F LY O V E R T H E T I M E
chi non ha desideri, ma soltanto sogni, è felice (Paulo Coelho)
Sognare e volare non sono in fondo attività così distanti. Nella vita molti coltivano un sogno, anche gli aviatori. Gli aviatori, però, sono persone diverse, che faticano a stare con i piedi per terra. Amano sognare, ma più di tutto amano volare. A volte accade che sogno e volo si sovrappongano e s’intreccino. Talvolta il sogno diventa il mezzo per finalizzare un volo. Talvolta il volo diventa il mezzo per concretizzare un sogno. Così spesso nascono le grandi avventure. In questo modo è iniziata anche la nostra impresa, sognando di riportare alla vita e in volo uno degli aeroplani più famosi dell’aviazione militare tricolore, nel periodo che va dai suoi albori alla Grande Guerra: il biplano Ansaldo SVA che nel 1918 arrivò sul cielo di Vienna, e che solo un paio d’anni dopo si spinse, sorvolando luoghi in cui mai si era visto e sentito un aeroplano, fino a Tokyo.
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Il volo dell’uomo è una storia incredibilmente breve e intensa che si svolge in poco più di un secolo, costellata da grandi sfide e successi, entusiasmi e delusioni, passioni e drammi. In questa vicenda lo SVA ha rappresentato una svolta, un ponte ideale tra due epoche: le sue ali esili e traslucide, in legno e tela sono poco diverse da quelle che sostennero i primi saltelli del Flyer o il volo del Bleriot attraverso la Manica, ma appaiono innestate su una fusoliera che sembra pensata e costruita un secolo dopo, caratterizzata da linee sinuose ed eleganti, da una aerodinamica ricercata, dall’uso del rivestimento in legno con funzione strutturale. Lo SVA è un oggetto di potente bellezza e di sconcertante modernità, che pare uscito direttamente dal quadro di un aeropittore futurista. Accanto alla sua estetica, si possono apprezzare soluzioni progettuali e costruttive che stupiscono per il contenuto innovativo e tecnologico: l’adozione di un motore da 220 cavalli, i montanti diagonali
per il collegamento dei piani alari, la quasi totale assenza di cavi esterni di controventatura e la scelta di una sezione triangolare nella parte posteriore della fusoliera per migliorare la visibilità verso il basso. Questi accorgimenti resero possibili all’aeroplano prestazioni di assoluto rilievo, fatto che all’epoca rappresentò un grande successo commerciale per la nostra industria aeronautica nazionale, anche in mercati stranieri, tanto che nel 1928, quando cessò la sua produzione, ne erano stati costruiti oltre 2.000 esemplari. Oggi sopravvivono pochi SVA, conservati nei principali musei italiani. Sono stati salvati dall’oblio che accomuna tanto del patrimonio della nostra aviazione storica solo grazie all’aura mitica delle memorabili imprese, sognate e volute da Gabriele d’Annunzio, nelle quali questi biplani furono impiegati. Ma nessuno di questi è in condizione di volo. Il nostro sogno è quello di costruire e far volare questa macchina meravigliosa.
Giorgio Bonato Alessandro Marangoni
Più si riesce a guardare indietro, più avanti si riuscirà a vedere.
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(Winston Churchill)
VELIVOLO SVA
SCHEDA TECNICA / TECHNICAL DETAILS Apertura Alare / Wingspan: Lunghezza / Length: Superficie alare / Wing area: Peso a vuoto/ Empty weight: Peso massimo/ Overall weight: Motore / Powerplant: Potenza / Power: Velocità massima / Maximum speed: Velocità di crociera / Cruising speed: Autonomia / Endurance:
9,18 mt. 8,13 mt. 26,90 mq. 690 kg. 990 kg. SPA 6A 200 hp 220 km/h 150 km/h 3-4
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...il carattere grazioso di quello SVA che meravigliò Vienna... di singolare bellezza come un oggetto dell’industria antica come una lanterna del Caparra, come un violino di Andrea Guarneri. Gabriele d’Annunzio
L’aeroplano ci ha svelato il vero volto della terra
(Antoine de Saint Exupery)
Per poter affrontare la costruzione abbiamo recuperato una consistente raccolta di progetti originali e, oltre a questi, abbiamo avuto modo di esaminare gli esemplari originali conservati a Trento, al Vittoriale e presso la sede Alenia di Torino (unico esemplare di SVA 9 biposto recuperato in USA e magistralmente restaurato dal GAVS di Torino, completo del motore originale e potenzialmente volante Da alcuni anni abbiamo intrapreso una ricerca storica molto attenta e tuttora in corso, che ci ha permesso di raccogliere e ordinare una mole imponente di referenze, materiali e informazioni e di poter risalire alle tavole originali del progetto sviluppato da Savoia e Verduzio negli anni 1917-1920.
Abbiamo ammirato, studiato e analizzato questi disegni su carte ingiallite, cercando di cogliervi l’incredibile cura, maestria e capacità, ma anche la dedizione e la formidabile manualità, di quegli uomini vissuti cent’anni fa. Qualità autentiche e rare che oggi riconosciamo come peculiari nel tanto celebrato Made in Italy. Finalmente ci accingiamo a realizzare questi sogni: ricorrendo agli stessi materiali, con le medesime tecniche costruttive e i processi di lavorazione manuale, ma soprattutto con la passione di allora costruiremo tre nuovi esemplari dello SVA 9, la versione biposto, con cui riporteremo in volo anche le emozioni e lo spirito della 87a Squadriglia Serenissima.
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Nei nostri laboratori si inizia a percepire il profumo di legno e colla, di olio e benzina; iniziano a nascere centine, longheroni, ordinate e parti della fusoliera. Molto presto, le forme sinuose e quasi femminili degli SVA torneranno in bella mostra.
Ci sono momenti nei quali l’arte raggiunge quasi la dignità del lavoro manuale. (Oscar Wilde)
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GIORGIO BONATO Nasce a Nove ( VI ) il 13 Giugno 1965. Sin da giovanissimo è attratto dal mondo del volo e già a dieci anni riesce a costruirsi i primi modelli volanti da volo libero. Tra i suoi miti giovanili troviamo John Kaufmann, Rudolf Wollmann, Bruno Ghibaudi, celebri autori di libri di costruzioni per ragazzi. Crescendo, Giorgio perfeziona le sue capacità tecniche e costruttive e apprende i principi del volo, praticando intensamente aeromodellismo a vari livelli: dal vincolato circolare ai veleggiatori da pendio, fino ai mezzi radiocomandati; sempre da autodidatta e seguendo la sua filosofia: costruire, collaudare e sperimentare in prima persona. La voglia di staccarsi da terra è sempre più forte e lo porta appena possibile ad iscriversi ad una scuola di volo.Nel 1988 ottiene la sua prima licenza di volo all’Aero Club Vicenza, nel 1991 consegue il brevetto di secondo grado e nel 1993 quello di pilota di aliante veleggiatore. Nel 2000, infine anche l’abilitazione al VDS elicottero. Dal 1985 è socio attivo del Club Aviazione Popolare e inizia a collaborare con le più importanti realtà del restauro e dell’autocostruzione di velivoli in Italia. Nel 2004 è tra soci fondatori dell’Historical Aircraft Group (HAG), associazione che si afferma rapidamente in Italia come il gruppo più importante di cultori, piloti e simpatizzanti di velivoli storici. L’attività professionale nell’azienda di famiglia “Fusina srl”, fondata dal padre e poi sviluppata grazie all’innata manualità di Giorgio e alle capacità artistiche e commerciali del fratello Luca, gli permette di confrontarsi e collaborare con importanti realtà imprenditoriali del panorama del design e del made in Italy, realizzando importanti lavori su commissione esposti in gallerie, musei e collezioni private internazionali, e di perfezionare costantemente le sue conoscenze e competenze tecniche. Nel 2003 intraprende il primo restauro, uno Stinson L 5 del 1942, che è completato con successo nel 2006. Ma qui inizia una nuova storia…
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ALESSANDRO MARANGONI Nasce a Rovereto ( TN ) il 23 ottobre del 1959. Giovanissimo si appassiona al mondo del volo e degli aeroplani. A dodici anni si avvicina al modellismo statico costruendo i vari warbirds della prima e seconda guerra mondiale, periodo storico di cui negli anni a seguire divorerà tutta la narrativa e la cinematografia reperibile. A quattordici anni inizia a frequentare il gruppo aeromodellisti della sua città e a cimentarsi con i primi modelli volanti. Dal volo vincolato passa rapidamente al volo radiocomandato. A quindici anni riceve in regalo un ciclomotore che smonta completamente dopo pochi giorni per comprenderne il funzionamento: in quel momento scoppia la passione per le moto, le auto e tutto ciò che è spinto da un motore. Una passione fortissima che lo porterà, dal 2004 al 2008, ad entrare in pista e a correre come pilota professionista nei vari autodromi europei, prima con la Mazda RX 8, poi con la Nissan 350Z. La passione del volo tuttavia non si interrompe e lo spinge ad avvicinarsi sempre più a quel mondo. Ottiene la licenza di volo sul campo di Bolzano nel 1993. Nel 2008 a Thiene consegue l’abilitazione acrobatica. Dopo le abilitazioni aeronautiche arrivano gli aeroplani. Nel 2004 acquista un Falco FL 8, nel 2009 uno YAK 52 e poi un Piper LH 4 che presto sarà portato ai vecchi splendori di quando, nel secondo conflitto mondiale, giunse in Italia con lo sbarco in Sicilia. Professionalmente opera nel settore immobiliare.
