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IL POSTALE INGLESE
Tenera Valse
Portami tante rose
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GUIDA ALLA BEAT GENERATION
Dato che il mondo va in una direzione delirante, occorre assumere una posizione delirante. Jean Baudrillard Se l’universo, di cui mi compiaccio, io per comandamento del cuore lo elessi, la facoltà ho almeno di scoprirvi gli svariati sensi che voglio. Jean Genet
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Prima di me
Io, Tenera
Si dice che un amore è grande quando dura in eterno. Per me non è così. I miei durano una o due ore al massimo. La media di un incontro a pagamento. La mia prima storia, invece, fu a tredici anni durante una vacanza al mare. Un vero e proprio record: dieci minuti. Il tempo di un tuffo da uno scoglio alto e ripido, a Polignano. C’era un tipo che mi piaceva da due anni. Con una scusa me lo portai su una falesia. Mi tolsi il costume e gli dissi: «Se non stai con me mi butto a mare. Di qui. Adesso». Era altissimo. Chiunque avrebbe avuto paura. Lo vidi esitare. Una reazione per me troppo lenta. Uno scatto e mi lanciai nel vuoto, lasciandolo lassù. Neanche il tempo di sentire i tagli di vento che mi rombavano nelle orecchie e il suo «No, così ti ammazzi» – con la“o” che si sfibrava nel vento – che ero già in aria. Furono i secondi più lunghi della mia vita. Un’eccitazione fulminante che avrei ritrovato solo molti anni più tardi. Sentii la morte che rideva senza vincoli e la vita che mi stava davanti frullare tra le mie gambe e le onde. L’aria si spostava a precipizio, come un sol-
co. L’impatto fu doloroso. Picchiai sull’acqua. E fu come se mi fossi ferita. Poi andai giù a fondo e cominciai a risalire con tentacoli a giravolta. Quando riemersi lo ritrovai che mi abbracciava da dietro. Lo sentii sfiorarmi dal bacino, stringermi ed entrarmi dentro. Lanciai un urlo. Poi mi girai. Nel mare tra noi un filamento bianco e denso. Un Vinavil vischioso nel liquido cristallino azzurro limpido. Il tutto non durò più di dieci minuti. Restammo a sfiorarci a pelo d’acqua, dolcemente. Io bianca, bianchissima senza abbronzatura, la testa femminile di una statua greca baciata da un minuscolo eroe bruno. Solo dieci minuti per un amore completo, che illuminazione! Ma si sa, passato il momento di grazia non sempre ricordiamo i pochi lampi di genio che danno fuoco a tutta una vita. Eppure questo episodio che prima mi era sembrato trascurabile a un certo punto l’ho considerato rivelatore: da quando ho capito che gli amori brevi non si vivono solo da adolescenti, ma specialmente da adulti, dove tutto è cronometrato. In genere li screditiamo. Qualcuno li chiama sveltine. Eppure hanno il dono dell’intensità. Sono amori a tempo determinato, spesso come il nostro lavoro. Io li ho scelti. Ho trentacinque anni e molti nomi: Silvia, Serena, Alessia. Ma il mio preferito è Tenera Valse: l’anagramma della mia devozione agli uomini. Da qualche anno pratico sesso a pagamento. Vivo a Roma da un’eternità, mi sembra, ma non sono di qui. Il mio nome personale è un nome italiano, comune e molto tradizionale. Quello della nonna paterna, gran bella donna. Anch’io lo sono 14
