MUSIC FOR SILENT RADIOS Andrea Crosa

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Music for silent radios

Andrea Crosa



Music for silent radios


Revoluciòn

di Andrea Crosa

La mamma di Mendez è molto bella, anzi sembra quasi una diva del cinema. La osservo di nascosto sperando che non se ne accorga mentre fuma aspettandoci all’uscita di scuola. Ha i capelli biondissimi molto corti e indossa sulla nuca un cappellino che sembra una ciotola rovesciata in tinta col vestito stretto in vita da una cintura aragosta. Lo stesso colore dello smalto e del rossetto che lascia un piccolo alone attorno al bordo della sigaretta. Tira indietro la testa facendo uscire il fumo dal naso mentre guarda in alto assorta e persa nei suoi pensieri. Una leggera brezza mi porta il suo meraviglioso profumo dolce e intenso. Improvvisamente si gira verso di noi e sorride felice scoprendo i denti bianchi e bellissimi, getta via la sigaretta appena incominciata, si inginocchia aprendo le braccia per accogliere amorevolmente suo figlio, il mio primo migliore amico. La mamma di Mendez è sempre allegra e molto elegante. Oggi indossa un paio di guanti corti di pizzo bianco e una borsetta trasparente dove si vede in gran disordine tutto quello che c’è dentro e che pare venga dall’America. Mendez ed io siamo compagni di classe e quando la mattina nell’immenso cortile della scuola tutti noi allievi cantiamo l’inno nazionale durante l’alzabandiera, siamo fianco a fianco. Davanti a noi c’è soltanto Villafane che è il più basso di tutti noi. è un bellissimo bambino magrolino e molto triste, con dei grandi occhi blu scuro bordati di giallo attorno all’iride e ciglia lunghe, dritte e nere. Tutti lo trattano con affetto perché pare sua mamma sia morta da poco e questo lo rende molto speciale ai nostri occhi. Per esempio nessuno gli infila un dito o una matita su per il sedere mentre cantiamo perché dobbiamo stare composti, allineati e soprattutto immobili. Invece noi che non siamo tristi e che per fortuna abbiamo ancora la mamma, siamo obbligati a tenere la mano destra sul davanti a proteggerci il pisello e quella sinistra sul didietro a proteggerci le chiappe ma soprattutto per pizzicare il pisello al malcapitato che sta dietro. Insomma il tutto è piuttosto complicato anche perché gli insegnanti sono sempre lì che ci ronzano attorno a controllare la disciplina e danno volentieri dei punti di demerito che non possono superare i sei a settimana altrimenti fioccano le punizioni. Inoltre, come se questo non bastasse, dobbiamo cantare bene senza stonare né tantomeno ridacchiare il che, data la situazione è molto ma molto difficile. Mendez ed io siamo alti uguali e abbiamo entrambi le gambe secche secche e le calze ci cadono sempre giù e si ammucchiano sulle scarpe. Lui porta i pantaloni grigi dell’uniforme più corti dei miei che mi arrivano giusto sopra al ginocchio e a me pare strano perché lui è sempre raffreddato e quindi dovrebbe stare un po’ più coperto. Ha quasi sempre un moccio verde che gli blocca come un tappo uno dei buchi del naso e io sono costretto a fare finta di niente per non metterlo in imbarazzo ma francamente mi fa parecchio schifo. In più soffre d’asma e durante la lunga ricreazione che abbiamo dopo pranzo non deve assolutamente correre altrimenti comincia a respirare con una specie di fischio e sembra che abbia delle pietroline in gola. Allora tira fuori una pompetta di gomma con un tubicino di vetro che porta sempre con sé e si spruzza una medicina in gola che gli apre i polmoni. Io però ho sempre paura che muoia come quel giorno che cadendo

ha distrutto l’asma pull e hanno dovuto portarlo a casa di corsa. Ultimo della fila è invece il mio secondo migliore amico Medveedi. Dato che non ha nessuno dietro si deve solo proteggere il pisello perché il sedere è irragiungibile. Comunque nessuno si azzarderebbe a dargli fastidio perché è alto e grosso e ha delle manone e dei piedoni e un cesto di riccioli piccoli piccoli in cima alla testa. Porta degli occhiali spessi dietro i quali appaiono due occhi azzurri e pungenti su un volto dalla pelle bianchissima coperta da piccole efelidi. La cosa che lo rende davvero unico è un paio di poderose orecchie a sventola che quando batte il sole da dietro diventano traslucide mostrando una ragnatela di venuzze minutissime all’interno. Medveedi è piuttosto goffo e quando si muove pare il gatto Silvestro che adoro, mentre io sembro il canarino Titti che non si capisce molto bene cosa sia perché porta delle scarpe enormi ed è senza ali e comunque è veramente, ma veramente odioso. I miei compagni mi dicono di non giocare con lui perché è ebreo ma dato che non so cosa voglia dire continuo a farlo perché è il mio secondo migliore amico e con lui mi diverto moltissimo. Mi ha raccontato che i suoi vengono dalla Romania che immagino sia qualcosa in Italia e quindi le nostre due famiglie forse vengono dalla stessa Nazione. Lui però non sa una parola d’italiano mentre io invece lo parlo regolarmente in casa. Suo nonno gli ha insegnato una canzoncina che fa così: “ Menelik clik clik clik clik regina Taitù Taitù Taitù son la rubiii na son la rubiii na della gio ven tù.” Gli faccio gentilmente notare che non si dice “rubina” ma rovina ma lui si intestardisce e ripete che se suo nonno dice cosi, cosi è giusto. Io lascio perdere però si dice rovina, ne sono certo. Durante la ricreazione Medveedi ed io ci scambiamo la merenda che portiamo da casa. La sua è sempre un po’ spiaccicata perché la mette in cartella con i libri sopra e anche se ha un aspetto non proprio invitante è davvero buonissima. Avvolto in carta stagnola appare un panino al latte con all’interno uno strato di burro e una cremina marrone deliziosa che non riesco a identificare. “Chiedi a tua mamma cosa c’è dentro”, continuo a dirgli ma lui si dimentica sempre. Il mio invece è un tramezzino con burro, formaggio bianco e prosciutto cotto. Lui lo guarda incuriosito e mi chiede cosa sia. “Prosciutto” gli rispondo un po’ perplesso e lui mi confessa che non l’ha mai assaggiato perché è ebreo. A me francamente sembra un’ idiozia ma dato che a lui piace il mio e a me piace il suo ci accordiamo per lo scambio segreto e giornaliero. Comunque un giorno senza preavviso e con aria da cospiratore tira fuori il suo panino e dice “Lebergusch”. “Lebergusch ?- dico io - ma di che stai parlando?” ” E’ quello che c’è nel panino, dice mia mamma”. Quindi non appena torno a casa comunico con grande determinazione che d’ora in poi voglio, anzi vorrei, la merenda col Lebergusch. Nessuno riesce a capire cosa mai possa essere il misterioso ingrediente e dopo un’ inchiesta piuttosto serrata tra amici, conoscenti e inquilini del palazzo, la vicina del secondo piano che è tedesca azzarda l’ipotesi che possa trattarsi del “Leberwurst” una salsiccia morbida e spalmabile a base di fegato. “Fegato ? - grido inorridito - ma a me fa schifo ! No mai e poi mai !” La sua assoluta bontà però prende il sopravvento e trionfalmente vado a scuola portandomi dietro il mio tesoro. Medveedi a questo punto però rimane senza il prosciutto, non si lamenta più di tanto, ritorna a essere ebreo e siamo tutti felici e contenti. La mamma di Mendez ha promesso di portarmi a casa con la


