2
cycle!
Editoriale
V
iva la bicicletta! Una rivista in più che ne parla. Un momento però. Davanti, o meglio sopra la bicicletta sta l’uomo con le sue storie, le sue passioni, le sue vittorie, le sconfitte e le rivincite. Così noi parleremo di uomini in bicicletta, o di uomini che ogni giorno hanno a che fare con una bicicletta: in città, per svago, per dovere professionale, per forza, lungo le strade di montagna e lungo quelle del Giro o del Tour. E non di altro. Nella comunicazione riguardante il ciclismo manca questa diversa prospettiva. Troppo spesso ci intestardiamo sul mezzo. Invece dovremmo pensare al modo, al costume, alle abitudini, allo stile di vita che propone da centoventi anni e più questo trabiccolo umano a due ruote. Per questo motivo cycle! non parlerà mai di tecnica portata all’eccesso, di accessori buoni solo per certe tasche, di VAM o di diete, di profili antropometrici, di classifiche di Granfondo fino al millesimo arrivato, di foto di gruppi sportivi, di consigli più o meno fidati. Noi abbiamo l’ambizione di parlare di bicicletta come passione e non come mania. Sulla bicicletta si potrebbe fare – e molti lo hanno fatto – letteratura e giornalismo di gran classe e, invece, spesso ci si riduce a queste cose che pacificano le nostre nevrosi quotidiane. Allora abbiamo provato a pensare cosa vorremmo trovare in una rivista simile, cosa insomma ci piacerebbe leggere sulla bicicletta. Ci piacerebbe, ad esempio, sfogliare un reportage su come ogni giorno si usa la bici a Saigon. Ci piacerebbe leggere di un viaggio in tandem da Calcutta a Milano con belle fotografie. Ci piacerebbe che qualcuno rievocasse la cronaca di un’epica tappa del giro degli anni Cinquanta con foto d’epoca in bianco e nero. Ci piacerebbe un’intervista all’ultimo artigiano costruttore di telai a Porta Ticinese o a quel gregario degli anni Sessanta che nella sua vita da professionista non ha mai vinto una corsa. Ci piacerebbe un’inchiesta sulle piste ciclabili nelle grandi città. E ci piacerebbe sapere di itinerari intelligenti con bei contenuti e non semplicemente «vai a destra o vai a sinistra» o «qui metti il 39 x 28, là il 52 x 21». Insomma penso che abbiate capito cosa ci piacerebbe. Impegno non piccolo. Sta a voi lettori giudicare se ce la faremo, fin dal primo numero. E allora en route: buona lettura! Albano Marcarini
3
1
4
cycle!
PORTFOLIO
Umberto Isman
5
5
9
7
12
cycle!
8
13
cycle! / SOMMARIO EDITORIALE 4. PORTFOLIO di Umberto Isman 19. IL GRUPPO E LE MAGLIE di Gino Cervi La pelle colorata dei ciclisti 34. KILOMETRO VIOLENTO foto di Umberto Isman, testi tratti da drimtimficsd.blogspot.it Sprint Race @ Milano 30/09/11: clandestini e notturni 54. ARTIGIANO ITALIANO, ACCENTO AMERICANO testo e foto di Guido P. Rubino Un vis à vis con Crisp il più “titanico” telaista in circolazione 67. LA RALEIGH ROSSA E L’AVOCATT di Gianni Brera La prima bicicletta di Eberardo Pavesi 71. PEDALARE NEL 2022 di Albano Marcarini Cosa ci attende nel futuro della bici? 75. VIA COL VENTO di Albano Marcarini Da Venezia a Torino: un progetto “controvento” 81. UN TANDEM TUTTO D’ORO testo di Gino Cervi, foto di Guido P. Rubino Il Bianchi di Perona e Terruzzi, vincitore alle Olimpiadi di Londra 1948 16
cycle!
83. PEDALARE NELL’ARIA SOTTILE testi di Umberto Isman e Claude Marthaler, foto di Umberto Isman Un fotografo e un viaggiatore da Manali a Leh, nell’Hymalaya indiano, un immenso angolo di mondo: due sguardi diversi dal sellino di una bicicletta 105. LE FI’ZI:K DU RÔLE testo di Guido P. Rubino, foto di Umberto Isman Sopra o sotto è sempre sella: il dietro le quinte di un’azienda leader nella produzione di sellini per bici 123. AFRICA E BRÙGOLE. IL GIRO DEL RWANDA testo di Marco Pastonesi, foto di Mjrka Boensch Bees «La corsa più pazza del mondo nel Paese più bizzarro del mondo». 141. SI SALVI CHI PUÒ... CICLISTI PER PRIMI testo di Mario Brovelli, foto di Guido P. Rubino Siamo andati a Roma a vedere come si salvano i ciclisti!