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Il 12 gennaio 1918 fu ufficialmente costituita la 87a Squadriglia Aeroplani da Caccia “La Serenissima”, sul campo di Ponte San Pietro, in provincia di Bergamo. Rischierata in seguito a San Pelagio, nei pressi di Padova, diventò la protagonista del celebre Volo su Vienna, portato a termine da sei biplani monoposto SVA 5 pilotati da Giordano Granzarolo, Gino Allegri, Antonio Locatelli, Pietro Massoni, Aldo Finzi, Giuseppe Sarti e Ludovico Censi e dallo SVA 9 condotto da Natale Palli, con Gabriele D’Annunzio a bordo. La Squadriglia fu sciolta e non più ricostituita il 15 agosto 1943. Ben 95 anni dopo, nel gennaio 2013, sull’aeroporto Gianni Caproni di Mattarello a Trento è stato idealmente sottoscritto l’atto di rifondazione dell’87a Squadriglia. Perché ispirare oggi un’associazione culturale a un reparto di volo storico? Certamente non per ideologia nostalgica, né per una banale esaltazione e celebrazione, piuttosto per comunicare e rappresentare degnamente la passione e le imprese di uomi-
ni che si misero in gioco, superando con i loro mezzi incredibili limiti impensabili. Uomini che furono protagonisti indiscussi della loro epoca, per la loro determinazione e lo spirito, in anticipo rispetto a quei tempi e forse ancora rispetto ai nostri. L’associazione 87a Squadriglia SVA, i cui soci fondatori sono: Stefano Azzolin, architetto, pilota VDS Giuliano Basso, architetto e graphic designer
Giorgio Bonato, artigiano, pilota, collezionista e restauratore in campo aeronautico Alessandro Marangoni, imprenditore, pilota, collezionista di velivoli storici Antonio Vidale, ingegnere elettrico, IT Manager, Web and Apps developer Stefano Micheli, dottore commercialista e pilota, si è data tre obiettivi ambiziosi
per il prossimo quinquennio: - sostenere il progetto S.V.A e curarne la divulgazione; - attivare il nascente ROMATOKYOHANGARMVSEVM in fase di ultimazione presso l’Aeroporto Arturo Ferrarin di Thiene, che sarà la base operativa di una collezione di velivoli storici e la sede permanente dell’associazione e delle sue attività; - Promuovere e pianificare i progetti “Volo su Vienna 2018” e gettare le basi per il “Raid Tokyo-Roma 2020”;
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Il riferimento iconografico da cui prende origine il logo 87° Squadriglia SVA è il fregio riprodotto sulle fusoliere dei velivoli che hanno compiuto il volo su Vienna. Interpretato con stile e linguaggio grafici attuali riprende l’espressione del Leone Marciano, e le fiamme del gonfalone veneto (che, in numero di tre, rappresentano anche la lettera “E” iniziale di Europa. La “S” costituisce un accenno allo
stile DECO tipico dell’epoca dannunziana e richiama il nastro su cui poggia il leone; nella voluta inferiore ingloba la coccarda tricolore a colori invertiti in uso in quel periodo. Le due frecce contrapposte che costituiscono la “V”e la “A” rappresentano simbolicamente, in forma di vettori, le rotte di andata e di ritorno del volo su vienna. I colori del logo evocano le armonie cromatiche del velivolo SVA in cui il porpora e il giallo oro sono integrati nel legno del fasciame
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Le forme sinuose del velivolo, lo stile tipografico di inizio secolo, gli elementi cromatici caratterizzanti (il legno, i colori nazionali italiani, il blu, il porpora, l’oro, gli elementi iconici legati al volo come il volantino tricolore, la deriva, l’nsegna della stella polare, aprono grandi possibilità di sviluppo in ambito grafico e comunicazionale.
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Il simbolo principale che caratterizza il logo è costituito dalla fusione delle due coccarde italiana e giapponese, a rappresentare il legame ideale tra i due Paesi creato dal viaggio di Arturo Ferrarin La forma della coccarda utilizzata in aeronatica rappresenta idealmente il disco dell’elica Nel nostro caso, le due sezioni circolari grigia e verde caratterizzate da due pesi ottici diversi rendono dinamico l’insieme rispetto al perno visivo costituito dal disco rosso comune alle due insegne La forma ottenuta dall’assemblaggio delle due sezioni di coccarda risulta sovrapponibile alla mappa storica che rappresenta ed illustra il percorso del raid di Ferrarin Possiamo, pertanto, affermare che il logo così ottenuto riesce anche ad evocare visivamente questo documento che costituisce quasi un’icona dell’impresa
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La scritta che identifica il Museo viene composta con carattere Proxima Nova Condensed tutto alto Si sceglie di disporre le quattro parole secondo la sintassi inglese, dato che ciò facilita la memorizzazione e la leggibilità del nome. Nel termine MUSEUM le due lettere “U” sono sostituite dalla versione latina classica della medesima lettera (“V”) Questo rende il mome decisamente più autorevole e, dal punto di vista grafico, alleggerisce le aree di contatto tra le “M” e le “U” che, altrimenti, avrebbero rischiato di creare una “macchia” nella tessitura dei caratteri La versione presentata in questa tavola è sviluppata su un’unica riga e la successione delle parole è scandita dal cambio di forza dei caratteri e dal colore degli stessi che varia tra i termini “ROMA TOKIO” grigi ed i termini “HANGAR MUSEUM” neri.
ROMATOKYOHANGARMVSEVM
ROMATOKYOHANGARMVSEVM
ROMATOKYOHANGARMVSEVM
ROMATOKYOHANGARMVSEVM
ROMATOKYOHANGARMVSEVM
ROMATOKYOHANGARMVSEVM
ROMATOKYOHANGARMVSEVM
La spaziatura tra le due coppie di parole è volutamente ridotta per suggerirne la lettura come termini composti. Una versione a spaziatura ridottain cui i caratteri sono legati l’uno all’altro, viene prevista per poter essere realizzata come oggetto fisico tridimensionale.
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Il nuovo RomaTokyoHangarMvsem (RTHM) presso l’aeroporto Arturo Ferrarin di Thiene (LIDH), sarà la base operativa della collezione di aeroplani storici di Giorgio Bonato, nonché la sede dell’87a. L’architettura dell’edificio è stata pensata per ospitare permanentemente i velivoli storici in condizione di volo, gli archivi, la biblioteca dell’associazione e per accogliere, in vari periodi dell’anno, attività di laboratorio, esposizioni, incontri e workshop pubblici e privati, legati al mondo del volo ma anche a temi collaterali. Una rampa che riproduce la segnaletiva di una pista di atterraggio accoglie i visitatori e gli accompagna verso l’interno. Nella pagine seguenti sono documentate le numerose occasioni in cui l’Hangar Museo è stato sede di incontri, convegni, corsi di formazione aeronautica, ed è stato visitato da amici ed ospiti.
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IL VOLO SU VIENNA Il raid su Vienna era stato progettato da Gabriele D’Annunzio da oltre un anno, ma fu possibile organizzarlo solamente nell’estate del 1918 con la disponibilità del nuovo velivolo da ricognizione ANSALDO SVA, che grazie alla sua notevole autonomia, consentiva l’effettuazione della missione con un buon margine di sicurezza per il rientro dei velivoli. Della missione, venne incaricata l’87° Squadriglia Aeroplani “La Serenissima”, basata a San Pelagio in provicia di Padova, che mise a disposizione per il raid undici velivoli SVA monoposto e un biposto appositamente modificato per poter ospitare D’Annunzio, che volle a tutti i costi partecipare all’impresa. I piloti selezionati erano i migliori del reparto: Antonio Locatelli,
Girolamo Allegri, Lodovico Censi, Aldo Finzi, Pietro Massoni, Giordano Bruno Granzarolo, Giuseppe Sarti, Francesco Ferrarin, Masprone e Contratti. Il velivolo biposto, il cui posto anteriore era occupato da Gabriele d’Annunzio, era invece affidato al Capitano Natale Palli. Dopo aver dovuto sospendere due tentativi il 2 e l’8 agosto a causa delle condizioni meteo non favorevoli, la mattina del 9 agosto, alle ore 05:50 gli undici velivoli decollarono dal campo di aviazione di San Pelagio. Purtroppo tre velivoli, i velivoli di Ferrarin, Masprone e Contratti, furono costretti all’abbandono per guasti tecnici, mentre lo SVA di Sarti fu costretto ad atterrare in emergenza per problemi al motore sull’aeroporto di Wiener Neustadt, dove però Sarti riusciva ad incendiare lo
S.V.A. prima di essere catturato. I velivoli rimanenti riuscirono però nell’impresa di raggiungere la capitale dell’ Impero Austro Ungarico, giungendo sulla verticale della città alle 9:20 di mattino e lanciando 50.000 copie di un manifestino sul quale era scritto “Viennesi! Imparate a conoscere gli Italiani. Noi voliamo su Vienna, potremmo lanciare bombe a tonnellate. Non vi lanciamo che un saluto a tre colori: i tre colori della libertà”. Dopo il lancio dei volantini la formazione rientrò al campo di San Pelagio indisturbata. Il raid di oltre 1000 Km, 800 dei quali volati sopra territorio nemico, ebbe grande risonanza sia in Italia che in Austria e viene annoverato come il raid più lungo di tutto il conflitto, entrando a buon diritto nella storia dei primati dell’Aviazione Italiana.
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IL RAID ROMA TOKYO Al termine della Grande Guerra, il poeta Gabriele D’Annunzio ideò una nuova impresa aviatoria, volare da Roma a Tokyo, compiendo un raid aereo per diffondere e celebrare il nome d’Italia in quelle terre lontane. Appoggiato dall’industria aeronautica, che riteneva il progetto un’ottima opportunità per promuovere le capacità e i mezzi dell’industria aeronautica italiana, D’Annunzio avviò i preparativi coinvolgendo l’87° Squadriglia. Per una serie di circostanze politiche e di opportunità, tale ipotesi sfumò e lo Stato Maggiore dell’Aeronautica decise di organizzare una vera e propria flottiglia per riuscire nell’impresa.
