APERIODICO DI INFORMAZIONE, ANALISI, RIFLESSIONI
N* 4
Firenze Aprile 2011
“Non è colpa nostra se la plebaglia europea era convinta che l’Unione Monetaria fosse fatta per la loro felicità” Jacques Attali, banchiere francese
’ I grandi poteri: WTO e FMI Per parlare di due istituzioni internazionali semisconosciute ai più è necessario partire da alcune esperienze a noi più vicine. Gli accordi FIAT firmati a Pomigliano e a Mirafiori hanno fatto parlare di “metodo Marchionne”. segue a pag. 4
Europa: la grande truffa La storia è quella di un grande inganno che parte da lontano, sin dalla fine della seconda guerra mondiale. E’ la storia di un progetto che vuole l’Europa governata da un’oligarchia, dopo aver detto alle persone che sarebbe stato per il loro bene. segue a pag. 10
Situazione fiorentine
delle
fabbriche
Nell’hinterland fiorentino sono presenti numerose fabbriche e, la maggior parte di queste, sta subendo gli effetti della crisi causata dalla finanza speculativa, con tutto ciò che questo comporta per i lavoratori. segue a pag. 14
EDITORIALE Nella vita mediatica perdiamo l’essenziale e ribaltiamo la logica della realtà. La sorveglianza è la difesa contro il terrorismo internazionale. L’ONU e le organizzazioni economiche nate dagli accordi di Bretton Woods (Fondo Monetario, Banca Mondiale, WTO) sono il credere in un mondo integrato e in pace. La perdita di controllo dell’economia da parte del potere politico è l’efficienza del privato rispetto al pubblico. Perdere l’essenziale significa perdere il controllo della propria vita, della possibilità di decidere chi essere o cosa fare. Controllare la propria vita, oltre che cercare la realizzazione di se stessi nella giungla del mondo moderno, significa poter avere influenza su ciò che succede intorno, poter essere una voce attiva e non soltanto un ingranaggio dell’enorme macchina del profitto dell’élite finanziaria mondiale. Perdiamo l’essenziale con le pubblicità e i messaggi dei media, che oggi formano gran parte dell’immaginario collettivo e della coscienza politica delle masse. Disinformate con il “politichese” dei principali mezzi di informazione, anestetizzate con calcio e porno, le popolazioni mondiali, con il loro consenso silenzioso, sono state vittime della più grande truffa mai avvenuta. segue a pag. 2
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EDITORIALE Nella sua forma di Stato democratico, il potere politico ha anche la funzione di contrastare il dominio del capitale rispetto alla società, per poter rendere tutti uguali, tutti decisori del proprio futuro. Questo, all’alba del XXI secolo, è sempre meno vero. L’attacco della finanza mondiale ha causato un drastico ridimensionamento della funzione sociale e redistributiva dello stato come era stata intesa nel secondo Dopoguerra. La Globalizzazione ha decretato la fine della Storia per come l’avevamo fin’ora conosciuta: mai come adesso un’élite globale aveva avuto il potere di controllare la direttrice storica di gran parte dell’umanità. L’istituzione di organi internazionali come la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale e l’Organizzazione Mondiale del Commercio è parte integrante di questo processo. Queste istituzioni, trattate in modo più approfondito all’interno di questo numero, sono state di fatto uno strumento di espansione e unificazione del potere economico. Mentre nascevano istituzioni globali, a livello nazionale iniziava il processo di allontanamento delle Banche Centrali dal controllo pubblico, tramite la massiccia entrata dei privati (principalmente banche). Si è quindi venuta a creare una situazione paradossale in cui lo stato non controlla più la propria moneta ma la deve comprare dalla propria Banca Centrale. Gli Stati, e quindi in ultimo i cittadini, per avere nuova moneta devono chiederla alla Banca Centrale, che, in cambio di buoni di tesoro (i “pagherò” statali) la “vende” allo Stato. Per venderla, si intende crearla dal nulla, emettere nuova moneta, stamparla. Grazie a quest’azione, gli Stati si indebitano con le Banche Centrali, che ripetiamo sono private, quindi controllate da individui che ottengono così del profitto e che non sono funzionari eletti dalla popolazione. Grazie alle condizioni assicurate da quanto detto finora, oggi l’economia mondiale è simile a un tavolo di poker. L’economia reale, cioè la produzione e la vendita di servizi e oggetti, anche se frutta miliardi di euro, dollari e yen, serve solo a dare le “fishes” per sedersi al tavolo. Il tavolo sono la borsa e le speculazioni bancarie che permettono di moltiplicare in pochissimo tempo le “fishes”. Oltre che rendere la moneta sempre più volatile e meno legata alla realtà, questo gioco ha una caratteristica perversa: alcuni dei giocatori che si siedono al tavolo, e cioè alcuni dei grandi proprietari di multinazionali e banche, sono anche quelli
INTERNAZIONALE (segue da pag. 1)
che decidono le regole e le carte del gioco. Ciò è possibile perché ricoprono ruoli strategici dell’economia mondiale come le presidenze delle Banche Centrali, delle istituzioni mondiali globali, delle agenzie di rating. Inoltre, muovono così tanti soldi che, decidendo di ritirare simultaneamente gli investimenti da un paese e intanto scommettendo sul suo collasso, hanno il potere di farlo crollare (e di fare
capitalistica, mentre predica che la lotta di classe è un residuo ormai del passato, unitasi, ha sferrato un attacco al potere politico delle società.
soldi perché hanno investito sul suo fallimento). La finanza mondiale, o meglio la sua componente più aggressiva e organizzata, quella anglo-americana, ha imparato dalla lezione marxista: l’unità di classe può portate al controllo di tutte le forze produttive. E paradossalmente, la classe più integrata e più compatta, quella
indipendenza africani, asiatici, sudamericani e guidato l’apertura all’economia capitalistica negli ex-paesi sovietici. Questo ha portato, tranne rare eccezioni, allo smantellamento dello stato sociale e alla creazione di un’economia dipendente dal commercio internazionale, nonché facile preda delle speculazioni
A livello globale, tramite Banca Mondiale, Fondo Monetario e WTO, ha deciso la direttrice di sviluppo che avrebbero dovuto imboccare i paesi europei nel secondo dopoguerra, i paesi di nuova
finanziarie e dei ricatti economici. A livello nazionale, ha portato avanti un processo di erosione del potere delle masse, data dalla crescente influenza del potere economico su quello politico. L‘azione politica degli Stati riflette sempre più gli interessi delle élite e sempre meno quelli della collettività. Oggi è difficile distinguere dove finisce il potere politico e dove inizia quello economico. Basti pensare all’Italia, e il riferimento non è solo al nostro celebre imprenditoremafiosetto Berlusconi, ma all’ala politica che gli si contrappone. Ciampi, ex-presidente della repubblica, quando il paese era in difficoltà economica ed era a rischio per l’entrata in Europa, fu chiamato per aiutare la transizione dell’Italia nelle vesti di presidente della repubblica e, rischiando di violare la Costituzione, stava per essere rieletto. Peccato che in pochi si ricordino che è stato anche Governatore della Banca d’Italia per quattordici lunghi anni. La collusione fra il potere economico e politico va oltre il caso Berlusconi, non ci viene, infatti, ricordato che l’unico uomo che l’ha sconfitto due volte nella sfida alla Presidenza del consiglio, Romano Prodi, è stato un famoso manager di livello internazionale, presidente dell’azienda
pubblica più importante del paese (l’IRI) nonché capo della Commissione Europea, il vero organo decisionale dell’Unione Europea, che, ahimè, non è direttamente eleggibile. Per essere il rappresentante più forte della Sinistra Italiana negli ultimi vent’anni, ha un curriculum interessante. Perdiamo l’essenziale perché eleggiamo soltanto delle comparse locali mentre i veri protagonisti si muovono su un piano globale, ben poco interessati a sapere che comparse sono state “democraticamente” elette dalle rispettive popolazioni. Stiamo assistendo alla creazione di un nuovo feudalesimo con preoccupanti tratti orwelliani a livello globale, e parlare di complottismo è molto riduttivo. Per smentire o confermare ciò che ho detto, basta informarsi, basta interessarsi, basta voler capire. Basta volersi risvegliare dal grande sopore, dal grande Matrix in cui ci fanno vivere. E’ arrivato il momento di risvegliare le coscienze, e di capire il mondo nelle sue forme attuali. Dobbiamo organizzarci per resistere, per contrattaccare. Il bivio è arrivato, dobbiamo scegliere quale pillola prendere: l’oblio o l’offensiva. All’alba del Terzo Millennio, è ormai necessario un movimento globale, senza distinzioni fra “buoni” e “cattivi”, un movimento
ambizioso che osi sfidare i grandi colossi economici che regolano le nostre vite. Il “politichese”, gli inutili ormai scontri fra falsi schieramenti politici nazionali, non ci interessano. Noi sappiamo quali sono i nostri nemici: Commissione Europea, Banca Mondiale, WTO, Fondo Monetario Internazionali, Agenzie di rating, speculatori, grandi banchieri. Il movimento no-global, da Seattle a Genova, lo capì, e la repressione che ci fu può farci capire quanto tremarono i potenti. Oggi è necessario e doveroso un movimento globale: siamo tutti interconnessi, e i decisori hanno scala globale. Finché continueremo a combattere i vari Marchionne, Berlusconi, Renzi, non potremo mai vincere, in quanto sono solo burattini, facilmente sostituibili. Gli interessi sono dietro, sono celati. Gli uomini più potenti del mondo sono nascosti nelle ombre comprate con il loro denaro. È arrivato il momento di riscrivere la storia passata e futura. Pillola Rossa o pillola Blu?