IL GRUPPO E LE MAGLIE di Gino Cervi
La pelle colorata dei ciclisti
Son tutti gialli, verdi, celesti, vermigli, i girini della carovana. Facciamone un bel mazzo, come se fossero tutti fiori campestri, e appuntiamolo sul petto della primavera. Alfonso Gatto, Milano, 14 maggio 1948
E
rano 129 al primo via del 13 maggio 1909. Si ridussero a sparuti 49 nel 1920. Divennero un esercito di 298 corridori nel 1928, record assoluto di partenti. Da qualche anno si è arrivati a regolamentare i partecipanti al Giro d’Italia in un numero fisso di squadre: dal 2005 sono 22, ciascuna rappresentata da 9 corridori. Ma al Giro, come al Tour e nelle grandi classiche, ma anche nelle oceaniche Granfondo, il gruppo è una nuvola colorata che fugge, un corpo cangiante che si adatta alle mutevoli condizioni della strada e della corsa. Come quello di un uccello che segue il gruppo dall’alto, l’occhio acuto
di Gian Luca Favetto (Italia, provincia del Giro. Storie di eroi, strade e inutili fughe, Mondadori 2006) ne ha censito le forme: «Il gruppo è uno stormo, anche in pianura. Si muove sapiente e geometrico. Fa algebra e geografia. Disegna figure. Procede per giustapposizione di figure. Di volta in volta è aquilone con la coda fine, nave con le fiancate robuste, mostro colorato preistorico e futuribile, farfalla, testuggine. […] L’ho visto ragnatela, lancia, persino quadro, opera astratta, e lo vedrò masso rotolante, non capendo come riesca a viaggiare compatto cambiando di continuo forma senza distruggersi».
19
Dall’alto, e da sinistra a destra: la maglia rosa autografata e indossata da Gianni Bugno al Giro d’Italia 1990, quando fu primo in classifica generale dal prologo di Bari all’ultima tappa di Milano; l’ultima maglia nera assegnata in un Giro d’Italia, quello del 1979, a Bruno Zanoni, corridore ultimo in classifica generale; la maglia gialloblu della Bartali-Gardiol, squadra fondata da Gino Bartali nel 1949; la maglia Lampre
22
cycle!
autografata da Damiano Cunego, nella stagione 2006; la maglia Gis-Olmo della stagione 1982; la maglia rosso-alabardata della Wilier Triestina, che ha dato vita per nove anni consecutivi, dal 1945 al 1953, a una famosa squadra ciclistica nelle cui fila hanno militato campioni come Fiorenzo Magni, Giordano Cottur e Alfredo Martini. la maglia Frejus-Superga della stagione 1950, con cui corse lo svizzero Ferdi
Kübler; la maglia verde-rossa della Legnano appartenuta a Pierino Favalli, alla fine degli anni Trenta; la maglia giallo-rossa della Learco Guerra, con cui lo svizzero Hugo Koblet nel 1950 fu il primo straniero a conquistare un Giro d’Italia. Nella pagina a fianco: la maglia Bianchi-Pirelli indossata da Tano Belloni dal 1919 al 1920.
KILOMETRO VIOLENTO Sprint Race @ Milano 30/09/11: clandestini e notturni foto di Umberto Isman testi tratti da drimtimďŹ csd.blogspot.it 34
cycle!
35
Allora, oggi è il gran giorno. Giusto un riepilogo. Sfide 1 contro 1 a eliminazione diretta su percorso di poco meno di un km. Gara aperta come sempre a tutte le tipologie di bici. Single gear race: dichiarate un rapporto a inizio gara e userete solo quello. Ognuno è responsabile per se stesso. Si corre SOLO con il casco in testa: quindi o ce l’avete o sul posto ve lo fate prestare. Frenata vietata lungo tutto il campo gara. Gara al riparo dall’acqua: si corre anche se piove quindi non avete scuse.
36
cycle!
37
ARTIGIANO ITALIANO, ACCENTO AMERICANO CRISP TITANIUM Un vis à vis con Crisp il più “titanico” telaista in circolazione testo e foto di Guido P. Rubino 54
cycle!
55
56
cycle!
