Cabaret Voltaire febbraio 2013

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I maiali di Chesterton \ Mythos \ Miyazaki \ Red Carpet


OIRA IO AMO I MAIALI pagina 4 La verità nel mythos, la verità del logos pagina 8 Miyazaki ti voglio bene pagina 10 FENOMENOLOGIA DEL RED CARPET pagina 14


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IO AMO I MAIALI


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di Giuseppe Signorin

Mercoledì sera ho tentato di accarezzare un maiale. Giovedì, dopo pranzo, ho letto un libro in cui venivano elogiati i maiali. "Non sono mai riuscito a capire perché i maiali non possano essere animali da compagnia. Innanzitutto sono bellissimi. Chi pensa il contrario non guarda nulla con i propri occhi, ma solo attraverso gli occhiali degli altri. La forma di un maiale (mi riferisco a un maiale davvero in carne) è tra le più incantevoli e prosperose della natura; il suino presenta le stesse grandi rotondità, agili linee sinuose eppure corpose, che vediamo in un corso d'acqua impetuoso o in una nuvola che passa nel cielo". Il libro in questione è La serietà non è una virtù, di G. K. Chesterton, e raccoglie dei brevi saggi usciti per alcuni giornali inglesi nel corso della sua vita. Il maiale che ho tentato di accarezzare mercoledì sera, invece, è un bellissimo maiale (probabile anche fosse femmina) che vive in una fattoria nei pressi di Sovizzo. Bello (o bella) come un corso d'acqua o come una nuvola. Non potrò più guardare corsi d'acqua e nuvole e tanto meno maiali come prima. Ora, questo potrebbe essere l'inizio di un testo estremamente animalista. Ma io amo gli animali, non potrei mai scrivere un testo estremamente animalista. E poi amo gli uomini (nel senso di esseri umani) altro motivo per cui non potrei mai scrivere un testo estremamente animalista. Fra l'altro in fattoria mercoledì sera mi hanno detto che quando entrano nei recinti dei maiali e le femmine sono in calore, se sei un maschio ti prendono d'assalto,

se sei una femmina come loro ma umana, invece, ti cacciano fuori. Per non parlare del loro fiuto – indipendentemente dal fatto che siano maschi o femmine. Ho letto da qualche parte (questo non me l'hanno detto in fattoria) che i più grandi navigatori del mondo al posto del GPS si portavano sempre a bordo qualche maiale, in passato, perché quando si perdevano bastava buttarne uno in mare e lui col suo fiuto fenomenale sentiva odore di terra a distanze abissali e si metteva a nuotare mirando nella giusta direzione. Altri motivi per cui amo gli animali; in particolar modo, da qualche giorno, i maiali. Tornando al libro di GKC, sono due gli articoli (almeno fra quelli che ho letto finora) che parlano di animali, e del rapporto fra uomini e animali. Entrambi carichi di buon senso. Il primo prende il (nostro) discorso apparentemente alla lontana, trattando innanzitutto di serietà. "Non amo la serietà. Penso che sia antireligiosa. O, se preferite l'espressione, è un vezzo di tutte le false religioni. Chi prende tutto seriamente è colui che idolatra ogni cosa". Ma dal concetto di serietà si passa in fretta agli animali, perché in effetti tutti gli animali tranne l'uomo sono seri (il ghigno delle iene non fa testo appunto perché è un ghigno). A parte gli uomini estremamente appassionati di animali, aggiunge GKC. Quelli che li venerano, insomma. Come gli antichi egizi o le ricche e anziane signore contemporanee che si portano appresso quei poveri cagnetti in


