Cabaret Voltaire Ottobre 2011

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> Manifesto fragilista / Il ritorno degli -ismi

Il cuore dell'arte

Nella foresta del poeta \ Design in azienda \ Incipit&Explicit \ Eyeswideshut \ Heartbit \ Speaker's Corner

Ottobre Novembre 2011


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FRAGILISMO

Manifesto Fragilista 4

Il ritorno degli -ismi 9

NELLA FORESTA DEL POETA 12 DESIGN IN AZIENDA 16 INCIPIT&EXPLICIT

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EYES WIDE SHUT 22 HEARTBIT 24 SPEAKER'S CORNER 26


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FRAGILISMO Il cuore dell'arte di Elisabetta Badiello

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rte e marketing sembrano avere oggi un legame indissolubile. Ma non si vive di solo business. A scardinare il sodalizio, cementato negli ultimi anni, un movimento che nel suo manifesto si ispira alla natura umana, al suo sentire, alla delicatezza delle emozioni, alla necessità di esprimersi oltre il diffuso materialismo. Perché non sempre inventiva, creatività e capacità espressive debbono farsi prodotto e incanalarsi nella spirale dei mercati per essere riconosciuti come arte. Si crea per il piacere di farlo, per sensibilità, per cultura, per necessità interiore. Liberi da dettati di opportunità ed interesse. “L’uomo è fragile e la consapevolezza di

questa sua fragilità può aiutarlo a crescere”. Così afferma il “Manifesto Fragilista”, atto costitutivo di un movimento artistico che coinvolge scultori, pittori, musicisti, performer, filmmakers, scrittori e stilisti accomunati dalla natura di esseri umani. «Riflessioni sull’essenza fragilista sono nate da conversazioni filosofiche sulla condizione dell’uomo contemporaneo con i colleghi e amici Mendini e Sottsass. Pensieri condivisi nei dialoghi e dall’osservazione di ciò che accade attorno a noi» racconta Sotirios Papadopoulos, architetto, designer, appassionato di teatro e cinema nonché padre della corrente. Seppur da principio il movimento si ri-

volga al design, proprio perché guarda alla natura umana è fenomeno diffusivo e ha contaminato una moltitudine di linguaggi ed espressioni. «Un primo passo verso la nascita del movimento è stata la presentazione a Parigi lo scorso anno di “Fragile Privilège” con Leonida De Filippi, Alessandra Pescetta e Giovanni Calcagno. Un evento che ha destato molto interesse. Partecipazione e condivisione hanno fatto da catalizzatori ». Nel maggio scorso Sotiruos Papadopoulos ha curato per la prima volta in Italia un evento a tema fragilismo. Sede la Stamperia Busato di Vicenza dove venti artisti si sono confrontati sul tema del movimento rinnovando la proposta

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con appuntamenti successivi. Coinvolgimento del pubblico nel processo creativo, comprensione degli intenti, vicinanza del messaggio al sentire comune hanno suscitato notevole interesse. Se oggi è il mercato che controlla l’arte è evidene come questa tenda ad allontanarsi sempre più dall’essenza generatrice, dal genio di colui che crea. L’arte non si accontenta di essere colta dall’occhio, attraverso la vista, ma si integra con la percezione dei sensi perché solo così vibra in profondità. Come declamato dal “Manifesto”: è con il cuore che si completa l’arte. «Più imparo, più mi rendo conto di non sapere» afferma Papadopoulos «per questo è fondamentale condividere, partecipare con altri alla conoscenza. Condivisione è la base del nostro movimento, ciò che avvicina gli artisti. All’ini-

zio osservano con curiosità, con spirito critico. Poi aderiscono al movimento. Trovano nei motivi che lo animano, un terreno fertile per la crescita». Niente gerarchie, nessuna autorità. Chi decide di associarsi lo fa perché avverte un desiderio di cambiamento radicale senza doversi legare ad uno stile. «Non abbiamo una meta, un obiettivo finale se non quello di veder rifiorire il concetto delle arti, dell’inventiva umana, della capacità espressiva in campo estetico. Tra noi non esiste l’io ma l’indagine collettiva, ciascuno secondo il proprio linguaggio. Vogliamo eliminare il protagonismo. Condividendo cresciamo tutti e abbattiamo i monopoli». Il fragilismo è un fenomeno in espansione. «C’è molto interesse anche all’estero. Si sono formati movimenti a Parigi,