Venne allestita una flotta di ben quindici aerei, tra cui quattro velivoli plurimotori Caproni Ca.3 e undici biplani biposto Ansaldo SVA, quattro dei quali dislocati presso varie tappe strategiche come velivoli di riserva e altri due utilizzati come velivoli staffetta apripista. La squadriglia di plurimotori Caproni era formata da un triplano Caproni Ca. 4 e da due biplani Ca.33 ed un Ca.5. Si decise inoltre che i trimotori Caproni, essendo più lenti, fossero i primi a partire, tra l’8 gennaio ed il 2 febbraio. La pianificazione del volo originaria prevedeva che dopo aver attraversato tutta l’Asia, i cinque SVA arrivassero a Tokio possibilmente in formazione assieme a tutti bombardieri. Il governo italiano finanziò l’impresa, mettendo a disposizione la somma di 20 milioni (una cifra esorbitante per l’epoca) e allestendo campi di assistenza e rifornimento di carburante durante il percorso. Con una capacità massima di 330 litri di benzina, lo SVA disponeva di un’autonomia di 8 ore e un raggio d’azione di poco superiore a 1000 km. Vennero perciò pianificate tappe ben precise riassunte nel piano di volo di Arturo Ferrarin, che sarà il primo pilota a raggiungere Tokyo, le tratte erano: Centocelle-Gioia del Colle–Valo-
na-Salonicco-Adalia-Aleppo-Bagdad-Bassora-Bandar Abbas-Chah Bahar-Karachi-Delhi-Allahabad-Calcutta-Rangoon-Bangkok-Hanoi-Macao-Canton-Foochow-Shanghai-Tzingtao-Pechino-Seoul-Osaka-Tokyo. L’impresa si dimostrò ben presto molto complicata, con i Caproni messi quasi subito fuori causa da atterraggi su terreni non ottimali e con gli SVA decimati da avarie tecniche e imprevisti meteo. Solo due velivoli riuscirono a proseguire l’avventuroso viaggio e il 30 maggio 1920, il primo SVA pilotato con perizia abilità e fortuna da Arturo Ferrarin e dal motorista Capannini riuscì ad atterrare a Osaka, accolto da una folla immensa e dalle autorità locali. Poco ore dopo giunse anche l’altro SVA pilotato da Masiero decretando così il successo definitivo del raid. Il giorno seguente i due SVA decollarono alla volta di Tokyo e nonostante le cattive condizioni meteo giunsero alla destinazione finale, unici velivoli superstiti degli undici partiti dall’Italia. In realtà l’equipaggio di Masiero fu considerato non più ufficialmente in “gara”, avendo dovuto percorrere il tratto Canton-Shangai in nave prima di poter prendere uno degli SVA
di riserva, al contrario di Ferrarin, che nonostante avesse dovuto sostituire il suo aereo a Calcutta, era in ogni caso riuscito a percorrere tutte le tratte di volo previste. Benché soltanto due dei velivoli partiti da Roma fossero riusciti a raggiungere il Giappone, il successo del raid rappresentò un clamoroso trionfo per l’Aviazione e l’industria aeronautica italiana e un’impresa senza precedenti per quell’epoca, compiuta coprendo con fragili biplani 18.000 km alla media considerevole di 160 km/h in 112 ore di volo. Il raid fu ampiamente celebrato a Tokio e Arturo Ferrarin venne nominato eroe Giapponese ricevendo l’investitura di samurai, la più grande Onorificenza riservata ad uno straniero.
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15 febbraio 1920
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30 maggio 1920
Il progetto SVA, intrapreso
presso l’Alenia a Torino.
per la costruzione dei semilavorati
dai costruttori e piloti Giorgio Bonato
Accanto al recupero delle
e delle centinaia di parti
e Alessandro Marangoni, prevede
indispensabili fonti e referenze
che costituiranno i “nuovi SVA”.
la costruzione di tre esemplari volanti
tecniche, la ricerca si è allargata
della versione biposto SVA 9.
alla raccolta di documenti, cronache
I tre esemplari volanti saranno fatti
Non si tratta di velivoli restaurati,
e testimonianze sul velivolo,
con gli stessi materiali dello SVA
né di repliche in scala rivista,
fino ai contatti diretti con i discendenti
originale, rispettando,
ma di un lotto di tre velivoli
dei piloti protagonisti
e ove possibile migliorando,
realizzati ex-novo che differiranno
delle imprese dello SVA.
i procedimenti costruttivi del 1907.
dagli originali per il motore,
La costruzione avviata recentemente,
L’adozione di un motore a sei cilindri
gli equipaggiamenti
in accordo alla normativa
LOM, di produzione ceca,
e la strumentazione imposti
e con la supervisione tecnica del CAP,
con un’architettura e dimensioni
dalle normative attuali.
ha come primo step l’allestimento
non dissimili all’originale SPA 6A
L’obiettivo è poter disporre
di un mock-up della fusoliera
da 220 CV, permetterà di mantenere
permanentemente di due esemplari
in scala 1:1, non in materiale
la disposizione in linea degli scarichi
in condizione di volo
aeronautico, per valutare
e di non alterare le linee
e di un terzo di riserva.
la congruenza di tutte le scelte
caratteristiche dello SVA
Il progetto è nato da un’iniziativa
progettuali, condotte anche
privata, che già da alcuni anni
avvalendosi di programmi
Ogni particolare dei velivoli
è guidata da un’approfondita indagine
di modellazione 3D e Cad/Cam
sarà realizzato fedelmente,
storica e tecnica, grazie al recupero
e per verificare l’effettiva compatibilità
non trascurando la livrea,
e alla digitalizzazione dei progetti
di tutti i componenti, i sistemi
le colorazioni e l’araldica.
originali dello SVA, passando
e gli impianti. Assolta la sua funzione,
Torneranno a rivivere simboli
per l’esame e il rilievo fotografico
il mock-up potrà essere
come l’IBIS associato al motto
degli esemplari monoposto originali,
eventualmente completato come
“IBIS REDIBIS” che decorava
conservati al Museo Caproni
simulacro per esposizione statica.
le ali di tela, i marchi delle officine
di Trento e al Vittoriale e dell’unico
Parallelamente sono in fase
ANSALDO, le scritte commemorative
biposto, recuperato negli USA,
di approntamento finale
delle missioni compiute,
magistralmente restaurato
gli scali di montaggio le dime
le matricole, con un rispetto filologico
dal GAVS e ora custodito
e le attrezzature necessarie
assoluto per lo stile grafico,
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il tratto dei caratteri utilizzati
di comunicazione di massa.
sportive e culturali irrepetibili.
e le tecniche di decorazione
Da questo punto di vista D’Annunzio
Nell’agosto del 2018, anno
dell’epoca.
ha rappresentato un genio creativo
del centenario, è stata pianificata
assoluto e un guru ante litteram
la ripetizione del volo su Vienna.
Il secondo progetto di cui si occuperà
del marketing, promotore in primis
Non sarà una rievocazione nostalgica
la rinata 87a riguarda la ripetizione
del suo ruolo e delle sue imprese.
dell’evento, quanto piuttosto
delle due grandi imprese concepite da
D’Annunzio è stato un precursore
una missione condotta da piloti
Gabriele D’Annunzio: il volo
delle tendenze più estreme della
con combinazioni di volo storiche,
su Vienna e il raid Roma Tokyo,
comunicazione, in grado di fiutarle,
su esemplari di nuova costruzione
in occasione del loro centenario.
di esserne protagonista e di imporle.
dello SVA, lungo la rotta originale.
Il volo su Vienna del 1918,
Pur non potendo disporre dei canali
Questo volo su Vienna rappresenterà
con il lancio incruento di migliaia
e dei mezzi attuali, egli ha saputo
il culmine di un articolato programma
di volantini sulla capitale asburgica
celebrare la modernità, la velocità,
di iniziative e di eventi culturali
e solo due anni dopo il raid
la performance, il superamento
che graviteranno attorno al
Roma Tokyo di Ferrarin con oltre
dei limiti, l’ebbrezza del rischio
Centenario.
18.000 km volati hanno costituito
e della conquista, il gusto estetico
Lo farà grazie alle più recenti
imprese memorabili e crediamo,
del rapporto uomo-macchina, simboli
tecnologie che consentiranno
al di là della propaganda del tempo
certamente del suo tempo
di renderlo un evento mediatico,
e di ogni retorica patriottica,
e del suo contesto culturale,
condiviso sul web attraverso
due grandi eventi mediatici moderni.
ma anche temi attualissimi della
le minicam installate a bordo
Il tema del volo portato
nostra quotidianità, del nostro fare
e collegate in rete, dando la possibilità
nell’immaginario collettivo
e consumare entertainment.
di vivere in diretta l’intero volo
da una dimensione di passione
Il progetto di ripetizione dei voli
insieme con i piloti, con le riprese live
e interesse individuali
dovrà cogliere ed amplificare
del volo e anche tramite software
ad una universale e popolare.
questo potenziale e lo potrà fare
di realtà aumentata.
Il volo come azione politica
avvalendosi delle tecnologie più
Il volo darà luogo ad un ponte culturale
e dimostrativa per generare
moderne di fruizione live degli eventi
inedito tra Italia e Austria,
interesse e consenso.
che ci permetteranno di trasformare
con il coinvolgimento delle rispettive
Il volo come evento spettacolare
la riproposizione delle imprese
Istituzioni, delle Forze Armate
e come mezzo
in due performance tecniche,
per i sorvoli e gli airshow
in occasione della partenza
in Giappone che in Italia.
che sono avvenuti a scala globale
e dell’arrivo, delle compagnie
Lo scopo del volo di rientro
nei cento anni dal volo di Ferrarin.
di volo per l’allestimento di speciali
dello SVA di Ferrarin,
In ogni tappa del raid saranno ospitati
voli charter che ripercorreranno,
con partenza da Tokyo e destinazione
a bordo noti personaggi della Cultura,
nell’occasione, la stessa rotta
Roma, sarà proprio quello
della Comunicazione, della
e dei più alti ambiti culturali
di riportare la dovuta attenzione
Letteratura, della Politica, dello
per scambi, mostre e concerti
su questo grande pilota
Spettacolo, dello Sport dei rispettivi
di altissimo livello (le musiche
nato a Thiene (VI) e di gettare
paesi, per dare una lettura sfaccettata
di Strauss a Trento e le opere
un rinnovato collegamento culturale e
dell’evento affinché possa essere
di Verdi eseguite a Vienna).
commerciale tra Oriente e Italia.
percepito in tutti i suoi aspetti.
Nel corso del 2020,
Questa impresa, con gli inevitabili
Anche in questo caso sarà possibile
sarà la volta di Tokyo
anacronismi e anomalie,
seguirne lo svolgimento e condividerne
Quasi cento anni fa, “il Moro”
sarà in grado di evocare
l’enorme quantità di informazioni
Arturo Ferrarin e il suo motorista
un interesse e emozioni molto forti
in tempo reale, attraverso il web
Capannini partiti da Centocelle nei
nell’uomo contemporaneo
e i social networks,
pressi di Roma, arrivarono fino a Tokyo
abituato a coprire oggi quelle distanze
le trasmissioni satellitari live.
dopo un raid aereo interminabile e
in poche ore chiuso
Una copertura mediatica molto
avventuroso.
in enormi aeroplani pressurizzati
attenta accompagnerà la lenta
Il raid fu ampiamente celebrato
a quote in cui la Terra appare
marcia di avvicinamento,
e Ferrarin fu nominato eroe
una distesa azzurrognola, indistinta,
a soddisfare il senso di curiosità
ricevendo l’investitura di samurai.
quindi sempre più incapace
ed attesa che troveranno
In seguito, per opportunità politica i
di cogliere la specificità del volo
il loro culmine nell’arrivo
protagonisti furono fatti rientrare quasi
e dei luoghi attraversati.
dei due aeroplani a Roma… Poi non resterà che
alla chetichella a bordo di un piroscafo.