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INTERNAZIONALE
I grandi poteri: IMF & WTO Se li conosci li eviti (continua da pag. 1) La possibilità di presentarsi al mondo operaio con un semplice e tagliente “prendere o lasciare” è frutto di processi decisionali che passano ben al di sopra della corrotta élite politica del nostro stato. Non è stato Berlusconi a chiedere a Marchionne di delocalizzare la produzione, e non potrà essere certo Bersani a farlo tornare. Come imprenditore, l’a.d. della Fiat non ha nessun incentivo economico per sentirsi legato alla nazione di appartenenza della propria industria e responsabile del benessere dei propri operai. Che l’obbiettivo degli imprenditori sia quello di massimizzare gli utili è vero adesso come trent’anni fa, eppure non sarebbe stato possibile far passare un accordo come quello di Mirafiori a metà degli anni ’60. Come mai questo oggi è possibile? L’economia mondiale è molto più integrata di quanto non lo fosse venti o trenta anni fa. Ciò è dovuto a fattori di carattere tecnico (il container e l’informatica hanno portato uno sconvolgimento dei tempi e dei costi del trasporto) e a decisioni prese a livello globale. Qui viene fuori il ruolo giocato da FMI (Fondo Monetario Internazionale) e OMC (Organizzazione Mondiale del Commercio). Il Fondo Monetario Inter-nazionale è una delle istituzioni nate nel 1944 a Bretton Woods; il suo scopo consiste nel prestare soldi ai paesi che attraversano difficoltà economiche e di agire da organo di controllo per evitare crisi economiche sistemiche. L’intento non pare malvagio ma andando più in profondità nell’analisi si scopre che il diritto di voto è commisurato alla percentuale del commercio mondiale che ogni stato rappresenta. Questo significa che, come all’interno di un c.d.a, decide chi ha soldi. Questo meccanismo, già di per sé contestabile a livello teorico è, per di più, anacronistico, dato che i voti non dipendono dalla forza economica attuale, ma dalla situazione dell’immediato dopoguerra. Questa scelta non è casuale, ma nasconde la chiara volontà dell’Occidente (USA per primi) di detenere l’egemonia all’interno di questa istituzione. È emblematico il fatto che gli Stati Uniti detengano il potere di veto, visto che le principali decisioni devono essere prese con l’85% dei voti ed essi ne controllano il 17%, quanto basta! Il FMI decide se e a quali
condizioni prestare soldi agli stati in difficoltà, insomma ragiona più o meno come una banca, con la differenza che esso si trova praticamente senza concorrenti e, di conseguenza, è libero di porre le proprie condizioni ai prestiti elargiti. A partire dagli anni ’70, il Fondo è intervenuto in molti stati predicando una ricetta tanto semplice quanto letale: “meno stato più mercato”. Questa dottrina politico-economica, che prende il nome di neo-liberismo, è stata, ed è tuttora, la linea guida degli
interventi del FMI. Dal Brasile alla Sierra Leone, dal Kazakistan al Messico fino ai più recenti interventi in Grecia e Irlanda, questo organo ha condizionato i suoi prestiti all’apertura al libero mercato, alle privatizzazioni e alla riduzione della spesa pubblica. Visto i pessimi risultati raggiunti, le ricette proposte, più che tecniche, appaiono ideologiche. Il secondo oggetto misterioso è l’OMC. Essa si struttura come tale nel 1994 e da allora la sua influenza è stata enorme. Il suo intento è far sì che i flussi commerciali possano svolgersi il più liberamente possibile, “perché questo è importante per lo sviluppo economico e per il benessere”.
In pratica, esso agisce come foro decisionale, in cui gli Stati membri elaborano accordi di natura commerciale, e come una sorta di tribunale che serve a risolvere le dispute fra Stati in questo campo. L’istituzione dell’OMC prende le mosse dall’idea che, integrando le varie economie mondiali, sarà possibile evitare il ripetersi di ondate pro-tezionistiche come quelle che hanno giocato una parte importante nel causare le tragedie delle due Guerre Mondiali. Insomma, evitando le guerre commerciali, si eviterebbero quelle reali. Passando dalla teoria alla pratica, però, si vede come i provvedimenti adottati in seno al WTO siano tutt’altro che positivi: in un caso almeno, essi sono stati tragici. Si tratta dell’accordo sulla proprietà intellettuale (TRIPS), pensato per proteggere gli interessi di chi si accolla le spese per la ricerca e lo sviluppo di nuovi prodotti. Il risultato è un trattato internazionale che permette, fra le altre cose, di porre brevetti ventennali su medicine, piante, processi produttivi. In ambito medico significa regalare alle multinazionali farmaceutiche margini di profitto enormi sulla pelle della gente. Un altro settore in cui l’OMC ha lavorato a fondo è stato quello della rimozione delle misure protezionistiche nel commercio internazionale. Il principio-guida è stato semplice, potremmo riassumerlo con la frase: “la concorrenza fa bene”. Vietando le barriere protezionistiche, si è limitata la possibilità per gli Stati di decidere della politica commerciale ed industriale. Si può concludere che OMC e FMI sono responsabili di aver creato una situazione in cui lo stato è relegato a svolgere un ruolo marginale nella gestione dell’economia mentre i Marchionne di turno hanno la libertà di spostare la produzione là dove vi sono minori diritti e dove si possono ottenere i maggiori profitti.
- C. C. & PIA BOLT -
FONTI ◣ http://www.wto.org ◣ F. Volpi, “Lezioni di economia dello sviluppo” ◣ A. Cassase, P. Gaeta, “Le sfide attuali del diritto internazionale”
5 Moody's, Standard & Poor's e Fitch. I giudici del mercato e il ricatto del rating L’ennesima arma mortale della finanza speculativa. Il "duello" tra Bankitalia e Moody's, a proposito della solidità del sistema bancario italiano, suggerisce un approfondimento sul ruolo delle agenzie di rating. O, sarebbe meglio dire, sul loro potere. Perché le loro previsioni, le loro analisi e i loro verdetti sono spesso contestati ed hanno effetti pesantissimi non solo sui mercati, ma sulla creazione o meno di una nuova crisi per un paese (vedi cosa è accaduto in Grecia).
Le cosiddette "tre sorelle", le agenzie Moody's, Fitch e Standard & Poor's, capaci di controllare circa il 96 % del mercato finanziario, possiedono un proprio sistema di valutazione della solidità dei paesi della zona euro. Le agenzie di rating non sono esterne al mercato, ma sono comunque controllate da investitori, i quali possono ricevere grandi benefici dalle oscillazioni causate dai giudizi delle "tre sorelle". Il rating è uno strumento di fondamentale importanza per chi vuole investire in obbligazioni e titoli di stato, nonché un ottimo aiuto per le operazioni di speculatori internazionali e poteri forti. Si tratta infatti di una valutazione che misura il rischio di credito dell’emittente (stato, impresa o organizzazione che sia). È dunque un giudizio, basato sull’analisi della situazione finanziaria dell’emittente e del settore di appartenenza, del posizionamento della società e così via. Il rating esprime dunque una valutazione della capacità dell’emittente di assolvere agli impegni che ha assunto verso gli obbligazionisti: rimborsare il capitale e pagare gli interessi. A un rating migliore corrisponde un minore rischio per l’investitore di non vedersi remunerato il proprio credito e un tasso di interesse più basso. Una volta
attribuito, il rating è tutt’altro che immodificabile: nuove circostanze possono indurre le società di analisi a diminuire il rating di un emittente (downgrade) o a elevarlo (upgrade), com’è stato fatto nell’ultimo anno, nei confronti di molti stati in crisi. Queste modifiche hanno un effetto sul prezzo di mercato delle obbligazioni, che calerà nel primo caso e aumenterà nel secondo. Questo schema è stato recentemente utilizzato, anche grazie all’intervento del Fondo Monetario Internazionale, per distruggere le economie già disastrate di diversi paesi: prima si scommette sull’affossamento di una economia, poi interviene l’Fmi con i suoi prestiti da usura per “rimettere a posto i conti”, infine si declassa il paese per sfiduciarlo nei confronti dei mercati internazionali, metterlo in enorme difficoltà e far arricchire chi ha architettato il tutto. Funziona, e pure bene. Comunque, per quanto riguarda Moody's, la maggioranza del capitale è in mano a un drappello di importanti azionisti, tutti grandi gestori di fondi di investimento in ogni settore dell'industria e della finanza, per centinaia di miliardi di dollari. A sua volta Moody's è quotata in Borsa: nel 2009 ha avuto un fatturato di 1,8 miliardi di dollari, con utili di 687 milioni. Standard & Poor's , invece, fa parte del gruppo McGraw-Hill, attivo nell'editoria e nei servizi finanziari. Tra l'altro, controlla il settimanale Business Week. Il fatturato del gruppo è quantificabile in 5,95 miliardi di dollari (con utili di 1,17 miliardi). Fitch è invece la terza agenzia a livello mondiale, con circa il 16 % del mercato (S&P e Moody's ne hanno circa il 40 per cento a testa), Fitch funge spesso da "arbitro" quando i giudizi delle due "sorelle" maggiori divergono. E' controllata al 60% da una società finanziaria, la Fimalac, posseduta al 65,75% da Marc Eugène Charles Ladreit de Lacharriere. Questi è un ex banchiere, oggi finanziere che figura al tredicesimo posto fra gli uomini più ricchi di Francia, con un patrimonio stimato in 1,1 miliardi di dollari. Fitch Ratings nel 2009 ha
generato un fatturato di 683 milioni di euro. In base alle leggi statunitensi, le agenzie che attribuiscono i rating non sono responsabili dei loro giudizi, anche se gli investitori di tutto il mondo dipendono spesso solo dal numero di “A” attribuito da Moody’s o S&P per giudicare il valore del credito. Negli USA, il Credit Agency Reform Act del 2006, non affronta il problema della responsabilità di queste società e non ci sono altre leggi che si occupino delle agenzie di rating. Deregolamentazione, quindi, sfacciataggine nella modalità d’azione e totale noncuranza delle conseguenze sulle economie degli altri paesi, per non parlare degli effetti sulla popolazione: macelleria sociale, “austerity” e via dicendo. E’ ormai chiaro che la concezione di economia e di amministrazione per le classi dirigenti (formate più da spietati giocatori che da persone responsabili) è cambiata in modo peggiore: si predilige rischiare la ban-carotta dei paesi per far sì che il gioco vada avanti; la speculazione finanziaria, le “bolle” e l’imposizione di regole assurde sono poi vissute dalle persone
come situazioni normali. Qui si punta alla distruzione delle nostre vite. E’ necessario, ora più che mai, prendere coscienza di ciò che sta accadendo, smetterla di pensare per sé e, infine, mettersi in gioco.
- Marcos FONTI ◣ http://www.ilsole24ore.com ◣ http://www.finanzaoggi.it ◣ http://www.criticamente.it
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INTERNAZIONALE
Effetto domino! Il Maghreb insorge Ormai da mesi le insurrezioni in atto nel nord dell'Africa hanno sopra di sé l'occhio mediatico di tutto il mondo. Un eclatante effetto domino che, con forza dirompente, ha incendiato una dopo l'altra tutte le città arabe. Quest'ultima crisi economica, percepita come flagellante nei paesi occidentali, non ha certo lasciato incolumi le economie dei paesi arabi, causando un decisivo aumento del prezzo dei generi alimentari primari. Ma questa non si può definire come la causa scatenante, quanto più come l'ultima goccia che ha portato alle vicende che ora sono sotto gli occhi di tutti. I motivi e le dinamiche di queste proteste sono sì differenti di paese in paese, ma possono
questi paesi, si sta giocando per accaparrarsi le risorse petrolifere. Secondo motivo è invece l'importanza strategica che avrebbero questi paesi in una politica filo-americana contro il nemico numero uno, l’Iran (che si troverebbe completamente accerchiato). Il rischio maggiore che ora questi paesi stanno correndo non è quindi tanto la brutale repressione che abbiamo potuto vedere in questi giorni, quanto la possibilità che questo momento di cambiamento e transizione sia veicolato da quegli stessi paesi (USA in primis, ma anche EU ed Israele) che prima, difendendo i loro interessi appoggiavano i regimi ormai caduti (ieri legittimi presidenti eletti, oggi
stanno partendo ogni giorno dal Bengasi e dalle regioni libiche dell'est carovane di "giovani rivoluzionari" nel tentativo di prendere Tripoli, roccaforte del regime. Il processo di infiltrazione o di pressione sulla politica interna di questi paesi sta già avvenendo. Non in modalità Bush con bombardamenti a tappeto e l'ingente utilizzo militare (vedi Iraq), quanto in una modalita che ricorda quella sperimentata in Sud America, fatta di presidenti fantoccio, appoggiati dagli Stati Uniti, e finte democrazie (vedi articolo pag. 7). In Egitto, territorio strategico per mantenere il giogo israeliano sulla Palestina, poiché chiude il valico di Rafah, le forze militari stanno sostenendo e conducendo una “transizione pacifica”, guarda caso come consigliato dalla Casa Bianca. Allo stesso tempo va sempre più incrinandosi quell’iniziale rapporto che legava esercito e insorti. E' di poco tempo fa la dura repressione avvenuta verso un corteo pacifico, che chiedeva le dimissioni del neo primo ministro Ahmed Shafiq. Daltronde era pretenzioso il tentativo di mettere alla momentanea guida del paese Shafiq, fedele sino all'ultimo a Mubarak. Ma compreso il passo falso e il pericolo incombente l'esercito ha ceduto alle richieste di piazza accettando le sue dimissioni. Si trova quindi ora alla nuova conduzione del paese Essam Sharaf, che invece assieme al popolo protestava nelle piazze. In Tunisia il presidente del consiglio Beji Caid Essebsi cede alla piazza annunciando le elezioni per luglio, e pare che nel consiglio che redigerà il codice elettorale vi saranno a condurlo il Consiglio di Protezione della Rivoluzione e parte dei partiti, tutti soggetti vicini alle proteste. Gli interessi esteri in gioco per questi paesi sono molteplici: petroliferi, strategico-militari e quant’altro. Quello che si teme è che in cambio di ben poche concessioni ed una parvenza democratica vi sarà ancora un assoggettamento ed una nuova subordinazione di queste popolazioni alle politiche occidentali. Nessuno può prevedere quale sarà il risvolto finale di queste proteste, ma al momento si può sperare che riescano a vincere e contrastare le interferenze degli interessi occidentali.