O
dore di metallo bruciato, anzi no, tagliato e fresato. Nelle colline dell’aretino: Castiglion Fiorentino, precisamente. L’insegna è quasi nascosta tra le foglie. Pure impostando il navigatore satellitare si rischia di non vederla. Nell’ultimo tratto conviene il passo del ciclista più che del motore. «Ma se vuoi le coordinate te le mando io, che su Google hanno fatto un po’ di casino.» L’italiano di Darren sa un po’ di toscano ma ha il marchio indelebile dell’americano. Darren Mark Crisp, da Houston, Texas, ciclista per sport, telaista per passione, toscano per amore. La prima volta che venne in Italia era per seguire un programma di studio. E fu amore a prima vista, o quasi. E non solo per l’Italia, anche per Sorana, la donna con cui ha deciso di vivere e con cui ha fatto due splendide figlie, Matilde, sette anni, e Mila, tre. United Bicycle Institute, Oregon. Lavorare il titanio è cosa seria, a saldarlo non c’è da scherzare. Un lavoro fatto male può aprirsi di colpo e in velocità, senza più la bici sotto, non è bello: vai giù come un sacco di patate, ovunque ti trovi. Darren ha studiato nella sua America, poi ha accumulato tanta esperienza di lavoro da non poter sbagliare più. Ora salda solo titanio ma l’inizio, quasi d’obbligo, è stato con l’acciaio. A testimoniarlo c’è una bicicletta appesa, una delle prime. Poi la scelta a senso unico: «Non posso lavorare l’acciaio dove saldo anche il titanio. L’atmosfera ne risentirebbe e sarebbe un rischio per la purezza delle saldature. Vedi – indica un telaio in maschera di saldatura –, guarda il cordone com’è uniforme, tutto dello stesso colore. Guai se si vedessero dei colori diversi, vorrebbe dire che la saldatura è sporca, che l’aria non era pulita intorno». Di telai in acciaio, Crisp, ne ha saldati fino al 2001. Poi è passato al titanio. E intanto studiava e lavorava diventando esperto in saldatura tanto da far gola a più di un marchio importante. Lavora da solo nel suo laboratorio ricavato sotto casa. E da solo ce la fa a malapena a soddisfare gli ordini che gli arrivano. Potrebbe allargarsi, in effetti, ma lui preferisce così. «Non sono bravo a insegnare, perdo la pazienza – spiega con la sua flemma che giureresti inalterabile –. Se prendessi qualcuno a lavorare con me ci metterei
57
La Raleigh rossa e l’Avocatt Un racconto di Gianni Brera
La prima bicicletta di Eberardo Pavesi Penso che in fine Ottocento la bicicletta dovesse accendere i sogni dei ragazzi come oggi il più perfetto degli ultrasonici. Nasceva allora, con l’industria e i primi cavurrini da spendere, la cavalleria dei poveri: e mia grande ambizione era di esserne paladino. Penso altresì che le biciclette d’allora stessero a quelle di oggi come un cavallo medievale, tozzo e pesantemente armato, ai purosangue che corrono a San Siro. E infatti non torno alla Raleigh senza passare, in logica successione di immagini, per i ferrati palafreni del tempo eroico.
Una Raleigh fu la mia prima bicicletta. Anno Domini 1897. E rinuncio a descriverla nei particolari. Pesava sedici chili. Verniciata di rosso (una saura!). La sella a culdicavagno. Le gomme non meno larghe di quelle che montano oggi le moto utilitarie. La canna superiore del telaio inclinata assai verso la sella. Il manubrio diritto come un cavicchio: il campanello a mezza strada fra l’albero della forcella e la manopola di cartone pressato: il freno a paletta che, azionato, premeva sul copertone anteriore, alla più semplice. Naturalmente, ruota fissa, pignone unico. La Raleigh mi costò sessanta lire.
Ne avevo cinquanta, dieci le presi a prestito, e ottenni la mia saura nuova. Una Bianchi, allora, mi sarebbe costata centotrenta: più moderna, più leggera e scorrevole, ma i quattrini? Avevo lavorato un anno gratis in ufficio. Il second’anno mi avevano pagato venticinque il mese; il terz’anno cinquanta e mese doppio a Ferragosto e Natale. Ma soltanto quando tornai in bicicletta si prese a considerarmi qualcuno nel rione. Ricordo che volteggiai caracollando sui pedali intorno al tram a cavalli, infilai la Porta impettito, non senza un cenno di saluto composto ai dazieri.
Le immagini sono tratte da alcuni numeri, dal 1891 al 1897, del settimanale satirico “Guerin Meschino”, conservati presso l’Archivio Storico del Centro Documentazione del Touring Club Italiano. Le illustrazioni prendevano in giro i milanesi, di ogni ceto ed età, che a fine Ottocento vennero travolti da improvvisa passione per le due ruote, una sorta di moda tecnologica virale, come l’iPad dei nostri giorni.