Portogallo e Nuova Zelanda. In Italia è previsto un prossimo evento alla Design Library di via Tortona a Milano ed uno a Carrara. Saremo invece a Vicenza per la presentazione del “Manifesto fragilista” al Viart, un’occasione per riflettere sulla nostra natura. A Vicenza il movimento avrà anche una sede, lo storico Caffè Garibaldi che riaprirà nei prossimi mesi».


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IL RITORNO DEGLI -ISMI di Paolo Armelli

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è chi dice che, dopo la seconda guerra mondiale, sia morta l’epoca degli –ismi, di quelle convinzioni artistiche innovative e radicali che si erano imposte agli inizi del Novecento in reazione agli strascichi del romanticismo, del vittorianesimo e del positivismo (altri –ismi, insomma). Per non parlare della caduta di quei regimi ideologici totalitari che avevano stravolto e degenerato un continente e un mondo intero: fascismo, nazismo, comunismo ecc. Siamo poi dunque finiti in quel calderone d’incoscienza e liquidità che è il postmoderno (ma anche qui un altro –ismo: postmodernismo), dove nessuno crede-

va più in niente, gli intellettuali erano anime vagolanti e solitarie senza capacità di organizzarsi e darsi rigore, in cui solo la profondità dell’abisso poteva attrarre l’arte col suo misto di incomprensibilità e assenza di dottrina. Poi c’hanno detto che anche il postmoderno è finito, e ci siamo ritrovati senza etichette, ma non meno confusi di prima. Sembra che, invece, queste etichette in arte siano utili, almeno agli artisti stessi, per darsi corpo e mente organizzati, per imporre la propria esistenza e la propria identità al mondo. Ecco che a Vicenza si fonda il fragilismo, e in qualche modo si ritorna – in un’altra scala – a quell’Europa fervida e feconda degli anni Venti e

Trenta, in cui intellettuali di varia estrazione si mescolavano e davano origine alla nostra storia culturale. Gli –ismi nati fra la Londra degli anni Dieci, la Parigi dei Venti e la New York dei ruggenti Trenta sono innumerevoli e alquanto magmatici: postimpressionismo, simbolismo, cubismo, vorticismo, immaginismo, acmeismo, neoplasticismo, futurismo, orfismo, fauvismo, costruttivismo, purismo, dadaismo, espressionismo, surrealismo e così avanti in una marea di differenze e puntualizzazioni. E’ veramente un mare in tempesta quello di questi –ismi, che vedeva nuotare a grandi bracciate fra le onde Picasso, Joyce, Lawrence, Le Corbusier, Matisse,


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Apollinaire, Cézanne, Aragon, Pound, Auden, Mirò, Lloyd Wright e altri in ordine sparso. Quello che ha fatto la storia di questo movimento non organizzato e non organizzabile, comunque, è stata proprio l’etichetta generale di modernismo, un –ismo completamente diverso dai precedenti: se classicismo, romanticismo, naturalismo ecc. erano correnti che si davano una definizione (spesso a posteriori) basata sulla denotazione, sulla precisa identificazione di una caratteristica estetica dominante, i modernisti – pare che il termine fosse stato dal poeta nicaraguegno Rubén Darío – si definiscono semplicemente per l’essere moderni (ma chi non è moderno nella propria epoca rispetto a chi è venuto prima?): la loro era una convinzione – e

una convenzione – di rottura con tutto quanto c’era stato prima, con tutto c’era di precostituito e di comunemente accettato. Ora, in un’epoca come la nostra, ha senso tornare a questa filosofia degli –ismi? Forse sì, se serve a recuperare quell’entusiasmo generazionale che ha smosso l’umanità all’inizio del ventesimo secolo. E comunque nell’arte abbiamo sempre bisogno di definirci in negativo, di distanziarci da ciò che è stato, di rigenerarci dalla distruzione del passato, di – come diceva Picasso – “uccidere il padre”.


