I dannati di Mogadiscio - Daniele Bellocchio

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Reportage

I DANNATI DI MOGADISCIO Nella capitale della Somalia vivono più di 500 mila profughi. Scappati da guerra e siccità, speravano di avere la pace in città. Ma hanno trovato fame e bombe DI DANIELE BELLOCCHIO - FOTO DI MARCO GUALAZZINI

La distruzione della cattedrale cattolica che si trova nella parte vecchia di Mogadiscio


Reportage Calcio e kalashnikov Una scuola coranica nel centro della città. Sotto: l’ufficio del direttore del quotidiano “Xog-Ogaal”. A sinistra dall’alto: la redazione di radio Shabelle che ha avuto otto giornalisti uccisi dal 2007; l’ingresso dell’ospedale militare De Martino; ragazzi che giocano a calcio per strada. A destra dall’alto: un’immagine del quartiere Shangani; un avamposto delle truppe governative a nord di Mogadiscio; un soldato


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Se questi sono uomini L’immenso campo profughi di Al Hijra che si trova nell’area di Shangani a Mogadiscio. Si calcola che siano almeno 500 mila i rifugiati nella capitale. Sono scappati dalle campagne sia a causa della ormai ventennale guerra sia a causa della spaventosa siccità dell’anno scorso

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e urla di paura si confondono con quelle di allarme, la gente fugge in ogni direzione formando una nuvola indistinta multicolore. L’auto-bomba è di fronte all’hotel Ambassador, al Km4, uno dei quartieri più transitati di Mogadiscio. Solo la delazione di un combattente di Al Shabab, l’organizzazione jihadista affiliata ad Al Qaeda, permette alle truppe dell’Unione Africana di evacuare in tempo la zona ed evitare una strage. Nessun morto, nessun ferito, rara casualità per la capitale della Somalia, dove il conflitto tra Al Shabab e l’Amisom, il contingente di peacekeeping dell’Unione Africana alleato alle truppe governative, chiede ogni giorno il suo tributo di sangue. La guerra e la carestia che la scorsa estate ha sconvolto il Corno d’Africa hanno trasformato Mogadiscio in una bolgia dantesca di dannati. Nei gironi più bassi dell’inferno, gli oltre 500 mila profughi che affollano la città. Sono assiepati ovunque, sui cigli delle strade, tra le rovine dei palazzi dell’epoca coloniale, ai piedi del vecchio Parlamento nel quartiere di Suqamallaiga, fino al nuovo porto navale, in quello di Hamar Jabjab. «Siamo scappati di notte e siamo arrivati a Mogadiscio da soli 20 giorni», grida Aset Osman Mohamed, 28 anni, portavoce dell’ultimo drappello di 550 rifugiati giunti nella capitale. Provengono dalla regione del Basso Shabelle. Donne, uomini, anziani e bambini con la paura negli occhi e la fame sul volto. «Ci siamo accampati nel primo luogo in cui abbiamo trovato spazio», spiega Aset, che racconta con un dito sospeso nell’aria, come se ripercorresse su una carta geografica mentale le tappe dell’esodo. «Ora però», continua, «non abbiamo di che mangiare, non ci sono medicine e la poca acqua riusciamo ad at-

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psicotropi che alleviano la fame e la stanchezza, l’Ak-47 a tracolla, a capo di una pattuglia. «Guadagniamo 100 dollari al mese, ma la paga non è mai puntuale. A volte bisogna anche aspettare sei mesi prima di vedere i soldi. Se vinceremo? Insciallah!». Sono piene invece di retorica militare le frasi di Mohamed Moahmud Saney, colonnello dell’esercito: «Al-Shabab è finita. Hanno perso. È il patriottismo che ci spinge a combattere, non i soldi. Noi sappiamo di aver vinto e non abbiamo paura». Mente il colonnello: mentre pronuncia parole di vittoria deve abbandonare la postazione perché Al-Shabab ha incominciato ad attaccare e piovono colpi di mortaio. È proprio l’incognita sul risultato dello scontro a far nascere interrogativi sull’esito del processo di pace che dovrebbe portare la Somalia alla creazione di uno Stato Federale. Nel Paese del Corno d’Africa si stanno svolgendo tutte le fasi previste dagli accordi di Garowe di febbraio ma, se è certo ormai che il presidente Sharif Sheik Ahmed e il primo ministro Abdiweli Mohamed cesseranno il proprio mandato ad agosto, meno sicuro è il destino collettivo. La bozza costituzionale è stata redatta, ora deve essere approvata l’Assemblea Costituente, poi va nominata la Camera bassa e infine formato il nuovo esecutivo. I dubbi sulla riuscita sono notevoli. Non tutta la società somala infatti è protagonista di questo processo. Unici artefici della Road Map sono l’attuale Governo Federale, il presidente del Puntland, quello del Galmudug e il gruppo Sufi moderato di Al Sunna Wal Jamma. Le realtà geografiche e politiche escluse quindi sono molteplici e con la loro emarginazione si paventa il rischio della forma-