sua nuova macchina appena arrivata dall’America. Secondo il mio primo migliore amico, che è un po’ bugiardino, non soltanto è un regalo del Presidente della Repubblica per il suo compleanno ma ha anche una parte del tetto trasparente ! Sono sicuro che questa volta Mendez l’abbia sparata proprio grossa ma sotto sotto sono un po’ invidioso, e se fosse vero? Perché a mia mamma che è bella tanto quanto la signora Mendez nessun presidente ha mai regalato una macchina. La nostra è veramente brutta e triste, una Chevrolet nera custom con gli interni e i sedili scivolosi in plastica grigia che ti si attaccano alle cosce e ti fanno sudare la schiena d’estate come d’inverno. Invece è proprio vero e non ci posso credere: scintillante al sole appare una Mercury Montclair coupè come è scritto in corsivo sul parafango anteriore - rosso aragosta e avorio, le cromature abbaglianti e le gomme coi fianchi bianchi e, naturalmente, la metà del tetto in vetro verde chiaro. Mendez mi guarda con aria di sfida come a dire “te l’avevo detto” e a me vien voglia di dargli un pugno sul naso ma se lo facessi non mi farebbe più salire in macchina e in questo momento non vi è nulla al mondo che io desideri di più. La mamma di Mendez intuisce la mia gioia e la mia impazienza e con un inchino accompagnato da un sorriso smagliante mi apre la portiera e mi fa entrare. L’odore di macchina nuova assieme al profumo della signora Mendez mi fanno entrare in Paradiso. Il volante bianco a calice con la corona cromata, la strumentazione a forma di ventaglio su fondo avorio, la radio e l’orologio inserite nel cruscotto i sedili soffici e accoglienti in tinta con la carrozzeria e intessuti con fili d’argento, la moquette di lana color aragosta che ci si sprofonda dentro e il tetto trasparente che mi fa vedere il cielo sopra la testa completano il sogno. Ammutolisco quando mette in moto e il motore emette un gorgoglio profondo e musicale e quando inserisce il cambio automatico e la macchina parte in un soffio silenzioso. Mendez si diverte a fare salire e scendere i finestrini premendo un pulsante, cosi tanto per infastidirmi e la smette soltanto quando sua madre gli dà uno scappellotto in testa. Rimango muto anche quando arrivo a casa e devo scendere: il viaggio è durato troppo poco. Li vedo andare via mentre Mendez mi saluta con la mano dal lunotto posteriore e mi fa le boccacce. Poi la macchina svolta a destra e sparisce in un attimo. Sono due giorni che Mendez non viene a scuola ma io non sono preoccupato o forse si? Comunque è sempre malato, ha l’asma, è sempre raffreddato e in più litiga continuamente con suo fratello. Si azzuffano, si picchiano e si mordono rotolandosi sul pavimento ma siccome lui è malato, o così vuole fare credere, quando è in difficoltà comincia a urlare come un ossesso finché la madre non li separa . E chi finisce sempre in castigo? Naturalmente suo fratello, ma solo perché è più grande di un anno. Ieri ho chiesto a mia mamma di telefonargli per sapere come stava ma lei mi ha risposto che non era proprio il caso chiudendo così qualunque possibilità di comunicare e lasciandomi senza notizie. Di sicuro sta succedendo qualcosa che lei sa e non mi vuole dire. Stamane mentre stiamo facendo i compiti di matematica che a me proprio non piace, improvvisamente entra in classe la Vice Preside e ci informa che le lezioni sono temporaneamente sospese. Un mormorio di sorpresa serpeggia tra di noi che ci guardiamo in faccia per cercare di capire meglio. Mi giro verso Medveedi che è seduto all’ultimo banco e come al solito, distratto

e un po stordito, non ha sentito niente mentre cerca di fare i conti con le dita. Poi alza la testa, mi vede e mi sorride come per dire “sì sì ci sono !” La Vice Preside intanto ci comunica che i nostri genitori sono stati informati e verranno a prenderci per riportarci a casa non appena possibile. Poi in tono drammatico annuncia “è scoppiata la Rivoluzione !” La maestra cerca di tranquillizzarci anche se nessuno di noi pare agitato o forse cerca di tranquillizzare se stessa ripetendo “ va tutto bene bambini, va tutto bene”. In realtà nessuno di noi sa cosa sia una rivoluzione quindi aspettiamo con calma che vengano a chiamarci via via che i nostri genitori arrivano. Mia mamma invece sa benissimo cos’è una rivoluzione perché non appena giungo a casa mi fa sistemare sotto il tavolo della sala da pranzo -chissà perché- mentre passeggia avanti e indietro fumando nervosamente. La radio è accesa e dalle ultime notizie pare che le forze armate abbiano circondato il Palazzo Presidenziale con almeno quattro carriarmati con i cannoni puntati contro, pronti a fare fuoco. Nessuno sa dove sia il Presidente che pare abbia chiesto asilo politico all’ambasciata di un qualche paese amico. Pare anche che sia già scappato in nave da almeno due giorni assieme ai suoi fedelissimi, portandosi via valigie piene di dollari e lingotti d’oro. Mio padre cerca di calmare la mamma dicendole che in questo paese le rivoluzioni sono all’ordine del giorno ma questo non sembra produrre l’effetto desiderato. Anzi tutt’altro perché sempre più agitata comincia a dire che non ha lasciato l’Italia ancora in ginocchio dopo la guerra per finire in culo al mondo nel bel mezzo di una rivoluzione. “La mamma ha detto culo -dico io da sotto il tavolo- l’ho sentita benissimo !” Entrambi si girano verso di me e mio padre fa “ zitto tu “, capendo che la situazione può degenerare da un momento all’altro e diventare incontrollabile. Allora dico “ culo culo culo “ e lo ripeto all’infinito a voce bassissima perché rischierei davvero un bel ceffone. Vedo attraverso la finestra come due aerei da guerra color argento e col muso appuntito volare vicinissimi e appaiati per poi scendere in picchiata e sparire. “Gli aerei – grido – stanno bombardando!” Mia madre corre verso la finestra seguita da mio padre. Poi un filo di fumo nero sale veloce verso il cielo. “Oh mio Dio!” fa la mamma e si accascia sul divano. “Devo fare la pipì” dico io che sono stufo di stare sotto il tavolo senza far niente. Mio padre mi lancia uno sguardo come per incenerirmi sul posto poi con un cenno della mano mi da il via libera mentre abbraccia la mamma che gli appoggia la testa sulla spalla. Furtivamente corro in camera mia, mi tolgo le scarpe e prendo quante più macchinine posso. Di nuovo sotto il tavolo le sistemo sul tappeto. Il bordo laterale diventa cosi la strada e i quadrati interni le case coi giardini, insomma una piccola città. Posso pensare a un gioco lungo e complicato dato che la mia permanenza là sotto sarà parecchio lunga. La radio trasmette sempre meno notizie sugli insorti e aumentano i brani musicali, il che fa pensare che la situazione stia piano piano ridiventando normale. Mi sveglio di soprassalto perché stanno approntando la tavola per il pranzo. Ma quanto ho dormito? A questo punto tra uno sbadiglio e l’altro mi sembra che la rivoluzione sia quasi finita e se Mendez e la sua famiglia sono scappati col Presidente mi domando che fine avrà fatto la Mercury aragosta e avorio col tetto di vetro. Se domani torno a scuola Medveedi diventa il mio primo migliore amico.