È un’impresa che esplorerà
un’ultima tappa da Roma
le differenze e i contrasti tra le culture
alla pista in erba di Thiene.
Paradossalmente la figura
orientali e quelle del mediterraneo,
e l’impresa di Ferrarin oggi
cercando di mettere in luce
E finalmente Arturo Ferrarin
contano più estimatori
gli enormi cambiamenti
sarà tornato a casa!
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IL RAID ROMA TOKIO DEL 1920 Il germe del volo Roma-Tokio nasce nella mente del poeta Gabriele D’Annunzio attraverso la conoscenza, avvenuta nei tormentati anni della guerra mondiale, con lo scrittore giapponese Haru-Kichi-Shimoi, sincero ammiratore dell’Italia. L’impresa deve costituire auspicio di amicizia fra i due popoli e dimostrazione delle straordinarie possibilità del mezzo aereo, agli inizi del suo impetuoso sviluppo. Al termine del conflitto il progetto prende corpo con la definizione dei velivoli da impegnare e delle inedite esigenze logistiche connesse al lunghissimo e complesso volo. Viene dato corso al dislocamento nelle varie tappe, sovente in località remote carenti o addirittura prive di linee ferroviarie, telegrafo o addirittura strade degli essenziali accantonamenti di materiali. Risulta utile chiarire che tale non indifferente dispiego di mezzi trova la sua ragion d’essere non nell’interesse del Governo di dare lustro alla nazione con una grande impresa aviatoria, quanto nell’intento d’allontanare D’Annunzio dall’Italia nel timore (tutt’altro che privo di fondamento) della sua azione politica svolta negli agitati anni del dopoguerra che vedono il pendere delle
questioni relative a Fiume. Infatti D’Annunzio, in una lettera del 3 gennaio 1920 inviata al colonnello Berliri, principale organizzatore dell’impresa, dichiara di dover rinunciare al raid. Nonostante il cadere della ragione, si potrebbe dire, occulta dell’evento dato il suo stato d’avanzamento si decide per la sua prosecuzione. Ferrarin si inserisce quasi incidentalmente nell’impresa: convalescente a Parigi da un’operazione apprende da Piccio dell’audace progetto e decide di parteciparvi. Il colonnello Berliri gli formula richiesta che la partenza avvenga nell’arco di una settimana. Ferrarin accetta, chiedendo di poter volare in coppia con un altro apparecchio. La partenza subisce alcuni ritardi per il danneggiamento dello SVA previsto per il raid e la necessità di utilizzarne un altro in condizioni tutt’altro che ottimali. Un aereo... di fortuna Allora mio cugino Francesco Ferrarin mi suggerì di adoperare il vecchio suo apparecchio giacente al campo di Centocelle, col quale egli aveva tentato il passaggio delle Alpi nel volo che costò la vita al valoroso Capitano Natale Palli. Il Comandante Ferroni, che aveva in
consegna quell’apparecchio, ormai considerato inefficiente, mi sconsigliò di adoperarlo, ma, preso alle strette, decisi di rabberciarlo alla meglio e di servirmene, con l’autorizzazione di cambiarlo, occorrendo, lungo la rotta. Tappai i buchi delle ali, cambia i pneumatici, gli elastici del carrello ed il motore, il quale era uno SPA6-A residuato di guerra, che sviluppava 180 HP in luogo di 220, per essere stato ridotto di compressione. Questa sola modifica, che consisteva nel collocamento di uno spessore fra il basamento del carter e i cilindri, aveva il vantaggio di rendere il motore più sicuro nel suo funzionamento: ma, data la diminuita potenza, rendeva molto più difficili e rischiose le partenze sui campi limitati, specie sotto climi tropicali. Questo apparecchio portava 330 litri di benzina anzi che 440, e poteva sostenere solo otto, anzi che dieci ore e mezza di volo. […] L’apparecchio aveva già all’origine, il difetto di pendere fortemente a destra; ma mio cugino, con espediente ingegnoso, lo correggeva infilando la cloche durante il volo in un elastico ad anello, accomodato di fianco, sulla fusoliera, a sinistra del pilota. Non si poteva infatti correggere il difetto dando all’ala destra maggiore incidenza, data la struttura rigida della cellula dello SVA.
Lo SVA del volo Roma-Tokio Il 14 febbraio alle 11,00 l’avventura ha inizio: i due velivoli decollano dal campo romano di Centocelle con gli auspici dell’Ambasciatore giapponese che stappa le beneauguranti bottiglie di champagne e consegna un messaggio per il Giappone. La prima tappa è a Gioia del Colle dove Masiero è costretto ad atterrare per un’avaria al motore, la sosta risulta provvidenziale per Ferrarin che sostituisce elica e carburatore. Superato a bassa quota l’Adriatico i due velivoli fanno tappa a Valona, ove sono ancora presenti reparti italiani, ed il giorno successivo decollano alla volta di Salonicco. Nella località greca i piloti trovano i rottami dell’aereo di Abba e Garrone, incendiatosi in atterraggio. Alle 18,00 Ferrarin e Masiero riprendono il volo alla volta di Smirne in Turchia ove ricevono il saluto della nave Nino Bixio. Nella tappa incontrano i piloti Origgi e Negrini, anch’essi impegnati senza fortuna nel raid; partiti da Roma il due febbraio saranno fatti prigionieri a Konia nella Turchia continentale il successivo 25 ed avranno l’apparecchio distrutto. La successiva tappa di Adalia viene interrotta nei pressi di Aidin per un guasto ad uno dei cilindri dello
SVA di Masiero che atterra in una zona acquitrinosa; il velivolo viene riparato con l’aiuto di piloti dell’aviazione greca e può riprendere il volo. Sulla valle del fiume Meandro viene scorto un Caproni in avaria, è quello di Sala e Borello. L’avvistamento viene comunicato raggiunta Adalia all’ufficiale di tappa, che provvede alla ricerca dei piloti. Qui le pessime condizioni meteorologiche consigliano Ferrarin di ripartire senza attendere Masiero, impegnato nella riparazione del cilindro del motore. Nella successiva tratta da Adalia ad Aleppo Ferrarin incontra un vento fortissimo e quasi non riesce a governare lo SVA che non è stato liberato delle corde di bloccaggio dei timoni. Molto avverse sono anche le condizioni trovate ad Aleppo con il campo coperto di neve e l’impossibilità di ricoverare il velivolo in hangar. L’area mesopotamica è funestata da combattimenti tra ribelli arabi e truppe inglesi, che Ferrarin distintamente scorge volando a bassa quota, nonostante le raccomandazioni del Console italiano ad Aleppo di mantenere una quota oltre i 2000 metri per evitare il fuoco da terra. L’arrivo di Ferrarin sull’aeroporto di Bagdad interrompe una competizione calcistica in svolgimento sul
campo, data la giornata festiva. Ferrarin viene festeggiato essendo il primo pilota del raid a raggiungere la città ed apprende la sorte toccata al primo dei trimotori Caproni (pilotato da Scavini e Bonalumi) decollato da Centocelle e costretto dalle avverse condizioni meteorologiche all’atterraggio nel deserto siriaco. Dopo la consegna della posta affidatagli ad Aleppo, Ferrarin prosegue il giorno successivo lungo il corso del Tigri verso Bassora. Al freddo e alla neve sono subentrati caldo torrido e vegetazione lussureggiante. Accolto a Bassora con il consueto entusiasmo Ferrarin vorrebbe attendere l’attardato Masiero ma viene sconsigliato nel proposito dagli ufficiali inglesi per non incorrere nell’ormai prossima stagione delle piogge. Dopo tre giorni di vana attesa non gli rimane che decollare alla volta di Bandar Abbas in Persia (l’attuale Iran). Le pessime condizioni atmosferiche lo costringono, però, ad uno scalo intermedio a Buscir, il cui campo viene provvidenzialmente segnalato dal lancio di razzi. Il volo prosegue prudenzialmente sul mare per evitare la possibile offesa dei ribelli persiani. Raggiunto finalmente Bandar Abbas Ferrarin si propone di arrivare a Ka-
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raci nell’Impero Indiano effettuando uno scalo intermedio a Ciumbar (Chabahar) nel Belucistan. Decollato di buon mattino, per evitare l’estrema calura, dopo un’ora e mezza di volo deve invertire la rotta e fare ritorno alla base di partenza per il surriscaldamento dell’acqua del radiatore, giunta quasi all’ebollizione. Si pone riparo all’inconveniente rimuovendo la cappottatura del motore che viene assicurata all’assale del carrello. La enormi nubi di sabbia, fitta al pari della nebbia, cominciano a tormentare il pilota che deve spingersi sul mare per trovare condizioni più favorevoli e profittare del monsone, spirante in direzione favorevole. A Chabahar l’atterraggio avviene in un campo trincerato in quanto la regione si trova di fatto in stato di guerra, né è possibile ricoverare il velivolo in hangar dato che questi sono stati abbattuti dal vento, che addirittura impedisce la revisione del motore da parte di Cappannini. Gli inglesi si dimostrano come sempre molto cortesi e forniscono addirittura un salvacondotto di un capo ribelle in caso di atterraggio di fortuna. Il successivo volo verso Karaci dovrebbe seguire, su consiglio degli ufficiali inglesi, la linea telegrafica
che collega le due località, peraltro presidiata, ogni cinque chilometri, da reparti indiani avvertiti di fornire aiuto in caso di atterraggio forzato. Il monsone, che spinge colonne di sabbia sino a mille metri di quota, impone nuovamente di dirigersi verso il mare. Ma ad un tratto l’irregolare funzionamento del motore costringe all’atterraggio presso un agglomerato di capanne ove gli indigeni, dopo un primo ostile contatto, finiscono per ritenerli nulla di meno che… Bulgari! Riparato rapidamente il guasto Ferrarin e Cappannini, con l’aiuto dei locali, decollano in gran fretta. Atterraggio di fortuna in Belucistan Visto che l’apparecchio perdeva continuamente quota, decidemmo di scendere presso i primi abituri che avessimo scorti in quella deserta località. Non avendo possibilità di scegliere altro terreno, decidemmo, favoriti da forte vento, di atterrare a velocità molto ridotta sovra una duna. Ivi ci attendeva una inattesa tragedia mutatasi in una inattesa commedia. Mentre, pensando al da farsi, coprivamo il motore con la capote, perché la sabbia che ancor ci avvolgeva non lo danneggiasse ulteriormente, sentim-