essere tutte lette come un unico e importante momento storico per la politica dei paesi arabi. Le proteste in atto sono caratterizzate da un’estrema varietà sociale fra coloro che vi prendono parte, dal contadino allo studente, dal lavoratore alla madre di famiglia. Questo perché tutta la società civile, con ben poche differenze, soffre una medesima condizione politica ed economica. Oggi, più di ieri, la società civile araba vede finalmente la possibilità di un benessere diffuso, e la ricchezza dei paesi occidentali non allevia questo desiderio. Possibilità, quella del benessere, che la società vede ostruita soltanto da un’élite politica autoritaria e brutale. Un’élite composta di famiglie che svende il paese accumulando ricchezze e, ben lontana dai bisogni del paese, riesce a mantenere il potere con mezzi militari. Tunisia, Egitto, Libia, Marocco, Algeria non sono certo paesi rinomati per il loro rispetto dei diritti umani e civili. Sfruttamento, disoccupazione, corruzione e tirannia sono all'ordine del giorno, sono lo stato delle cose a cui questo movimento ha deciso di fare opposizione assoluta. E' evidente come adesso sulla pelle della popolazione araba si stia giocando una partita a scacchi d’interesse internazionale. Primo motivo, nonché maledizione di
dittatori), ed ora si presenteranno come "regolatori atti a pacificare gli avvenimenti". Non a caso in quest'ultima fase delle proteste, gli avvenimenti di tutta la fascia araba sono stati mediaticamente oscurati dagli avvenimenti libici, e infatti è li che si sta giocando la partita più importante per gli interessi americani, ma soprattutto europei. Primo estrattore di petrolio in Africa e uno dei massimi rifornitori energetici dell'Europa, in particolare dell'Italia, esporta il 32% del petrolio estratto in Italia e il 15% in Germania; è fondamentale per quanto riguarda l'importazione di gas naturale in Italia, Francia, Spagna e Germania. E ancora la Libia possiede il 7% delle azioni dell'Unicredit, configurandosi come prima azionista della banca. Non è casuale quindi che in questi giorni i media stiano martellando l'opinione pubblica con la brutalità degli avvenimenti in Libia (spesso attraverso informazioni viziate e a più riprese smentite). Sarà certo così più facile giustificare un possibile scenario futuro - Nadil di intervento sul territorio. L'unica fortuna per questo paese è che già gli insorti sono consci di questo pericolo. FONTI Compaiono da giorni su Twitter, blog e ◣ http://www.infoaut.org altri social network i commenti libici che ◣ http://www.vocidallastrada.com gridano: "Non abbiamo bisogno di voi, e dei vostri militari, ci liberiamo da soli". E ◣ http://it.peacereporter.net
7 The Back Yard Come il Sud America iniziò a liberarsi dall’imperialismo statunitense “Il cortile sul retro” così è stata da sempre sprezzantemente chiamata l'America Latina dagli Stati Uniti che qui hanno dato prova del loro più violento sanguinoso imperialismo, un luogo dove poter indiscriminatamente sfruttare le risorse naturali e imporre un libero mercato tutto a favore delle multinazionali statunitensi che avrebbero trovato lavoro a bassissimo costo e sfruttamento dei mercati nazionali. Fin dalla liberazione dalla morsa del colonialismo europeo, gli statunitensi misero subito in chiaro che quei territori, che si erano appena lasciati alle spalle secoli di dominio e repressione, da ora in poi sarebbero stati sotto il loro esclusivo controllo: la dottrina Monroe elaborata da Quincy Adams agli inizi dell'800 esprime chiaramente la volontà di egemonia da parte degli Stati Uniti su tutti quegli stati appartenenti al continente Americano a discapito dell'indipendenza e dell' autodeterminazione dei popoli latinoamericani. Per quasi due secoli gli interventi e le ingerenze statunitensi furono una costante. Questi furono giustificati da T. Roosvelt con l’idea che: “il diritto all’indipendenza non può essere separato dalla responsabilità di farne buon uso”. Durante la guerra fredda fu il “terrore comunista” a giustificare attacchi a governi democraticamente eletti attraverso golpe militari che misero al potere dittatori filo-americani. Fu in questi anni che vennero realizzati i più noti colpi di stato appoggiati dalla CIA i quali aprirono uno dei capitoli più tragici della storia del Sud America. In Guatemala o “repubblica delle banane” come veniva chiamata dagli Stati Uniti, agli inizi degli anni ‘50, il 2% della popolazione aveva il controllo delle risorse naturali d'accordo con le giganti società USA come la United Fruit Company amministrata da John Foster Dulles, segretario di stato americano, fratello di Alan che casualmente era a capo della CIA. Un colpo di stato organizzato nel 1954 rovesciò il governo progressista di Jacobo Arbenz, che aveva intenzione di nazionalizzare la United Fruit Company, dando inizio, sotto il generale Rios Montt, a 40 anni di squadroni della morte, torture, sparizioni ed esecuzioni di massa. In Cile l'11 settembre del 1973 alcuni corpi speciali dell’esercito, comandati dal generale Augusto Pinochet, (sostenuto dal presidente Richard Nixon
e soprattutto dal segretario di stato Henry Kissinger) diedero vita ad un violento colpo di stato volto a destituire il presidente Salvador Allende il quale aveva in programma la nazionalizzazione dell'economia a discapito degli interessi statunitensi sull'esportazione del rame. Iniziò così un ventennio di dittatura sanguinosa con deportazioni, omicidi politici ed esecuzioni sommarie. In Argentina nel 1976 una giunta militare prese il potere con un colpo di stato. Diversamente da quello che avveniva nel vicino Cile di Pinochet, la strategia fu un’altra: sequestri illegali, rapimenti e torture. Un genocidio selettivo che eliminò con una feroce repressione tutti i meccanismi di solidarietà creati all’interno delle organizzazioni dei lavoratori e dei movimenti sociali. Si parla ad oggi di oltre 30.000 desaparecidos, 2300 omicidi e oltre 10.000 arresti politici. Alla fine degli anni ‘80, finita l'epoca delle grandi dittature, gli Stati Uniti utilizzarono questa volta lo strumento delle “democrazie fantoccio” piegate alle esigenze economiche americane e internazionali: l’affidamento delle economie nazionali ai “Chicago boys”, gruppo di economisti chiamati così in virtù della loro adesione alle teorie neoliberiste del prof. M. Friedman, resero il Sud America schiavo del Fondo Monetario Internazionale e cavia di un capitalismo estremo. Qualcosa però sta cambiando. Dopo secoli di massacri e sfruttamento il popolo latinoamericano comincia a far sentire la propria voce e le parole che vengono portate avanti con forza sono anti-americanismo e anticapitalismo. In Venezuela un colpo di stato nel 2002, architettato dai gruppi conservatori venezuelani con il finanziamento statunitense, intendeva eliminare il governo eletto di Hugo Chavez, di chiara matrice socialista e anti-americana, perché spina nel fianco degli interessi economici statunitensi: il Venezuela infatti copre il 15% delle importazioni di petrolio degli Stati Uniti. Tutto sembrava procedere a favore dei golpisti, quando, in tre giorni, milioni di persone sono scese dai barrios e si sono riversate per le strade di Caracas richiedendo a gran voce il ripristino del governo di Chavez, ottenendo così il suo ritorno. La stessa storia si ripete in Bolivia, dove la popolazione indigena Aymara e Quechua aveva sempre assistito inerme
mentre il paese veniva depredato e schiavizzato. Nel 2003, quando venne eletto presidente Goni (el Gringo), questi pensò subito di svendere la seconda riserva di gas più grande dell'America Latina. Stavolta la gente si oppose, venne mandato l'esercito per sopprimere il dissenso ma migliaia di persone scesero per le vie della capitale ottenendo le dimissioni di Goni che fuggì negli Stati Uniti. Alle elezioni del 2005 è stato eletto Evo Morales, primo presidente indigeno boliviano, promotore di politiche sociali (dalla riforma agraria all'aumento del salario minimo) fino alla nazionalizzazione delle riserve di gas. Gli Stati Uniti hanno recentemente finanziato colpi di stato in Ecuador e Honduras, riusciti però solo in parte grazie a una massiccia opposizione popolare. Assistiamo a una sempre più forte avversione all'imperialismo statunitense che si è manifestata a livello economico con la creazione dell'ALBA (un accordo di cooperazione tra diversi paesi latinoamericani). Sentiamo provenire da
questi paesi una forte volontà di riscatto da una storia che li ha sempre visti vittime di violenze e ingiustizie. Vediamo come il desiderio di riprendersi la propria terra per farne un paese più giusto ed egualitario ha spinto questi popoli a combattere contro un nemico che sembrava impossibile da sconfiggere. Queste persone ci dimostrano che opporsi è possibile. La strada verso un’ alternativa reale è ancora da costruire, ma un vento di speranza soffia sull'America Latina.