Revoluciòn

by Andrea Crosa

Mendez’s mom is very beautiful, almost looking like a movie star. I secretly watch her, hoping she doesn’t notice, while she smokes a cigarette waiting for us at the school entrance. She has very short blonde hair and wears a little hat that looks like an upside down bowl that matches her dress cinched at the waist by a lobster coloured belt. It’s the same colour of nail polish and lipstick that leaves a small halo around the edge of the cigarette. She pulls her head back, exhaling the smoke out through her nose. She looks up, pensive and lost in thought. A gentle breeze brings me her wonderful perfume, sweet and intense. She suddenly turns to us and smiles happily, showing her beautiful white teeth. She throws away the cigarette she just started and kneels down, opening her arms to lovingly welcome her son, my first best friend. Mendez’s mom is always cheerful and very elegant. Today she is wearing a pair of short white lace gloves and a transparent handbag, that seems to come from America, where you can see, in great disorder, everything that’s in it. Mendez and I are classmates, and when in the morning all of us students sing the national anthem, during the raising of the flag in the school’s vast courtyard, we stand side by side. In front of us there’s only Villafane, the smallest of us all. He is a beautiful boy, skinny and very sad, with big dark blue eyes, rimmed with yellow flecks around the iris, and long, straight black eyelashes. Everybody treats him with affection because his mom apparently died recently and this makes him very special to our eyes. For example, nobody tries to shove a finger or a pen up his bottom while we sing, because we have to be composed, aligned and above all, still. We who are not sad because we luckily still have mothers, are obliged to keep our right hand over our front to protect our willy with our left hand on the back to protect our ass (but especially to pinch the willy of the one standing behind). The whole thing is actually rather complicated because the teachers are always buzzing around us to keep us disciplined by liberally doling out demerit points (not exceed six per week to avoid pending punishment). As if that was not enough, we must sing well without jarring or giggling, which, given the situation is very, very difficult. Mendez and I are the same height and we both have skinny skinny legs and our socks always pile up above the shoes when they fall down. He wears the grey uniform pants shorter than mine, which are just above the knees. I find that odd because he always has a cold so he should be more covered. He almost always has green snot blocking one of his nostrils and I am forced not to notice it so as not to embarrass him, but quite frankly it makes me rather sick. On top of that he is asthmatic. During the long recreation time we have after lunch, he absolutely must never run. Otherwise he’ll start breathing with a kind of whistle and it sounds as if he has tiny pebbles in his throat. Then he’ll pull out a rubber pump with a little glass tube, that he always carries with him to spray medicine into his throat to open up his lungs. But I am always afraid he’ll die, like one day when he fell, broke his asthma pump and had to be rushed home.

Last in line is Medveedi, my second best friend. Since he has nobody behind him, he must only protect his willy, because his ass is unreachable. However, no one would dare to bother him, because he is big and tall and has big hands and big feet, and a basket of very small curls on top of his head. From behind thick glasses peer his two piercing blue eyes. His face’s white complexion is covered with freckles. The thing that makes him really unique is a pair of powerful protruding ears, that become translucent when the sun is shining from behind, showing a web of tiny little veins on the inside. Medveedi is rather clumsy and when he moves, he looks like Sylvester the cat, which I adore, while I seem to look like Tweety the canary in a way which is rather unclear (since he wears enormous shoes, is without wings and really, really obnoxious). My schoolmates tell me not to play with him because he is Jewish, but since I don’t know what that means, I keep doing it. He is my second best friend and I have a lot of fun with him. He told me his family comes from Romania, which I imagine is some place in Italy, so both our families perhaps come from the same nation. Yet he doesn’t know a word of Italian while I regularly speak it at home. His grandfather taught him a song that goes like this: “Menelik clik clik clik clik, queen Taitù Taitù Taitù are the rubiiin, are the rubiiin of youth.” I gently make him notice that one doesn’t say “rubin”, but ruin but he stubbornly keeps repeating that if his grandfather says so, so it must be. I give up, but one says ruin, I’m sure of that. During recreation, Medveedi and I exchange the snacks we bring from home. His is always a bit squashed because he puts it in his school bags with books on top. Even if it doesn’t look so inviting, it’s really very good. Wrapped in tin foil, a sandwich appears made of milk bread with a layer of butter and a delicious brown cream, which I’m not able to identify. “Ask your mom what’s inside,” I keep telling him, but he always forgets. Mine is a sandwich with butter, white cheese and ham. He looks at it intrigued and asks me what it is. “Ham” I answer a bit puzzled, and he confesses that he never tasted it because he is Jewish. I frankly believe it’s idiotic, but since he likes mine and I like his, we agree on our secret daily exchange. Anyway, one day, without notice and looking like a conspirator, he pulls out his sandwich and says: “Lebergusch.” “Lebergusch,” I say, “what are you talking about?” “It’s what my mom says is in the sandwich!” So, as soon as I get home I communicate with great determination that from now on I want, or better said, I would like my snack with Lebergusch. Nobody understands what the mysterious ingredient might be. After a tight investigation among friends, acquaintances and tenants of the building, the lady neighbour on the second floor, who is German, takes a guess that it could be “Leberwurst” a soft sausage spread made of liver. “Liver?” I scream horrified, “it makes me sick! No never, ever!” But its absolute deliciousness takes over and I triumphantly go to school taking that treasure with me. At this point Medveedi is left without ham. He doesn’t really complain much and he goes back to being Jewish and we are all happy. Mendez’s mom promised to take me home in her new car newly arrived from America. According to my first best friend, who is a bit of a liar, it’s a gift from the President of the Republic for her birthday, but it also has a transparent roof!


I’m sure that this time Mendez has fired his big gun, but underneath it all I am a bit envious. And if it were true? No president ever gifted a car to my mom, who is as beautiful as Mrs. Mendez. Our car is really ugly and sad, a black custom Chevrolet with grey slippery plastic interiors and seats that stick to your thighs and make your back sweat both in summer and winter.

have been informed and will come to pick us up as soon as possible. Then she dramatically announces: “The Revolution broke out!” Our teacher tries to reassure us even though none of us looks agitated, or perhaps she tries to calm herself down by repeating: “It’s all right, kids. It’s all right.” In reality none of us know what a revolution is, so we quietly wait to be called as soon as our parents arrive.

But it’s really true and I can’t believe it. Glistening in the sun, a Mercury Montclair appears. The name is written in italics on the front fender, lobster red and ivory, with dazzling chromeworks and tires with wide whitewalls, and, of course, half of the roof in light green glass. Mendez looks at me defiantly as if to say, “I told you so.” I feel like punching him on the nose. But if I do, he would not allow me to get in the car and in this moment, there is nothing in the world that I want more.

My mom knows exactly what a revolution is. As soon as I get home, she makes me go under the table in the dining room (I wonder why) while she is pacing back and forth smoking nervously. The radio is on and from the latest news, it seems that the army has surrounded the Presidential Palace with at least four tanks with guns pointed, ready to fire. Nobody knows where the President is, but he seems to have asked for political asylum at the embassy of some friendly country. It also seems that he has already escaped by boat since at least two days, with his loyalists, taking away suitcases full of dollars and gold bullions. My father tries to calm down my mother, telling her that in this country revolutions are commonplace, but that doesn’t seem to help much. On the contrary, more and more agitated, she starts telling that she didn’t leave Italy on her knees after the war to end up in the middle of a revolution in the ass of the world.

Mendez’s mom feels my joy and impatience. Bowing with a beautiful smile, she opens the door and lets me in. The smell of new car together with Mrs. Mendez’s perfume takes me to Heaven. The white deep-dish steering wheel with chrome horn ring, the fanshaped instrumentation on an ivory background, the radio and the clock inserted in the dashboard, the soft and cosy seats matching the colour of the chassis and interwoven with silver threads, the lobster coloured wool carpet in which one can sink and the transparent roof that allows me to see the sky above my head, complete the dream. I fall silent when she starts the car. The motor emits a deep musical gurgle and when she inserts the automatic transmission, the car moves in a silent whir. Mendez enjoys pulling the windows up and down by pressing a button, just to annoy me. He stops doing it only when his mother gives him a slap on the head. I remain silent even when we arrive at my house and I have to get off. The journey was too short. I see them drive off with Mendez waving from the back window making grimaces. Then the car turns right and suddenly disappears. Mendez didn’t come to school during the last two days, but I’m not worried, or maybe I am. He is always sick. He has asthma and is always with a cold. On top of that, he constantly fights with his brother. They scuffle, beating and biting each other as they roll on the floor. Since he is sick, or so he wants you to believe, when he is in trouble he starts screaming like a banshee until mother separates them. And who ends up being punished? His brother, obviously, because he is one year older. Yesterday I asked my mom to phone him to ask how he was, but she said it was not the case, thus ending any possibility of communication and leaving me without news. Surely she knows that something is going on but doesn’t want to tell me. This morning, while we are doing Math, which I really don’t like, the Vice Dean suddenly enters the classroom informing us that classes are temporarily suspended. A surprised murmur is winding among us, as we are looking at each other trying to understand better. I turn to Medveedi, who is sitting in the last row. Distracted and stunned as usual, he didn’t hear a thing as he was trying to count with his fingers. He then lifts his head up, sees me, and smiles at me, as if to say: “Yes, yes, I’m here!” Meanwhile the Vice Dean tells us that our parents