mo avvicinarsi un cavallo scalpitante, montato senza sella da una virago color rame completamente nuda, salvo una leggiera e parziale copertura alla cintola: alta quasi due metri, di bel sembiante, di forme snelle e perfette, portava al naso un anello d’argento. Stando a cavallo ci chiamò a sé uno per parte, e, tenendoci per gli abiti, ci trascinò fin quasi al misero abi turo ove eravamo giunti; poscia senza profferir parola, ci rinchiuse nell’unica casa di muro e di fango ivi esistente. Intanto vedemmo una folla di indigeni raccogliersi e dirigersi verso l’apparecchio. Al primo apparire avevo mostrato alla virago il nostro salvacondotto, ma lo gettò lontano da sé, dopo averlo esaminato senza capirne il contenuto. Sentivamo dal chiuso molte voci di popolo: non siamo giunti a comprendere dal contegno di quella gente se ci fosse ostile o indifferente, ma eravamo piuttosto persuasi di essere caduti in cattive mani, per il fatto di essere stati rinchiusi e perché avvertiti della grande avversione che quei selvaggi, anche per pregiudizio religioso, avevano verso i bianchi. Quando Dio volle, fummo fatti sortire dalla tana e sedere sovra un ceppo; la tribù selvaggia, che parlava un idioma sconosciuto, si era seduta a terra a circolo, sempre presente la virago
apparsaci a cavallo, da noi ritenuta la regina del luogo, per le evidenti prove di omaggio che le venivano tributate. Gli uomini erano completamente nudi, ma molti portavano alla cintola una pistola Mauser: uno solo di essi, mezzo vestito, e che non so se avesse funzioni di ministro o di cattivo interprete, cominciò a chiederci se eravamo inglesi. Non mi riuscì fargli capire che eravamo Italiani. Egli aveva in mano un manuale, dove erano segnati i colori delle varie bandiere, e, con evidente soddisfazione, gli parve capire, confrontando le coccarde del velivolo col suo manuale, che noi fossimo Bulgari. Vista la buona accoglienza fattaci dall’interprete a questa fallace identificazione e dato che egli la commentava soggiungendo che i Bulgari erano buoni amici, compresi subito che quei selvaggi erano amici dei Tedeschi alleati in guerra dei Bulgari, sguinzagliati durante la guerra dai Tedeschi ai danni degli Inglesi. Tutti cominciarono a danzare e a gioire, e anch’io ho danzato con loro come... un Bulgaro, lieto di constatare che la avventura stava per avere un lieto fine. Approfittammo delle mutate situazioni per tornare all’apparecchio, e lo trovai ricoperto di sabbia: non saremmo più partiti da quel luogo se non avessimo avuta la precauzione di proteggere il motore con la sua capote.
Cercai allora un luogo sufficientemente adatto per trasportare l’apparecchio, per accomodarlo e spiccare il volo. Lo trovai poco discosto, e gli indigeni ci aiutarono al trasporto. A mia richiesta, questi tagliarono una gran- de palma che interrompeva lo spazio e ci saziammo dei suoi datteri, mentre Cappannini esaminando il motore constatò che si erano rotte le due molle di una valvola di aspirazione e provvide a sostituirle. Il caldo era immenso. Cappannini quasi sveniva: gli indigeni ci portarono dell’acqua puzzolente e sapemmo poscia a Caraci essere questa una specie d’acqua benedetta che aveva loro servito per la lavanda rituale dei piedi; ma bastò lo stesso a ristorarci e a confermare le buone disposizioni d’animo dei nostri ospiti, delle quali profittammo per far capire all’interprete che volevamo fare un piccolo giro all’intorno. Messo in moto il motore, tutti fuggirono. Profittammo di tale sbandamento e della gran sabbia sollevata per ricuperare le cose nostre che gli indigeni avevano levate dall’apparecchio: fra queste alcune monete d’oro che erano raccolte in un fazzoletto di seta. Saliti rapidamente a bordo, riprendemmo lietamente il volo verso Caraci, ove ci attendeva una bella sorpresa. Masiero, che avevo lasciato ad Adalia,
era giunto a Caraci proprio un quarto d’ora prima di me, coincidenza che parve prodigiosa e che fu cagione ad entrambi della più grande contentezza. Con un volo magnifico di 1150 Km. egli era giunto da Bender-Abbas a Caraci. L’arrivo a Karachi è allietato dal ricongiungimento con Masiero che con un balzo di ben 1150 si è portato da Bandar Abbas a Karachi. Ancora una volta le autorità inglesi sopperiscono alle esigenze dei piloti, dotandoli di dettagliate carte geografiche della regione ed indicando, nel contempo, aree fortificate di cui è proibito il sorvolo. Nel percorso da Karachi a Delhi avviene superando il deserto di Thar ove vengono trovate le consuete condizioni di aria torrida e agitata. A 200 km. dalla meta nuova panne per l’aereo di Ferrarin che atterra in un campo nei pressi di una stazione ferroviaria, ove fatta richiesta della distanza dalla città equivoca tra chilometri e miglia e ritiene, erroneamente, di poter raggiungere Delhi prima del calar delle tenebre. Si trova invece a dover pilotare nell’oscurità, complicata dall’assenza di una sia pur rudimentale strumentazione per il volo notturno.
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Con una debole luce lunare Ferrarin segue una linea ferroviaria a scartamento ridotto, quando speranza e carburante sono quasi giunti a consumazione ecco apparire le luci di Delhi. Nell’impossibilità di individuare il campo l’atterraggio avviene su una modesta striscia di terreno coltivato, distante dall’aeroporto un chilometro. I solchi del terreno provocano il distacco dell’assale del carrello; il giorno successivo ci si prodiga alle necessarie riparazioni, che riportano in breve l’aereo in condizioni di volo. Dopo un breve riposo, speso nella visita a luoghi e monumenti della grande città, all’epoca seconda capitale dell’Impero Indiano, il raid riprende verso Allahabad. Salutato alla partenza dalla colonia italiana Ferrarin raggiunge regolarmente la meta e indi prosegue per Calcutta, all’epoca capitale imperiale. L’ippodromo destinato all’atterraggio risulta però occupato da una mandria di vacche. Per sgombrare il campo Ferrarin non esita a portarsi a minima quota con il motore a pieni giri. Neppure suppone d’aver compiuto un sacrilegio essendo tali animali sacri e pertanto inviolabili. Lo SVA è il primo velivolo ad atterrare nella capitale indiana, ma anche
qui la disorganizzazione è tale che pilota e motorista si trovano soli con una temperatura che oscilla tra i 40 e i 50 gradi a dover garantire l’incolumità dell’apparecchio, mentre una folla di curiosi cresce rapidamente, e non c’è traccia dell’ambasciatore e dei soldati italiani, che pur sono al corrente dell’arrivo. A Calcutta, per espresso ordine, la sosta si protrae per ben 27 giorni nell’attesa della pattuglia al comando di Gordesco e composta da Ranza, Marzari, Mecozzi, Grassa, Re, Bilisco. La locale colonia giapponese imbandisce banchetti celebrativi e si succedono voli di propaganda. Il 31 marzo vista vana l’attesa Ferrarin decide la partenza alla volta di Akyab, in Birmania. Il volo lungo le coste del Golfo del Bengala e le foci del Gange, popolate da bestie feroci e serpenti, risulta facile ma oppresso dal terribile calore tropicale. Da Akyab, sempre auspici e cordiali le autorità inglesi, la trasvolata prosegue verso Rangoon in Birmania. Vengono superate foreste e montagne inviolate ed ecco, tra la foschia, la cupola dorata della capitale birmana. Nonostante i motori siano, come in precedenza, privati della capote la rottura della pompa dell’acqua provoca l’ebollizione del liquido refrigerante. Per buona
sorte il guasto avviene nelle immediate vicinanze dell’area destinata all’atterraggio e quindi Ferrarin può atterrare regolarmente a motore spento. Le riparazioni richiedono diversi giorni, privo di hangar l’aereo è esposto a condizioni climatiche estreme: calore tropicale di giorno e umidità notturna, numerose quindi le avarie alla cellula, rigonfiamenti e svergolamenti del legno, ossidazione delle parti metalliche. Stessa sorte subiscono i materiali accantonati nelle località di tappa. Il prolungarsi del tempo occorrente per le riparazioni consiglia Masiero,come Ferrarin ad Adalia, a precederlo per non esporre inutilmente il velivolo agli agenti atmosferici. Infine l’aereo è pronto per affrontare il percorso più impegnativo: la tratta sino a Bangkok: seicento chilometri percorsi su giungle tropicali inestricabili, ove un atterraggio di fortuna equivarrebbe alla morte. Ma infine anche la capitale del Siam è raggiunta e Ferrarin può godere dei meritati onori resi dallo stesso sovrano e dalla piccola comunità italiana. Nelle pagine di Ferrarin traspare lo stupore per le costumanze di quei remoti paesi, ove un soldato – prima che l’Aviatore si corichi – suona un flauto per far uscire dalle coltri rettili, qualora vi fossero
annidati. E il viaggio riprende: la meta è ora l’Indocina prima tappa a Hubon, ove i rifornimenti sono giunti a dorso di elefante in quindici giorni di marcia attraverso la foresta. E’ un luogo remoto privo di servizio telegrafico ove ad attenderlo è un soldato, solo europeo presente nella regione. In volo sulla foresta tropicale Da Bangkok a Hubon la regione é piana, ma è talmente ricoperta e gonfia di vegetazione esuberante che il terreno, dall’alto, sembra quasi una superficie di muschio e di velluto: le stesse foreste dell’America non sono a queste paragonabili, né per la densità della vegetazione, né per l’assoluta solitudine dei luoghi. È peggio che volar sul mare. Il motore funzionò egregiamente, e arrivai a Hubon dopo sei ore di volo. Al nostro campo di tappa, unica radura creata artificialmente fra le selve, presiedeva non un ufficiale, ma un semplice soldato, unico europeo della regione, che si trovava per caso sul campo, giacché, mancando anche il servizio telegrafico, non poteva esser stato preavvisato del nostro passaggio. E trascorsi così un’altra notte in un carro ridotto a giaciglio e protetto da reti metalliche per impedire ai serpenti di nuocermi.