67
Via col VENTO di Albano Marcarini
Da Venezia a Torino: un progetto “controvento”
Possiamo porre l’interrogativo in questi termini. Perché lungo tutti i grandi fiumi d’Europa esistono ormai da anni bellissimi itinerari per il turismo in bicicletta, vere piste ciclabili protette e in Italia, lungo il Po, che è il nostro più grande fiume, no? Perché è così difficile realizzare anche da noi cose che in altri Paesi sono così facili a farsi? Queste domande se le sono poste alcuni ricercatori del Politecnico di Milano, con in testa il professor Paolo Pileri, promotori del progetto VENTO, l’idea di lunga pista ciclabile, disegnata per 679 km da Venezia a Torino, con una diramazione da Pavia a Milano, seguendo gli argini del Po. Hanno scoperto che la cosa, sotto il profilo tecnico, si può fare e senza spendere un mare, o meglio un fiume, di quattrini. Da una parte si tratta di unire le piste ciclabili già esistenti, di dare loro una segnaletica comune e uno standard di sicurezza accettabile e, dall’altra, per fare questo, di spendere nel complesso non più di 80 milioni di euro. Una cifra che, considerata l’estensione dell’opera – tocca 4 regioni, 12 province e 124 comuni – appare quasi ridicola e che inciderebbe, sempre secondo i
progettisti, per lo 0,01% della spesa pubblica annua dello Stato. Insomma un buon affare considerati i benefici che un’infrastruttura ‘dolce’ come questa potrebbe arrecare al turismo, alle piccole economie locali, alla qualità della vita, alla salute delle persone. In sostanza VENTO potrebbe restituire in pochi anni quello che è servito per realizzarla. Si dice ma non si fa. Non è la prima volta che si ipotizza un percorso ciclabile sul Po. Se ne parla da anni e molte ipotesi si sono accumulate nei convegni sull’argomento. Fatti concreti: pochi. Il più interessante, la Destra Po: il percorso di oltre 100 chilometri lungo l’argine destro del fiume in provincia di Ferrara. Opera che ha compiuto ormai 10 anni e che, per il suo successo, è stata spesso presa a modello di cosa significa fare “turismo verde”. Il resto buio, o quasi, nonostante promesse, buoni propositi, impegni politici. Cosa osta ancora? Bè, un fatto di non poco conto e cioè che, in teoria, sull’argine maestro del Po non si potrebbe circolare né in auto (e questo è un bene) né tantomeno in bicicletta (e questo è un male). Regole e impedimenti di data forse risorgimentale destinano questi
spalti arginali all’esclusivo transito dei mezzi di servizio alle opere idrauliche. Sono in sostanza strade private. Non se ne capisce la ragione dato che fiumi, campi, boschi, golene e argini dovrebbero essere un bene collettivo, di cui usufruire liberamente, e anche perché, diversamente da un naviglio, magari mal protetto e dove davvero c’è il rischio di una caduta in acqua, qui siamo a centinaia di metri dal letto del fiume e il maggior rischio è quello di una lunga scivolata sull’erba della scarpata. Insomma nulla rispetto al pericolo di essere investiti da un’auto lungo una strada ordinaria. Tutte le volte se ne parla, anche in questo progetto, ma nulla si fa per superare questo assurdo divieto. Si dice: una questione di responsabilità. Che nessuno vuole accollarsi in un Paese dove, per definizione, nessuno è responsabile di sé stesso, specie nelle attività all’aria aperta, e dove si trova sempre un giudice disposto ad avversare le ragioni dell’ente pubblico a favore dell’individuo danneggiato. In linea teorica vivere in uno Stato dove viene garantita la responsabilità delle persone è un fatto positivo, lo è un po’ meno quando da una parte di que-
75
PEDALARE NELL’ARIA SOTTILE testi di Umberto Isman e Claude Marthaler, foto di Umberto Isman
Un fotografo e un viaggiatore da Manali a Leh, nell’Hymalaya indiano, un immenso angolo di mondo: due sguardi diversi dal sellino di una bicicletta
83
84
cycle!
Pistaiolo dell’inutile, strappavo all’alba il fiato mozzato sulla vasta devastazione delle certezze e incidevo rabbiosamente il sonno sulle colline fulve. Ogni giorno più lontano, ogni giorno più in alto, ero un nomade dipendente ai confini dello strapiombo himalayano.
I
n giro per il mondo, ritorno alle radici del cielo a fare il pieno di infinito. Perché nascano delle parole imperlate di sudore, levigate come i ciottoli dei ruscelli. Dalle Alpi all’Himalaya, l’intuizione è la chiave per un mondo di luce, la montagna la mia origine definitiva, il tentativo di far rivivere mio fratello che, nel 1979, fu portato via da una piena nella dolina di Kavakuna, in Papuasia-Nuova Guinea. Dieci anni dopo, ho raggiunto per la prima volta l’Himalaya, in Pakistan. Il fragore possente delle zolle tettoniche era l’unico suono in grado di fare da eco alle mie intime e violente convulsioni. Avevo bisogno di risalire alle origini, di tracciare la geopoesia del mio respiro, di scacciare i miei demoni a colpi di movimenti circolari. Abbracciare per tre volte il pianeta azzurro in un Kamasutra himalayano e offrire lo sterminato orizzonte a mio fratello, leggero come cenere, seduto dietro di me sul portabagagli. La mia pedivella è oramai diventata l’asse di un equilibrio precario, quello del movimento. Fu lì che cominciai a risorgere. Da quel momento, la mia amata bicicletta, ribattezzata giustappunto ‘yak’, mi ha portato lungo la Manali-
Q
uando fotografo una bicicletta in movimento ho sempre l’impressione che qualcosa mi sfugga, che parte dell’immagine che vorrei scattare se ne vada con quella bicicletta. È una questione di velocità, di un movimento complesso che consente di intuire ma che è troppo veloce per essere rappresentato da una statica disposizione di megabyte. In Himalaya sfugge tutto, non solo la bicicletta. Sfuggono le distanze, quelle orizzontali e soprattutto quelle verticali. Ci si muove in una scala diversa, vicinanza e lontananza sono influenzate da un gigantismo geografico non usuale. Sfuggono aria e acqua, verso mete sconosciute e irraggiungibili. Sfugge lo sguardo. Sfuggono la storia, la cultura, la spiritualità. Sfuggono i suoni e gli odori della preghiera del mattino in un monastero buddhista. Sfugge il silenzio. Pedalare e fotografare sul tragitto da Manali a Leh è una continua rincorsa, con l’aria rarefatta e il respiro affannoso che la fanno da padroni. È una sfida a tutti e cinque i sensi, allertati, sfruttati, spremuti nel tentativo di cogliere il più possibile di una realtà in perenne movimento. Feci quel viaggio con alcuni amici nel 2003. Ricordo
In apertura: un monaco bambino entra nella sala di preghiera del gompa (monastero) di Deskit nella Nubra Valley. A sinistra: una delle ampie valli selvagge e disabitate che si aprono lungo il percorso.