“Mom said ass,” I say from under the table, “I heard her right!” They both turn to me, and my father says:“Shut up, you,” knowing that the situation may degenerate at any moment and become uncontrollable. So I say, “Ass, ass, ass” and I keep repeating it endlessly in a very low voice, because I’m risking a slap in the face. Through the window I see two silver fighter planes with a pointed snout flying very close, pair off, swoop down and disappear. “Airplanes!” I scream, “They are bombing!” My mother runs to the window followed by my father.Then a wisp of black smoke quickly rises towards the sky. “Oh, my God!” mom cries and collapses on the couch. “I have to pee,” I say, tired of being under the table doing nothing. My father gives me a look as if to incinerate me on the spot. Then he waves his hand, giving me the green light, as he hugs mom who is leaning her head on his shoulder. Slyly I rush into my room, take off my shoes and collect as many toy cars as I can. Again under the table, I put them on the carpet. The lateral edge becomes the road and the inner squares become houses with gardens, in short, a small town. I think of a long and complicated game, since my stay under there will be quite long. The radio broadcasts less and less news about the insurgents and more and more music, suggesting that the situation is slowly getting back to normal. I wake with a start because they are setting the table for lunch. How long have I slept? At this point, between yawns, it seems to me that the revolution is almost over, and if Mendez and his family have escaped with the President, I wonder what happened to the lobster and ivory Mercury with the glass roof. If tomorrow I go back to school, Medveedi becomes my first best friend.


La rivoluzione sotto il tavolo di Nicoletta Boschiero Il testo autobiografico dell’artista che compare nel catalogo della mostra Music for silent radios col titolo di REVOLUCION rappresenta il dispositivo, il meccanismo che innesca il ricordo. Leggere il racconto romanzato dell’autore serve a recuperare un senso vitale di quel periodo e dell’esperienza vissuta, i sentimenti e il senso di partecipazione che l’artista bambino nutriva all’epoca. Attraverso le proprie opere Andrea Crosa ripensa alla propria vita, al tempo in cui tutto ha avuto inizio. Possiamo solo immaginare cosa sarebbe accaduto, cosa sarebbe cambiato e quali strade avrebbe intrapreso l’artista se solo non avesse abitato quei luoghi, in Argentina, non avesse avuto quegli incontri, quelle avventure, quegli amici, visto e amato le automobili, visto e amato donne belle e materne. Il ricordo, leit motiv dell’esposizione, si affaccia alle pareti della galleria torinese Made for love e accende in chi guarda un automatismo di spostamento in un mondo parallelo. È il mondo degli anni cinquanta con il suo piacere liberatorio nei confronti del consumismo, con i suoi oggetti, totem adorati, desiderati, scelti. Apparentemente innocue, queste piccole rappresentazioni benevolenti miniature, immaginette, “madeleine” - radio per lo più, ma anche la Studebaker autentica che esce da una deliziosa villetta, una piscina lillipuziana - portano lontano nel tempo e, improvvisamente evocative, richiamano a quella volta che c’è stato un cominciamento: di un’amicizia, di un’attrazione, di una curiosità. Andrea Crosa racconta di sé bambino - tenero e leggero come il canarino Titti coll’ambizione di essere gatto Silvestro - rimembra la scoperta delle donne, dell’amicizia, della bellezza, della velocità, del gusto inconsueto di un paté, e lo fa attraverso i sensi, con l’ausilio di immagini che, ritagliate e isolate da un contesto, oppure tridimensionali come graziosi giocattoli, rimandano all’epoca dell’infanzia,con l’opportuno corredo di fragranze suscitatrici di esperienze vissute, con i rumori, rombanti o melodiosi, concitati brusii, rimbombi di motori, il cibo “scambiato” con l’amico del cuore. Il racconto dell’artista dà a chi legge le coordinate per non perdersi del tutto e riconoscere nelle modelle delle pubblicità la raggiante, elegante madre dell’amico, signora Mendez, potenzialmente


seducente, attraente e bionda come una diva, che pare uscita da un film, e combacia con l’immaginario femminile di ogni uomo, piccolo o grande che sia, col vestito stretto, smalto, rossetto, denti bianchi e bellissimi. La signora fuma e guarda altrove, come ogni attrice che si rispetti, assorta in chissà quali pensieri, ma poi in presenza dei bambini è rassicurante e il suo profumo, potrebbe essere diversamente?, è dolce e intenso. Se la mamma dell’amico, i compagni, la città, la scuola, non hanno un nome proprio, l’automobile della signora Mendez invece ce l’ha: Mercury Montclair coupè, un modello prodotto dal 1954 al 1955, commercializzato in soli 1.500 esemplari. La Ford, che aveva introdotto un piano per rendere più sicure le proprie vetture, dotava la Montclair di un volante a calice che permetteva la protezione del guidatore in caso di urto, della chiusura di sicurezza delle portiere, di cinture di sicurezza e di un cruscotto imbottito. L’artista la ricorda bene: le gomme coi fianchi bianchi, la verniciatura bicolore aragosta e avorio, le cromature sovrabbondanti e rilucenti, la parte anteriore del tettuccio in plexiglas verde chiaro, e infine, al suo interno, l’odore inconfondibile di macchina nuova. C’è effettivamente da perdere la testa! Curiosamente la rivoluzione che dà il titolo alla breve rendicontazione, il là alla narrazione, è solo sognata, celebrata, non vissuta e provoca nel piccolo protagonista, al riparo sotto il tavolo, un’idea conservatrice, protettrice su tutto quello che si può, le macchinine giocattolo contate e riordinate, evocano immediatamente un’idea di inventario, di conta degli oggetti, di messa in sicurezza delle proprie possibilità e opportunità. La presenza della radio che via via sostituisce le notizie sugli insorti alla trasmissione di brani musicali, fa presagire a una circostanza avviata, senza fretta, alla normalità. Nello spazio di Made for love la mostra Music for silent radios, propone dunque un repertorio di immagini che costituiscono la fonte, l’humus del terreno creativo di Crosa. Esse sono solo apparentemente accessorie ma racchiudono le vere ragioni di una rimessa in gioco del ricordo: le radio mute parlano a chi sa ascoltare. Ogni oggetto, ogni singola figura nell’esposizione dedicata all’infanzia, produce musica perché quello è il periodo in cui profumi, atteggiamenti, immagini, prendono in noi il

sopravvento trasformandosi poi in progetti di vita. L’elettrodomestico radio diventa racconto, la sua presenza può decidere l’andamento della narrazione, cosa udremo alla sua accensione, una sirena, la sigla del radio giornale o la musica carezzevole che ci fa abbandonare al piacere dell’ascolto? Come ci poniamo di fronte a quest’oggetto rassicurante ed innocuo? Aspettiamo, con la giusta curiosità e apertura, di udire un segnale che ci permetta, attraverso le tracce che non si sono potute e che non si possono cancellare, di ricordare. Anche in installazioni precedenti, ad esempio La comunicazione blackout del 2011 con le radio color pastello, esposte nella Casa d’arte futurista Depero, e La contessa riceve il martedì, installata per la prima volta a Palazzo Saluzzo Paesana di Torino nel 2012 e poi presente nella mostra La magnifica ossessione al Mart a Rovereto, la radio è protagonista. La contessa -composta da un parallelepipedo nero- è un’opera prevalentemente sonora, guardando attraverso dei fori all’interno del cubo infatti, la radio compare in una stanza dipinta di rosso, con un tappeto, una poltrona, un tavolino e la musica che trasmette è riassuntiva di un modo di essere, di vivere: s’intreccia con bisbigli e impercettibile rumor di stoviglie. Non ci sono dichiarazioni, gruppi, determinazioni che tengano: il visitatore è accompagnato dal fluire della vita, il ricordo diventa una sorta di repertorio, un catalogo, una collezione di strumenti di lavoro, macchinine, magari azzurrine e rosa, compagni di gioco, donne incantevoli come attrici, scelte come una possibilità, un’opportunità di partenza in cui ognuno si viene a trovare per muoversi poi nella direzione a lui più pertinente. La tentazione di cedere ai dettami della nostalgia si fa in Andrea Crosa molto prossima, come se l’artista avvertisse le lusinghe della memoria e delle emozioni, che non scaturisce dalla pratica, ma dal ricordo: rimanere per sempre artista bambino è un impegno che chiama in causa l’attitudine, la risorsa di un evoluzione graduale dentro la specifica capacità di trovare la coscienza nelle cose, anche in quelle che non ci appartengono più.