- Frida FONTI ◣ http://fulviogrimaldi.blogspot.com ◣ http://www.comedonchischotte.org ◣ http://www.lamericalatina.net ◣ http://it.peacereporter.net
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Aprile 2011
L’Aquila e il Dragone La Guerra delle Valute Dopo il vuoto dovuto al crollo del muro di Berlino e la conseguente dissoluzione dell’Unione Sovietica, sta emergendo un nuovo candidato capace di mettere in discussione la supremazia mondiale statunitense: la Cina. In questo nuovo confronto-scontro tra due superpotenze è assente la forza competizione ideologica presente durante la guerra fredda. Non ci vuole molto per capire che entrambi gli stati sono due diverse
espressioni dell’ideologia capitalistica e questo fa si che i rapporti tra Stati Uniti e Cina siano piuttosto complessi. Negli ultimi 20 anni l’economia cinese è cresciuta a ritmi vicino al 10%, un tasso enorme se confrontato a quello delle nazioni occidentali. Questa crescita è strettamente legata all’arrivo di capitali dall’estero (Europa, Giappone, USA) e all’esportazione. Detto in altri termini, la Cina, nonostante una popolazione di oltre un miliardo di persone, non produce per se stessa. È il mercato internazionale (occidentale in primis) la valvola di sfogo per l’enorme capacità produttiva dell’economia cinese. La Cina, grazie alle sue esportazioni ha tanto denaro da investire e una delle sue destinazioni favorite è rappresentato dai buoni del tesoro statunitense. Così facendo il Gigante Asiatico presta soldi agli USA che essi spenderanno, prevalentemente, per l’acquisto di beni made in China. Questa situazione non potrà durare all’infinito e già da tempo l’Occidente ha chiesto che lo Yuan(la moneta cinese) venga rivalutato. Se ciò accadesse per la Cina diverrebbe meno oneroso importare merci e più difficoltoso esportare le proprie; per l’Europa e gli Stati Uniti
accadrebbe esattamente il contrario. Qualche mese fa,ma da allora poco è cambiato, il presidente della banca centrale cinese ha affermato che era necessario rivedere la politica di cambio nel medio-lungo termine. Alla domanda di quantificare il medio-lungo termine ha risposto:” La Cina ha una storia di quattromila anni”. In sostanza la Cina ha risposto picche e, per evitare di far crescere la mole del debito statunitense che, aggregando quello delle famiglie e quello delle imprese a quello pubblico, arriva al 300% del PIL, la Banca centrale statunitense da qualche anno sta svalutando il dollaro. La svalutazione è una soluzione rappresenta un utile strumento per chi la mette in atto ma ha effetti negativi per gli altri stati. Il caso Euro-dollaro degli ultimi dieci anni è emblematico : si è passati da 1Euro= 0,8$ nel 2002 a 1Euro=1,3$ oggi. Questo ha complicato non poco le esportazioni e i conti pubblici della zona Euro verso gli Usa. Le situazioni di Grecia e Irlanda non sono la diretta conseguenza di questa svalutazione del dollaro ma vi è un legame tra le due cose. Perché l’Euro non è stato svalutato? Quest’articolo non ha la pretesa di dare una risposta esaustiva, ma quello che è certo è che le autorità monetarie in generale e, nel caso specifico la BCE, temono le estreme conseguenze di una svalutazione eccessiva che causi una guerra delle valute. La paura è che “svaluta io che svaluti tu” e alla fine il mondo si inonda di pezzi di carta colorata che non hanno più nessun valore e di conseguenza calo degli scambi internazionali, panico nei mercati finanziari insomma il rischio di una nuova crisi stile 1929. È necessario non ricreare la situazione tedesca dei primi anni ’30 dove un proverbio affermava che i ladri rubavano le carriole, anziché i milioni di marchi (necessari per l’acquisto di un tozzo di pane) che esse contenevano. Da questo esempio si dovrebbe concludere che svalutare rappresenti una follia ma tentare di mantenere un cambio incompatibile con la propria economia non rappresenta un’alternativa vincente: l’Argentina fissò un cambio a un peso=un dollaro per circa un decennio fino a quando il debito che ciò aveva provocato divenne tale da non rendere più credibile il mantenimento del cambio fisso, era il 2001. Oggi un peso vale 0,1 dollari. Il valore dello Yuan è secondo gli esperti, lontano da quello che dovrebbe essere e rappresenta il
punto di partenza di una guerra valutaria, al momento ancora in fase embrionale. Tutto questo dibattito sui tassi di cambio scaturisce dal fatto che, volontariamente, non si parli di dazi. Infatti, sotto l’egida del WTO (Organizzazione Internazionale del Commercio) tutti i settori al di fuori di quello agricolo sono stati liberalizzati ciò significa che le merci si spostano sostanzialmente senza limiti e le tasse
alle frontiere sono minime. In questo scenario di globalizzazione lo stato nazionale deve prendere atto dell’impossibilità di attuare una politica commerciale che preveda una qualsiasi forma di limitazione alle importazioni, ad esso rimane solamente la possibilità di agire sul tasso di cambio per favorire le esportazioni o le importazioni. L’Unione Europea rappresenta un caso tutto particolare in cui neanche questo strumento è più a diposizione poiché gli stati membri hanno perso la possibilità di stampare moneta e, di conseguenza, agire sul tasso di cambio. Insomma quel che è certo è che tutto ciò che riguarda la moneta e, di conseguenza, buona parte dell’economia, è deciso molto lontano da ognuno di noi. - C. C. & -
FONTI ◣ The Economist ◣ Internazionale (Ottobre 2010)
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Prospettive per la lotta futura Unificare le istanze sociali e portarle su un piano globale Tra gli scontri del 14 dicembre a Roma, la scesa in piazza delle donne dopo due mesi e le rivolte nei CIE dell’1 marzo, c'è stato lo sciopero generale del 28 gennaio, indetto da FIOM e COBAS, nato dopo lo strappo di Marchionne a Mirafiori. Quella dello sciopero generale, è stata una richiesta che hanno invocato unitariamente operai, studenti e precari, a riprova della necessità di unità e ricomposizione fondamentale per respingere i ricatti del governo e di Marchionne. In questo stesso periodo, mezza Europa si è mobilitata contro le politiche di austerity e per respingere l'attacco del capitale a scuola, università, diritti dei lavoratori, pensioni e welfare, dimostrando la decisione e la radicalità di chi questa crisi non la vuole pagare. Inoltre, sono esplose le insurrezioni in Tunisia ed Egitto, che si stanno estendendo ad altri Paesi del mondo arabo come Algeria, Libia, Bahrein e Yemen. Sembra che nel Mediterraneo soffi un vento di rivolta. Ma perché in Italia, questo processo straripante non si è verificato, nonostante le numerose dimostrazioni di disagio, rabbia sociale e voglia di cambiamento? Che cosa manca ai soggetti sociali di questo paese? Sicuramente è mancata la capacità di parlarsi e confrontarsi realmente (provate a immaginare l'effetto di una manifestazione in cui le istanze sociali promosse dagli studenti, dai migranti, dai lavoratori, dai comitati in difesa del territorio come i No Tav, scendano determinate e unite in piazza per chiedere le dimissioni di questo governo e oltre!), ma, forse, anche una difficoltà a riconoscere i veri Nemici. Questi sono il Mercato globale e la sua società, derivati dal paradigma neoliberale che, sul piano sociale, genera la nuova classe dominante, composita e stratificata, che possiamo unificare con l’espressione di Global Class. Se una generalizzazione di questo tipo del Nemico risulta semplice, è più difficile identificarlo in un volto
riconoscibile. Mentre il capitalistaproprietario aveva un nome, un cognome e un indirizzo, questo Nemico agisce attraverso numerosi strumenti e istituzioni quali gli organi sopranazionali della mondializzazione che dettano le politiche e le strategie per conto della nuova classe dominante (Fondo Monetario Internazionale, Banca Centrale Europea,le Multinazionali) e gli stati nazionali che le trasmettono al loro interno. Complici dell'attuazione delle direttive calate dalle oligarchie economiche sono, per L'Italia, i sindacati concertativi come CGIL, CISL e UIL che, da sempre, si sono posti come i “pompieri del conflitto”, limitandosi a mediare la graduazione della riduzione dei diritti dei lavoratori per non perdere il posto al tavolo delle trattative, se non in aperto servilismo filo-padronale. La stessa FIOM ha mostrato aspetti molto ambigui, come quando sottoscrisse, dopo gli accordi di luglio 1993 sul contenimento del costo del lavoro, un altro accordo che prevede una discriminazione nelle RSU per i sindacati non firmatari di contratti nazionali, ed inserendo una clausola per garantirsi un terzo dei rappresentanti, indipendentemente dal voto degli operai (cioè la stessa cosa che ha fatto la Fiat nei confronti della FIOM). Bisogna però dire che quella data ha portato in piazza centinaia di migliaia di lavoratori ed ha catalizzato un fenomeno di
“unione” intorno alla questione Mirafiori. Perché il 28 gennaio è stato proprio questo, un tentativo di generalizzare il conflitto ai diversi soggetti antagonisti al sistema globale. Dentro quella piazza c'erano temi differenti dalla solita critica a Berlusconi in stile Camusso. Probabilmente è stato un tentativo parziale, con riferimenti al potere globale solo accennati e decisamente non è stata una risposta “alla greca”, ma si è aperto uno spazio politico importante, sopratutto in prospettiva futura. Le giornate di rabbia sociale che abbiamo visto fino ad ora in Italia non bastano più! Non sarà certo uno sciopero generale di quattro ore lanciato dalla CGIL per il 6 maggio ad alzare il livello del conflitto. Dopo anni di resistenza attiva contro le politiche di questo governo, l'unica strada possibile è il contrattacco! Questo non può che passare, nel lungo periodo, per una ricomposizione concreta fra chi è in grado di ribellarsi: lavoratori, studenti, migranti, lotte ambientali, di genere e territoriali. E non solo a livello nazionale ma globale. Resistere al neoliberismo è ancora possibile, sta a noi dimostrare che è possibile vincere!
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Aprile 2011
Europa: la grande truffa Siamo diventati ancora più schiavi e neanche ce ne siamo accorti (continua da pag.1) Tale progetto subisce, nel 1992, un’importante accelerazione: il 29 gennaio viene emanata la legge n.35 Carli - Amato per la privatizzazione degli istituti di credito e degli enti pubblici. Passano pochi giorni ed ecco un’altra data cruciale, il 7 febbraio. In questa data avvengono due fatti estremamente importanti per la realizzazione del progetto: viene varata la legge 82 con cui il ministro del tesoro Guido Carli (già governatore della Banca d’Italia) attribuisce a questa la possibilità di decidere autonomamente per lo stato italiano il costo del denaro. In seguito Giulio Andreotti, come presidente del Consiglio, assieme al ministro degli Esteri Gianni de Michelis, firma il Trattato di Maastrich, con il quale vengono istituiti il Sistema europeo di Banche Centrali (SEBC) e la Banca Centrale Europea (BCE). Il SEBC è un’organizzazione, formata dalla BCE e dalle Banche Centrali nazionali dei Paesi dell’Unione Europea, che ha il compito di emettere la moneta unica (l’euro) e di gestire la politica monetaria comune con l’obiettivo fondamentale di mantenere la stabilità dei prezzi. L’importante è che i cittadini non riescano a capire quanto sta avvenendo. I potenti, nel frattempo, continuano a lavorare al loro progetto: il governo italiano, con il decreto ministeriale 561 del 1995, pone il segreto di stato su quanto sta facendo per realizzare il progetto europeo, in particolare in ambito di politica monetaria. Il 1 gennaio 2002 l’Italia ed altri Paesi europei (non tutti) adottano come moneta l’euro. I prezzi raddoppiano, gli stipendi no. Due anni dopo, Famiglia Cristiana rende note le quote di partecipazione alla Banca d’Italia. Si scopre così per la prima volta (tali quote fino a quel momento erano riservate) che l’istituto di emissione e di vigilanza, in palese violazione dell’articolo 3 del suo statuto, è per il 95% in mano a banche private e società di assicurazione (Intesa, San Paolo, Unicredit, Generali, ecc..). La Banca d’Italia è divenuta, quindi,
proprietà di banche private le quali decidevano da sole il costo del denaro sancendo così, definitivamente, il dominio della finanza privata sullo stato. Nel 2005, poi, un giudice di Lecce, accertato quanto detto per la Banca d’Italia, andò oltre e, per quanto concerne la BCE, stabilì “come questa
stesso: prima alla Banca d’Italia, quindi alla BCE. Così facendo, lo stato ha violato due articoli fondamentali della Costituzione italiana : l’articolo 1, dato che la sovranità del popolo è stata violata, e l’articolo 11, dato che la Costituzione consente limitazioni (non cessioni) della sovranità nazionale (e con questo, chi scrive, non vuole di certo porsi come strenuo difensore acritico della Costituzione stessa). Per una “strana” coincidenza poi, a soli 5 mesi dalla sentenza che condanna la Banca d’Italia, nell’ultima riunione utile prima dello scioglimento delle camere in vista delle elezioni, con la legge del 24 febbraio 2006 dal titolo “Modifiche al codice penale in materia di reati di opinione”, vengono modificati proprio gli articoli che si riferiscono agli attentati alle istituzioni democratiche del Paese, le quali con i reati di opinione hanno ben poco a che vedere. Cosa cambia con questa modifica?