85
91
94
cycle!
96
cycle!
101
COME, DOVE, QUANDO Area geografica India, stati dell’Himachal Pradesh e del Jammu e Kashmir (regione del Ladakh). Partenza Manali (1841 m), nell’alta valle del fiume Beas. Arrivo Leh (3522 m), nella valle dell’Indo. Lunghezza del percorso Circa 500 km, da percorrere mediamente in 10 giorni di viaggio. Caratteristiche del percorso La Manali-Leh è un’importante via di comunicazione. Importante non significa però di grande traffico, vista l’asprezza del percorso, la quota elevata dei passi da valicare, il manto stradale dissestato e il fatto che la strada rimane aperta solo per cinque mesi all’anno. Altimetria La quota aumenta progressivamente e dal quarto giorno si rimane costantemente sopra i 4000 m. Cinque sono i passi principali da valicare: Rohtang La (3890 m), Baralacha La (4892 m), Nakee La (4920 m), Lachalang La (5065 m), Tanglang La (5360 m). Quest’ultimo è certamente uno dei passi carrozzabili più alti al mondo, con tutta probabilità più alto anche del Khardung La, che mette in comunicazione Leh con la Nubra Valley e la cui quota è erroneamente dichiarata di oltre 5600 m. Organizzazione del viaggio La traversata Manali-Leh può essere affrontata in autosufficienza, trasportandosi viveri, bagagli e l’indispensabile tenda, oppure appoggiandosi a una delle agenzie locali che provvede al trasporto dei bagagli e all’allestimento dei campi con relativa cucina e tenda-mensa. È ovvia la differenza di impegno tra le due soluzioni, soprattutto perché i punti di appoggio e di rifornimento viveri lungo il percorso sono pochissimi e non attrezzati per il pernottamento. Il traffico è limitato a qualche camion militare o per trasporto merci ai quali occorre prestare attenzione. L’ambiente e i paesaggi sono grandiosi e continuamente mutevoli, con una varietà che va dalle nevi perenni delle cime himalayane a lande quasi desertiche, fino al verde intenso delle coltivazioni intorno a Leh, la storica capitale del Ladakh, centro di cultura e religione. Agenzie di viaggio: www.karl-ziegler.com - www.northlandadventure.com Attrezzatura Per un viaggio del genere occorre prevedere possibili rotture e quindi portarsi i principali ricambi. Non esiste alcun tipo di assistenza lungo il percorso. Utile un piccolo portapacchi per non caricarsi zaini sulle spalle, ma le borse da bici non sono molto indicate per un percorso così accidentato. Abbigliamento Anche in piena estate le temperature a quelle quote possono essere estremamente rigide. Può anche piovere ed eventualmente nevicare. Indispensabile per i pernottamenti un sacco a pelo da alta quota. Cartografia Utili le mappe dell’ex-Unione Sovietica a scala 1:50.000 (utilizzate anche per la nostra cartina) acquistabili on-line al sito http://mapstor.com. Il pacchetto di 167 fogli costa 19 dollari. Unico problema: le scritte sono in alfabeto cirillico. Internet http://devilonwheels.com/index.php/travel-guide-for-manali-lehhighway http://utenti.rete039.it/bobo/Ladakh/Ladakh.html
102
cycle!
