Il bagno rituale

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Il bagno rituale


Uno

«Il segreto di un kogel 1 di patate buono sta nelle buone patate», urlò Sarah Libba sopra il rumore dell’asciugacapelli. «Il segreto di un kogel di patate ottimo è nella quantità di olio. Bisogna usare quel tanto di olio che serve a bagnare la pastella, e poi aggiungerne appena un po’ di più perché fuoriesca sulla teglia e crei quella crosta che rende il tutto croccante ma non troppo unto». Rina annuì e piegò un asciugamano. Se c’era qualcuno che sapeva come si prepara un kogel di patate, quella era Sarah Libba. Quella donna avrebbe potuto fare una scarpa arrosto e trasformarla in una prelibatezza. Ma stasera Rina era troppo esausta per ascoltare con attenzione. Erano già quasi le dieci, e doveva ancora pulire la mikvah, e poi correggere trenta compiti in classe. Era stata una serata piena, per via della sposa. Un sacco di cose da fare, e poi tranquillizzare, e spiegare. La ragazza era molto agitata, ma chi non lo è prima di sposar1 Piatto della tradizione ebraica askenazita equivalente al gateau di patate [NdT].


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si? Rivki aveva appena diciassette anni, e non sapeva quasi niente del mondo intorno a lei. Protetta e deliziosamente timida, si era fidanzata con Baruch dopo solo tre uscite. Ma Rina trovava che fossero una bella coppia. Baruch era un bravo studente, gentile e molto paziente. Non aveva mai perso la pazienza, neppure una volta, quando insegnava a Shmuel come andare in bicicletta senza rotelle. Sarebbe stato calmo ma rassicurante, decise Rina, e non ci sarebbe voluto molto perché anche Rivki imparasse tutto quello che le altre donne già sapevano. Sarah spense l’asciugacapelli, e il motore emise un ultimo ansimo. Scuotendo i suoi capelli a spazzola, sospirò e si mise una parrucca. Le trecce di nylon erano di color ebano, e scendevano al di sotto delle sottili spalle di Sarah Libba. Era una donna carina, con grandi occhi marroni che davano luce a un volto rotondo e amichevole. Piccola, non più di un metro e cinquanta, con un personale snello, che mascherava quattro gravidanze e altrettanti figli. Curata nel vestiario e nei modi, lavorava con metodo nel pettinare e sistemare le nere trecce artificiali. «Aspetta», disse Rina. «Lascia che ti aiuti qui dietro». Sarah sorrise. «Sai cosa mi ha spinto a comprare questa shaytel?» Rina scosse la testa. «I tuoi capelli, Rina», disse Sarah. «Stanno diventando così lunghi». «Lo so. Me lo ha già detto, Chana». «Li taglierai?» «Forse sì». «Spero non troppo corti». Rina alzò le spalle. I capelli erano una delle sue caratteristiche più belle. Sua madre aveva fatto il diavolo a 14


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quattro quando Rina aveva annunciato che dopo il matrimonio li avrebbe coperti. Di tutti i precetti religiosi che Rina aveva deciso di seguire, quello di coprirsi i capelli era quello che era dispiaciuto di più a sua madre. Ma lei era andata avanti a dispetto delle sue proteste, si era tagliata i capelli e aveva cominciato a nasconderli sotto una parrucca o un fazzoletto. Ora, naturalmente, la questione era discutibile. Lavorando con gesti rapidi e sicuri, Rina acconciò la parrucca con uno stile alla moda. Sarah Libba allungò il collo per riuscire a guardarsi le spalle allo specchio, poi sorrise. «Sta benissimo», disse, toccando la mano di Rina. «Ho molto materiale con cui lavorare», disse Rina. «È una buona shaytel». «Vorrei vedere», disse Sarah. «È costata quasi 300 dollari, e per giunta ha solo il venti per cento di capelli umani». «Non si direbbe mai». L’altra donna si fece seria. «Non tagliarti i capelli corti, Rina. Non stare a sentire quello che ti dice Chana. Lei ha sempre consigli per tutti, tranne che per se stessa. È venuta con la famiglia per Shabbat, e i suoi figli sono stati dei mostri. Hanno rotto il Transformer di Chaim, eppure pensi le sia uscita di bocca una parola di scuse?» «Niente, eh?» «Niente! Quei ragazzi sono vilde chayas, e le ragazze non sono meglio di loro. Per essere una che vorrebbe sistemare le vite di tutti, non mi sembra abbia ottenuto grandi risultati con la propria». Rina non disse nulla. A lei non piacevano i pettegolezzi, non solo perché era proibito, ma perché lei stessa li 15