Nella sostanza le figure di attentato diventano punibili solo se si compiono atti violenti (eventuale rivoluzione, sic!). Se invece si attenta alla Costituzione abusando di un potere pubblico per far sottoscrivere al proprio paese accordi che cedono ulteriormente la sovranità, tutto rientra nella “legalità”.
sia un soggetto privato con sede a Francoforte; come, ex articolo 107 del Trattato di Maastricht, sia esplicitamente sottratta ad ogni controllo e governo democratico da parte degli organi dell’Unione Europea. Così come la succitata previsione faccia sì che la BCE sia un soggetto sovranazionale ed extraterritoriale”. In altri termini la sentenza mette in evidenza come lo stato, delegato dal popolo ad esercitare la funzione sovrana di politica monetaria, dal 1992 l’abbia ceduta ad un soggetto diverso da se
Si spiana di conseguenza la strada al futuro colpo di stato e, purtroppo, non è uno scherzo o un teorema complottista. In seguito, i potenti, sicuri della loro totale impunità, proseguono nel grande inganno e, visto che nel 2005 la Costituzione Europea (pensata e scritta per seguire gli interessi particolari degli industriali, su tutti lo European Round Table of Industrialist) era stata bocciata da francesi ed olandesi al referendum, presentano il loro progetto. Questo prevede di lasciare la Costituzione Europea immutata e, per evitare il referendum, chiamarla “Trattato”.
11 Poi, per non far capire al cittadino che nulla è cambiato, rendono il testo illeggibile inserendo migliaia di rinvii ad altre leggi e note a pie’ pagina, come confessato dall’ex presidente francese Valéry Giscard D’Estaing e dal parlamentare europeo danese JensPeter Bonde . Nel 2007 tutto è pronto e il 13 dicembre i capi di governo si riuniscono a Lisbona per firmare il Trattato, manca solo la ratifica dei vari Stati. Il parlamento italiano ratifica il trattato di Lisbona l’8 agosto 2008, approfittando del fatto che, in piena estate, le persone sono molto più distratte che in altri periodi, specie su temi del genere. Nessuno spiega ai cittadini cosa comporti la ratifica del trattato, e gli organi di informazione (nessuno escluso) tacciono. In realtà con quella ratifica abbiamo ceduto la nostra sovranità in materia legislativa, economica, monetaria, così come per salute e difesa, a organi (Commissione Europea e Consiglio dei Ministri) che non verranno eletti dai cittadini, ma dai grandi gruppi di pressione ed interesse dei vari paesi. Il problema di tutto ciò sta nel fatto ‘50, modificata fino al 2004 e integrata che queste persone decidono, di fatto, al Trattato) la quale afferma che: delle nostre vite e, per di più, in “Il diritto alla vita di ogni persona maniera vincolante per gli stati. Il solo è protetto dalla legge. Nessuno organo eletto dai cittadini, il può essere intenzionalmente Parlamento Europeo, non ha alcun privato della vita, salvo che in potere, infatti può solo proporre le esecuzione di una sentenza leggi e, ovviamente, la decisione finale capitale pronunciata da un su tali norme spetterà ai signori di cui tribunale, nel caso in cui il reato sopra. Ancora una volta, quindi, i sia punito dalla legge con tale nostri politici, abusando del loro pena. La morte non si considera potere pubblico e manovrati dalle varie lobbies, hanno agito in barba ad cagionata in violazione del ogni regola, etica, morale e presente articolo se è il risultato di costituzionale. Lo stato, invece, ha un ricorso alla forza resosi ceduto la sovranità e l’ha ceduta non assolutamente necessario: in condizioni di parità. Ma il dato più - per garantire la difesa di ogni allarmante è che con il Trattato di persona contro la violenza illegale Lisbona viene reintrodotta la pena di morte (sì la pena di morte). - per eseguire un arresto regolare Naturalmente questa non viene o per impedire l’evasione di una reintrodotta ufficialmente, ma persona regolarmente detenuta - per reprimere, in modo furtivamente, con una nota a piè conforme alla legge, una pagina della CEDU (Carta Europea dei Diritti dell’Uomo, pensata negli anni sommossa o un’insurrezione.”
Così, quando i cittadini si renderanno conto che hanno perso tutto, che la loro vita viene decisa da un’oligarchia di potenti non eletti, quando si renderanno conto del grande inganno in cui sono caduti non sarà loro concesso neanche reagire o protestare, perché basterà una sola parola per trasformare la reazione in “azione terroristica” o la protesta in “insurrezione”, legittimando così la sospensione dei diritti umani e l’applicazione della pena di morte. Il tutto, poi, verrà coperto con il segreto di stato, come ha recentemente confermato con la sentenza 106/2009 anche la nostra Corte Costituzionale. Ma, si sa, va tutto bene e i nostri problemi dipendono dalla vita sessuale di un settantacinquenne presidente del consiglio…
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NAZIONALE
Disoccupazione giovanile al 29% Una situazione drammatica trascurata dai media e dal dibattito politico
Concentriamo la nostra attenzione su un dato di politica reale. E’ curioso osservare che, andando sul sito web di “La Repubblica”, l’articolo sulla cifra record toccata dalla disoccupazione giovanile in Italia (29%) sia riportato fra le notizie di economia. E’ un fatto molto indicativo. La disoccupazione viene presentata come un problema di cui si devono occupare i tecnici della politica economica, come se questo non fosse un problema sociale, come se il fatto che 1 giovane su 3 non trova lavoro non sia interessante per il dibattito politico. È curioso. Periodicamente, dati sconfortanti sulla disoccupazione giovanile vengono fuori dalle rilevazioni Istat; periodicamente si chiede al politico X cosa ne pensa, al sindacalista Y quanto sia indignato per questa faccenda, si dà qualche dichiarazione di circostanza e poi la cosa viene archiviata in attesa della prossima occasione in cui la disoccupazione giovanile andrà ricercata fra le notizie “tecniche”, accanto al rincaro dei prezzi delle materie prime e all’ascesa della Cina Vi è questa tendenza, assurda, di collocare la voce “disoccupazione” nelle Agende dei Ministeri senza farne una questione di politica pubblica. È come se i partiti stessero de-localizzando parte delle proprie (scomode) competenze, al fine di potersi concentrare sulle faccende più comode, che nel caso del nostro paese si
riducono a spesso a questioni di secondaria importanza. Il sociologo R. Sennet parla a questo proposito di una piattaforma d’idee indifferenziata per tutti gli schieramenti politici, di cui si esaltano le differenze superficiali. È un’immagine che calza perfettamente. Si sa, parlare di disoccupazione giovanile è qualcosa che non piace all’opinione pubblica. Siamo pur sempre figli della nostra cultura, che vede nella famiglia l’ammortizzatore sociale ideale, di un sindacalismo frammentato e confuso che preferisce difendere chi un lavoro già ce l’ha piuttosto che preoccuparsi dei disoccupati, di un sistema produttivo che non sa bene cosa farsene delle qualifiche universitarie. Parlare di disoccupazione giovanile vorrebbe dire parlare di misure di protezione nuove, di spesa pubblica, di politiche a lungo termine. Del resto, si dice, se uno non trova lavoro è perché le sue aspettative sono troppo alte, basta che cerchi un lavoro meno qualificato. La disoccupazione giovanile in Italia è al 29%; a questa cifra va aggiunta la sottoccupazione giovanile (cioè l’universo di coloro che lavorano in condizioni precarie e degradanti) e la disoccupazione giovanile non rilevata (cioè tutti quelli che indugiano a cercare lavoro date le scarse probabilità di trovarlo). Già in un precedente articolo apparso su “Cortocircuito” si è sottolineato come la disoccupazione sia
un fenomeno sociale più che economico; comporta la necessità di accettare salari più bassi, la possibilità per i datori di lavoro di poter disporre di mano d’opera qualificata a condizioni vantaggiose (per loro), l’aumento del lavoro sommerso. In ultima analisi, comporta un peggioramento delle condizioni di vita di alcuni a favore di altri. Per rendersi conto di questo non occorre rifarsi ad alcun tecnico. Nel caso della disoccupazione giovanile, tutto questo si somma ad aspetti personali che, di nuovo, hanno ben poco di “tecnico”: scoraggiamento, insicurezza, carenza di aspettative, voglia di espatriare. È curioso dunque che si continui a cercare di minimizzare questa situazione, a metterla nelle pagine di Economia, a dire che sarà risolta dal gioco della domanda/offerta di lavoro, eppure è assolutamente in linea con la tendenza politica (assurda, specie i partiti dichiarati di sinistra) di lasciar perdere le condizioni materiali della base elettorale per concentrarsi su qualcos’altro, di regola meno importante.