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maschera. Non solo le ricche e anziane signore, a dire il vero. "L'amore per gli animali può essere sensato o insensato: la definizione più calzante che spiega questa differenza è che quello insensato per gli animali è serio". Credo di sapere chi ama di più un animale fra un'animalista nuda col cagnetto in pelliccia sintetica nella cuccetta, un mangiabistecche da supermercato che si scandalizza se vede ammazzare una bestia come ammazzano quelle che poi si ritrova formato bistecca al supermercato forse senza sapere che prima di finire in formato bistecca al supermercato erano qualcos'altro, e mio nonno che dava da mangiare alle sue galline per poi tirargli il collo e fare tutto quello che di disgustoso c'era da fare prima di papparsele. Beh, non è l'animalista nuda ad amarlo di più, un animale. E neanche il mangiabistecche. Che poi mi sento fare la morale da quelli convinti che l'uomo non è altro che un animale, come se gli animali fra di loro non si mangiassero. Con la mia ragazza posso andare avanti ore su questo argomento, senza che ci capiamo, ma chiunque voi siate non siete la mia ragazza, magari solo uno di voi è la mia ragazza, ma neanche troppo magari, perché se uno di voi fosse la mia ragazza (“uno” nel senso di “una”) poi davvero sì che dovrei andare avanti ore su questo argomento, invece voglio andare avanti solo qualche altra riga con qualche altra citazione di GKC prima di tirare una conclusione,

e il fiato. "L'unico atteggiamento corretto nei confronti degli animali è quello comico. Proprio perché è comico, è affettuoso. E proprio perché è affettuoso, non è mai ossequioso". E: "i due eccessi presenti alle estremità dell'attuale società esasperata sono la crudeltà e la venerazione verso gli animali. Derivano entrambi dall'esagerata considerazione nei loro confronti: i crudeli li odiano; gli stravaganti li adorano e forse li temono". Bene. Passiamo al secondo articolo, che parla appunto di maiali. C'è un altro passo cui vorrei accennare, oltre a quello nelle righe iniziali, proveniente dallo stesso testo, un passo in cui GKC trova il modo di apprezzare quella che per i più non è poi tanto una qualità, ma che lo accomuna ai maiali: la pinguedine. GKC era decisamente pingue, e con cognizione di causa sostiene che la pinguedine è una qualità preziosa, perché suscita modestia in chi la possiede. Geniale. Ci penso un attimo e mi viene voglia di ingrassare. Ci penso ancora e mi torna in mente quel bel maiale in carne che ho tentato di accarezzare mercoledì sera... Quel bel maiale rosa... In conclusione è giunto il momento di tirare una conclusione. Eccola: io amo i maiali e amo ancora di più chi li ha fatti, perché non credo siano venuti fuori così a caso. Ma questo è un discorso così semplice e perfetto che ci sono voluti secoli di sforzi disumani per ingarbugliarlo.


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La verità nel mythos, la verità del logos di Marco Piazza

C’era un tempo in cui mito non era sinonimo di favola o fantasia, ma rappresentava la verità sulle origini del mondo e sul rapporto fra gli uomini e gli dei. Il mito comincia ad essere considerato finzione quando la filosofia, che lo aveva accompagnato per un breve tratto all’inizio della sua storia, lo disconosce come verità rivelata, presentandosi come l’unica via per conoscere il mondo e l’uomo: essa sola sa dare ragione di ciò che comunica, essendo la portatrice del logos. Il mito viene eliminato quindi dall’ambito della conoscenza in quanto non sa dimostrarsi vero, anche se si definisce vero solo ciò che si può dimostrare, e naturalmente il mito non si può (o deve?) dimostrare. Esso è stato quindi relegato a sapere secondario fino al romanticismo, che ne ha recuperato il valore simbolico ed evocativo, ed è ritornato alla ribalta

culturale nel ventesimo secolo, grazie agli studi dell’etnologia e della filosofia contemporanea. Basti pensare ad Heidegger, il quale riteneva che il mito (platonico) segnasse un superamento fecondo della ragione, incapace di "spiegare la vita". Mythos in greco significa “parola (indiscutibile)”, e prende deriva dall’atto di comprendere; mythos è la parola vera in assoluto che va aldilà della smentita, provenendo da una rivelazione (o mostrazione) autentica ed incontrovertibile; non è univoca, non è mai delimitata una volta per tutte, ma è apertura, svelamento, significazione multipla, potenza evocativa rinnovata di continuo. Anche logos significa parola, ma il significato oggi è totalmente diverso rispetto a quello di mythos: alcuni studiosi contemporanei sosten-

