che i graffiti fatti in un certo modo sono cultura e che era un dovere proteggerli. Poi sono arrivati quelli come Formentini, che diceva che la città andava governata come una bottega e come Albertini, che diceva che la città andava governata come una fabbrica. Più votavano questa gente e più la città cambiava, sempre più spaventata dal rumore, dagli stranieri, dai bar, dai parchi non recintati. Anche l’opposizione di sinistra fu d’accordo con la proposta di recintarli e quest’idea di chiusura ha reso Milano una città morta. Poi è arrivata la Moratti che diceva che quello che contava era il pareggio di bilancio. È chiaro che ci sono delle regole, ma una città non è una fabbrica o un’azienda ma un luogo dove le persone vivono. E da Milano sono scappate almeno cinquecentomila persone perché gli asili sono cari e l’aria fa schifo. Era proprio una città che implodeva, che si smontava, poi è successo qualcosa di miracoloso, perché non se ne poteva più. L’avvocato Giuliano Pisapia è diventato sindaco. Per rimettere in piedi Milano ci vorranno centinaia di anni, però si respira un’aria migliore. Anche perché hanno chiuso il centro. Pubblico Tu hai fatto militanza con il centro sociale Leoncavallo, lo scrivi anche nei tuoi libri. Com’è cambiato il tuo rapporto con il Leoncavallo e com’è cambiato rispetto alla società? Sandrone Dazieri Io ho iniziato a fare politica negli anni Ottanta, i centri sociali erano tutti chiusi e rimaneva il Leoncavallo, sostanzialmente gestito da un gruppo di una generazione più vecchia di me, che lo teneva aperto per farci
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delle iniziative per raccogliere i soldi da inviare ai detenuti in carcere. Quando abbiamo iniziato a fare politica, abbiamo riaperto i centri sociali e alla fine degli anni Ottanta sono rifioriti movimenti che si sono poi legati al movimento contro il nucleare, contro le basi militari, a quello per la liberalizzazione delle droghe leggere. L’unica battaglia che abbiamo vinto è stata quella contro il nucleare, le altre le abbiamo perse tutte. Quelle per la casa come diritto, per gli affitti decenti, per i redditi minimi garantiti per i disoccupati sono andate male e i centri sociali che avevano questa spinta propulsiva si sono chiusi. Quando ci buttarono fuori dal Leoncavallo sentivo l’esigenza di rioccuparlo anche perché non avrei saputo come ribeccare tutte quelle persone con cui mi vedevo lì. Oggi c’è internet, c’è uno scambio veloce, non devi necessariamente andare in un luogo fisico e questo toglie un po’ alla militanza. Forse, bisogna pensare a nuove forme di intervento sociale, ma io non sono più un militante e non sono un sociologo, quello che cerco di fare come contributo è che dove posso cerco di raccontare. Paolo Ciampi Ti hanno domandato del Leoncavallo mentre io ti domando della Mondadori. Com’è lavorare lì dentro? Qual è l’ambiente e quali gli stimoli che può offrire una grande casa editrice? Sandrone Dazieri È una bellissima scuola editoriale. Dopo aver pubblicato il primo romanzo la Mondadori, mi ha chiamato a dirigere il Gialli Mondadori e poi ho diretto il comparto di libri per edicola. Dopo sono diventato direttore dei libri per ragazzi e poi mi sono licenziato, perché avevo capito che non volevo fare il funzionario. Mi interessava man-
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tenere i rapporti che avevo instaurato, perché volevo fare con loro alcune cose ma quando sono entrato alla Mondadori vivevo il fatto di essere un outsider; tutti quelli che venivano dalle case editrici avevano un percorso tradizionale, laureati in Lettere, in Scienze Politiche, avevano iniziato come consulenti esterni per la materia di cui si occupavano e lentamente avevano fatto carriera. Io arrivavo dal Leoncavallo, scrivevo ed avevo una visione diversa dalla loro e poi avevo passione. Se hai una passione e vai fino in fondo, fossero anche le figurine di calciatori, se sei il più bravo un percorso lo fai ed io ero bravo in due cose, il fumetto e il giallo. Ma restavo comunque un outsider. Due ambienti che frequento e che conosco sono l’editoria e la televisione. La differenza vera è che in televisione girano molti più soldi ma dall’altra parte la professionalità dentro alle case editrici serie è altissima. I professionisti là dentro erano bravi, mi hanno trasmesso qualcosa, mentre la maggior parte delle persone che incontri alla televisione non sanno fare il proprio mestiere e non sai perché sono lì, o meglio, lo sai perché sostanzialmente la Rai e Mediaset sono due strutture politiche e non lavorano per merito. Queste persone non hanno niente da insegnarti, è un mondo che respinge ma con cui ho comunque un rapporto di scambio di lavoro. È molto meglio il mondo dell’editoria che è un mondo che sta cambiando. Col passaggio al digitale non è che non si faranno più libri di carta ma se il fatturato dei libri si sposta sul digitale, passando attraverso gli store su internet, le librerie chiudono. Chi si farà più male saranno quelle in stile grandi magazzini e non quelle in cui il libraio esperto ti sa consigliare e riesce ad instaurare con te un rapporto e a darti un servizio che va al di là del libro venduto. Però c’è sempre l’editore e se scrivi
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un libro hai due possibilità: o vai dall’editore ladro, che finge di aver sparso il tuo libro per il mondo, e invece ne ha fatte dieci copie e basta, oppure fai la trafila, inviando una copia e sperando che qualcuno la legga. Con il digitale hai delle piattaforme comodissime, come Amazon, e puoi pubblicare un libro, scegliendo il formato e monitorando giorno per giorno quanto vende. Se sei bravo lo metti sulle reti, lo pubblicizzi, lo vendi, vai in classifica, ecc. Ho fatto un esperimento mettendo un mio libro tradotto in inglese su Amazon America per vedere come funzionava, perché non avevo trovato un editore americano. Ho capito come funziona l’auto-pubblicazione ed ho visto che esiste un grande numero di titoli che vengono pubblicati ogni giorno da esordienti che hanno saltato qualsiasi intermediazione con gli editori, magari sono casalinghe che passano metà del tempo a scrivere e metà a pubblicizzarlo sui social network. È diventato un altro modo per proporsi. Poi, certo si può vendere di tutto: roba copiata, piena di errori, senza alcun margine. L’editore all’interno del mondo digitale ha sempre una funzione, quella di essere un marchio di qualità.