LE FI’ZI:K DU RÔLE Sopra o sotto è sempre sella: il dietro le quinte di un’azienda leader nella produzione di sellini per bici testo di Guido P. Rubino foto di Umberto Isman 105
L
’immagine dell’azienda ipertecnologica ti accoglie all’ingresso di fi’zi:k, a Pozzoleone, venti chilometri a nord-est di Vicenza, lungo la Riviera del Brenta. Pareti lucenti e poi quel nome che che viene strano a leggerlo, figurarsi ricordare come si scrive. fi’zi:k è la traslitterazione in alfabeto fonetico della parola francese phisique: richiamo alla forma fisica, roba da sportivi, per chi pedala inseguendo un risultato, non fosse altro che migliorare se stesso. Riccardo Bigolin ha voluto così la sua azienda. Schivo al punto da essere quasi impossibile intervistarlo, per lui vuole che parlino i prodotti che escono da questa piccola città di produzione di selle. Enorme, un chilometro di diametro dove Selle Royal, ovviamente, gioca la parte del leone in quanto a spazi occupati e impiega circa 400 persone. Selle Royal è il marchio principale e storico da cui il nuovo brand è nato nel 1996 affrontando in maniera scientifica la “seduta” del ciclista. D’altra parte è sulla sella che poggia il massimo del peso. Dal primo modello, chiamato Pavé, e il nome già la dice lunga, si è arrivati presto alla sella Arione, quella lunga 30 centimetri, una misura mai vista su una sella per bici. Per poterla utilizzare si è dovuto chiedere un permesso speciale all’UCI, con tanto di benedizione di un laboratorio di ricerca universitario che ne giustificava le forme e persino l’assenza del foro centrale che, in quegli anni, sembrava inevitabile per chi volesse produrre una sella moderna. Dentro, negli uffici, ti aspetti un ambiente perfetto, asettico, come quello che si trova dove si ragiona con la testa e le mani si usano solo per utilizzare un computer. Poi ti accorgi che a fianco a uno stile formidabile e a computer di ultima generazione ci sono forbici, rivestimenti di selle, colla e tutto quanto possa servire per mettere insieme una sella partendo dalle sue parti basilari. Allo stesso modo ci sono tomaie di scarpe grezze o semilavorate da cui prendono forma le calzature. Sì, perché da fi’zi:k si realizzano anche
queste per i ciclisti, e assieme ai nastri manubrio e alle manopole completano tutti i punti di appoggio del ciclista sulla bicicletta. Una sella può nascere in tanti modi: una richiesta che arriva dalle corse, banco di prova severissimo dei materiali (e i corridori non la mandano a dire, piuttosto scelgono un modello di un’altra marca), oppure ci si arriva da un’esigenza di marketing. fi’zi:k viene distribuita in oltre 50 paesi e le richieste, anche in fatto di comfort, possono essere differenti. «Pensa solo a chi pedala in climi freddi oppure molto caldi, le caratteristiche di una sella possono cambiare e occorre tenerne conto quando si selezionano e si elaborano i materiali». Lui è Sergi Claveras e da fi’zi:k è il responsabile dei progetti selle. Come dire: tutto quello che finisce sul mercato è passato per la sua scrivania e per le sue mani. Il primo lavoro può essere brutale, tagliando e adattando una sella già esistente, oppure iniziando a lavorare su un nuovo scafo fino ad arrivare alla forma di legno del nuovo modello. E Sergi ci ha mostrato ritagli e modelli in legno. Polvere e numeri anonimi, ma forme facilmente riconducibili anche alla gamma fi’zi:k presente nel libro nero e giallo che fa da catalogo all’azienda veneta. Il legno è il primo passo tangibile nell’elaborazione di una sella. Ci si può arrivare da un rendering 3D elaborato al Cad, oppure direttamente a mano, ma anche da un miscuglio delle due cose. Alla fine è lavoro d’officina e artigianale, come una volta e quando viene approvata la forma si parte con i test per vedere se tutto è come ci si aspettava, o se c’è da migliorare ancora. La fase di test sui materiali è accurata e severa. Non abbiamo potuto documentare cosa avvenga in questa zona perché non tutti i test sono “ufficiali” e forse alcuni dei modelli che sono lì, tirati, compressi e sollecitati in ogni modo (non solo dal punto di vista meccanico), non andranno mai in produzione. Però si sperimenta di continuo, ventiquattr’ore al giorno.
In apertura: la fase di chiusura bordo una volta applicata la copertura della sella. A sinistra: i “feltri”, ovvero gli scafi delle selle pronti per essere lavorati.
107
114
cycle!
115
AFRICA E BRÙGOLE
IL GIRO DEL RWANDA testo di Marco Pastonesi, foto di Mjrka Boensch Bees
La corsa più pazza del mondo nel Paese più bizzarro del mondo
123
124
cycle!
SI SALVI CHI PUÒ... CICLISTI PER PRIMI testo di Mario Brovelli, foto di Guido P. Rubino
Siamo andati a Roma a vedere come si salvano i ciclisti!