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gono infatti che i due termini possono essere considerati interscambiabili, e non in conflitto, specialmente all’inizio dell’era filosofica. Logos presuppone infatti una di-mostrazione da una serie di mediazioni di ragione; si riferisce infatti al discernere, al riflettere: si tratta di convincere, difendere, spiegare, concettualizzare, sciogliere progressivamente l’intreccio della realtà analizzandola, alla ricerca di un sapere che possa dar ragione di sé. Gli studiosi nel corso degli anni hanno offerto diverse letture del fenomeno mitologico: esso può essere considerato come un’illusione della coscienza collettiva, una divinizzazione di personaggi storici, un insieme di spiegazioni di fenomeni naturali, un riflesso culturale di strutture sociali, ma è anche e soprattutto un tentativo cumulato nel tempo di dare risposte all’uomo sugli interrogativi profondi della propria esistenza. Il mito si tramanda da tempo immemore ed ha un suo valore ed un motivo di credibilità in quanto è un sapere offerto ai progenitori direttamente dagli dei: alcuni storici delle religioni hanno ipotizzato che la somiglianza di fondo dei miti possa far supporre ad una rivelazione primitiva di dio agli uomini. In una prospettiva

più sociologica, le molte coincidenze dei vari racconti mitici e le costanti mitologiche fanno riflettere sull’apertura dell’essere umano alla trascendenza e alla spiritualità. La conoscenza mitica è quindi soprattutto conoscenza religiosa: spiega la relazione fra gli uomini e le divinità, e descrive le origini ed il destino finale dell’uomo; è altresì un’espressione umana di principi astratti, una conoscenza sovrarazionale, che trascende la visione parziale e parziaria dell’uomo; è lo sforzo di conoscere l’inconoscibile, è la verità intrasmissibile in altri modi, è la matrice generatrice di senso. Si tratta di una narrazione dotata di verità esistenziale, che coglie il reale come totalità e cerca di carpirne il significato. L’essenza del mito è quindi la trasmissione di verità così elevate da trascendere la nostra comprensibilità, così da poter (dover) essere espresse solo in maniera simbolica, con un linguaggio polisemantico che non è paragonabile alla parola chiara ed oggettiva della filosofia e delle scienze, nonostante rappresentino anch’esse un tentativo di dare, sotto un’altra prospettiva, un senso ed un’interpretazione del mondo. Filosofia e mito si sorreggono quindi a vicenda, ed illuminano sotto diverse angolazioni la realtà: in questo senso il mito è una forma di conoscenza comparabile con la filosofia: entrambi nascono come risposta alla meraviglia e allo stupore dell’uomo nei confronti della natura. Come dicevano i romantici, il mito è la verità detta dai poeti, e rende possibile la vita.