ma non aspettarti una “pin up”, dico al telefono. Sono una donna normale, e pare che i maschi lo preferiscano, anche se quando arrivano da me pensano sempre di trovare una specie di Monica Bellucci che loro hanno avuto la fortuna di scoprire per primi. Dev’essere per la mia voce limpida e accogliente, e per la foto che ricevono via mail con il messaggio di presentazione. La mia inserzione si trova in quei siti di annunci gratuiti dove si compra e si vende di tutto, dalle auto usate alle stampe d’epoca. È un testo di poche righe, ha un contenuto discreto; niente numeri di telefono, niente foto. Solo il necessario: l’indirizzo di posta elettronica e un invito al contatto. E mi scrivono in tanti. La mia e-mail di risposta contiene un salutino sobrio, confidenziale e non troppo ammiccante, una breve descrizione del mio corpo, i miei contatti, e il prezzo calcolabile in rose, secondo una consuetudine nota in questo ambiente. Il rate varia in relazione all’uso del “lato b” – così si definisce tra certi habitué il fondoschiena – una cosa bella che fa sognare già nella foto, e che dal vivo suscita generose smanie che ancora, dopo tante volte, mi mettono di buon umore. Le mie quotazioni sono alte per via delle pratiche che svolgo; è una vecchia regola di mercato: se un bene di consumo è difficile da reperire il suo valore aumenta. Fino a oggi, nessuno dei miei compagni più devoti aveva mai riconosciuto apertamente il piacere squisito che suscita il mio corpo, né adorato il mio seno. Ho una perfettissima terza naturale, morbida, tonda e tonica. Come non se ne vedono più da tempo, ormai, per via della chirurgia pla15
stica, delle varie anomalie nutrizionali, e dei preparati parafarmaceutici che gonfiano e sgonfiano i corpi come palloncini d’acqua. Capezzoli a punta ma torniti, occhi verdi, guêpière e autoreggenti fanno il resto. Naturalezza e sensualità, poi, compensano qualche imperfezione. In genere, dopo i primi cinque minuti di un incontro, le false impressioni dei corpi perfetti edulcorati del mondo dello spettacolo sono svanite. La sessualità maschile è interessante per questo: il passaggio dall’immagine del corpo al corpo è veramente fluido. Per noi femmine è diverso, dovendo lavorare sin da bambine sulla forma esteriore di noi stesse. Sono veramente pochi gli anni in cui siamo esonerate dal desiderio o dalla necessità di piacere. Il tempo di godersi l’infanzia è poco, se pensiamo che la ricerca consapevole di piacere sessuale si accende tra i nove e i dodici anni. Le mie prime prove di trucco, sesso e innamoramento risalgono ai dieci, undici anni. Le mie maîtresse involontarie, e per puro gioco, sono state le sorelle di mio padre. Erano le mie zie giovani e molto, molto carine. Nei primi anni Ottanta, dopo essere state a pranzo dai nonni, mi portavano in motorino in giro per Roma. Andavamo dai loro amichetti maschi, dove facevamo cose che a quell’epoca ritenevo davvero strane: masticavamo la plastica trasparente dei pacchetti di sigarette, giocavamo a nascondino nudi e ci chiudevamo in bagno a gruppi per uscirne stravolti. Già qualche tempo prima, quando avevo ancora otto o nove anni, le mie cugine quindicenni, figlie della sorella maggiore di mia madre, mi avevano introdotta ai primi piaceri. Allora giocavamo tutte insieme con le nostre parti intime e fa16
cevamo lunghe passeggiate per Roma senza indossare nulla sotto la gonna. Poi entravamo nei negozi di biancheria intima e chiedevamo ai venditori di regalarci qualcosa. Eravamo noi bambine a svolgere questo compito. Le più grandi ci insegnavano come fare. La mia vera iniziazione al sesso, invece, fu plateale nel senso stretto della parola: avvenne ancor prima, sul palcoscenico di un teatro parrocchiale di campagna, da tempo dismesso, durante le vacanze estive, alla presenza di numerosi spettatori. Erano le mie prime prestazioni sessuali consenzienti – non so fino a che punto volontarie – e mi hanno procurato i primi compensi in denaro, non ricordo quanto generosi né se ricevuti per l’esposizione e l’uso delle mie parti intime o più semplicemente perché non parlassi. Ovviamente ho scelto di fare la puttana molto tempo dopo: una decisione matura e consapevole, come si suol dire, e