Il successivo volo verso Hanoi viene effettuato puntando sul prima sul Fiume Giallo e quindi procedendo sul mare, poi è la solita nebbia a costringere l’aereo a procedere in volo radente ma infine anche Hanoi è raggiunta e Ferrarin può dire conclusa la parte più difficile del raid. Nella capitale dell’Indocina si ricongiunge con Masiero, giunto il giorno precedente,ed ha il dispiacere d’apprendere il mortale incidente occorso in atterraggio a Bushir a Gordesco e Grassa. Il governatore francese offre signorile accoglienza sconsigliando l’immediata ripresa del raid, stante l’inclemenza della stagione delle piogge. Ma i piloti italiani decidono altrimenti, alle 9 del mattino del 21 aprile decollano alla volta di Canton; un diluvio d’acqua in crescendo e la nebbia divide i due apparecchi, avvicinandosi la notte Ferrarin comprende che non potrà raggiungere la metropoli cinese e si decide a scendere presso un’isola. Atterrato sopraggiungono di corsa degli uomini,rammentando come il governatore francese li abbia ammoniti circa la presenza di pirati e temendo che tali essi siano, ridecolla in tutta fretta atterrando su una spiaggia non lontano da Macao.
Altrettanto movimentato l’arrivo a Canton, il campo ridotto alla stato di una risaia, Masiero, che vi è atterrato il giorno precedente, lo ha trovato in condizioni ancora accettabili ma ora non rimane che scegliere uno spazio d’emergenza, costituito da una piazza ove il pilota porta all’atterraggio lo SVA in una piazza tra lo scompiglio generale. Movimentato arrivo e partenza da Canton Sotto un vero diluvio, arriviamo tuttavia a Canton. Ben sapevo che il nostro campo di tappa si trovava presso una grande pagoda, verso la quale mi diressi: ma per la pioggia quel preteso campo di volo era ridotto un vero lago, che male si distingueva dalle circostanti risaie, tanto che avrei voluto andare alla ricerca di località più adatte. All’improvviso Cappannini mi avverte che siamo già senza benzina. Egli mette mano alla riserva. Ho pochi minuti utili per atterrare. Passo vicino all’« Hótel Asia», molti mi salutano da una terrazza e comprendo che fra essi è Masiero, ma nessuno mi indica con gesti un punto d’atterraggio. In condizione tanto disperata, e sempre fra la pioggia, risolvo per necessità di atterrare in una piccola piazza che vedo
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dall’alto, benché mi apparisca cinta di case da tre lati, ostruita da navi alberate nel quarto lato e occupata qua e là da Cinesi con l’ombrello aperto. Deciso di giuocar tutto per tutto, e lo scasso dell’apparecchio e la vita di qualche Cinese e la mia, atterrai invece fermandomi incolume sulle aiuole di un giardino e senza alcun danno all’apparecchio; fracassai l’ombrello a un Cinese, che, di rimbalzo e per lo spavento, cadde con le gambe all’aria. Masiero, che tutto aveva veduto dall’alto, scese ad abbracciarmi. Il personale di tappa non aveva potuto farmi i segnali d’uso, perché sul campo non era più possibile atterrare, mentre Masiero, giunto il giorno precedente, aveva trovato il campo meno allagato. Con grande alacrità i Cinesi protessero l’apparecchio costruendo all’intorno una specie d’hangar di bambù e di stuoie. La popolazione, composta di due milioni di abitanti, dei quali un quinto vive sull’acqua sovra imbarcazioni dette sampang, assai s’interessò di noi e delle nostre avventure. Il Governatore ci offerse un gran pranzo, durante il quale ricordò che, come il primo europeo giunto per terra a Canton era stato Marco Polo, italiano e veneto, così noi, italiani e veneti, eravamo i primi che giungevamo per
le vie del cielo. Questa evocazione, che ci procurò legittima soddisfazione e che sentimmo poscia assai spesso ripetere, ci fu per la prima volta diretta in cinese dal governatore di Canton, le cui parole venivano a noi tradotte dal console italiano. Eravamo assai preoccupati per la partenza: non avrei potuto partire con carico dalla piazza ove ero sceso, né Masiero dal campo, che, istituito com’era sopra una risaia allagata, non serviva più ad alcun scopo. Méssici alla ricerca di qualche località opportuna, non ci riuscimmo. Consigliai di trasportare i nostri due apparecchi, sovra chiatta, a cento chilometri dalla città, nel punto stesso della costa ove avevo atterrato la sera precedente il mio arrivo a Canton. Ma la proposta parve inattuabile. Dopo lunghe ricerche, Masiero propose per la partenza un piccolo piano sulla vetta di un colle, quantunque disturbato da alberi e da una casa: e la proposta fu accolta in mancanza di meglio. L’apparecchio di Masiero fu portato accanto al mio, nella piazza della città, che, con l’abbattimento di una casa e col livellamento del terreno, fu resa ampia quanto più fu possibile, in modo da permettere una partenza da soli, senza motoristi, senza pesi, con la benzina appena sufficiente a raggiun-
gere il colle scelto per la partenza.[…] Se l’atterraggio di Canton era stato il peggiore del percorso, non meno facile fu la partenza. Il campo era lungo appena 180 metri, ma pantanoso per le piogge e limitato da alberi e da una casetta. Prevedendo una partenza molto pericolosa, alleggeriamo l’apparecchio di metà della benzina, leviamo tutti i pesi inutili, e ci proponiamo di giungere solo fino a Foochow, ove sapevamo esistere un piccolo campo di soccorso, anzi che fino a Shangài. Partii per primo, perché avevo il motorista più leggero. Feci trattenere l’apparecchio per le ali dal nostro personale di tappa, mettendo il motore a pieno regime. A un segnale convenuto i soldati abbandonarono l’apparecchio, che cominciò a muoversi abbastanza bene, secondato dalla china del campo che durava per una ventina di metri. Ma, arrivando sulla zona pantanosa del terreno, si arrestava come fosse frenato, per riprendere la velocità sul terreno battuto e solido. Procedevo così con alterna fortuna, a seconda della natura della zona sulla quale l’apparecchio passava. A tre quarti del percorso mi vidi perduto, perché, fra l’altro, il campo era limitato da un fosso assai profondo nel quale sarei andato a finire se avessi spento il motore. Rischiando tutto per
tutto, preferii tenere il motore in pieno regime: e incontrata per vera fortuna una zolla di terreno asciutto, riuscii a librarmi, con una brusca impennata, rasentando miracolosamente la casa e gli alberi. Superato questo ostacolo con un salto vero e proprio, sarei andato a fracassare l’apparecchio, ma poiché dietro gli ostacoli terminava il colle, raggiunsi il vuoto, al disopra della città, e potei iniziare liberamente il mio volo. Presa quota lentamente su Canton, ritornai, come era convenuto, sovra il colle, al punto di partenza, e vidi Masiero, che con gesti mi faceva cenno di andarmene. Partii allora definitivamente, assai impressionato, e credo che anche gli astanti abbiano compreso il rischio di quell’avventura. Il governatore di Canton formula richiesta a Ferrarin di volare, ove sia possibile, sopra i centri abitati al fine di permettere alla popolazione la vista dell’aereo, mezzo sconosciuto in quelle regioni. Anche la tratta verso Foochow è funestata da pioggia e nebbia e, in un primo tempo, Ferrarin quasi decide di prendere terra su una spiaggia, ma poi intraviste le luci della città si porta all’atterraggio sul terreno predisposto. Fra la folla accorsa vi sono anche italiani, uno dei quali sviene
alla vista del connazionale! Ancora ricevimenti, decorazioni, doni, discorsi ufficiali in cui viene reso il parallelo con Marco Polo, ancora pioggia che quasi rischia di sommergere il velivolo, spetta ai solerti soldati cinesi provvedere a mantenere il velivolo sollevato dalle acque. Arriva il momento di partire, Ferrarin si libera di ogni carico superfluo e compie l’ennesimo fortunoso decollo. La meta è Shangai e il tempo, finalmente, volge al bello. Oramai ad ogni arrivo si aduna una folla entusiasta. Shangai Appena atterrato, la folla irrompe verso di me ed ho appena il tempo di fermare il motore per evitare che l’elica possa procurar disgrazie. Corre ad abbracciarmi un italiano, certo Toledano, il quale, benché piccolo di statura, giunge a me primo fra tutti; e con tale slancio di corpo e di anima che mi sviene anch’esso fra le braccia. Dopo che tutti, specie gli Italiani, si sono sfogati a baciare le ali, ad apporvi firme e a gridare evviva all’Italia, seguono, quasi per reazione, momenti di religioso silenzio, durante i quali una intensa commozione pervade la piazza; anch’io non posso resistere al fascino e al bisogno delle lacrime.