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NELLA FORESTA DEL POETA di Emily Cogo

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ommersi da ondate di neologismi, ricavati da anglismi e italo-americanismi che si adagiano all'impazzata nei giornali, poesie e nel web...nulla ci vieta di coniare il termine di zanzottismi: quelle nuove creature chimeriche che il Poeta ha lasciato nella lingua italiana come ventagli del suo plurilinguismo più intimo... Zanzotto e l'ermetismo innalzato a bandiera, mosso da spasmi futuristici e tendenze surrealiste: questa è la sua impronta. Un poeta difficile, niente da dire. Considerato l'erede di Montale nella patria italiana, ha attirato anche i critici americani più temerari. Only the brave. È vero, i letterati d'oltreoceano sono da sempre spinti magneticamente dal mondo dantesco e petrarchesco, quasi per colmare quello scrigno vuoto nella loro letteratura delle origini. Ma solo alcuni (pochi) si sono addentrati nella foresta zanzottiana, combattendo con la comprensione (e la traduzione) del poeta... L'oceano non ha ostacolato la traversata verso l'Italia e i velieri sono

approdati direttamente a Pieve di Soligo, nel trevigiano. I coraggiosi by USA sono infatti per lo più “amici” del poeta, spesso docenti di letteratura italiana, che sono entrati nella casa di Zanzotto e hanno avviato il loro lavoro a contatto diretto con il poeta. Beverly Allen, durante la stesura di Verso la beltà, si è trasferita in Italia e ha camminato con il poeta lungo i ruscelli di Pieve, potendo così toccare con mano la terra, i campi, gli animali che offrono a Zanzotto le metafore della poesia. Queste sono infatti insegne del paesaggio piene di promesse: gli alberi spogli danno frutti, il giovane coniglio sopravvive sempre all'inverno portando una nuova primavera... Correre in macchina lungo le strade collinose è stata per lei l'esperienza più illuminante, rivelando anche un Zanzottoguidatore molto prudente. Thomas Harrison, studioso della lingua italiana, si concentra invece su una lettura ontologica del poeta, legandolo ad un ambito internazionale (nonostante l'apparente “provincialità”) e creandone un

connubio con il fantasma di Heidegger: si abbandona il significante della lingua a favore del significato, secondo la teoria di dover “guardare sotto il linguaggio per andare poi oltre il linguaggio”. Mentre John Butcher arriva ad intervistare di persona il poeta che, quasi preso da una curiosità disarmante, chiede notizie sul rapporto d'amicizia con Montale e Pasolini: una sorta di gossip nell'ambito poetico, dal quale si rivela un Zanzotto imbronciato per il contrasto tra i due amici.... Ma, universalmente, critici e traduttori americani, di fronte ad una poesia che sforna puntate di silenzio assoluto alternate a vociferazioni babeliche, rimangono attoniti e gonfi d'ammirazione... E rimarrà nelle menti di tutti il ritratto, quasi caricaturale, di un Zanzotto che raccoglie (inciampando) i pezzi di un mondo frantumato e corroso. “.....gocciolo di punto-di-vista tipico dell'infinito quando è così umilmente irretito....” (Galateo, 17)

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IL DESIGN IN AZIENDA di Anna Baldo