fatta in modo frivolo. Lo so, sembra una contraddizione, e invece non lo è. Si sa che cambiare identità è uno dei modi per vivere più volte. Ma è anche la migliore psicoterapia per chi non può ricorrere al lettino dell’analista. Per chi, come me, ad esempio, è un’insegnante di liceo e non ha mai guadagnato molto. È diventato persino un modo di fare i conti con l’aspetto demenziale dell’abitudine, un’ostinata sollecitazione a ripetere che m’induceva ad avere a che fare sempre con le stesse persone. E con gli stessi corpi. Tanto che, dopo un po’, anche il più amato al mondo per me diventava un ex-corpo, come quello di una persona estinta. Per non parlare degli oggetti: li sentivo nemici attivi e insidiosi, degli incomodi testimoni che mi chiedevano di essere rotti. Oppure della casa, che a un certo pun17
to mi metteva agli arresti domiciliari. E a lungo termine per distrarmi non mi bastava più spostare i mobili o regalarmi l’ennesimo Ikea. E in me prendeva il sopravvento una sindrome alla Fight Club. Ma oggi, come Tyler, «io dico non essere mai completo, io dico smettila di essere perfetto. Perché le cose che possiedi alla fine ti posseggono». Fare la puttana per me non è un lavoro, e in questo probabilmente mi viene incontro il mio rapporto naturale con il corpo: non ho mai pensato che una sua parte fosse più o meno nobile di un’altra. Aggiungi una forma di protezione e di autoinganno dovuta alla cultura o socialmente indotta, ed è fatta: il sesso a pagamento per me è diventato solo un gioco molto eccitante. Certo è che, quando ho cominciato, ero solita dire tra me e me di non esser mai stata amata così tanto e in modo così soddisfacente. Assurdo. Ogni tanto mi assilla ancora l’idea di poter incontrare qualcuno che conosco o addirittura un parente, visto che pratico a Roma, nella città in cui vive la mia famiglia, ma dopo qualche secondo anche questa paura si trasforma in eccitazione o svanisce. Cliente e puttana, da che mondo è mondo, sono legati da un patto difficile da sciogliere. Ultimamente ho ripreso in mano il Diario del ladro e vi ho trovato molte di quelle sensazioni che sono solita frequentare per questo lavoro, in particolare il mio rapporto con la riprovazione e la violenza. Non l’ho mai subita apertamente, ma questa attività che svolgo me la rende amica e piena di fascino. Come quando un uomo dopo avermi contattata in internet arriva da me: finalmente si distingue qualcosa di originario tra maschio e femmina, di moralmente discutibile e desiderato. 18
È lo spazio in cui siamo immersi: il luogo di una scoperta. Tutto riprende la sua misura quando quel maschio, rientrato in ufficio da una pausa in cui ha consumato te come pranzo, mi recensisce sul web ai compagni di forum come una che lui ha usato e di cui illustra i servizi. E conclude: «Ottima, da provare». Io rientro in me quando senza trucco mi rivesto colle scarpe basse, senza tacchi a spillo, le lunghe bluse e i pantaloni larghi che nascondono le forme evidenti. Ma non so se sono io. Sicuramente ridivento quella che ero prima dell’incontro, o qualcosa di simile. Metto via i soldi e vado al supermercato. I miei clienti sanno che devo rientrare a casa molto di fretta perché ho un bimbo di due anni e famiglia. Ma non è così. Resto lì e faccio altro. Non ho figli. Non ho mai avuto istinto materno, almeno nelle forme e nei modi comunemente riconosciuti. E poi la famiglia da cui provengo è già sufficiente con i suoi assilli. Un compagno sì, ce l’ho. Ma questo è un altro discorso. Io pratico a casa mia, al centro di Roma. A un passo da Piazza Navona. Ma non è una casa normale. A volerla dire tutta, non lo è affatto. Si trova nei sotterranei di un palazzo rinascimentale. È una specie di sommergibile che spunta dalla terra, con soffitti altissimi e volte ovali, ambienti che si aprono a labirinto da corridoi che s’incontrano e lasciano intravedere più di un’uscita. Non fa spavento, un po’ di luce arriva dalla porta d’ingresso, ma solo quand’è aperta. Libri e giornali sbucano a ogni passo, come una vegetazione dal pavimento, insieme a oggetti d’invenzione e re19