Foto: Luz Photo

tingerla solo dai pozzi di emergenza». Intere famiglie costruiscono tra macerie e sassi piccole capanne, le une attaccate alle altre, nella più totale promiscuità. Gli uomini piegano i giunchi e le donne cercano tra i rifiuti stracci e sacchetti di plastica con cui ricoprirli. Al campo profughi Horio 1.550 famiglie stanno tra polvere, mosche e miserabili tende. Awil Mohamed Alì ha 42 anni, è arrivato da sei mesi con moglie e figli e proviene dal sud del Paese: «Conviviamo con malnutrizione, malaria e infezioni di ogni tipo». Attorno a lui uomini e donne alzano un coro che è un lamento, mentre un bambino gattona nudo in una montagna di rifiuti, davanti a sguardi impassibili e indifferenti. «Perché siamo venuti a Mogadiscio? Pensavamo di essere al sicuro dalla guerra», conclude Awil Mohamed. Dopo l’offensiva di agosto delle truppe dell’Unione Africana che hanno costretto alla ritirata le milizie di Al Shabab, sembrava che nella capitale l’incubo fosse cessato. Il presidente Sheik Sharif Ahmed esultò ed insieme a lui la popolazione, che credeva di poter archiviare finalmente vent’anni di guerra: ma si è solo passati dalla guerra di posizione alla guerra del terrore. La vita, di giorno, cammina di pari passo con l’incubo degli attentati, di notte, invece, con quello dei colpi di mortaio lanciati dalle postazioni di Al Shabab verso Villa Somalia. Le roccaforti degli islamisti ora sono esterne alla città, nelle periferie settentrionali. Bisogna attraversare tutta Mogadiscio per arrivare sino alla prima linea. Gli ultimi avamposti delle truppe governative e di quelle Amisom sono nei quartieri di Heliwa e Karan. L’Unione Africana pattuglia e combatte con blindati e carri armati, i governativi invece in infradito e kalashnikov. Una corte dei miracoli in divisa, l’esercito somalo. Ex membri di Al Shabab, ragazzi di 15 anni, studenti coranici improvvisati difensori della patria. «Non abbiamo equipaggiamento. Armi, munizioni e divise scarseggiano. Ogni settimana siamo sottoposti agli attacchi di Al Shabab», racconta Sid Omar, 28 anni, gli occhi velati dal khat, le foglie dagli effetti

Gli ultimi arrivati dalla campagna con giunchi e stracci tirano su miserabili capanne. Dove convivono con malaria e ogni genere di malattie

Una stanza dell’ospedale Benadir, il più importante di Mogadiscio. A sinistra: un gruppo di rifugiati. In alto: un avamposto dell’esercito nel nord della capitale

zione di un governo di pochi. Inoltre, se le aspettative di un miglioramento della condizione di vita delle centinaia di migliaia di profughi non venissero esaudite, c’è il timore che questo popolo del vento, in fuga dal presente e che non scorge il futuro, diventi il serbatoio da cui signori della guerra e Al-Shabab possano attingere uomini per le proprie milizie. «Anche dopo agosto il numero di persone che vengono ricoverate perché coinvolte in esplosioni o sparatorie è di oltre 20 a settimana», racconta Asha Omar, direttrice dell’Ospedale De Martino e insignita del premio di Donna dell’anno nel 2008 a Saint Vincent. Cammina tra i padiglioni dell’ospedale, 27 reparti, uno solo adibito a degenza per feriti d’arma da fuoco, tutti gli altri occupati da profughi. Mentre spiega la situazione, visita i pazienti dell’unica ala del nosocomio funzionante. Tra questi un ragazzo di 22 anni. Tre pallottole gli hanno tranciato le vertebre. Saluta solo sbattendo le palpebre. «Il governo si preoccupa della guerra», prosegue Asha Omar, «ma dell’istruzione e della sanità molto meno. Mancano vaccini, manca il carburante e non sempre c’è l’elettricità per far funzionare i pochi macchinari che abbiamo». Non è diversa la situazione al Banadir Hospital, dove i letti non bastano e i pazienti sono ovunque. Chi nei sottoscala, chi in piccole tende di stracci posizionate in cortile. E i medici non sono sufficienti. Ogni madre è anche l’ostetrica della propria figlia, ed è così che una giovane donna che non riesce a partorire, morde il chador per il dolore, mentre l’anziana mamma la sorregge e la conforta. «Lo Stato non ci passa uno scellino», grida Abdirizak Hassan Alì, direttore dell’ospedale. «Le attrezzature sono vecchie di 50 anni. Chi ci permette di fare qualcosa sono le ong che ci sostengono con le loro donazioni». Fra tanta disperazione, per cogliere un segno di speranza bisogna andare al Lido dove i ragazzi si impegnano in infinite partite di calcio. Un muro sforacchiato usato come porta e un ragazzino a tirare un calcio di rigore. Prende la rincorsa, tira e segna. Un piccolo attimo di felicità. ■ 24 maggio 2012 | lE ’ spresso | 93


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