The revolution under the table by Nicoletta Boschiero The artist’s autobiographical text appearing with the title REVOLUCIÒN in the catalogue of the exhibition, “Music for silent radios” represents a device or trigger mechanism for memory. Reading the fictionalized account of the author helps evoke a vital sense of a particular time period and life experience created by the feelings and the sense of participation that the artist had as a child. Through his works, the artist ponders his life and the time when it all began. We can only imagine what would have happened, what would have changed and what roads would have been taken by the artist had he not lived in those places in Argentina, had he not had those encounters, those adventures, those friends; had he not seen and loved cars, had he not seen and loved beautiful and motherly women. Memory, the leitmotiv of the exhibition, peeks out of the walls of the Turin gallery MADE FOR LOVE and presents within the beholder, an automatic shift into a parallel world. It’s the world of the fifties with its liberating pleasure regarding consumerism, with its objects — selected totems, worshipped and desired. Seemingly innocuous, these small representations, benevolent thumbnails, little images, “madeleine” — radios for the most part but also an authentic Studebaker coming out of a pretty house, a Lilliputian swimming pool — transports one far away in time. Suddenly, evocatively, recalled is a time when there was the beginning of something: a friendship, an attraction, a curiosity. Andrea Crosa portrays himself as a light and tender child, like Tweety Bird with the ambition to be Sylvester, remembering the discovery of women, of friendship, of beauty, of speed, of the unusual taste of a pate. With the aid of images cut out of context, isolated or like three-dimensional pretty toys, he appeals to the senses to recall the time of childhood, of life experiences with its particular set of fragrances or with its sounds, roaring or melodious, the excited buzzes, the rumble of engines, with the food “exchanged” with that special friend. The story, as told by the artist, provides the reader with coordinates so as not to become lost in it and to be able to recognise in the advertisements’ models the radiant, elegant mother of his friend,


Mrs. Mendez – potentially seductive, attractive and blond like a diva emerging from a movie, matching the imaginary feminine desire of every man, little or grown – with tight dress, nail polish, lipstick, and beautiful white teeth. The lady smokes and looks elsewhere. Like any self-respecting actress absorbed in her quizzical thoughts, she becomes reassuring in the presence of the children. Her perfume is sweet and intense. Could it be otherwise? If his friend’s mother, his schoolmates, the city and the school don’t have proper names, Mrs. Mendez’s car has. Mercury Montclair, an automobile produced from 1954 to 1955 sold only 1,500 models. The Ford Motor Company introduced a plan to make its vehicles safer and provided the Montclair with a deep-dish steering wheel, safety door locks, safety belts and padded dashboard to help protect the driver in case of collision. The artist remembers it well: tires with whitewalls, a two toned combination of lobster and ivory paint with extra shiny chrome trim and the front half of the roof section in light green Plexiglas. Finally, inside wafts the unmistakable new car smell. One could actually loose one’s head! Curiously, the revolution that lends its title to the short report and sets the tone of the narration is not lived, but only dreamt of and celebrated. And for the small protagonist sheltered under the table, it triggers a conservative idea of protecting everything possible. The toy cars, counted and re-ordered, immediately give rise to the idea of taking inventory, of counting objects, of securing one’s possibilities and opportunities. The presence of the radio gradually replacing the news about the insurgents with music portends to circumstances slowly returning back to normal. In the rooms of MADE FOR LOVE, the exhibit “Music for silent radios” provides a range of images that are the source, the humus of Crosa’s creative soil. Only seemingly incidental, they contain the real reasons for putting memory back into play. The mute radios speak to those who know how to listen. Every object and every single figure in this exhibition is dedicated to childhood, creating music. Childhood is the time when perfumes, attitudes,

and imagery gain the upper hand within us to then become transformed into life projects. The radio household appliance becomes the story. Its presence can decide the course of the narration. What will we hear when it’s turned on – a siren, the start of the news report or the soothing music that indulges our senses in the pleasure of listening? How do we relate to an item so harmless and reassuring? With the right curiosity and openness, and because traces cannot be erased, we expect to hear a signal that allows us to remember. The theme of radio as protagonist is apparent in previous art installations, such as La comunicazione blackout (The blackout communication) of 2011, pastel-colored radios exhibited in the Casa d’arte futurista Depero, and La contessa riceve il martedì (The countess receives on Tuesdays) installed for the first time at Palazzo Saluzzo Paesana in Torino in 2012, and then during La magnifica ossessione (The magnificent obsession) at Mart in Rovereto. La contessa (The countess), composed of a black parallelepiped, is mostly a work of sound. In fact, looking through holes inside the cube, the radio appears in a red painted room with a carpet, an armchair and a coffee table. The music it broadcasts interwoven with whispers and with the subtle noise of tableware sums up a way of being and of living. No statements, groups or determinations are required. The visitor is accompanied by the flow of life. Memory becomes some sort of repertoire, a catalogue, a collection of tools, toy cars, pale blue and pink perhaps, of playmates, of women, beautiful actresses, chosen as a possibility, a starting point from where each one can then move in a more suitable direction. Andrea Crosa comes very close, but does not succumb to the dictates of nostalgia. The flattery of memory and emotion doesn’t rise from practice, but from remembrance. To remain a child artist forever is a commitment that requires the specific ability to find consciousness in things, even those things that do not belong to us anymore.


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SE IL RICORDO SOLIDIFICA

di Marcella Bono

No, decisamente la signora Mendez dei ricordi vintage di Andrea Crosa non ha nessuna somiglianza con la rassicurante, chioccia e un “cicinin” stucchevole Signora Cunningham, mamma del Richie di Happy Days, che sfornava apple pie in grembiulini a scacchi ad ogni puntata. Piuttosto il tuffo in quel mondo e in quell’ immagine ce lo procura il vario universo femminile del film Jersey Boys di Clint Eastwood che, con un tempismo provvidenziale per chi si trova a scrivere su questo catalogo, è nelle sale in questi giorni.

E allora, colei che il Nostro ha incautamente chiamato a scrivere queste righe, si trova a domandarsi se i suoi figli, a loro volta in futuro padri, proveranno la stessa struggente e impalpabile sensazione, cogliendo odori e suoni lontani in qualche frangente, ma che di botto forse li colpiranno alle viscere, di fronte alla foto di spalline imbottite fine anni ottanta, o scovando in soffitta uno scatolone di musicassette dai nastri ingarbugliati che cercheranno di riavvolgere con una biro, come il filo dei ricordi della loro infanzia.

Figure sofisticatamente perfette nei loro chignon e scarpette a punta, sugli sfondi sempre “bombati” di frigoriferi e cofani di auto (similissime se non uguali, almeno mi pare, alla Mercury della signora Mendez), che emanano un desiderio di rivalsa, di vitalità, di fame di futuro e benessere, non senza quel pizzico di trasgressione che ammicca prorompendo tra tailleur e tubini bon ton e guanto rigorosamente sopra al gomito.