- Pia Bolt FONTI ◣ La Repubblica ◣ R. Sennett, “La cultura del Nuovo Capitalismo” il Mulino
◣ D. Cohen, “Tre lezioni sulla Società Postindustriale” Garzanti
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FIRENZE
La situazione delle fabbriche fiorentine Oltre ad essere sfruttati quotidianamente, i lavoratori vengono anche presi in giro. (continua da pag. 1 ) Alla SEVES, per esempio, si producono mattoni in vetrocemento e, ad oggi, si contano 103 lavoratori sui 170 che erano fino a un anno e mezzo fa. La cassa integrazione, che dura da due anni, continuerà almeno fino a settembre 2011 e, probabilmente, verrà prorogata di un altro anno. SEVES appartiene a tre società legate al gruppo Vestar, Ergon e Athena, che, finanziariamente, non sono per niente messe bene. Nonostante il nuovo piano industriale, l’azienda ha deciso di mettere in funzione soltanto una linea di produzione e, così facendo, non c’è modo di ammortizzare i costi, quindi la situazione è in stallo. In pratica, dopo aver tenuto i lavoratori a casa e a mezzo stipendio, aver fatto inutili tavoli di confronto con le istituzioni e inviato più volte in Repubblica Ceca il materiale da utilizzare negli stabilimenti fiorentini, l’azienda dà l’impressione di voler continuare a giocare sulla pelle dei lavoratori. Le assurde politiche di delocalizzazione e spostamento dei materiali, nel tentativo di abbassare i costi di produzione, hanno fatto cadere a picco la qualità del prodotto. Nonostante la mobilitazione dell’RSU, la solidarietà della cittadinanza e l’interessamento del comune, i lavoratori sono lasciati a se stessi. Occorrono una lotta e un sostegno che vadano oltre il tavolo concertativo istituzional-imprenditoriale, altrimenti il gioco andato avanti fino ad ora continuerà. Alla Selex Galileo di Campi Bisenzio, invece, sono a rischio 73 posti e le prospettive industriali dello stabilimento. Qui si producono radar terrestri e navali dal 1948 (il gruppo appartiene, infatti, a Finmenccanica). L'annunciato scorporo e delocalizzazione di parte delle attività ha messo in agitazione i lavoratori, i quali, attraverso le proprie RSU, hanno scioperato diverse volte richiamando l’attenzione dei media. Anche qui, purtroppo, non si riesce a creare un minimo di conflitto sindacale: le rappresentanze si limitano solo ad annunciare l’attivazione di un percorso con le istituzioni…..Sempre a Campi, ma alla Gkn Driveline, invece, sembra ci sia un po’ più di movimento: un gruppo di lavoratori del Coordinamento 20 maggio, supportati da centri sociali e studenti con i quali si è creato un rapporto stabile, sta portando avanti numerose iniziative di lotta
(picchettaggi, presidi, volantinaggi) per mobilitare i lavoratori in risposta agli attacchi padronali e contro le pressioni esercitate dall’azienda nei confronti di chi non abbassa la testa. La Gkn è una multinazionale che produce parti meccaniche per automobili, produzione fortemente legata alla FIAT; il suo amministratore delegato, Andolfo, è anche presidente di Federmeccanica Firenze. Nello stabilimento fiorentino lavorano circa un centinaio di interinali e venti contratti a tempo determinato su 550 dipendenti. Ultimamente è stata inviata una lettera a tutti i lavoratori, dove si annuncia la possibilità di non mantenere la produzione nello stabilimento di Campi Bisenzio, qualora le posizioni sindacali non si dimostrino più
disponibili nei confronti delle esigenze aziendali. Anche qui, come sempre, si usa la delocalizzazione come arma di ricatto. Ciò che consola, però, è vedere che gli operai si autorganizzano e creano legami con altre categorie lavorative e sociali, premessa indispensabile per un minima resistenza “di classe”. Per quanto riguarda la Richard Ginori di Sesto Fiorentino (dove si producono porcellane dal 1735), è stato riacceso il terzo forno, fermo da anni: la produzione è aumentata, dopo un periodo di crisi acuta dovuto alla poca accessibilità al credito, e si annunciano nuove assunzioni (almeno si spera). Nel rilancio della storica fabbrica c'è lo zampino di Unicoop Firenze e dell'accordo da 6 milioni di euro che permetterà ai soci e ai clienti Coop di avere porcellane Richard Ginori tramite i bollini raccolti con la spesa. Infine, nonostante la disponibilità finanziaria da parte della regione (3milioni di euro di contributo anticrisi), rimangono forti dubbi sul destino del terreno su cui sorge lo stabilimento, che appartiene alla Ginori Real Estate, ora in liquidazione, e che andrà all'asta il 6 aprile. A livello sindacale c’è da registrare la recente sconfitta della CGIL (94 voti) nelle votazioni per il rinnovo delle RSU, nelle quali hanno vinto i COBAS con 134 voti su 263. Ironia del
destino, ad entrambe le rappresentanze vengono attribuiti 3 seggi, dato che la CGIL è firmataria dell’accordo del ’96, per cui le spetta di diritto il 33% dei delegati disponibili, pur avendo perso in voti assoluti. Infine, un altro caso emblematico della presa in giro che viene attuata ogni giorno nei confronti dei lavoratori, è la ISI di Scandicci, nata dalla riconversione dello stabilimento Electrolux a inizio 2009: dai frigoriferi ai pannelli solari. Tra giugno e agosto 2010 si era trovato un primo accordo per la produzione dei pannelli ma, il primo giorno di lavoro (per modo di dire visto che la maggior parte degli operai è in cassa integrazione da un anno e mezzo), mancava il materiale. Da novembre, poi, non si riceve più lo stipendio, tredicesima compresa. Recentemente è pure saltata la cordata di imprenditori Easy Green, che avrebbero dovuto acquistare un ramo dell’azienda, a causa del blocco degli incentivi alle energie rinnovabili da parte del governo. Per questo i lavoratori hanno deciso, lo scorso 11 marzo, di occupare ad oltranza la fabbrica, ormai in stato di semi abbandono, con un’unica linea di montaggio funzionante che dà lavoro soltanto a 120 persone su 370. Se i lavoratori saranno determinati e proseguiranno veramente ad oltranza, senza rinunciare alla radicalità della lotta ed evitando di delegare la propria protesta alla concertazione sindacale, potrebbero creare un precedente di grande importanza per la propria causa e per quella degli altri stabilimenti fiorentini in crisi. Tocca a loro, così come agli studenti e alle realtà che si muovono autonomamente dal basso unirsi con prospettive e analisi comuni, le quali vadano verso una direzione che non sia supplicare un imprenditore o un governo per un investimento, ma che ricreino quel tessuto sociale ormai disgregato dalla violenza dell’attacco padronale, per uscire finalmente dall’attuale condizione di sfruttamento e oppressione.
- John Q. FONTI ◣ http://www.selexgalileo.com ◣ http://www.seves.com ◣ http://www.gkndriveline.com ◣ http://www.richardginori1735.com ◣ http://www.mappadeiconflitti.org ◣ http://www.altracitta.org
15 Vota Antonio! Vota Antonio! Vota Antonio! Elezioni Universitarie
Roma, Piazza Navona, 30 ottobre 2008: un gruppetto di fascisti irrompe nel corteo del movimento studentesco (onda sedicente) e scortato dalla polizia sfoggia la sua artiglieria pesante (mazze e caschi) urlando “duce! duce!”. Due anni dopo li trovi candidati per le elezioni del CNSU, un organo universitario nazionale, raccattando circa 3mila voti, cifra ancora troppo bassa per ottenere un seggio. In generale le elezioni per il CNSU sono state un vero fallimento: circa 200mila voti su 1,8 milioni di studenti (a Firenze ha votato appena il 3,5% degli aventi diritto). Il potenziale maligno di quest'organo si è poi concretizzato quando l'ala destrorsa-ciellinaberlusconiana ha preso il sopravvento. Mi è venuto da ridere qualche giorno fa, leggendo sulla bacheca di Lista Aperta, la lettera che gli studenti del CNSU aveva mandato a Napolitano. In questa, essi si arrogavano il diritto di essere i migliori rappresentanti degli studenti universitari italiani, a differenza dei facinorosi che hanno messo Roma a ferro e a fuoco, chiedevano al presidente della repubblica un incontro chiarificatore sulla posizione degli studenti rispetto alla riforma Gelmini. Le rappresentanze istituzionali sono diventate un guscio attraverso il quale la
destra studentesca cerca di affermarsi e in particolare i fascisti cercano una legittimità. Il paradosso sta proprio nel fatto che gli eletti non rappresentano una fantomatica maggioranza, come da copione per gli organi democratici: basti pensare che alle elezioni di due anni fa a Firenze la percentuale di votanti fu del 17%, due anni prima del 15%. Studenti di Sinistra, il gruppo che ha preso più voti, rappresenta l'8% degli studenti,il 2-3% Sinistra Universitaria così come lista aperta, sotto l'1% azione universitaria alla pari, più o meno, delle schede nulle e degli astenuti. Rimane un 83% di studenti inespresso. Insomma, vincere le elezioni vuol dire tutto meno che avere consenso all'interno dell'università. E qui sta il dramma: non tanto perché siamo di fronte all'ennesima dimostrazione dell'enorme limite di rappresentanza del sistema democratico, ma perché la politica all'interno delle università pare essere tale e quale a quella parlamentare. Ci si candida per cercare visibilità, si cerca di vincere per ottenere legittimità, finanziamenti e agibilità politica, ma le lobby di potere rimangono le stesse. E non ditemi che è eccessivo parlare di lobby all'interno di un contesto universitario, basta guardare la composizione del senato
accademico: dei 24 componenti, solo 4 sono studenti, 5 i ricercatori, 12 i presidi di facoltà, un presidente e un vice presidente (ovvero il "magnifico" e il suo vice) e infine il direttore amministrativo. Con questa rappresentanza ci si può chiedere quale sia il ruolo dell'università, quanto sia caro alle istituzioni formare uno studente che impari presto a difendere i vigenti e sempre più traballanti equilibri economici, piuttosto che creare un luogo di scambio culturale dove lo studente sia veramente protagonista. Siamo dunque giunti al dilemma: andare a votare non serve a nulla, ma non andarci è, forse, ancora peggio. C'è chi sa come riempire quei vuoti istituzionali: alcuni si chiamano Blocco Studentesco, altri Azione Universitaria, altri ancora Giovani Padani, ma sono sempre i soliti fascisti. Il vero pericolo è questo. Le istituzioni stanno piano piano assorbendo la loro mentalità retrograda, il loro revisionismo, il loro razzismo. Siamo avvolti in un'indifferenza surreale: ci stanno togliendo la memoria e noi ce la lasciamo sfilare come se appartenesse a qualcun altro. È a questo che dobbiamo pensare. Il punto non è dunque se andare a votare o meno, ma accorgersi che il sistema della rappresentanza e della delega è fallimentare e lo si combatte decidendo di agire nel quotidiano anziché mettendo una croce ogni due anni.