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Appendice
Questa sezione è una novità rispetto alle edizioni precedenti della pubblicazione ma è già da un po’ che ci frullava in testa l’idea di realizzarla. Cercando di mantenere inalterata l’atmosfera delle serate, abbiamo rieditato le interviste per la versione cartacea e qualcosa è stato tagliato per motivi di spazio e di tenuta degli interventi ma volevamo che niente degli incontri del Mercoledì andasse smarrito. Per questo abbiamo creato un piccolo “regalo” per i nostri affezionati di nuova e vecchia data! Ogni ospite nel corso della serata di cui è stato protagonista ha citato film, autori, romanzi e canzoni. Li abbiamo raccolti in questa appendice; sono spunti di letture, visioni ed ascolto che possono occuparci ed emozionarci in attesa della nuova edizione del “Mercoledì da scrittori”.
Don Luigi Ciotti Canzoni Fabi, Niccolò È non è (2003)
Margherita Hack Canzoni D’Anzi, Giovanni - Marchesi, Marcello Ma dove vai bellezza in bicicletta (1951) Modugno Domenico Malarazza (1976)
Luca Miniero Film Castellitto, Sergio La bellezza del somaro (2010) Genovese, Paolo Immaturi (2011) Manfredonia, Giulio Si può fare (2008) Miniero, Luca Incantesimo napoletano (2002) Benvenuti al Sud (2010)
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Benvenuti al Nord (2012) Nunziante, Gennaro Cado dalle nubi (2009) Risi, Marco Fortapàsc (2009) Salce, Luciano Fantozzi (1975) Salvatores, Gabriele Mediterraneo (1991) Scola, Ettore Brutti, sporchi e cattivi (1976) Troisi, Massimo Ricomincio da tre (1981) Verdone, Carlo Bianco, rosso e verdone (1981)
Luca Leone Film Tanović, Danis No Man’s Land (2001) Libri Leone, Luca Bosnia Express (2010) Saluti da Sarajevo (2011) Uomini e belve. Storia dai Sud del mondo (2008) Canzoni Cranberries Bosnia (1996) Pavarotti & U2 Miss Sarajevo (1995)
Giancarlo De Cataldo Libri Brecht Bertold Libro di devozioni domestiche (1927) Bonini, Carlo A.C.A.B (2009) Cappelli, Igino Gli avanzi della giustizia: diario del giudice di sorveglianza (1988) De Cataldo, Giancarlo Romanzo criminale (2002) Dresier, Theodore Una tragedia americana (1925) Focault, Michel Sorvegliare e punire (1975) Genet, Jean Il giovane criminale (1948) Hawthorne, Nathaniel La lettera scarlatta (1850) Tabucchi, Antonio La testa perduta di Damasceno Monteiro (1997) Film Allen, Woody Match Point (2005) Placido, Michele Romanzo criminale (2005) Sollima, Stefano A.C.A.B. (2012) Taviani, Paolo e Vittorio Cesare deve morire (2012)
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Concita De Gregorio Film Gadda, Carlo Emilio Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana (1957) Sannucci, Corrado A parte il cancro tutto bene. Io e la mia famiglia contro il male (2008) Sivieri, Tagliabue Cristina Appena ho 18 anni mi rifaccio. Storie di figli, genitori e plastiche (2009) Pasolini, Piero Paolo Ragazzi di vita (1955) Canzoni Di Bari, Nicola La prima cosa bella (1970) Morrisey Please, please, please (1984) Talking Heads Heaven (1979)
Pietro Grossi Film Penn, Sean Into the wild (2007) Salles, Walter Diari della motocicletta (2004) Salvatores, Gabriele Io non ho paura (2003) Canzoni Pink Floyd Astronomy domine (1966) Shine on you crazy diamond 81975) Wish you were here (1975) Libri Grossi Pietro Touché (2000) Pugni (2006) Schulberg, Budd I disincantati (1960)
Paolo Di Paolo Libri Di Paolo, Paolo Questa lontananza così vicina (2009) Hamilton, Ian In cerca di Salinger (1988) Parise, Goffredo I Sillabari (1984) Romano, Lalla Le parole tra noi leggere (1969) Salinger, J.D. Il giovane Holden (1951) Schneider, Peter Papà (1988) Tabucchi Antonio Sostiene Pereira (1994)