Tutto questo per dire che è facile immedesimarsi nella dimensione del ricordo, non malinconica in effetti, ma lucidissima e quasi teatrale, di Andrea, con i suoi personaggi che si relazionano ai loro oggetti, tableaux vivants sul palco della vita a comporne le scene. E l’immagine di questi oggetti, in questa narrazione così vivida e materica (eppur poetica al tempo stesso) di quegli anni e di quegli incontri, dei luoghi e delle forme che li hanno riempiti, si solidifica - nelle sue opere con quella sublimazione che solo l’artista può e che invece, per chi artista non è, spesso va ricondotto a un album di fotografie o a qualche reperto di famiglia sopravvissuto a traslochi e fatti vari della vita.

Mentre, sotto sotto, una qualche Rivoluzione, infuria. E la forma rende solo apparentemente più accettabile (o rispettabile) la sostanza. E anche per noi “ex- bambine- inizio –sixties”, con gli occhi sgranati sulle mises (e sui tacchi) delle nostre mamme, questi echi, queste atmosfere fatte di forme, colori e musiche indelebili, sono flash della mente, sono molecole residue di profumi lasciate da figure ormai uscite da una stanza, ma che restano - tracce lievissime - solo come citazioni di un racconto, come un persistente ma evanescente e intangibile senso di inafferrabilità. Qualcosa che hai colto solo di striscio, qualcosa che essendo nella zona a colori pastello dell’infanzia non hai saputo cogliere appieno, comprendere o trattenere, ma che sai – intimamente - essere stato unico e irripetibile. Lasciandoti con uno strisciante senso di inappagamento, al limite della frustrazione.

“Non sono tanto interessato alle cose quanto all’immagine delle cose”, Crosa ci dice facendo sua una frase di un racconto di Marguerite Yourcenar: la cosa intrigante è, con buona pace di Platone, che le ombre della caverna non sono più gli oggetti, ma chi li possiede e li guarda. E che le automobiline Studebaker prima, i modellini delle case poi, le radio ora, in questa ultima esposizione, sono i protagonisti, per nulla feticcio, per nulla icona, di tante piccole o grandi “Revoluciones “, sia personali che collettive, che hanno solcato anime e storie. Pensandoci bene, tutto sommato, rassicuranti e consolatori come le apple pie della Signora Cunningham.


If memory solidifies No, the lady Mendez of Andrea Crosa’s vintage memories definitely does not resemble the reassuring, protective and somewhat tedious Mrs Cunningham, (Ritchie’s mother in Happy Days), who wears chequered aprons and bakes apple pies almost every episode. Rather, the immersion into that world is provided by the diverse feminine universe of the movie Jersey Boys by Clint Eastwood, shown in theatres with a providential timing for those writing this catalogue. Perfect figures, sophisticated in their chignon and pointy shoes are juxtaposed with the “rounded” backgrounds of refrigerators and car hoods (very similar if not identical, as it seems to me, to Mrs. Mendez’s Mercury). With a hunger for future well-being, they emanate a desire to compensate but not without a touch of transgression–winking and bursting among suits, sheath dresses and gloves going strictly above the elbows. Some sort of Revolution rages underneath. Form makes substance apparently more acceptable (or respectable). Also for us, the “former girls of the beginning of the Sixties”, who look with wide eyes at the outfits (and heels) of our mothers echo the atmosphere made of indelible shapes, colours and music. These flashes of the mind represent residual molecules of scents left by figures who already left the room yet remain as slight traces, a persistent, evanescent and intangible sense of elusiveness. Only caught laterally, something in the pastel-colored area of childhood, something unable to be fully grasped, understood or retained, something that you intimately recognise as unique and unrepeatable, leaves you with a creeping sense of dissatisfaction at the edge of frustration. And then, she who has been called to write these lines, wonders whether her children, future fathers, will feel the same tender and

by Marcella Bono

impalpable feelings when far away smells and sounds suddenly pluck the thread of their childhood memories upon seeing late 80s pictures, clothing with shoulder pads, or upon finding a box of music cassettes in the attic, tangled tapes they’ll attempt to rewind with a pen. All this to say that it’s easy to identify with Andrea’s dimension of memory, in reality, not melancholic but extremely lucid, almost theatrical. While his characters relate to their objects, as tableaux vivants, the artist composes scenes on the stage of life. And the images of the objects in his narration, so vivid and material (yet poetic at the same time) are of those years, of those encounters, of the places and the forms. Thus, his works are solidified with the sublime that only the artist can impart whereas others must rely on photo albums or family relics that have survived relocations and various life events. “I’m not so much interested in things, as in the image of things,” states Crosa quoting a sentence from a novel by Marguerite Yourcenar. With due respect to Plato, the intriguing thing is, that the shadows on the cave walls are no longer the objects as much as those who possess and look at them. And little Studebaker cars before, the houses after and the radios now, in this last exhibition are the protagonists - not at all fetish, not at all iconic - of many small and big “Revoluciones,” both personal and collective, that left a sign on souls and stories. All things considered, if I think about it, they are as comforting and reassuring as Mrs. Cunningham’s apple pies.


UN AMICO “DIVINO” Nessuno poteva prevedere chi si celasse sotto quel grande paltò d’orbace, color nero fumo, così pesante e rigido da sembrare “self-standing”. Tutto ciò che fuorusciva dal cappotto pareva essere semplice appendice dello stesso: una testolina munita di lungo crine leggermente scompigliato, mani piuttosto piccole e delicate, una minima porzione di gamba poggiante su due piedi piccoletti. Il paltò si muoveva nelle stanze di un appartamento del centro storico genovese in cui si teneva una mostra di artisti giovani: tra questi mi è rimasta impressa nella memoria (sì, perché si tratta di un tempo che appartiene ormai alla Storia …) una serie di tele di un blu profondo, come può essere blu il velluto di seta. Il tempo scorre e ritrovo colui che alloggiava nel cupo paltò: questa volta è privo del suo carapace ma lo si nota per una candida camicia che potrebbe indossare Don Diego de la Vega quando non veste i panni di Zorro. Mi sarebbe piaciuto molto presenziare a tutte le apparizioni del Nostro in veste di artista: spesso i tempi e i luoghi non me lo hanno consentito. Non sono mancata allo “TsunamiStudebaker” nella bianca e soleggiata Villa Croce (effetto sonoro modello “Apocalypse now” ... rombo di elicottero a tutto volume...) e neppure alla recente performance nelle preziose stanze di Palazzo Saluzzo Paesana, tra “satyren” extra-large in bianco e nero e cascate di incolori fiori in plastilina (serata conclusa con divertente cena argentina in un gustosissimo localino torinese). Nel corso degli anni abbiamo intrapreso un cammino di conoscenza reciproca. Così scopri che Egli è capace di stupirti con una cena imbandita tra preziosissimi trumeau intarsiati in avorio, con piatti di svariati continenti, rigorosamente preparati con le sue manine ( memoria indelebile: una meravigliosa “humita” ). Ricordo un pranzo - molto meno imbandito - a base di pollo al curry, cucinato alla bersagliera in una casettina spartanissima nel bosco di Pietragione. Apprezzi il suo vivere la natura mentre si immerge - pare Gesù nel Giordano - nelle acque cristalline di un laghetto tra massi arrotondati della côrsa Bavella, in compagnia di un possente riesenschnauzer nero - il mio cane adorato - che scuote il testone peloso dopo l’apnea…