La sosta a Shangai si prolunga per una settimana, è l’occasione per far conoscere l’Italia anche in quelle remote regioni. Ferrarin è assediato dai cacciatori d’autografi e riparte con la carlinga colma di fiori. Il competente ufficio della metropoli cinese non ha, però, avuto cura d’avvertire il pilota dell’avvicinarsi di un tifone, il vento contrario sconquassa il povero velivolo e gli fa ritardare di due ore l’arrivo a Tsing Tao ove è accolto dalle salve di due corazzate giapponesi; i nipponici hanno infatti occupato il territorio in precedenza dei tedeschi (Si tenga presente che il Giappone fu, nel corso della I guerra mondiale alleato di Francia, Inghilterra e Italia). Ugualmente giapponesi sono i funzionari che accolgono Ferrarin e gli comunicano che il Mikado gli ha conferito la spada d’oro di Samurai, la più alta onorificenza di quella nazione e che lo SVA sarà conservato presso il museo di Tokio ospitante i trofei di guerra. Dopo nove giorni di festeggiamenti, i giapponesi hanno letteralmente costretto Ferrarin a parteciparvi arrivando a minacciare di non rifornire l’aereo di carburante, si può ripartire alla volta di Pechino. All’apparire dell’aereo sul cielo di Tien Tsin, sede
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delle concessioni internazionali, viene fatto segno al saluto dei connazionali, a Pechino l’hangar è coperto di decorazioni floreali e accolto dalla colonia italiana, dai diplomatici stranieri e dalle massime autorità del governo cinese. I sette giorni di permanenza nella capitale sinica sono spesi ai palazzi e monumenti di quella civiltà millenaria. Per le ultime tappe del viaggio diamo la parola a Ferrarin fornendo integrale trascrizione del nono capitolo del suo libro “Voli per il mondo”. FINALMENTE A TOKIO! La partenza fu solenne quanto l’arrivo. A Pekino, come a Shangài, mi riempirono la carlinga di rose, rose dal profumo intenso. Anche in questo tratto di volo fui colto da fortissimo mal di mare. Dopo di allora, non avendone più sofferto, ritengo ne fosse causa il disordine dietetico cagionato dai pranzi esotici e dall’aroma intenso delle rose. A meno che... non si debba credere alla divulgata convinzione che i fiori portino sfortuna agli aviatori in volo. Da Pekino avrei voluto volare direttamente a Shingishu in Korea, ma, per ordine del marchese Durazzo, dovetti fare una breve sosta a Kowpangtze,
vicino a Mukden, dopo aver sorvolata la quasi favolosa muraglia della China, che si innalza formidabile su colline rocciose, serpeggia fra avvallamenti verdeggianti e corre diritta per lunghe pianure fino al mare. Chi costruì quella barriera non avrebbe certamente pensato che gli uomini avrebbero potuto un giorno superarla tanto facilmente. Genti di Manciuria a conoscenza del mio passaggio accorsero anche da lontano in carovana, e perfino si accamparono nei dintorni volendo vedermi. Da Pekino il comandante di tappa aveva mandato un nostro soldato a sorvegliare il piccolo campo provvisorio di fortuna ove dovevo atterrare, ma fu insufficiente a domare quella folla, che non aveva mai visto un aeroplano e che non mi lasciava neanche lo spazio occorrente a discendere, tanto che volevo quasi rinunciare a fermarmi in quel momento. Ma finalmente, roteando rumorosamente a volo e a bassa quota per spaventare la gente, potetti farmi lo spazio bastevole. Un cerimoniere vestito all’europea, venuto da Mukden per conferirmi una decorazione, cominciò un discorso vicino all’aeroplano tosto che fui disceso. Disturbato però dalla folla, che, rumorosa, si riconcentrava attorno a me
e all’apparecchio, dovette sospendere la cerimonia. Il nostro soldato, per rifare il largo e non bastando spinte e scudisciate, sparò in aria la rivoltella. Siccome egli stava all’estremità dell’ala inferiore, che è meno lunga della superiore, nella confusione sparava senza alzare la testa, e fece, senza avvedersene, tre buchi nell’ala, uno dei quali forò a parte a parte il longarone. Lo fermai prima che arrivasse a scaricare tutto il caricatore e producesse guai maggiori. Questa mia imprevista tappa a Kowpang-tze ritardò fin quasi a notte il mio arrivo in Korea, il defunto impero diventato colonia giapponese. E il ritardo si fece ancor più lungo, perché volli divergere verso Porto Arturo, la località il cui nome ci è particolarmente noto pei ricordi della guerra russo-giapponese. A Shingishu, come mi narrò all’arrivo l’ufficiale di tappa Paolucci, Coreani e Giapponesi, aspettando invano da ore e ore il mio arrivo, con la pazienza e con l’ordine propri a quelle popolazioni, finirono con l’abbandonare il campo, credendo che in quella sera più non giungessi : ma vi si rovesciarono a frotte quando il rombo del motore annunciò l’arrivo. Fui portato di peso al palco; dopo vari discorsi in giapponese, un dignitario puntò sul mio petto e su quello di Cap-
pannini una medaglia d’oro commemorativa del volo. Bandiere italiane e giapponesi rallegravano l’animatissimo ricevimento, e devo al bravo Paolucci se ho trovato modo di ristorare alquanto la mia estrema stanchezza prima di riprendere i festeggiamenti notturni, che ebbero principio con un lussuoso pranzo alla giapponese, di trecento presenze. La nota caratteristica di quella bella serata consistette nell’apparizione di un vero stuolo variopinto di leggiadre geishe venute a intrecciare graziosissime danze attorno a me. Il mattino seguente mi fu impedito di partire per dar modo al capitano Riva di approntare un atterraggio a Seoul, la capitale della Korea, ove avrei dovuto soltanto sorvolare. Ma il marchese Durazzo mi comandò di atterrarvi, per soddisfare anche al desiderio di quella capitale. Ho quindi goduto a Shingishu, in attesa di ordini da Seoul, quel po’ di riposo che mi era concesso dalle, riprese e non interrotte onoranze, fra le quali ricordo particolarmente quelle tributatemi dai bimbi delle scuole che gridavano « banzai Italia ». Al mattino successivo posso finalmente partire, verso le dieci, alla volta di Seoul, fra gli evviva delle autorità e del popolo, mentre lo stuolo di geishe compare ancora improvviso a, danzare
intorno all’apparecchio e a cospargerlo di fiori. Fra Shingishu e Seoul viaggio facile e noioso, sovra paesi aridi e montagnosi. Atterraggio pessimo e pericoloso, perché il capitano Riva, non avendo trovato di meglio, dovette scegliere per farci atterrare un letto asciutto di un torrente, mentre avrebbe dovuto sconsigliare affatto quella fermata, per non esporci al rischio dì scassare gli apparecchi alla vigilia della vittoria. Masiero, che avevo, lasciato a Shangài, mi ricomparve nel cielo di Seoul e scese anch’esso con me alla tappa non preventivata. Un soldato indicava con bandieruole il punto preciso ove era appena possibile mettere le ruote per tentare l’atterraggio, che, per vero miracolo, non si risolvette in un disastro. Ma si capisce che Riva ha dovuto un po’ cedere ai desideri della capitale coreana, ove ci fermammo tre giorni, festeggiatissimi e godendo particolarmente la compagnia di Riva, che per aver dimorato in Cina prima della guerra, parlava anche il cinese e poté quindi narrarci interessanti dettagli sulla vita d’Oriente. Ricordo una originale danza coreana, ballata con molta abilità da donne vestite di bianco camice, accompagnate da uomini seduti all’intorno, che cantavano al suono di pifferi e di tamburi.
Per la qualità del terreno anche la partenza non era facile, e dovemmo studiare a lungo il migliore modo di effettuarla; riuscì emozionante. Dopo un breve viaggio, sempre attraverso regioni montagnose ed aride, arriviamo a Taikyu, ultima tappa del continente asiatico. Ci attendeva il tenente Esposito, che, in mancanza di hotels all’europea, ci mise a dormire in un albergo giapponese. Il Giappone si vanta di essere all’avanguardia della lotta contro l’analfabetismo e forse per questo motivo trovavo ovunque gentili accoglienze da parte della popolazione scolastica, composta di giovanetti, molto ben vestiti e bene educati. Da una pagoda ho assistito a una lunga sfilata di bimbi, che agitavano bandieruole dai colori italiani e giapponesi, e ricordo che durante questa cerimonia una bimba recitò a memoria una poesia in italiano. Nella sala dell’albergo ove ero alloggiato ho dovuto ascoltare parecchi discorsi, e non mi sfugge dal ricordo quello di un coreano che scandeva il suo dire battendo il tempo col dito pollice del piede, mentre snodava il rotolo sul quale era scritta l’orazione leggendola da destra a sinistra. E si scorgeva il ritmo del dito pollice perché nelle case si entra in quei paesi a piedi nudi, fatta eccezione per gli stranieri ai qua-
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li è concesso calzare le pantofole. Partimmo per il Giappone, che è separato dalla Korea solo dallo stretto di Tsushima; era facile superarlo facendo capo, occorrendo, all’isola omonima (celebre negli annali della guerra russo-giapponese) che sorge quasi a metà del canale. Ma i Giapponesi, per ragioni militari, delle quali sono inesorabili osservanti, ci impedirono di volare sia sulla piazzaforte militare coreana di Fusan, sia sull’isola di Tsushima, avvertendoci senza tanti complimenti che i soldati ci avrebbero tirato contro se avessimo violato tale prescrizione. Furono inutili le nostre proteste. Le autorità giapponesi ci prescrissero con ogni dettaglio la rotta, tracciandola più a Nord, su carte appositamente a noi consegnate. Questi ordini ci costringevano a battere una via più lunga di 250 chilometri sul mare aperto, e ciò mi preoccupava perché si trattava di ordine improvviso e imprevisto. Se lo avessi supposto prima di partire da Pekino, avrei, per lo meno, fatta una revisione più accurata del motore, che era sempre valido, ma ormai stanco. A facilitarci il compito, i Giapponesi scagliarono lungo il percorso tre torpediniere, progressivamente numerate, e, ci indicarono i gradi di rotta che le torpediniere avrebbero seguiti. In quel momento non avrei pensato
che in seguito avrei potuto volare d’un fiato per oltre settemila chilometri, dei quali più di 5000 sul Mediterraneo e sull’Atlantico; ma in quelle particolari condizioni, allora, anche 250 chilometri potevano presentare qualche sorpresa. Tuttavia mi lanciai a volo confidando, come sempre, nella mia buona stella. Dopo 50 chilometri dalla costa, scorsi la prima torpediniera, e ne profittai per controllare sulla bussola la mia rotta; ma poi, a cagione delle nubi, persi di vista le altre torpediniere. Finalmente, a circa 30 chilometri dalla costa giapponese, le nubi diradarono e le condizioni di visibilità si fecero migliori, quasi per secondare la profonda emozione della mia anima, nel momento in cui stavo per raggiungere la costa giapponese, la mèta del mio sogno e della mia fatica. Man mano che andavo appressandomi al continente e che si delineava il dettaglio del paesaggio meraviglioso, mi sentivo quasi rapito dall’ebbrezza della vittoria e dalla bellezza; delle cose che intravedevo sotto al volo. L’incanto viene rotto da gravi nubi temporalesche che si affacciano sul percorso tracciatomi dalle autorità militari lungo la rotta dei continente e del mare, mentre il percorso proibito che segue le fortificazioni del mare interno è assai più breve e rischiarato