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trovava di cattivo gusto. Preferiva tenere le proprie opinioni per sé. Sarah non continuò il suo soliloquio. Si alzò, si avvicinò allo specchio a figura intera e si compiacque di sé. «Sono gli unici momenti che ho tutti per me», disse. «Quelli che mi fanno sentire di nuovo un essere umano». Rina annuì comprensiva. «Quando arriverò a casa, i ragazzi saranno probabilmente tutti ancora svegli», sospirò l’esile donna. «E Zvi stasera studia fino a tardi… penso che me ne tornerò a casa molto lentamente. Per godermi l’aria fresca». «Questa sì che è una buona idea», disse Rina sorridendo. Sarah avanzò faticosamente verso la porta, girò la maniglia, raddrizzò la schiena e se ne andò. Finalmente sola, Rina si alzò, si stiracchiò e guardò di nuovo l’orologio. I suoi figli erano ancora al Computer Club. Steve li avrebbe accompagnati a piedi a casa, dove c’era una baby-sitter che li aspettava, perciò non c’era nessuna ragione per affrettarsi. Poteva prendere le cose con calma. Si tolse le scarpe, si massaggiò i piedi, li infilò dentro delle calze fatte a maglia e si trascinò sulle scintillanti piastrelle bianche. Carica di un secchio pieno di acqua insaponata, un mucchio di stracci e un altro secchio con i prodotti per la casa, entrò nel corridoio che conduceva ai due bagni. Il primo era stato usato da Sarah Libba, che lo aveva lasciato pulito e in ordine. Gli asciugamani e il lenzuolo erano piegati in modo maniacale sul ripiano piastrellato, il tappetino steso sull’orlo della vasca da bagno, e tutti i capelli erano stati rimossi con cura dal pettine e dalla spazzola. Rina si mise rapidamente al lavoro, strofinando il pavimento, la vasca, il lavandino e la doccia. Riempì i por16


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tasapone, il contenitore per i nettaorecchie e quello per il cotone, rimise il tappo al tubetto di dentifricio e sistemò il pettine in una bacinella disinfettante. Dopo aver pulito a fondo anche i ripiani, uscì dalla stanza portando con sé la spazzatura e il sacco della biancheria sporca. Il secondo bagno era nel disordine più totale, ma in breve anche quello divenne immacolato come il primo. Rina gettò la spazzatura nello scivolo che arrivava direttamente in un secchio all’esterno e mise gli asciugamani, le lenzuola e gli stracci in una grande lavatrice nell’armadio. E ora, le mikvoth. La mikvah principale – quella delle donne – era una vasca profonda un metro e venti e di poco più di due metri quadrati, incassata nel pavimento, piastrellata di mattonelle di uno scintillante blu scuro. Per aiutare le donne a scendere gli otto gradini, era stato installato un corrimano. Le leggi religiose prescrivevano che l’acqua nel bagno provenisse da una fonte naturale – pioggia, neve, ghiaccio – ma, per un maggior comfort delle occupanti, l’acqua cristallina era riscaldata. Che splendida mikvah, pensò Rina, così diversa da quella di emergenza che aveva utilizzato sei anni prima. Erano in visita dai genitori di Yitzchak, a Brooklyn. Era inverno, e c’era lo stato di allarme perché era prevista una tormenta. La mikvah più vicina era solo una pozza d’acqua lurida e gelata, ma lei aveva trattenuto il respiro e si era comunque imposta di immergersi. Quando era tornata a casa, si era sentita contaminata. Sebbene non sia permesso lavarsi dopo il bagno rituale, Yitzchak aveva fatto finta di non vedere quando Rina aveva immerso le sue ossa ghiacciate nell’acqua bollente, per rimuovere dalla sua pelle i residui schiumosi che le erano rimasti addosso. 17


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Le mogli degli uomini della yeshiva avevano chiesto a gran voce la costruzione di una mikvah pulita – una mikvah che rendesse una donna orgogliosa di osservare le leggi della purezza familiare. E alla fine l’avevano spuntata. Le piastrelle utilizzate per la mikvah e per i ripiani del bagno erano cesellate a mano e importate dall’Italia. Come tocco ulteriore, era stata aggiunta anche una zona per farsi belle, con due tolette perfettamente equipaggiate con asciugacapelli, pettini, spazzole, bigodini e specchi per il trucco. Era stato ingaggiato un architetto, la costruzione era stata completata in tempi brevi, e ora la yeshiva aveva una mikvah degna di questo nome. Le donne non dovevano più impiegare ore per la mitzvà 2 di Taharat Hamishpacha: la pulizia dell’anima attraverso l’immersione nel bagno rituale. Rina asciugò l’acqua rimasta sul pavimento, poi spense il riscaldamento e le luci. Si incamminò nuovamente lungo il corridoio, tirò fuori una chiave ed entrò nella mikvah degli uomini. In confronto, questa era disadorna, ricoperta di semplici piastrelle bianche. Gli uomini si erano rifiutati di far riscaldare o filtrare l’acqua, ma il Rosh Yeshiva 3 ci teneva molto che tenessero l’ambiente pulito. Sebbene non le spettasse, come gesto di cortesia Rina lavò anche questo pavimento. Quando ebbe finito, richiuse a chiave la porta e terminò pulendo l’ultima vasca: un piccolo lavandino per immergervi gli utensili di metallo serviti a cucinare e a mangiare. Sul fondo c’era una teglia. Doveva averla lasciata lì Ruthie Zipperstein, quando aveva immerso le sue pentole. Rina decise che gliel’avrebbe riportata andando a casa. In ebraico, nell’uso comune, ‘buona azione, azione caritatevole’; ma anche, come in questo caso, “osservanza di uno dei precetti della Torah” [NdT]. 3 Direttore della scuola talmudica [NdT]. 2