Miyazak ti voglio ben 10


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di Federico Tosato Sarà perché “inizio” a distaccarmi, anche se poco convintamente, dal periodo adolescenziale, sarà perché la congiuntura socioeconomica ci obbliga a guardare al mondo ancora con lenti troppo scure, sarà semplicemente perché adoro ogni espressione sensata – e sottolineo sensata – che la cinematografia esprime, sarà per altri infiniti motivi ancora, ma la mia urgenza del senso di meraviglia è oggi particolarmente accentuata e per soddisfarla mi accorgo di muovermi quasi inconsciamente entro perimetri ben delineati: quelli dell’animazione. A soccorrermi in questo momento di bisogno di rifugio fantastico sono soprattutto i lavori di Hayao Miyazaki, saturi di una benefica libertà inventiva: Il mio vicino Totoro (’88) e La città incantata (2001), su tutti. Libertà inventiva, dicevamo, che ad esempio si esplica nella convivenza di storie verosimili, quotidiane (ne Il mio vicino Totoro due sorelle e il loro padre trascorrono le settimane in attesa che la madre sia dimessa dall’ospedale) ed elementi di sfrenata fantasia (nello stesso lungometraggio le bimbe incontrano alcuni Totoro, animali piccoli o giganteschi, colorati, camaleontici e invisibili agli occhi degli adulti, che le aiutano in momenti particolarmente complicati; provenienti da un mondo altro, florido e pacifico, si muovono camminando, saltando, volando o grazie ad un favoloso, sornione ed efficientissimo gatto autobus). Al cospetto di Rosemary’s Baby (’68) lo spettatore percepisce la straniante indeterminatezza nel distinguere la realtà dal sogno o dalla psicosi della protagonista: la donna è davvero gravida del demonio o la sua mente è ormai labile e inattendibile? I vecchi vicini di appartamento sono semplicemente innocue anche se invadenti cariatidi della borghesia newyorkese, o stregoni in borghese? Nel corso del film ce lo si chiede di continuo, perché l’ambiguità è elemento portante della sua struttura narrativa. Ecco, pur lontanissimo dal lavoro di Polanski, anche Miyazaki si diverte a smarrirci nella medesima inquietudine dovuta all’indeterminatezza che si alimenta nell’intersecazione o nella “convivenza” di una realtà “concreta” e di una “magica”: i Totoro sono davvero presenti oppure partoriti dalla fantasia delle bambine? Quando la protagonista del film del duemilauno scopre la mutazione dei genitori in enormi maiali, è vigile o sta sognando? E l’intera incredibile avventura che vive in


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mezzo a personaggi fantastici, è reale o in conclusione del lavoro scopriremo trattarsi solo di angosciosi incubi o di fantasie adolescenziali? Sì, confermo: il mio attaccamento a Miyazaki è dovuto al fatto che molte situazioni narrative da lui sviluppate le riconosco come necessità o perlomeno come aspettative concrete. A partire dal mio bisogno di cambiamento, primariamente geografico; le situazioni che coinvolgono i personaggi dei due film in esame muovono dallo spostamento degli stessi: mai le bimbe di cui sopra avrebbero incontrato i Totoro, se non si fossero trasferite, così come la protagonista de La città incantata, mai si sarebbe imbattuta in un luogo tanto meraviglioso quanto terrificante come risulterà essere quello del titolo, se non fosse stato per il suo approdo in un nuovo paese. E se non è un cambiamento di luogo, è comunque l’attraversamento di una soglia, una sorta di passaggio liminale: le protagoniste del film dell’ottantotto, per raggiungere il mondo altro, percorrono prima uno stretto corridoio tra la vegetazione e poi si insinuano nel tronco di un enorme albero secolare o millenario, mentre nel lavoro successivo occorre muoversi lungo un corridoio che attraversa un palazzo e una sorta di sala d’attesa ormai in decadenza,

per poter immergersi in quella realtà parallela. E più in là, nello stesso film, scopriremo che per risolvere la situazione occorrerà attraversare in treno (ecco ancora un mezzo di trasporto che permette di spostarsi, dopo il gatto autobus) un tratto di terraferma ricoperta però dall’acqua – terra e acqua perciò si accatastano, come il mondo reale e quello fantastico –: è l’ennesimo mutamento di luogo necessario alla protagonista. Il nostro – o perlomeno il mio – attuale desiderio di svoltare (professionalmente, economicamente, socialmente, politicamente), a causa di un periodo tanto sfavorevole come quello presente, richiederebbe, per riuscirci celermente, l’aiuto di alcuni deus ex machina, inesistenti nella realtà, ma presenti invece altrove, grazie all’inventiva dell’autore giapponese: i Totoro da una parte, la strega buona dall’altra; personaggi dai poteri sovrumani che permettono di sbrogliare le magagne delle protagoniste e, nella nostra fantasia, pure le nostre. Chissà che a breve anche a noi non capiti di incontrare dei salvifici animaloni colorati o delle vecchie streghe che sostengano con i loro poteri le nostre mille, umanissime, complessità e complicazioni. Anche per la capacità di donarmi simili infantili speranze, Miyazaki ti voglio bene.