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FIRENZE
Aprile 2011
Nella città vetrina vivere è il degrado La “rossa” Firenze si svende al perbenismo mediatico “Firenze versa nel degrado, nell’incuria e sotto la mano libera dei vandali che sciupano, scassano, ci infastidiscono; per non parlare della sicurezza che non è mai abbastanza.”Così parlano le voci isteriche di bravi cittadini, stanchi di cotanto degrado e sporco. Si scandalizzano e si imbarazzano se vedono due scritte sul
casa. Perché Firenze è ormai casa di commercianti, serva del turismo, schiava di interessi. Tristemente sempre più vicina a Venezia. Fuori dalla città i fiorentini, dentro i turisti, e con loro i soldi. Il centro storico si va svuotando per diventare un museo ad aria aperta mentre il centro nevralgico della vita per fiorentini viene
muro, li chiamano “bastardi e codardi”, i soliti, quelli che non si fanno vedere e sporcano, con le loro manacce sudice e le loro bombolette da delinquenti, i muri di questa onesta e pulita città. Allora serve una risposta a questi vandali e, come di consueto, si sceglie la via della pena invece che quella dell’integrazione di quest’arte, rendendo penale il graffitaggio. Per non parlare degli spazi sociali, vedi CPA, già menzionato tra i cento luoghi da restituire alla comunità. Non credo che uno spazio del genere possa appartenere alla comunità più di così, ma secondo lor signori sì: può essere dato ad un privato che ci lucri e che lo renda alla comunità sotto forma di scontrino fiscale, che lo renda uno spazio in cui le famigliole possono andare a consumare e a passare la loro domenica libera dal lavoro. Così come si minaccia di vendere a privati lo spazio di San Salvi, invece di renderlo un centro di aggregazione pubblico, cuore verde nella città e per la città. Proprio con le leggi di due anni fa contro questo farabutto di un degrado, a Firenze è diventato multabile mangiare seduti per terra: “Signori è bivacco”. Mai essere tanto sgarbati da portarsi un panino da casa e mettersi a mangiare sulle scalinate di una piazza, senza pagare un occhio della testa ai bartrappole per turisti... È come essere invitati a mangiare da qualcuno e portarsi il pranzo a sacco da
spostato in periferia. A Novoli le speculazioni della cricca stanno promuovendo uno sviluppo selvaggio, sempre guidato dal motore del consumo. Così nelle pause tra una lezione e l’altra gli studenti del polo universitario potranno finalmente spendere, grazie a un nuovo centro commerciale, con cinema multisala, piuttosto che ritrovarsi e parlare del mondo che verrà. Allo stesso modo salta all’occhio il losco piano di costruzione della cittadella viola a Castello. Insomma, Firenze sta vivendo una crescita senza precedenti, oltre la dimensione umana: è una crescita a dimensione di capitale. In questo modo saltano fuori decreti contro i lavavetri, pericoli numero uno per la comunità,e i sindaci-sceriffo nel Nord che arrivano a proibire l’assembramento in più di tre in piazza. Con la maschera del degrado si nasconde l’abominio di speculazioni e leggi disumane. E’ la rivoluzione dei benpensanti: dopo anni di libertà, la città ha bisogno di “sicurezza”, altro grido in forza alle fila dei bravi cittadini. Firenze non compare tra le città con più criminalità in Italia, eppure l’emergenza sicurezza sembra stia tanto a cuore ai fiorentini. Allora si svuotano le piazze, vengono lavati gli scalini di Santo Spirito a mezzanotte per fare in modo che quegli screanzati dei giovani non stiano a “bivaccare”, chiaccherando e godendosi l’atmosfera magica della propria città
nelle sere estive. Pensa un po’: “Si fanno addirittura gli spinelli”. Si vedono apparire, in S. Croce, in S. Spirito o al Duomo, camionette del reparto celere, municipale, guardia di finanza, esercito e chi più ne ha più ne metta. Se “bivacchi” sulle scalinate del Duomo, fumandoti una sigaretta, guardando il Battistero, la piazza ti apparirà vuota e morta già alle undici. Le soli esseri che transitano di lì sono americani, tedeschi, turisti e forze dell’ordine contro degrado e insicurezza. Potrai vedere, in un solo quarto d’ora, una decina di volanti, ma tu che guardi il battistero rimarrai l’unico fiorentino (non)di passaggio. Allora come dare sfogo a tutti questi benpensanti e commercianti indignati? Si lanciano grottesche campagne di segnalazione del degrado, su siti e giornaletti. Il buon cittadino si può ora santificare alla causa del bello e mandare segnalazioni tipo “Wanted” da far west. In queste foto compariranno temibili scritte sui muri o addirittura ragazzi in cerchio, che progettano lo sconvolgimento della normale vita cittadina, mentre sorseggiano una birra. Senza dubbio un metodo mediatico,usato per giustificare politiche tese all’allontanamento dei fiorentini dalla propria città e alla commercializzazione di Firenze. Forze dell’ordine, angeli del bello, benpensanti, commercianti, lucratori, Renzi&co hanno questo concetto di degrado. Vi dico io, invece, cos’è degrado e cos’è bello, in una città come Firenze. Degrado è una città-vetrina, in cui tutto deve essere perfettamente rassicurante, dove si spende e non si “bivacca”. Degrado è una città in cui trovi un poliziotto ad ogni angolo, messo lì a rassicurare il signorotto, controllando te che vuoi essere libero. Degrado è una città senza Emerson e CPA (già inseriti nel “piano a volumi zero” e nelle varie campagne della firenze “bene”). Degrado è una città in cui si tenta di vendere gli unici spazi realmente sociali per tappare delle buche stradali da terzo mondo. Degrado è una città totalmente disumanizzata. Degrado è girare per le piazze e trovare solo turisti. Degrado sono le speculazioni sulle nostre vite. Degrado è spendere, spendere, spendere. E’ invece bello animare le piazze, parlare all’aperto con una birra in mano, non pagata quanto un’ ora di stipendio. Bello è sentire il calore della città, le voci dei ragazzi la sera. Bello è ascoltare i musicisti di strada, bello è sedersi sui triangoloni di ponte S.Trinita guardando l’Arno. Bella è una piazza per trovarsi, parlare, divertirsi. Degrado, miei cari signori, sono le vostre parole aride. Degrado sono i vostri sguardi inquisitori.
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CULTURA La Plastificazione dell’Uomo La plastica non fa il proprio ingresso nel mondo umano come il legno, non nasce dalla natura per poi essere manipolata dalle mani di un sapiente artigiano. La plastica nasce artificialmente per soddisfare i bisogni di un mercato che sforna oggetti a basso costo, in catene di produzione sempre più veloci e ripetitive, mirate all'aumento della produzione differenziata. Così come la plastica, l'uomo del nuovo secolo è prodotto e manipolato in una catena di montaggio sempre più sbrigativa che mira solo alla produzione dell'individuo medio funzionale al sistema. Più il consumatore è piatto e meno l'offerta culturale dovrà essere approfondita ed impegativa. Più è inconsistente e privo di un approccio critico e meno ci sarà bisogno di differenziare realmente
massa crei situzioni esplosive e ha deciso di dare una parvenza di libertà nella creazione di se stessi tramite la differenziazione, sempre sotto il proprio controllo, limitando la consistenza e concedendola tramite il consumo. La donna, o l'uomo medio del duemila è altamente, ma fittiziamente, differenziato, si specializza in molti percorsi di autorealizzazione personale, appare tramite il consumo, si nutre di paccottiglia culturale per tutti i gusti. Per estremizzare: c'è a chi piace più il Grande Fratello, a chi piace di più L'isola dei famosi, La Talpa, Uomini e Donne e chi più porcherie ha più ne metta. Dove sta la differenza? Questa è la scelta che viene concessa all'uomo di plastica, l'uomo medio di questo secolo. La musica si plastifica, con Barbie che
l'offerta politica. Più sarà metaforicamente una statuetta di plastica e meno il potere dovrà temere partecipazione, proteste e rivoluzioni. La società di massa del novecento creava individui su una dimensione assolutamente massificati, asserviti totalmente alle briciole che la produzione culturale gli dava in pasto. Negli anni ’70 vi fu una rivolta culturale. “La cultura non deve essere di élite ma popolare, e ogni persona deve avervi accesso”. Questo avrebbe rotto l'appiattimento dell'uomo ad una dimensione e gli avrebbe ridato dinamismo. La partecipazione individuale non solo al processo politico, ma anche alla cultura, con la partecipazione dal basso. E ora come stanno le cose? Il sistema ha capito come la produzione sociale di
cantano successi mordi e fuggi; al cinema si producono i cinepanettoni; Moccia e Fabio Volo scrivono i nostri best sellers. L'uomo di plastica può essere bello, appariscente, consumando tutto ciò, frequentando questo o quel locale, ma il risultato è una inconsistenza di fondo. Per fare un esempio basta pensare a quella abominevole campagna pubblicitaria lanciata dalla Diesel con lo slogan: “Be Stupid”. L’uomo del novecento era massificato, quello del duemila è superficializzato. La sensazione della fine delle prospettive e del progredire della storia, pone l’uomo di fronte ad una scelta o: rinchiudersi nel proprio privato e accettare che la propria vita sia in balia della trama che qualcun’altro continua comunque a tessere, o
ampliare la propria partecipazione alla sfera pubblica con l’obbiettivo di influire sugli sviluppi futuri. La prima opzione è di gran lunga la più semplice e immediata, ed è quella che va per la maggiore : basti vedere lo scarso interesse per gli appuntamenti elettorali, che di per se dice tutto e niente, ma che unito alla scarsa parteciapazione dal basso non lascia scampo a dubbi; è l’auto esclusione dal processo di mutamento della storia. La seconda, invece, è una strada che si sta aprendo ora la quale è sotto gli occhi di tutti: si rifiuta lo strato di cellofan con cui ci viene avvolto il cervello, si rifiutano i modelli culturali calati dall’alto da parte del mercato e ci si riappropria della storia e della cultura. Chi sceglie la strada della partecipazione è il rivoluzionario del nuovo millennio. Ma per rivoluzionare realmente questo stato delle cose vi è bisogno di un percorso che deve avere come primo punto il rifiuto del modello attuale, in primis culturale, e come secondo l’elaborazione e il rilancio di una cultura che ci veda protagonisti. Lo spazio culturale, bello e profondo, può ricreare ed unire una sottosocietà vivace politicamente e culturalmente, la quale si contrapponga allo status quo. Per fare questo non basta rifiutare il modello corrente, vi è bisogno di partecipazione attiva al processo di ricostruzione di una cultura rivoluzionaria a 360 gradi, che vada dall’approfondimento della cultura politica sino a quella più umana, emotiva ed estetica, da sottrarre ai tentacoli del mercato. La diffusione della cultura è particolarmente legata ai media, i quali rispondono alla legge domanda-offerta con la piccola differenza che essi possono influire col tempo sulla domanda, cioè tutti noi, semplicemente rendendo più difficile l’accesso ad alcuni contenuti e diffondendone costantemente altri. Grazie anche ad internet si può rispondere a tutto ciò con la partecipazione attiva alla creazione e la diffusione orizzontale. Per fare una rivoluzione c’è sì bisogno di distruggere ma, contemporaneamente, ricreare tutto. Altrimenti ci troveremo ad essere uomini di plastica difformi da questo sistema, con modelli culturali diversi ma anch’essi altrettanto piatti e carenti dal lato emotivo-estetico-intellettuale. Ci troveremo a essere quindi reazionari emarginati, più che rivoluzionari a tutto tondo, senza la capacità aggregare e creare un mondo nuovo.