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aper fare non basta. Le aziende lo sapevano già da un po’ di tempo, a dire il vero, ma il momento attuale rende questo concetto ancor più urgente, e nel contempo intrigante, perché porta alla ricerca di quel valore aggiunto che faccia la differenza, che sia in grado di dare nuova enfasi alla qualità progettuale e produttiva delle imprese. Esistono realtà con una storia, una tensione a sperimentare e una capacità realizzativa che ne fanno casi straordinari per l’industria italiana. Eppure non hanno ancora sperimentato il design. Il fascino della sfida, la mente strategica, e il desiderio di innovarsi le spinge oggi ad avvicinarsi a questo mondo, fatto di creatività e concretezza, di mercato ed estetica. Schio Design Festival nasce come pro-

getto incubatore di questo modo di presentarsi al mercato, per molti ancora inedito. Un evento, una settimana di esposizione (dal 6 al 13 novembre, in Fabbrica Saccardo ai Tretti di Schio), che apre al pubblico il risultato di un percorso iniziato con l’ingresso dei designer nelle aziende e giunto alla realizzazione di prototipi, spendibili sul mercato, che entreranno in produzione. Dieci aziende, dieci designer senior e altrettanti junior, abbinati: questa è la formula, lanciata lo scorso anno, che si replica e che dà vita alla rassegna di oggetti innovativi, progettati su tema libero ma partendo dai prodotti, dai materiali o dai processi, fino anche dagli scarti di produzione delle aziende. Progetti di design che fioriscono dal cosiddetto know-

how delle imprese, ovvero dal loro patrimonio intrinseco, che trova una nuova interpretazione, nel momento in cui viene rivisitato dal punto di vista dei creativi più giovani, portatori di uno sguardo fresco, e alla luce dell’esperienza dei senior che li affiancano. Schio Design Festival non è l’ennesima “ricetta contro la crisi”, formula decisamente poco attraente. È piuttosto il contesto attivo in cui l’aria dell’attuale congiuntura diventa vento di novità, poiché viene preso nelle mani di chi sa cogliere le chance di ogni fase storica. La stessa ambientazione della mostra, l’imponente complesso industriale di fine '800 di Fabbrica Saccardo, parla di riuso di spazi che fanno rivivere la storia industriale del Vicentino. È un luogo


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che ha condiviso la quotidianità di chi in quegli stessi ambienti ha costruito lo sviluppo industriale di un tempo. La memoria storica è mantenuta intatta dal recupero della struttura, pur nella diversa organizzazione e destinazione d’uso degli spazi, oggi luogo di incontro di artisti e professionisti, in un contesto sinergico e vivace. Un luogo dove si sente forte il pulsare del cuore dell’innovazione.

Domenica 6 novembre da lunedì 7 al 11 novembre domenica 13 novembre schiodesignfestival.it


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INCIPIT&EXPLICIT

IL DEMONE DELLA PAGINA BIANCA Paolo Armelli Quanta fatica si cela dietro un buon incipit? Più in generale, quanta fatica fa uno scrittore a solcare la pagina bianca? Tanta. Difficilmente si può credere a quegli scrittori che confessano di non fare alcuno sforzo nella scrittura: anche i più grafomani di loro compiono immagini fatiche. E, ad ogni modo, si sprecano i consigli su come diventare degli scrittori migliori e vincere sempre più facilmente il demone della pagina bianca. Il think tank online sulla creatività “99%” (il nome viene dalla famosa frase di Thomas Edison: “Il genio è 1% ispirazione e 99% traspirazione”) elenca i consigli di 25 scrittori su come vincere le resistenze della penna. Ce ne sono parecchi di interessanti, soprattutto quelli molto pragmatici: Zadie Smith consiglia sempre di “lavorare sempre con un computer senza connessione