M
ary Bowers, ragazza acqua e sapone, amava il suo lavoro di cronista del “Times” e usava la bici per spostarsi nella sua città, Londra. Un brutto giorno venne travolta da un’auto e la sua vita fu sconvolta. Da quel giorno, però, è diventata un simbolo. Il suo dramma ha smosso la coscienza di un intero Paese, a cominciare dal suo giornale che, grazie alla campagna promossa da un collega di Mary, il giovane Kaya Burgess, ha lanciato un monito accompagnato da proposte concrete, in nome di un unico chiaro obiettivo: “Save our cyclists”, ovvero: Salviamo i nostri ciclisti. In Italia, pochi giorni prima che Mary Bowers finisse sotto le ruote di un camion, un cronista del “Corriere della sera”, Pier Luigi Todisco venne travolto e ucciso mentre si recava in bici alla redazione del suo giornale, nel cuore di Milano. Alcuni mesi dopo, durante una conferenza pubblica, il vicedirettore del “Corriere della sera”, Gian Giacomo Schiavi, parlando della tragedia del collega Todisco, allargava le braccia e ammetteva: «Non abbiamo avuto la forza o il coraggio per lanciare una campagna come quella del Times, ce ne scusiamo». Questioni di sopravvivenza. In Italia, in Europa, nel mondo. In nome di Mary Bowers, Pier Luigi Todisco e di migliaia di ciclisti meno famosi, dal ragazzino preso
a sportellate da un’auto parcheggiata in seconda fila e buttato sotto un tram a Milano, alla giovane ciclista uccisa da un’auto pirata a Roma… I confini non contano più, l’Italia non è la Gran Bretagna e nemmeno la Germania, o la Danimarca, tanto per citare alcuni Paesi in cui la bici sta diventando realmente il motore di un’economia alternativa. In nome di “Save our cyclists”, in Gran Bretagna si sono schierati tutti i campioni del pedale, a cominciare dal numero uno, il campione del mondo Mark Cavendish che si è impegnato in prima persona, facendo appello nientemeno che ai governi d’Europa affinché vengano introdotte maggiori tutele per i ciclisti nelle legge di ogni Paese: «Quando un’automobilista investe un ciclista – ha dichiarato il campione del mondo – quasi sempre accade perché non lo considera, quasi non lo vede. Allora, io credo che si debbano adottare misure più severe affinché gli automobilisti aumentino la soglia di attenzione, affinché il rispetto del ciclista diventi parte di una cultura». E questo suo punto di vista l’ha portato addirittura a discutere alla pari con i ministri del suo Paese. Cavendish corre per il team Sky, marchio che è entrato nel ciclismo con un obiettivo di marketing decisamente di alto profilo: mettere
141
145
1
THE VIOLENT KILOMETRE by Umberto Isman
than on his bike on the local roads, or at the bike expo in Padua where, between a sliver of grana cheese and an American beer, he has plenty to say for himself. THE RED RALEIGH AND THE AVOCATT by Gianni Brera
CYCLE! issue one September 2012 Man before bicycle Passion before fixation THE PACK AND THE JERSEYS by Gino Cervi
The rules are clear, the beers are cold. The time, place and participants are ‘one-off’: if you’re there, great. If you’re not, hard luck! Welcome to the world of unlicensed cycle races, held at dead of night in the suburbs of Milan, beneath the flyovers of the city’s ring road. Umberto Isman captured the competitors’ faces and their drive to win.
Gianni Brera was one of Italy’s greatest sports journalists. He wrote about soccer and cycling. His gift to Cycle! is a short biographical story dedicated to Eberardo Pavesi, a cyclist from the turn of the twentieth century.
ITALIAN CRAFTSMAN, AMERICAN ACCENT by Guido P. Rubino
In post-war Italy, cycling was the sport with the greatest popular following. For this reason it became a remarkable channel for publicity for Italian industry, on its rise towards the “economic miracle”. Using the riders’ jerseys, cycling brought the names of product brands into Italian homes, representing wealthy new lifestyles. Postcards, cigarette cards, models of cyclists, hats and jerseys became highly popular and soughtafter giveaways for fans during the advertising processions that travelled with the big cycling events.
154
cycle!
Darren Mark Crisp: sporting cyclist, passionate frame-builder, heartfelt Tuscan. We went to visit him at his home/workshop in Tuscany, where he welds titanium. “You can’t mess with titanium,” says the man swamped with orders coming in on the Internet from all over the world for all kinds of frames, all bespoke. You won’t see him around much, other
PEDALING IN 2022 by Albano Marcarini
The bicycle is making a comeback, and is once again the height of fashion in everyday life, in the cities and on the roads of Europe, and in design and publicity. But how will our pedaling have changed in ten years’ time? Will there still be cycle paths? Are predictions true that motorised traffic will reduce by one third? Will the bicycle finally be able to stop fighting for its living space on our streets?
GONE WITH THE WIND by Albano Marcarini
of a photographer and a pioneer of cycle touring. “I clung onto the handlebars like a bird on its perch. My spirit took flight, up towards the heights, towards the innate sense of life. I was laid bare before the giant, and I was making my leisurely way through the geographic history of mother earth.” FI’ZI:K DU ROLE by Guido P. Rubino and Umberto Isman
In Italy, VenTo is a project for a 679-kilometre cycle path along the banks of the Po river, connecting Turin, Milan and Venice. It is promoted by the Politecnico university in Milan, to redress a serious deficiency. The Po is the only major European river not to have a long, dedicated cycle path. Standing in its way are obsolete regulations that impede the most natural of activities: walking and cycling along river banks.
A foray into the realm of bicycle saddles, with a leading company in the sector, exploring the countless ways of producing the most delicate and dependable of the parts supporting the cyclist on a bicycle. And discovering that even in the world of advanced technology, the work of a skilled craftsmen is still indispensable.
CYCLING IN THIN AIR by Umberto Isman and Claude Marthaler
AFRICA AND ALLEN KEYS. TOUR OF RWANDA by Marco Pastonesi and Mjrka Boensch Bees
The story of a journey through the Indian Himalayas, along the most legendary of roads, which never drops below 4,000 metres in altitude, from Manali to Leh. 500 kilometres travelled in 10 days, seen through the dual viewpoints
156
cycle!