di Giovanna Poggi

è sempre lui l’appassionato collezionista che strombazza di fronte al cancello di una vecchia casa di campagna sulla statale dei Giovi , assiso sulle sedute perfettamente conservate della gloriosa Studebaker. Lo trovi trasformato in perfetto figlio del Sol Levante, in kimono scuro, tranquillamente seduto su tatami, mentre sbocconcella con maestria pezzetti di anomali cibi serviti in ciotoline di porcellana tra i boschi di un Giappone ai più ignoto. Affascina la sua inesauribile curiosità e la passione “enciclopedica” per agli aspetti più insoliti del sapere: dalle stravaganti conversazioni con Lui ho conosciuto la vicenda turbolenta di un personaggio come il “Chevalier d’Eon”, il quale visse parte della vita come capitano dei Dragoni, e parte come Mademoiselle Lia de Beaumont . Ancora la triste fine di Maria dalle enormi natiche, l’ultima degli Ottentotti, orfana di una popolazione dell’Africa del Sud, trascinata ad esibirsi dinanzi al pubblico europeo di fine ottocento. è uno spirito malandrino, ironico, irriverente. Lavorare in sua compagnia è sempre divertente, anche quando si affrontano argomenti spinosi…. Lascia traccia della sua monellaggine ovunque capiti: mentre disegna poltroncine per un arredo “trés chic”, con uno studio elevatissimo sull’utilizzo del colore, compare in pianta un coccodrillo con le fauci spalancate. Scopri poi che in un angolo di una sudatissima tavola di progetto è comparsa una tela di ragno con tanto di insetto costruttore. Purtroppo Lo si vede sporadicamente ma la sua presenza aleggia intorno a noi. Un concreto richiamo alle sue arti è vivo e presente vicino alla mia postazione di lavoro: se volgo lo sguardo mi imbatto in un corposo Pink Flamingo che galleggia sereno sulla pittura off-white della parete!


A “Divine” friend No one could predict who was hiding under that big smoky black coat of coarse wool fabric, so heavy and stiff that it seemed “selfstanding”. Everything protruding from the coat seemed to be a mere appendage of it: a little head equipped with long hair slightly dishevelled, hands rather small and delicate, a small portion of legs resting on two small feet. The coat was moving in the rooms of an apartment in the historical centre of Genoa, where an exhibition of young artists was taking place. Among the works, a series of deep blue canvases, like silk blue velvet, were impressed into my memory (yes, because that was a time that now belongs to History…). Time passes by. Again I find the one dwelling in the dark coat: this time without his carapace, standing out in a white shirt that Don Diego de la Vega could have worn when he wasn’t playing the role of Zorro. I would have very much liked to attend all the appearances of “Ours” as an artist, but often timing and places didn’t allow it. I didn’t miss the “TsunamiStudebaker” in the white and sunny Villa Croce (with the sound effects in “Apocalypse now” style, with helicopters rumbling at full volume...) and also the recent performance in the precious rooms of Palazzo Saluzzo Paesana, among extralarge black and white “satyrs” and cascades of colourless Plasticine flowers (the evening ended with an amusing Argentinian dinner in a tasty restaurant in Turin). Over the years we have embarked on a path of mutual knowing. And so you find that He is capable of surprising you with a laden dinner between precious trumeau inlaid in ivory, with dishes from several continents, all prepared with his little hands (the indelible memory of a wonderful “humita”). I also remember one lunch - much less laden - with chicken curry, prepared in a hurry in little Spartan house in the woods of Pietragione. You appreciate the way He experiences nature while He is immersing Himself–like Jesus in the river Jordan–into the crystalline water of a

by Giovanna Poggi

little lake among the rounded boulders of Bavella in Corsica, in the company of a powerful black schnauzer, my beloved dog, shaking its hairy head after the dive… Again, He is also the passionate collector, honking in front of the gate of an old country house on the main street heading to Giovi, perched on the perfectly preserved seats of the glorious Studebaker. You can find Him transformed into a perfect child of the Rising Sun, dressed in a dark kimono, quietly sitting on a tatami, masterfully nibbling abnormal foods served in porcelain bowls in the woods of a Japan unknown to most people. His inexhaustible curiosity and “encyclopaedic” passion for the most unusual aspects of knowledge are fascinating. From whimsical conversation with Him, I got to know the turbulent story of a character like “Chevalier d’Eon”, who lived his life partially as captain of the Dragons and partially as Mademoiselle Lia de Beaumont. Also the sad end of Mary big buttocks, the last of the Hottentots, a South African orphan dragged to perform in front of the European public of the late nineteenth century. He is a rogue spirit, ironic, irreverent. To work in His company is always entertaining, even when dealing with difficult subjects. He leaves traces of his mischievousness everywhere. While drawing little armchairs for very chic furniture using a very precise study in colour, a crocodile with open jaws appears on the plan. Or you discover in the corner of a laborious project board, a spider web appears, together with the insect that built it. Unfortunately, He is seen sporadically, but his presence hovers around us. A tangible reminder of his art is alive and present next to my work desk: if I look around I come across a full-bodied Pink Flamingo serenely floating on the off-white paint of the wall!


BIOGRAFIA Andrea Crosa

Nato a Buenos Aires nel 1949, vive e lavora a Savignone (Genova). Born in Buenos Aires in 1949, lives and works in Savignone (Genoa).

Mostre personali (selezione) Solo exhibitions (selection) 2014 MUSICA PER RADIO SILENZIOSE. A cura di/curated by Daniela Boni Galleria Made For Love, Torino. 2011 Nuovo Futurismo (con/with Battista Luraschi), Galleria Arrivada, Coira (CH). A cura di/curated by Renato Barilli Tempo fuori di sesto – Alice e Gulliver di periferia. Castello Sannazzaro. Giarole (Al) 2010 Lavori su carta e altre storie. Studio Gennai, Pisa. Tempo fuori di sesto - dolcefarniente. Museo Nuova Era, Bari 2007 Tempo fuori di sesto (Suburban Gulliver), CACT Centro d‘Arte Contemporanea Ticino, Bellinzona. 2005 Jumping Reality (con/with Andrea Loux, Laurent Schmid), Galerie Bernhard Bischoff & Partners, Bern. TSUNAMISTUDEBAKER, Museo d’Arte Contemporanea di Villa Croce, Genova. A cura/curated by Mario Casanova (cat.). 2004 TsunamiRichmond. Helicopter View, CACT Centro d’Arte Contemporanea Ticino (con/with Damir Nikšić), Bellinzona. TsunamiRichmond. Pete & Mary, Galerie Bernhard Bischoff (con/with Dominik Stauch), Thun (cat.). 2003 TsuNAmiRichmond, Caterina Mamberto Pennone, Savona. A cura di/curated by Viana Conti. 2002 TsunamiSushi, Mondrian Kilroy Fund, Torino. A cura di/curated by Enrico Debandi. L’arte di arredare con arte, Franco Lagomarsino, Genova. A cura di/curated by Viana Conti. 2001 Cenerentola, Alberghina, Torino. A cura di/curated by Enrico Debandi. 1997 Welcome to the Dollhouse, Studio Gennai, Pisa. Dipinti nello stile illusionista, Studio Jelmoni, Piacenza. 1996 Dipinti nello stile illusionista, Galleria Unimedia, Genova. 1994 Esercizi d’Instabilità, Il Campo delle Fragole, Bologna. Macchine volanti e altre storie, Studio Gennai, Pisa. 1993 Angelo in volo, Alaya, Genova. 1992 Indiminuibile minimo, Studio Gennai, Pisa. A cura di/curated by Maurizio Sciaccaluga. 1991 Galleria il Triangolo Nero, Alessandria. A cura di/curated by Gianni Baretta. 1+1, Galleria Unimedia, Genova. Studio Noacco, Chieri, Torino. 1990 Stato di grazia, Studio Gennai, Pisa. A cura di/curated by Sandro Ricaldone.

1989 1988 1986 1985 1984 1983 1981 1979

Progetti, Galleria il Gabbiano, La Spezia. Flatland, Galleria Murnik, Milano. Studio Leonardi, Genova. A cura di/curated by Sandro Ricaldone. Fuori quadro, Ocra Studio, Sarissola, Genova. A cura di/curated by Sandro Ricaldone. Galleria Pantha Arte, Como. Galleria Paolo Giuli, Lecco. Galleria Diagramma Luciano Inga Pin, Milano. Galleria Andata/Ritorno, Genève. Galleria Il Brandale, Savona. Ludica, Galleria Unimedia, Genova. A cura di/curated by Marisa Vescovo. Galleria Rinaldo Rotta, Genova.