perti che vengono dalla strada, persi da non so chi e ritrovati da me. Li salvo di giorno in giorno per abbandonarli quando avranno smesso di emanare il fascino che me li ha fatti incontrare. Io lo chiamo atelier. Agli inizi di quest’attività non avevo il coraggio di far venire da me degli sconosciuti, e incontravo i clienti fuori casa. Andavo a domicilio da loro o negli alberghi. È una cosa abbastanza rischiosa che ora non faccio più. Qui invece mi sento sicura, a proteggermi dall’esterno c’è un cancello che si apre dal basso. Una lunga scala e ripida porta i clienti di sotto. Nessuno si aspetta un ambiente del genere, e restano meravigliati perché non pensano che si possa vivere senza una finestra. Ma questo buco a me piace, me lo sono fatta a mia immagine e somiglianza e mi rappresenta. È indipendente e dà sulla strada, così non ho impicci condominiali. Potrei cantare e ballare anche la notte, non mi sentirebbe nessuno. Quando ho iniziato a ricevere da me avevo paura di dare subito il mio indirizzo, così andavo a prendere i clienti in una piazzetta qua vicino, per vederli prima in faccia, nel caso si fossero presentati problemi di sicurezza o avessi incontrato qualche testa calda. Perché sottoterra, col portoncino chiuso, nessuno avrebbe potuto aiutarmi. Ma a Roma le case vere costano troppo. E questo è quello che passa il convento. Mi sta bene così. In più i condomini delle grandi città molto spesso sono nevrotici. Ad esempio, quando abitavo in zona Campo de’ Fiori, mi è capitata una lesbica isterica. Un’invasata che voleva redimermi dai miei peccati – la prostituzione in quel caso non c’entrava niente, non avevo ancora iniziato. Apparteneva a una ricca famiglia di ebrei romani che ha dei negozi di tessuti 20
intorno al Ghetto. Da ebrea era diventata prima cattolica, poi buddista, per passare a non so quale religione privata, una di quelle che alle nostre latitudini coniugano la parola spiritualità con rilassamento, benessere e respiro. Non ce ne sono pochi di tipi così, qui nel centro storico. Prima di aderire a una religione le provano tutte, come i gusti di un gelato, o un vestito H&M. Insomma, mi ero appena trasferita lì e dormivo su un materasso per terra e questa sosteneva che io la sera trascinavo il divano letto per casa facendo troppo rumore. Stiamo parlando di un ambiente di sì e no quindici metri quadri, chissà pure se poteva definirsi una casa. E dove lo portavo io il divano, ammesso che l’avessi avuto? Lei abitava al primo piano e io al secondo, sopra di lei. La prima volta salì da me e si mise a prendere a calci la porta, urlando che dovevo aprire. E neanche mi conosceva. Cambiò completamente atteggiamento quando mi vide. Le piacevo. Smise per un po’ di fare retate con l’intenzione di conquistarmi, ma appena si rese conto che non era aria mi fece un esposto alla stazione dei Carabinieri che sta vicino al Monte dei Pegni. Figuriamoci se avesse visto un cliente. Mi avrebbe sbranata! Quindi meglio qui dove sto. Poi le vere case dopo un po’ mi soffocano, con tutti quei muri e quelle pareti. Qui dove sto io non c’è neanche una porta, i rumori dell’esterno non entrano, e i suoni e le voci circolano, si espandono, respirano liberi. Senza incontrare ostacoli. Come me. Come i fantasmi.
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