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FENOMENOLOGIA DEL RED CARPET 14

di Paolo Armelli


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Uno dei luoghi comuni sugli Americani che forse più di altri può corrispondere al vero è quello riguardo al fatto che hanno sempre bisogno di qualche fenomeno sociale o momento aggregativo su cui concentrare in massa la loro attenzione. Non è un caso che, fra Thanksgiving e compagnia bella, inizino a preparare il Natale praticamente a metà ottobre. E finito quello, a invadere rotocalchi, televisioni e chiacchiericci ci pensa, da inizio gennaio, la awards season, ovvero quell’innumerevole successione di premi cinematografici che fa un bilancio dell’anno precedente, distribuisce statuette di varie fogge a destra e a manca e prepara la scena per l’evento finale: gli Oscar. Dell’awards season fanno parte, fra gli altri: gli Annies, per i film animati; i SAG awards dati dalla sindacato degli attori; i premi DGA decisi dai registi; i People’s Choice Awards; i Golden Globes, conferiti su decisione dell’associazione della stampa straniera; gli Spirit Awards dati ai film indipenden-

ti; i BAFTA che sono inglesi, ma non ci si fa mancare nemmeno quelli; e un’infinità di premi minori, fra cui i Razzie, ovvero i riconoscimenti per gli attori più cani. Oltre agli Oscar, che a febbraio segnano la fine del periodo più intenso per le premiazioni cinematografiche, ci sono disseminati in giro altri eventi, come gli Emmys per la televisione o i Grammys per la musica. Ma perché gli Americani – e di conseguenza tutto il mondo – vanno matti per i premi? La risposta è molto semplice: per il red carpet. Il red carpet è la quintessenza della celebrazione hollywoodiana proprio perché è l’esaltazione di ciò che Hollywood rappresenta più compiutamente: l’effimero. Eppure il tappeto rosso è una tradizione che si perde nei secoli, un segno di rispetto e di onorificenza che si riserva all’accoglienza degli ospiti più illustri. Pare che le prime tracce di questa usanza si possano trovare perfino in Eschilo, mentre il colore rosso delle tappezzerie e degli


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apparati di celebrazione è stato fissato iconograficamente nei più famosi quadri rinascimentali. Di lì a diventare il simbolo con cui si idolatrano i re e le regine dei nostri tempi – gli attori – il passo è breve. Red carpet significa soprattutto un’altra cosa: moda. C’è un’intera industria che gira attorno ai pochi momenti che si consumano sul tappeto rosso prima della cerimonia vera e propria: una marea incommensurabile di fotografi, assistenti, pr, stylist, truccatori, sarti, buyer, aggiustatori, gioiellieri, giornalisti ecc. A volte si può anche diventare molto potenti nel settore: Rachel Zoe, prima di guadagnarsi un suo reality show e una propria linea di vestiti, si era affermata come una delle stylist più potenti di Los Angeles, rivaleggiando in influenza con la notoria Anna Wintour di Vogue America e, come lei, imponendo che le sfilate dei più grandi stilisti non cominciassero finché non si fosse seduta lei in prima fila. Esistono poi rituali ormai inossidabili per ciò che gira attorno al tappeto rosso. La domanda di rito è: “Di chi è il tuo abito?”, “Chi indossi stasera?” alludendo alla marca del vestito che fascia l’attrice di turno. Anche il portamento mentre si sfila ha le sue codifiche e, ad esempio, pare che a brevettare la posa più di successo di fronte ai flash dei fotografi sia stata Kimora Lee Simmons, modella e star della tv: gamba destra dritta e tesa, gamba sinistra di 30° in avanti, mani sulla vita, petto in fuori e schiena arcuata all’indietro (provateci, poi vedete se è comoda…). A Victoria Beckham va invece il merito di aver collaudato un gesto che può far guadagnare milioni pur sembrano semplice e spontaneo: se avete un anello dal valore inestimabile per cui avete un contratto con uno sponsor extralusso, potete metterlo in bella vista semplicemente accostando la mano al viso facendo finta di sistemarvi una ciocca di capelli, proprio nel momento in cui i fotografi stanno per immortalarvi. Guadagno garantito. Ma se tutti questi riti servono a rendere il mondo del red carpet un universo luccicante e magico, la parte più divertente sta proprio della dissacrazione di tutto ciò. Siti e blog della rete hanno fatto fortune criticando e dando i voti ai vestiti più improponibili delle stelle dello spettacolo; sul canale E! (non più trasmesso in Italia) il programma Fashion Police, condotto dall’ir-