Internet per evitare distrazioni”, mentre Kurt Vonnegut di “trovare un tema che vi stia a cuore e che pensiate debbano stare a cuore ad altri”; altri sono più diretti ancora, come quello di P.D. James: “Non progettare di scrivere – scrivi. Si tratta solo di scrivere, non di sognare di farlo”. Ma il migliore resta sempre lui, Hemingway: “Un aspirante scrittore dovrebbe solo andare fuori e impiccarsi quando trova che scrivere sia insormontabilmente difficile, ma poi dovrebbe essere tirato giù di forza e costretto dal suo stesso ego a scrivere per tutto il resto della vita. Almeno avrebbe la storia dell’impiccagione da cui cominciare.” Tragico e comico come sempre, e premonitore, il vecchio Hem. Iniziare a scrivere è quasi una violenza che si fa a se stessi, l’incipit segna quel trauma iniziale che poi, il resto della narrazione, mentre si

scrive, cerca di guarire. E non è detto che si arrivi mai a un punto finale: prendete quei libri mai compiuti… Ma è un’altra storia, quella: il prossimo mese, magari.

Raymond Carver Il mestiere di scrivere (Einaudi) “Verso la metà degli anni Sessanta, mi sono reso conto che avevo qualche difficoltà a concentrare l’attenzione su opere narrative di una certa lunghezza. Per un po’ di tempo ho avuto difficoltà a leggere, oltre che a cercare di scriverne.” * “E quell’altra parla: anima – o chiamatela spirito, se preferite, se vi rende più facile rivendicare quel territorio. Non scordatevi neanche quella. Fate attenzione allo spirito delle vostre parole, delle vostre azioni. E’ una preparazione sufficiente. Non c’è bisogno di altre parole.”


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EYES|WIDE|SHUT

SE LA VIOLENZA È CINEGENICA Federico Tosato Nella cinematografia la violenza è cinegenica, sia perché tratteggia situazioni, azioni o eventi generalmente non presenti in quella che è la nostra quotidianità, sia perché l’atto cruento scatena una considerevole risposta emotiva da parte dello spettatore; in un certo senso, la sua apparente irrazionalità ci attrae. Al riguardo, Noël Carroll sottolinea il fatto che le emozioni sono uno strumento essenziale al fine di controllare l’attenzione di chi si approccia ad una certa opera, letterale o visiva che sia; alla lettera, sono «un device centrale di cui gli autori dispongono per controllare l’attenzione di lettori, ascoltatori e spettatori»; insomma, le emozioni sono legate alla comprensione del film, tanto da orientarlo. E aspetto non certo trascurabile, l’archetipo della violenza è un elemento presente da sempre all’interno della cinematografia, in

ogni epoca e in ogni paese. Ma soprattutto nell’attuale periodo storico pare di osservare – specie nella produzione americana – una tendenza crescente nell’attribuire rilevanza drammaturgica a tale aspetto. Nell’economia narrativa dei film realizzati negli Stati Uniti nel corso degli ultimi anni sembra che la violenza – espressa in molteplici forme e dinamiche – muova l’azione dei soggetti agenti, come prima meno frequentemente potevamo notare. Tanto da riconoscerle oggi una rilevanza significativa – quando non addirittura il ruolo di elemento predominante – anche in pellicole del tutto differenti per genere, stile e orientamento. Uno dei suoi aspetti capitali è l’essere sempre portatrice di un qualche senso; nella maggior parte dei casi, motivazioni sociali o culturali, religiose o politiche, si rivelano aspetti determinanti al suo

sviluppo: «La società, la politica, le istituzioni, la religione, la cultura, la nostra stessa identità, sono state costruite sulla violenza, in particolare sulla violenza sacrificale», affermano Bujatti e Antonello. La violenza riflette sul suo divenire, sul suo stesso essere, specie attraverso il cinema. La percezione dell’atto cruento da parte dello spettatore non consiste primariamente nella sua efferatezza, ma nel realismo della sua rappresentazione, motivo per il quale, allargando il campo d’indagine, possiamo affermare che ciò che non ci viene mostrato, non esiste. La connotazione estetica della scena violenta permette la concretizzazione del momento catartico del sacrificio, soddisfacendo conseguentemente una funzione per così dire mitica, occultante il gesto violento in senso stretto, emotivamente scioccante.