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Si asciugò le mani, poi tornò nella reception e si sedette in una vecchia poltrona troppo imbottita. Tirò fuori un pacco di compiti in classe e cominciò a correggerli, accompagnata dal rumore della lavatrice. Quando il ciclo finì, era arrivata a metà dei compiti. Mentre si alzava per caricare l’asciugatrice, sentì un grido che la fece sobbalzare. Gatti, pensò. I cortili della yeshiva ne erano infestati. Felini pelle e ossa che emettevano orribili urla simili a degli esseri umani, e che spesso spaventavano i suoi figli nel cuore della notte. Rina sbatté lo sportello dell’asciugatrice, e stava per accendere l’apparecchio, quando sentì di nuovo un grido. Andando alla porta, appoggiò l’orecchio al morbido legno di pino. Poteva sentire qualcosa che si muoveva nel boschetto, ma anche quello non era affatto insolito. La yeshiva era situata in un’area rurale e circondata da una foresta. Gli alti alberi proteggevano un’ampia varietà di animali velocissimi: asini, corvi, scoiattoli, serpenti, lucertole, di quando in quando un coyote e, naturalmente, i gatti. Ciononostante, cominciò ad avere paura. Rina girò la maniglia, socchiuse la porta e guardò nell’oscurità. Un getto d’aria calda la colpì sul viso. Il cielo era pieno di stelle, ma senza luna. Da principio non sentì nulla, poi, sullo sfondo di un coro di grilli, il suono di un ansimare attutito. Aprì un po’ di più la porta, e un fascio di luce proveniente dall’interno illuminò il terreno secco e polveroso. «C’è nessuno?», azzardò. Silenzio. «C’è nessuno laggiù?» Con la coda dell’occhio, intravide una figura che fuggiva, scomparendo nella fitta boscaglia della collina. Un grosso animale, pensò da principio, ma poi si rese conto che quella figura era in piedi. 19


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Per un breve istante restò immobile, in ascolto. Aveva sentito di nuovo quell’ansimare, oppure l’aveva solo immaginato? Scrollò le spalle e stava per chiudere la porta, quando fu presa dal panico. Sul terreno di fronte a lei c’era la parrucca di Sarah, le nere trecce aggrovigliate e sporche. «Sarah?», gridò. L’unica risposta fu quell’ansimare. Rina raccolse la parrucca e la esaminò con le mani che le tremavano. Poi, con grande cautela, si avventurò verso il boschetto, avvicinandosi sempre di più verso quel rumore. «Sarah, sei tu?», urlò. L’ansimare si fece più vicino. Sembrava venire da una conca, simile a una scodella, nel bosco più fitto. Rina si avvicinò per vedere meglio e l’orrore le tolse il fiato. Sarah Libba era una figura scomposta sul terreno, incrostata di sporco. Il suo vestito era stato strappato, come in tanti nastri. Il suo piccolo volto era bagnato da un liquido che le correva sulle guance e sul suo seno nudo, le gambe anch’esse nude tranne che per le mutandine, arrotolate intorno alle caviglie, e i sandali ai piedi. Gli occhi di Sarah erano fuori dalle orbite e si contorcevano, il respiro affannato e vuoto. Stava per andare in iperventilazione. Rina inciampò, riuscì a ritrovare l’equilibrio, poi lentamente si chinò. Sarah sussultò e si ritrasse come un animale ferito. Inginocchiandosi per guardarla negli occhi, Rina vide le ferite sul suo volto. Sarah chiuse la mano a pugno ed iniziò a battersi con forza il petto. Con gli occhi invocò il cielo, mentre muoveva le labbra in una supplica silenziosa. Rina prese il braccio della donna e l’aiutò ad alzarsi in piedi. 20


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Per essere così piccola, Sarah era sorprendentemente pesante, e Rina faticò a sostenere il suo peso. Passo dopo passo, riuscì in qualche modo a riportare la donna, che continuava a gemere, all’interno del confine sicuro della yeshiva. Una volta dentro, fece stendere Sarah. Togliendole con delicatezza il vestito a brandelli, Rina avvolse il suo corpo ferito e lacerato in un lenzuolo fresco di bucato. Per prima cosa, Rina telefonò a casa di Sarah Libba. Lasciò alla baby-sitter un messaggio perché trovasse il marito di Sarah, Zvi, nella sala studio e gli dicesse di andare immediatamente alla yeshiva. Poi chiamò il Rosh Yeshiva. Anche lui, ovviamente, stava studiando, perciò lasciò un messaggio identico. Alla fine, chiamò la polizia.

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