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riverente comica Joan Rivers, disseziona gli abiti delle star per scovare gli errori modaioli più imbarazzanti. Perché il paradosso sta tutto lì: le dive di Hollwood passano settimane e settimane per essere perfette, investono milioni per apparire al meglio e il più originali possibili e tutto ciò si consuma in pochissimi minuti, quasi attimi, magari col più improbabile abbinamento o l’accessorio più sconsiderato a rovinare tutto quanto. D’altronde anche il red carpet, come tutti i rituali che si rispettino, ha le sue regole feree: agli Oscar, ad esempio, gli uomini dovrebbero portare tutti lo smoking (gli americani lo chiamano tuxedo) e le donne rigorosamente l’abito da sera, possibilmente a spalle coperte (anche se di solito si iniziano le registrazioni di pomeriggio, sotto il cocente sole losangelino); meno rispettosi dell’etichetta, invece, i Grammy Awards, dove la sperimentazione è vista di buon occhio: l’anno scorso la prorompente Nicky Minaj si è presentata bardata da Cappuccetto Rosso con tanto di Papa al seguito; l’anno prima era stata Lady Gaga a dominare la scena presentandosi dentro un enorme uovo, che lei ci teneva venisse chiamato “vascello”. La regola principale affinché un abito resti alla storia, comunque, è mixare un po’ di coraggio a un innato senso dello stile, per non parlare dell’elemento che serve in ogni cosa: la fortuna. Chiedete a Jennifer Lopez, metà del cui successo si deve probabilmente a uno scollatissimo Versace verde con cui si presentò ai Grammys del 2000; o a Elizabeth Hurley, il cui lungo vestito nero tenuto assieme da spille d’oro (sempre Versace) con cui si presentò alla prima di “Quattro Matrimoni e un Funerale” è ormai conosciuto semplicemente come The Dress. Per il versante opposto, invece, gli scivoloni cioè che nessuno cancellerà dagli annali ma che possono comunque rimanere impressi nell’immaginario, potete rivolgervi a Bjork: l’abito a forma di cigno con cui s’è presentata agli Oscar 2001, firmato dalla stilista macedone Marjan Pejoski, è uno dei più orribili e al contempo memorabili abiti mai visti su un tappeto rosso. Poi una certa Gaga osa addirittura andare in giro con della carne cruda addosso, ma quella è un’altra storia…


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<prossima uscita> Aprile

REDAZIONE: nicolettamai albertofabris marcopiazza federicogobetti giuseppesignorin paoloarmelli GRAFICA: amosmontagna Editrice Millennium, piazza Campo Marzio 12 Arzignano (VI) www.corrierevicentino.it | blog@corrierevicentino.it


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