- Philip Liguori -
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CULTURA
150 anni: ricordare come si nasce per capire come si è 5 maggio 1860, il momento delle indicisioni e dei tentennamenti è finito. Partiamo alla volta della Sicilia, le informazioni sulla situazione nell’isola sono confuse. L’insurrezione di Palermo è stata stroncata qualche giorno fa. Non cambia niente i Siciliani vogliono
e mazziniane di diffondersi. Per rendersi credibile agli occhi della comunità internazionale, soprattutto Francia e Inghilterra, Cavour invia un corpo di bersaglieri a combattere contro i Russi in Crimea (una penisola dell’attuale Ucraina). In effetti, nel giro di dieci anni
sbarazzarsi dei Borboni, si solleveranno, si uniranno a noi e si farà l’Italia. È la partenza della spedizione dei Mille, l’episodio simbolo dell’unificazione italiana. L’immagine di Garibaldi alla testa delle camicie rosse; un’Italia di popolo che dopo secoli di occupazioni straniere e guerre fraticide decide di lottare e unirsi sotto il tricolore. La realtà non è questa: ci sono certo i volontari che lasciano casa e lavoro per dedicarsi ainima e corpo alla causa dell’Unità nazionale ma c’è altro. Il processo di creazione dello stato italiano ha di fatto abbandonato uno scenario federalista, repubblicano o mazzi-niano dopo le sconfitte del 18489. Da quel momento in poi qualsiasi scenario alternativo a un’unificazione guidata dalla monarchia sabauda, diventa fantascienza. Il Piemonte, attraverso Cavour, si pone come l’unico stato della penisola capace di mantenere l’ordine in un contesto dove la miopia degli stati più retrogradi, quali il Regno di Napoli e lo stato pontificio, sta consentendo alle idee repubblicane
il Regno di Sardegna esce dall’isolamento internazionale e riesce a porsi quale unico candidato serio per mantenere la zona sotto controllo. Un altro tema che trova orecchie pronte a recepire a Londra e a Parigi è la possibilità di rimettere in discussione l’equilibrio del Congresso di Vienna del 1815 andando a contrastare l’egemonia austriaca sull’Europa. Ciò è testimoniato dalla discesa di Napoleone terzo nel corso della seconda guerra d’indipendenza. Se la politica estera di Cavour può essere definita geniale ( tra il 1859 e il 1861 il Regno di Sardegna diventa Regno di Italia )tale discorso non può ritenersi valido per quanto riguarda l’aspetto socio-culturale. La classe politica, pie-montese prima e italiana poi, commette numerosi errori. Essa non riesce a fare nulla per attirarsi le simpatie del popolo che, più che alla causa nazionale in sé,era interessato al miglioramento delle proprie condizioni di vita. Garibaldi, pur nella mancanza di un programma politico, era visto come il costruttore di un nuovo stato, più giusto
e meno repressivo del precedente. La storia non prese questa piega. Quando i Mille sbarcano a Marsala, e muovono alla conquista dell’intera Sicilia, molti contadini siciliani si uniscono ai garibaldini nella speranza che l’Eroe dei due mondi metta in atto una riforma agraria in favore dei contadini e dei braccianti. La risposta di Bixio, uno dei generali della spedizione, consiste nello sparare sulla folla. Per buona parte della popolazione del Sud Italia la creazione del nuovo stato rappresenta semplicemente il pas-saggio da una dominazione un’altra. Al di là della nota frase di Massimo D’Azelio “Abbiamo fatto l’Italia, facciamo gli Italiani”, poco o nulla viene fatto in questa direzione. Si può, su certi aspetti, vedere che il Regno d’Italia si configura come un allargamento del regno sabaudo e più che di unificazione, si dovrebbe parlare di piemontizzazione. Emblematico è un commento di Garibaldi in una lettera del 1868: ” «Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Sono convinto di non aver fatto male, nonostante ciò, non rifarei oggi la via dell’Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio». L’idea di riportare in tutta la nazione un modello basato su uno stato regionale si rivela fallimentare. La questione meridionale nasce da qui ed è ancor oggi di grande attualità. La nascente industria del Sud fu spazzata via dalla più competitiva industria Lombardo-piemontese questo impedì l’urbanizzazione e, assieme alla man-cata riforma agraria, contribuì a mantenere i vita i rapporti di feudale tra latifondisti e braccianti agricoli. A questo bisogna aggiugere l’accoppiata tassa sul macinato-leva militare che impoverì le campagne di denaro e braccia. Questa visione di una parte del paese al servizio dell’altra è rimasta sostanzialmente immutata in un secolo e mezzo di storia, nel tempo le funzioni si sono però diversificate: alla scorta di rifornimento di mano d’opera,attraverso l’emigrazione, si aggiugono la compravendita di voti,da Giolitti in poi, fino alla più recente pratica del sotterrare rifiuti tossici. Anziché festeggiare superficialmente uno stato di questo tipo, è meglio fermarsi e capire.
- C.C -
19 Buone pratiche in un’epoca di turbamenti Bilancio partecipativo, prove di democrazia diretta fra autogoverno e interessi materiali. Nel 1988, nel territorio di Porto Alegre (Brasile), il neo-eletto Partito dei lavoratori decise di creare spazi pubblici di discussione in cui potersi esprimere riguardo alla gestione della spesa pubblica della città. Fino a quel momento, pare che l’amministrazione non fosse stata delle migliori; il settore pubblico si trovava profondamente indebitato a causa della corruzione e di anni di politiche populiste. Nei fatti, il Partito dei Lavoratori riuscì a
coinvolgimento dei cittadini, del peso della società civile e della buona amministrazione. Inoltre, la percezione di una spesa pubblica più equa ha portato ad un aumento del prelievo fiscale. Per motivi facilmente intuibili, i cittadini, percependo una minore corruzione del sistema e la maggiore efficacia degli interventi pubblici, erano più inclini a pagare le tasse.
riescono a fare, cioè gli interessi della gran parte dei cittadini). In Europa, simili (limitati) tentativi si sono avuti in diversi Comuni in Germania, Spagna, Francia, Portogallo, Belgio, Italia (dove, al di là di alcuni Comuni che hanno usato il termine “Bilancio Partecipativo” al fine di fare propaganda, si sono avuti alcuni esperimenti di successo; fra gli altri Vimercate, Trezzo d’Adda, Grottammare). Analogamente a quanto successo in
inaugurare una pratica che sopravvisse anche al cambio di corrente politica alla guida del territorio. L’idea è semplice: aprire alla cittadinanza la possibilità di avanzare proposte per la destinazione della spesa pubblica. I cittadini esprimono le loro necessità, la municipalità può avvicinarsi alle loro esigenze reali e così si migliora l’efficienza del sistema. Queste pratiche hanno preso il nome di “Bilancio Partecipativo”: un’unione fra il concetto di autonomia politica dell’amministrazione e quello della responsabilità di quest’ultima di fronte alle esigenze della popolazione. In effetti, i risultati dell’esperienza di Porto Alegre sono stati molto positivi: innanzitutto è migliorata la partecipazione democratica alla vita pubblica, specialmente fra i più poveri; si è avuto un aumento dell’equità nella spesa pubblica; la percezione della corruzione nelle strutture politiche è diminuita decisamente. Vi è stata la crescita del
Le classi sociali più influenzate dalle pratiche di Bilancio Partecipativo sono state le classi povere e le classi medie. Le classi povere hanno visto le loro richieste di servizi pubblici parzialmente soddisfatte, le classi medie hanno guadagnato da una maggiore equità del sistema (che voleva dire meno tangenti da pagare, appalti più trasparenti e via dicendo). Il successo del Bilancio Partecipativo a Porto Alegre può essere forse spiegato anche con la convergenza degli interessi reali da parte di una grossa parte della società civile; non sarebbe forse possibile immaginare la ripetizione di un simile esperimento in assenza d’interessi (materiali) condivisi. L’esperienza di Porto Alegre si è inserita nel dibattito politico di tutto il mondo, anche come esempio di successo di (auto)governo locale in opposizione alle spinte della globalizzazione (l’idea sarebbe quella di fare ciò che gli stati in epoca di globalizzazione evidentemente non
Brasile, anche in Europa gli interventi legati a pratiche di Bilancio Partecipativo sono andate nelle due direzioni di migliorare la trasparenza delle istituzioni e assicurare una maggiore efficienza della spesa pubblica; questo sembrerebbe confermare il fatto che il Bilancio Partecipativo si basa su richieste concrete, materiali, piuttosto che su un’idea astratta di “autogoverno”.
FONTI ◣ Allegretti, G. Herzeberg, “Tra efficienza
e sviluppo della democrazia locale: la sfida del bilancio partecipativo si rivolge al contesto europeo”, Transnational Institute Working Paper,
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APPUNTAMENTI
Aprile 2011
Lunedì
Martedì
Ore 15 // assemblea del Collettivo Politico di Scienze politiche al
Ore 15 // assemblea Unione degli Studenti di Firenze al circolo
polo di Novoli, edifico D5 aula Bruno Fanciullacci Ore 15 // assemblea della Rete dei Collettivi Studenteschi fiorentini alla facoltà di Lettere e Filosofia, p.zza Brunelleschi Ore 16 // assemblea Collettivo di Agraria in aula murales, facoltà di Agraria Ore 21.30 // assemblea Spazio Liberato 400colpi in via del Parione 23 Ore 22.30 // Rassegna film al Cpa Fi-Sud via di Villamagna 27a piatto a tema e scheda critica, ingresso a sottoscrizione di 2 euro
“La loggetta” via Aretina, Varlungo Ore 20.30 // al Cpa Fi-Sud cena popolare e, a seguire, assemblea
Mercoledì
Ore 22.30 // al CSA EX Emerson in via di Bellagio, assemblea
Giovedì Ore 11 // assemblea del Collettivo Nosmet, Scienze della Formazione in Via Laura Ore 16 // in Via del Parione apertura biblioteca autogestita 400 Colpi fino alle 20.00 Ore 20.30 // Cena popolare al Cpa Fi-Sud e musica al Covo
Ore 15 // assemblea del Collettivo di Lettere e Filosofia, Piazza
TUTTI I MERCOLEDI
Brunelleschi nel chiostro Ore 17 // assemblea del Collettivo del Fondo Comunista, via di Rocca Tedalda 277 Fi sud Ore 20 // al Circolo Anarchico Fiorentino via dei conciatori 2r, cena e, a seguire, ore 21.30 Proiezione Film Ore 20 // in poi, al Melograno via Aretina 513, Cena Popolare e, a seguire, proiezione o concerto Ore 21.30 // assemblea del Cantiere Sociale Camilo Cienfuegos via chiella 4, Campi Bisenzio
Dalle ore
14:30 la Rete dei Collettivi
Studenteschi Fiorentini organizza Spazio Studio al CPAFI-SUD e a seguire
Serata CortocircuitO dalle ore 21.00 (escluso l’ultimo mercoledi del mese)
IL Mercoledì di Cortocircuito ore 21.00 Serata con musica, proiezioni e controinformazione
RECLAIM YOUR SPACE Lo “Spazio Autogestito” nasce dall’esigenza degli studenti di riappropriarsi di uno spazio di aggregazione e socialità all’interno del polo universitario di Novoli.
Ad esso si oppongono le istituzioni universitarie che, tramite l’uso di minacce e metodi repressivi, come lo sgombero del 31 gennaio o le sanzioni disciplinari a carico di alcuni occupanti, provano a porre fine a questa esperienza. Lo Spazio è un’aula gestita da tutti coloro che vogliono contribuire ed è stata sottratta alle logiche che vedono lo studente solo come una macchina che dà esami, senza contribuire alla propria formazione e a quella degli altri. Quindi lo spazio necessita della più ampia partecipazione per poter vivere e cominciare a svolgere la sua importante funzione all’interno del polo. FIRMA LA PETIZIONE in solidarieta’! PARTECIPA! SOCIALIZZA! Passa da Novoli allo Spazio, oppure chiedi i moduli per le firme al collettivo della tua facoltà!
ASSEMBLEA DI GESTIONE GIOVEDI’ ORE 15.30 http://spazioautogestitonovoli.noblogs.org
EX AULA 001 ED D5 // Voci dallo Spazio
REALTÁ STUDENTESCHE
REALTÁ CITTADINE
COLLETTIVO POLITICOcollettivopolitico.noblogs.org SPAZIO LIBERATO 400COLPI400colpi.org COLLETTIVO AGRARIAcollettivoagrariafirenze.noblogs.org COLLETTIVO DI LETTEREcollettivoletterefilosofia.noblogs.org RETE DEI COLLETTIVI FIORENTINIretecollettivi.noblogs.org UNIONE DEGLI STUDENTI FIRENZEudsfirenze.it
CPA FI-SUDcpafisud.org LOTTA PER LA CASAlottaperlacasafirenze.noblogs.org CSA-NEXT EMERSONcsaexemerson.it CAMILO CIENFUEGOSk100fuegos.org FONDO COMUNISTAfondocomunista.noblogs.org CIRC. ANARCHICO circoloanarchicofiorentino.noblogs.org