Some say that the cycling of the future will come from Africa. It’s just a matter of time. Meanwhile, our reporter went to see and experience one of the most gripping events on the dark continent: the Tour of Rwanda. We read the story of Arnaud Ontsassi, the ‘black’ jersey riding for Gabon, lagging almost five hours behind the leading cyclist.
And that of Father Vito and his 466 children, learning to read and write to ‘The Mother of the Word’... and many more stories besides. EACH MAN FOR HIMSELF... AND CYCLISTS FIRST by Mario Brovelli and Guido P. Rubino
A reportage on the big event held in Rome on 28 April 2012 to support ‘Save our Cyclists’, the campaign launched in Britain and rapidly spreading across Europe. “Like one big family, all brothers,” explain the leaders of this movement without leaders. All in the pack, all domestiques in the name of a single cause: saving cyclists. A cheery, colourful way to start seeing the world from behind the handlebars.
© Cycle! 2012
Crediti
Cycle! magazine numero uno - settembre 2012 In attesa di registrazione presso il Tribunale di Milano www.cyclemagazine.it
Crediti fotografici © Mjrka Boensch Bees (www.mjrka.com), pp. 122-138. © Umberto Isman, pp. 2, 4-15, 34-35, 37-52, 82-101, 104-120. © Diap. polimi. lab. vento, pp. 74, 76-77. © Gianni Nava (www.photogianninava.com), pp. 16-17. © Guido P. Rubino, pp. 54-64, 138-149. © 2012. Foto Scala, Firenze, p. 70.
Direttore responsabile Albano Marcarini - direttore@cyclemagazine.it Redazione Gino Cervi, caporedattore Umberto Isman, fotografo Mario Brovelli Guido P. Rubino redazione@cyclemagazine.it Segreteria di redazione Diana Quarti - segreteria@cyclemagazine.it Art director / photoeditor Francesco Dondina - artdirector@cyclemagazine.it Progetto grafico Dondina Associati, Milano Impaginazione Diana Quarti e Paola D’Alessandro - grafica@cyclemagazine.it Hanno collaborato a questo numero: Mjrka Boensch Bees (photo), Claude Marthaler, Marco Pastonesi. Redazione c/o Dondina Associati, via Ausonio 18, 20123 Milano, tel 02.89403880 - fax 02.89405748 redazione@cyclemagazine.it Pubblicità Claudio Sanfilippo - pubblicità@cyclemagazine.it tel. 335 415810 Edicicloeditore, via Cesare Beccaria 17, 30026 Portogruaro (VE), tel 0421.74475 Direttore editoriale Vittorio Anastasia Ufficio stampa Lorenza Stroppa www.ediciclo.it Stampato da Grafica Veneta Trebaseleghe (Pd)
Tutti i diritti riservati. Testi, fotografie, disegni contenuti in questo numero non possono essere riprodotti, neppure parzialmente, senza l’autorizzazione di Cycle! magazine Cycle! magazine è a disposizione degli eventuali aventi diritto per crediti fotografici non reperiti o non correttamente segnalati. ISBN 978-88-6549-065-5
158
cycle!
Per gentile concessione di Gianni Bertoli, pp. 21 (in alto), 26, 28 (in alto), 29, 30, 31, 32. Per gentile concessione di Paolo Gandolfi, pp. 27. Per gentile concessione di Domenico Gioffrè, pp. 80-81 (foto di Guido P. Rubino). Per gentile concessione di Marcello Murgia (www.museodelciclismo.it), pp. 19, 20, 21 (in basso), 28 (in basso). Per gentile concessione del Museo del Ghisallo, pp. 18, 22 (prima fila, a sinistra e al centro; terza fila, al centro), 23 (foto realizzate da Gianalberto Cigolini). Per gentile concessione dell’Archivio storico di Santini Maglificio Sportivo (www.santinisms.it), pp. 22 (prima fila, ultima a destra; seconda fila; terza fila, a sinistra e a destra), 24-25 (foto realizzate da Gianalberto Cigolini). Per gentile concessione dell’Archivio storico Centro documentazione Touring Club Italiano, pp. 66-69. I disegni delle pagine 47 e 49 sono tratti da http://drimtimficsd.blogspot.it. La carta di p. 78 è tratta da http://webdiap.diap.polimi.it/Lab/vento/materiali.html Il testo de “Il gruppo e le maglie” è tratto da Gino Cervi e Paolo Facchinetti, Il Giro d’Italia. Strade, storie, oggetti di un mito, Bolis Edizioni, 2009; i testi di Claude Marthaler di “Pedalare nell’aria sottile” è tratto da Claude Marthaler, Lo zen e l’arte di andare in bicicletta. La vita e altre forature di un nomade a pedali, Ediciclo, 2010. La traduzione del testo introduttivo di Claude Marthaler (pp. 83-84) è di Gino Cervi. I testi degli abstract in inglese (pp. 152 e 154) sono di Caroline Henderson.
Ringraziamenti Grazie a: Marina Beretta, Gianni Bertoli, Paolo Brera, Gianalberto Cigolini, Paolo Gandolfi, Domenico Gioffré, Marcello Murgia, Museo del Ghisallo, Elisabetta Porro, Paola Santini, Luciana Senna.