Esposizioni collettive (selezione) Group exhibitions (selection) 2013 La Magnifica Ossessione, Rovereto , MART. A cura di/curated by Cristiana Collu e Nicoletta Boschiero. 2012 Nuovo Futurismo – ridisegnare la città, Milano Spazio Oberdan. A cura di/curated by Renato Barilli. Rosa Leonardi 40 anni di ricerche dall’astrattismo alla video arte, Museo d’Arte Contemporanea di Villa Croce, Genova. A cura di/curated by Sandro Ricaldone. Arte e dintorni III°edizione, Ca’ di Carobina, Magliolo (Sv). A cura di/curated by Luciano Fiannacca e Riccardo Zelatore. Genius Loci, Palazzo Saluzzo Paesana Torino. A cura di/curated by Enrico Debandi. 2011 Arte e dintorni II° edizione, Comune di Magliolo (Sv). A cura di/curated by Riccardo Zelatore Libro d’artista, Studio Gennai, Pisa. I nuovi futuristi, Mart Rovereto - Fondazione Depero, Rovereto. A cura di/curated by Renato Barilli. 2010 Nuovo Futurismo, Fondazione Bandera per l’Arte, Busto Arsizio. A cura di/curated by Renato Barilli. Nuovo Futurismo, Palazzo Guidobono , Tortona. A cura di /curated by Renato Barilli. Video Place, Sala Murat , Bari. Museo Nuova Era. A cura di/curated by Rosemarie Sansonetti. 2008 Inaugurazione, Studio Gennai Pisa 2006 Emotional Man. Intuizioni per la Bella e la Bestia Emotional Man. Insights into Beauty and the Beast, CACT Centro d’Arte Contemporanea Ticino, Bellinzona.


2005 2002 2001 1998 1997 1996 1995 1994 1993 1992 1991 1990 1989

La Famiglia. The Leaving Room in the frame of Kunsthalle. A cura di/curated by Mario Casanova, Ex stabile Tisca Nova, Locarno. Le definizioni dell’invisibile1/The definitions of the Invisible1 (con/with Maurizio Anzeri, Daniel Bolliger, Gianluca Monnier), CACT Centro d’Arte Contemporanea Ticino, Bellinzona. Le maschere di Ubaga, Comune di Pieve di Teco. A cura di/curated by Dante Tiglio (cat.). Landscapes, CatARTica, Torino. A cura di/curated by Enrico Debandi. Lettera d’amore, Castello della Lucertola, Apricale. 10 anni dello studio Gennai, Studio Gennai, Pisa (cat.). Lettera d’amore, Margaret Harvey Gallery, St’Albans (U.K.). Lettera d’amore, Palazzo Cuttica, Alessandria. Non capovolgere i manichini, Alaya, Genova (cat.). Arte in scatola, Galleria il Gabbiano, La Spezia. La corona, Galleria Angela Signetti, Torino. A cura di/curated by Edoardo Di Mauro. Festa di San Ranieri, Comune di Pisa, Piazza della Berlina (cat). Museo Teo, Genova. A cura di/curated by Francesco Arena. Rubati arcobaleni in un effigie, Galleria Unimedia, Genova. La produzione grafica del triangolo nero (1987/1994), Il Triangolo Nero, Alessandria. Arte portatile, Mercato del Pesce, Milano. Ora, Pavullo nel Frignano. A cura di/curated by Betta Frigeri (cat.). Patchworking, Centro del Pratello. A cura di/curated by Silvia Grandi. Meer in Sicht, Loggia della Mercanzia, Genova. A cura di/curated by Matteo Fochessati (cat.). Libro e segnalibro, Museo dell’Informazione, Senigallia. II rassegna d’arte contemporanea, Varzi (cat.). Itinerario di viaggio, Comune di Gaeta. A cura di/curated by Massimo Bignardi (cat.). Meer in Sicht, Kunstverein Kunsthalle. Hamburg. A cura di/curated by Matteo Fochessati (cat.). Confini Arte e Design, ICIT Istituto di Cultura Italo Tedesco, Imperia (cat.). Galerie Gianfranco Licandro, Wien. Anni Novanta, Galleria d’Arte Moderna, Bologna. A cura di/curated by Renato Barilli (cat.). Nuovo Futurismo, Palazzo Guasco, Alessandria. A cura di/curated by Renato Barilli (cat.). Italia 90, La fabbrica del Vapore, Milano. A cura di/curated by Viana Conti. Progetto per uno strumento musicale, Museo dell’Informazione, Senigallia (cat.). Nuovo Futurismo, Biblioteca della Misericordia, Palma de Mallorca. Spezzare il tetto, Palazzo Lanfranchi, Pisa. A cura di/curated by Sandro Ricaldone (cat.). Nuovo Futurismo, Istituto Italiano di Cultura, Madrid.

1988 1987 1986 1985 1983

Ordine e Disordine, Palazzo dell’Arengo, Rimini. A cura di/curated by Renato Barilli (cat.). Ge.Mi.To 2, Loggia della Mercanzia, Genova. A cura di/curated by Enzo Cirone (cat.). 14 emerging Artists from Liguria, Museo Italo Americano, San Francisco. A cura di/curated by Sandro Ricaldone (cat.). Equinozio d’autunno, Castello di Rivara, Torino. A cura di/curated by Viana Conti. Introductions 1987, Katia La coste Gallery, San Jose, California. Effetto Placebo, Galleria Murnik, Milano. A cura di/curated by Renato Barilli (cat.). Ge.Mi.To, Promotrice delle Belle Arti, Torino. A cura di/curated by Enzo Cirone (cat.). Nuove tendenze in Italia, Galleria Ezio Grisanti, Milano (cat.). The Third Contemporary Art Fair, London. Basel 17. Programma 90, Galleria Diagramma Luciano Inga Pin, Milano. pittura 70/80 in Liguria, Cala Fieschi, Sestri Levante (cat.). I suoni che abitano la natura, Comune di Genova,Villetta Di Negro. Collezione Ghiringhelli, Museo di Arte Contemporanea di Villa Croce, Genova (cat.). Proposta per un paese antico, San Quirico d’Orcia. A cura di/curated by Andrea del Guercio. Lo spazio le stagioni le opere, Galleria Unimedia, Genova (cat.). Home Sweet Home, Galleria Diagramma Luciano Inga Pin, Milano.






Cultural Association Italy-Turin-via Lodi,25 madeforlove.me maderadioactive.org wemadeforlove@gmail.com

“PROTAGONISTI”_ Sandro Becchetti _ October / November 2011

"RELITTI" _ Davide Virdis _ May / June 2013

"TERRENA" _ José Luis Cuevas _ October / November 2013

"STEREOTYPES" _ Matco _ Dicember 2013

"BEAUTIFUL MEN" _ Marcello Bonfanti _ April / May 2014

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maderadioactive.org picture: “NUEVA ERA “ 2009 Di Josè Luis Cuevas


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Restaurante y Taqueria

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Exhibition and Catalogue curator: Daniela Boni Graphic Design: Simona Pavesi Pictures: Marietto Parodi: page 12/14/16/18/22/26, Jana Sebestova: page 20/24/28/30/32/34/36 Texts: Nicoletta Boschiero, Marcella Bono, Giovanna Poggi. Exhibition sound tracks: Adriana Ferrari, Patrick Di Stefano. Special Thanks to: Adriana Ferrari, Daniela Enrico, Enrico Debandi, Gabriele Ferrarotti, Marcello Bonfanti, Paolo Lavarone, The NEWGRFIX’s Girls, Patrick Di Stefano, Susanna Maffini.

lounge restaurant by Kiki



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