Insieme al realismo della rappresentazione, l’altro elemento che ci permette di percepire la ferocia sulla scena è probabilmente lo strazio della vittima. Insomma, «non è la quantità della violenza che crea problemi allo spettatore, ma il suo grado di realismo e la rappresentazione diretta della sofferenza».


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HEARTBIT

MEGLIO TARDI CHE MAI DJ Chemikangelo

Compost/Schema records

Da un pò di tempo a questa parte i concerti iniziano sempre più tardi: perchè? Tutti quelli con cui ne parlo (gente che suona, che organizza, fans sfegatati, semplici appassionati) concordano su questa cosa; sono d'accordo sul fatto che i concerti dovrebbero iniziare prima e che poi si potrebbe restare nel locale sino a notte fonda, ma DOPO il concerto (per il quale spesso tanti si sparano centinaia di chilometri in auto, compreso il sottoscritto). L'argomento è noto e condiviso a quanto pare dalla stragrande maggioranza dei frequentatori di concerti. Eppure le cose non cambiano, anzi, peggiorano. Capisco che è brutto far suonare un gruppo davanti a cinque persone (perchè il grosso della gente arriva tardissimo, forse perchè fa figo, per poi magari uscire a fumare e bere fregandosene altamente di chi suona)... ma non

si può dare per scontato che uno andando ad un concerto debba mettere in preventivo di tornare a casa minimo alle tre. È assurdo. Non sarebbe economicamente più redditizio (come fanno a Londra, mica a Kabul) far cominciare un po' prima le serate? Significherebbe cominciare ad incassare prima, o mi sbaglio? Si tratterebbe solo di cambiare certe abitudini, niente di traumatico... S’alza il vento della polemica, dunque. Qui in Italia si cena tardi però, per non dire degli aperitivi... Molti stranieri spesso si ritrovano a inizio cena quando invece all’estero (specialmente oltremanica) sarebbe già inizio serata concerto. A Londra come a Berlino, invece, i concerti e le performance teatrali cominciano ad un’ora decente che ti permette poi di prendere la metropolitana o il tram per tornare a casa.

Stranamente, però, questa cosa avviene solo da alcuni anni : sembra che, per il pubblico, vengano prima il cinema, la tv, internet e poi (alla fine), se capita, anche la musica dal vivo. Una volta si andava ai concerti alle 19 e si stava fuori dal locale ancora chiuso con birre e panini, oggi si va a fare l'aperitivo, poi a mangiare con calma la pizza e poi al locale (e si sono fatte già le 23.00...). Ed il gruppo? Dopo aversi fatto il viaggio in furgone, aver superato lo stressante soundcheck sul palco, aver atteso ore ed ore bevendo birra e mangiando due pizze, attende l’arrivo del pubblico e sale a suonare sul palco la propria scaletta musicale a mezzanotte (sempre se qualche componente non si è già addormentato mezzo ubriaco dentro al furgone).


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SPEAKER’S CORNER

L’AMORE AI TEMPI DELLA FINANZA Marco Piazza Amore si dice in molti modi, e in questo articolo cercherò di dirlo in maniera finanziaria. Si tratta sicuramente di una lettura riduzionista, da prendere con le pinze, ma che comunque illumina una sfaccettatura di questo bellissimo e multiforme mistero. Partiamo da un simpatico racconto che gira da qualche tempo in rete, forse una leggenda metropolitana, che racconta di una donna sedicente bella, intelligente e di gran classe che si rivolge ad un famoso sito di consulenza finanziaria, chiedendo consigli su come trovare un marito ricco (in realtà lei cerca di passare da un marito ricco ad uno ancor più ricco). Il consulente, interessato anche personalmente alla questione dato il suo reddito, sfodera tutta la sua sapienza finanziaria, arrivando ad una conclusione efficacissima, quanto divertente. Parte descrivendo la questione:

si tratta di uno scambio fra due asset, due tipi di ricchezza (la bellezza della donna contro il portafoglio dell’uomo), che vanno dunque valutate da un punto di vista finanziario, cioè non solo in termini di valore ad oggi, ma anche di rendimento futuro. Come tutti sappiamo, la bellezza diminuirà poco a poco e un giorno svanirà, mentre é molto probabile che il conto corrente del potenziale futuro marito aumenterà continuamente. In termini economici, la signora è un attivo in deprezzamento (progressivo!) mentre il consulente è un attivo che rende dividendi crescenti. La signora cioè oggi é ben quotata sul mercato, nell’epoca ideale per essere venduta, non per essere comprata e (man)tenuta: in termini specialistici, la signora è in "trading position", non in "buy and hold position". Quindi, sempre in termini finanziari, il matrimonio ("buy and

hold position") non é un buon affare a medio/lungo termine ma, in compenso, può essere un affare ragionevole l’affitto per un breve periodo di tempo. Per assicurarsi quanto intelligente, di classe e bellissima sia la signora, il consulente, quale possibile futuro affittuario di tale “macchina”, richiede ciò che é di prassi nel mercato automobilistico, cioè la possibilità di fare un test drive. A parte il tono scherzoso dell’aneddoto (che contiene comunque una sua morale), si può notare come le categorie finanziarie possano rappresentare degli utili strumenti per compiere delle scelte nella vita di tutti i giorni, anche in campo affettivo (o presunto tale). Tenterò ora di proporre un ragionamento simile, magari da un punto di vista più elevato, partendo comunque da basi finanziarie. Una delle regole principali di questa

disciplina è la correlazione positiva tra il rendimento di un qualsiasi strumento finanziario (azione, obbligazione societaria, titolo di stato) ed il suo rischio (che rappresenta la variabilità del rendimento): ad un maggior rischio corrisponde (o dovrebbe corrispondere) un maggior profitto. Come esempio, si tenga conto dei titoli italiani rispetto a quelli tedeschi: all’aumentare del pericolo di insolvenza del Belpaese percepito dai mercati finanziari, lo spread (che è la differenza fra i due rendimenti) si allarga. Il maggior rendimento servirebbe a premiare il più elevato rischio che l’investitore sta correndo. Ed ecco il punto: potremmo parlare di relazioni amorose come di investimenti in senso lato, cioè come impieghi che hanno dei rischi e dei ritorni, non solamente economici, ma anche psicofisici, affettivi, spirituali. Sono richiesti massicci in-


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vestimenti per pochi attimi di eternità: investiamo in noi stessi e in un’altra persona, ci prendiamo dei rischi con la speranza di un po’ di felicità. C’è del capitale proprio da metterci, debiti da sottoscrivere e da restituire con gli interessi, e garanzie da prestare. Ma non ci sono agenzie di rating che aiutano veramente nella scelta, non ci sono assicurazioni e controassicurazioni per attutire le ferite. Dietro l’angolo ci può essere qualche capital gain, ma anche il peggiore default. Si tratta spesso di un salto nel vuoto, una scommessa à la Pascal. Come diceva Nietzsche, “c'è sempre un grano di pazzia nell'amore”.


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FRAGILE

Alberto Saltini

sono frammenti rubati alla luce, salvati dalla disgregazione, interpreti fragili ed unici.


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<prossima uscita>

quindicidicembreduemilaundici

REDAZIONE: Nicolettamai albertofabris elisabettabadiello paoloarmelli federicotosato marcopiazza federicogobetti chemikangelo FOTOGRAFIA: Albertosaltini GRAFICA: Enricocapitanio | Editrice Millennium, piazza campo Marzo 12 Arzignano (VI)


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