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Si sta facendo sempre più tardi (2001) Il tempo invecchia in fretta (2009) Viaggi e altri viaggi (2010) Film Henckel von Donnersmarck, Florian Le vite degli altri (2006) Sorrentino, Paolo This must be the place (2011)
Paolo Roversi e Marco Vichi Film Lizzani, Carlo Banditi a Milano (1968) Libri Bukowski, Charles Post office (1971) Bulgakov, Michail Cuore di cane (1928) Dostoevskij Fedor Delitto e castigo (1866) Fante, John Chiedi alla polvere (1939) Gadda, Carlo Emilio Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana (1957) Pasolini, Pier Paolo Il PCI ai giovani - poesia - (1968) Roversi Paolo Seppellitemi vicino all’ippodromo così che possa sentire l’ebbrezza della volata finale (1997) Blue Tango - noir metropolitano (2006) La mano sinistra del diavolo (2006) Niente baci alla francese (2007) Taccuino di una sbronza (2008) L’uomo della pianura (2009) Milano criminale (2011) Scerbanenco, Giorgio Piccolo hotel per sadici - racconto - in Milano calibro 9 (1969) Vichi Marco L’inquilino (1999) Il commissario Bordelli (2002) Una brutta faccenda (2003) Il nuovo venuto (2004) Morte a Firenze (2009) Un tipo tranquillo (2010) La forza del destino (2011) Canzoni Mina Città vuota (1965) Ranieri, Massimo Se bruciasse la città (1969)
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Dario Franceschini Film Forman, Milos Qualcuno volò sul nido del cuculo (1975) Libri García Márquez, Gabriel Cent’anni di solitudine (1967) Lee Masters, Edgar Antologia di Spoon River (1914-915) Santucci, Luigi Orfeo in paradiso (1967) Canzoni De Andrè Fabrizio Verranno a chiederti del nostro amore (1973) Via del Campo (1967)
Don Andrea Gallo Canzoni De Andrè Fabrizio Canto del servo pastore (1981) La Città Vecchia (1965) Non al denaro, non all’amore né al cielo (1971)
Sandrone Dazieri Libri Auster, Paul Trilogia di New York (1985) Dazieri, Sandrone Attenti al Gorilla (1999) La cura del gorilla (2001) Gorilla blues (2002) Il Karma del Gorilla (2005) La bellezza e’ un malinteso (2010) DeLillo, Don Cosmopolis (2003) Dick, Philip K. Il cacciatore di androidi (1968) Film Argento, Dario Quattro mosche di velluto grigio (1971) Profondo rosso (1975) Cronenberg, David Cosmopolis (2012) Martani, Marco Cemento armato (2007) Scott, Ridley Blade runner (1982)
Finito di stampare nel mese di dicembre 2012 da Digital Book s.r.l., CittĂ di Castello (pg)
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Porto delle Storie è il progetto sulla scrittura dell’Assessorato alle Politiche Culturali del Comune di Campi Bisenzio e della Cooperativa Macramè, percorso avviato nel 2007 con la prima edizione di Un mercoledì da scrittori e che oggi comprende i laboratori di scrittura e fumetto gratuiti per minori e adulti e il concorso letterario Fogli di viaggio dedicato a Tiziano Terzani. www.portodellestorie.it
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In questa nuova edizione troverete: la vita sui pedali di Margherita Hack; l’Italia da Napoli a Milano del regista di Benvenuti al Sud Luca Miniero; la Bosnia a quasi vent’anni dalla fine della guerra raccontata da Luca Leone; l’idea di Giustizia di Giancarlo De Cataldo; l’inchiesta sul senso della vita di Concita De Gregorio; l’adolescenza nella campagna Toscana narrata da Pietro Grossi; la beatificazione di Roberto Baggio ad opera di Vanni Santoni e Matteo Salimbeni; la Lega Nord vista dagli occhi della parigina Lynda Dematteo; il ventennio di Berlusconi e i ricordi su Tabucchi di Paolo Di Paolo; un dialogo tra due giallisti come Paolo Roversi e Marco Vichi; l’inaspettato romanziere Dario Franceschini; il fiume in piena Don Andrea Gallo e le regole del giallo di Sandrone Dazieri.
Inc ont ria mo lib ri, leg gia mo scr itt ori
201 2 A cura di Francesca Ammannati e Francesca Ciardi