dal sereno. Non esitai quindi a scegliere quest’ultima via e a puntare verso Osaka, prima tappa sospirata, volando spensierato e noncurante lungo le coste fortificate del mare interno. Ivi si ha la sensazione che il Giappone sia un gran giardino, e l’occhio, stanco della aridità delle montagne coreane, si conforta e si affonda insaziabile nel verde sottostante. Una nera caligine, che non è più quella delle nubi, ma dell’industria, mi annuncia la apparizione di Osaka, la città laboriosa dagli innumerevoli camini fumanti, che rappresenta il nuovo Giappone, fiero di affermarsi nella civiltà moderna accanto ai segni che attestano la civiltà secolare dell’Impero del Sol Levante. Volando a bassa quota sopra la sterminata città, vedevo, stese al vento che soffiava e issate su lunghi pali, quelle che noi chiamiamo « maniche a vento » perché mostrano la direzione dello stesso. Credevo fossero indicazioni apposte per noi, ma invece seppi trattarsi di enormi pesci di seta, lunghi circa tre metri, che in maggio vengono inalberati sovra i tetti delle case nelle quali in quel mese sia nato un maschio. Ardiamo dal desiderio di raggiungere la mèta. Alla piazza d’armi, ove atterrammo
dopo qualche volo sulla città, era eretto un palco; la grande folla d’intorno era trattenuta da soldati. Era il primo campo di atterraggio buono e normale che trovavamo sul nostro cammino. Ad onta dell’entusiasmo, provvidero i Giapponesi a farmi una minuta perquisizione e a sequestrarmi la macchina fotografica e le negative, appunto perché, contro gli ordini, avevo volato sopra le fortezze del mare interno. Nulla mi trovarono, e mi chiesero ingenuamente se e che cosa avevo visto sovra le fortificazioni. Avendo risposto che nulla avevo notato, lasciarono finalmente si avvicinasse a me il gruppo di ufficiali italiani che prima mi era stato tenuto lontano per prudenza politica. Discorsi e doni: notevoli certe grandi corone di fiori esposte su treppiedi e che ci avrebbero ricordate quelle in uso da noi nell’attesa del funerale, se una bella artista non si fosse presentata ad offrircele indicando con bel garbo il nome e le qualità dei donatori. Ci attendeva un’automobile foggiata a guisa di aeroplano e adorna di fiori: con questa facemmo il giro della piazza per farci ammirare dal pubblico che gettava fiori e saluti, e sventolava bandiere italiane e gridava « Italia, banzai ». Ma quell’automobile trionfale pareva la vittoria àptera; le sue grandi ali erano state mozzate il giorno precedente
perché non urtassero contro le case e i pali della luce elettrica. Sotto la tenda ci fu subito offerta una colazione all’europea inaffiata da champagne italiano: al quale i Giapponesi non fecero mai torto quando, nei pranzi a rito europeo, occorse brindare alla nostra salute: e con cortese ostentazione ci versarono prima della mensa anche il vermouth di Torino. I discorsi lunghi e frequenti non sono nel Giappone perniciosi come da noi, giacché, per l’igiene di chi li fa e di chi li ascolta, si tengono solo avanti al pasto: la cui fine è invece rallegrata da graziose danze di geishe e da musiche. Passato il convito, facemmo il nostro ingresso a Osaka, assieme alle autorità, montati sovra l’automobile-velivolo; al quale però non era stata sufficiente la mozzatura delle ali perché alla prima svolta andò a sbattere violentemente contro un palo del telegrafo. Questo incidente ci costrinse a continuare il percorso sovra automobili comuni, fino alle redazioni dei grandi giornali « Asahi» e « Manischi» ove ci recammo doverosamente a render grazie della grande cordialità con la quale la nostra impresa era stata divulgata. Alla redazione di uno dei giornali ci fu offerto un pranzo: e un altro pranzo ci fu offerto a sera dalle autorità,
perché, stante la fugacità della nostra permanenza a Osaka, le dimostrazioni assumevano necessariamente carattere intensivo. A Osaka cominciammo a gustare il cortese tenore delle conversazioni giapponesi, sempre volte a celebrare con entusiasmo l’Italia e gli Italiani e a mettere in evidenza i punti di contatto fra i due paesi e i due popoli: lunghezza delle coste: abbondanza di fiori: Osaka simile a Venezia; e anche i capelli neri della popolazione. E la smania della somiglianza era giunta a tal punto che si esponevano ritratti di Masiero e miei con gli occhi accomodati alla giapponese! Il pubblico dopo il banchetto ci volle ripetutamente alla terrazza, per acclamarci. Al mattino seguente, malgrado il pessimo tempo segnalatoci lungo la rotta, partimmo finalmente per Tokio, ove, secondo il programma, eravamo attesi per mezzogiorno circa. Viaggio fra le nubi, tanto che perdemmo contatto fra di noi; né potei vedere, pur passandovi accanto, il famoso monte Fujiyama. Il Governo giapponese aveva mandato ad incontrarci due aviatori che, come abbiamo saputo all’arrivo, erano andati a sbattere per la gran nebbia contro la montagna sacra del Fujiyama: ma quel popolo non spostò per questo né
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di un attimo né di un tono le accoglienze preparate. Arrivo, purtroppo, a Tokio, fra nebbia. e pioggia, ma la luce risplende lo stesso nel cuore, perché la bandiera italiana ha finalmente raggiunta la mèta tracciata dal nostro massimo poeta. L’arrivo a Tokio è comunque un evento eccezionale, la giornata è stata dichiarata festiva. Una folla di duecentomila persone attende sin dalle sette del mattino l’arrivo dello SVA al cui apparire esplode un solo grido: “Banzai Italia!”. Ferrarin e Masiero vengono accolti con grandi onori e portati in parata lungo le vie della capitale nipponica su un’autovettura in fattezze di drago. E’ l’inizio di quarantadue giorni di festeggiamenti in cui i piloti italiani saranno ricevuti dall’imperatrice. Il ricevimento presso la Regia imperiale di Tokio Tre giorni impiegò un cerimoniere di corte per istruirci in ogni particolare relativo al solenne ricevimento; ne facemmo le prove sul luogo, recandoci nella sala del trono attraverso l’intrico di un vero e proprio labirinto. Piccola quella sala e decoratissima: e così misurato lo spazio che il cerimoniere, temendo che il nostro passo troppo
lungo non giungesse a procedere secondo il rito, ne segnò la traccia sul pavimento con matematica precisione. Quel paese grande e progredito, non solo a corte e nel tempio, ma anche nella vita cotidiana, mantiene con ammirevole fedeltà le antiche tradizioni. Il giorno precedente la seduta reale, fummo ricevuti dal principe imperiale Hiroito, attuale Mikado; così impresso egli serbava il ricordo di quel colloquio che, venuto tre anni fa a Roma, volle chiamarmi all’Ambasciata giapponese, ove mi ricevette presenti le Loro Maestà e S.E. Mussolini. Tanta è la potenza delle cose arcane e la suggestione delle cerimonie che, venuto il gran giorno, Masiero ed io tremavamo, come non abbiamo tremato nei più gravi cimenti del volo. Accompagnati alla reggia dai colonnelli e dall’interprete addetti al nostro servizio particolare, fummo ammessi alla presenza della sacra Maestà. Neanche il cerimoniere di Corte fu ammesso nella sala regia, ove entrammo soli, muovendo i passi e facendo gli inchini con dignità da grandi di Spagna di prima classe, e prostrandoci poi in ginocchio avanti la figlia del Cielo. In quelle dimore, tutte costruite in legno di sandalo immacolato, vergine di nodi, unito senza chiodi da connessure sapienti e invisibili, salivano nella
penombra gli aromati come da un incensiere. Sei generali, nella grande uniforme feudale antica, simili in tutto ai nostri sacerdoti quando vestono la dalmatica, stavano ai lati del trono, tre per parte, impugnando ciascuno la spada da Shamurai. Accanto alla Imperatrice, che parlava in giapponese, una dama d’onore, parlando in italiano, ci invitò ad alzarci ad un cenno di Sua Maestà. Quindi l’Imperatrice disse alla dama, che traduceva il discorso ad ogni periodo, che essa augurava al Regno d’Italia di salire in alto come i nostri velivoli; si compiaceva assai con noi che, primi al mondo, eravamo giunti al Giappone dell’Europa per vie celesti, ed ebbe parole di grande elogio per il nostro Paese e per i nostri Sovrani. Ripeté l’annuncio datomi a Tsing Tao che il mio apparecchio sarebbe conservato ed esposto nel museo delle armi. La dama, togliendoli dal tavolo di lacca, porse dei doni alla imperatrice, che volle personalmente consegnarli a noi. Accortasi poi l’Imperatrice che noi due parlavamo il francese, da Essa conosciuto, ci rivolse direttamente la parola in questa lingua, cosa che negli ambienti giapponesi parve quasi incredibile. E allora, tanto l’elemento umano prorompe ad ogni occasione, smessa la
pompa ieratica ed ufficiale del parlare, la imperatrice ci ricordò il suo grande dolore per la morte dei nostri compagni Gordesco e Grassa, che sapeva prodi nei voli di guerra e di pace. Ci chiese quindi se avremmo gradito che un ufficio funebre fosse stato celebrato, noi presenti, in un tempio giapponese, col rito del paese. Esponemmo la nostra profonda commozione per questo pensiero pietoso e squisito. Indi Sua maestà ci narrò che, dal giorno della nostra partenza da Roma, era stato ordinato ai bambini di tutte le scuole di età non superiore agli anni tredici, di interpretare e designare a modo loro l’evento del volo Roma-Tokio, con figurazioni reali o simboliche e allegorie. Di questi disegni, come l’Imperatrice narrava, venne raccolto il migliore per ogni classe, e ne furono composti due album, che ci furono consegnati perché li portassimo alla graziosa Regina nostra. Ci domandò infine se eravamo rimasti contenti delle accoglienze ricevute, e concluse augurando che ancor più propizio ci fosse il soggiorno nei dì venturi, perché potessimo portare agli Italiani l’impressione viva dell’amicizia e dell’ammirazione giapponese. Così terminò il ricevimento durato circa tre quarti d’ora. Usciti dalla Reggia e alzato il ponte levatoio, un altro spet-
tacolo ci attendeva. Ai piedi del Colle Sacro, al margine dei giardini incantati, due divisioni di soldati composero un rettangolo: invitati noi due nel mezzo, il Ministro della guerra ci consegnò per incarico del Mikado la gran spada Shamurai, il cui conferimento ci era stato annunciato fin da Tsing Tao. Sulla via del ritorno subentra il dispiacere per la scarsa o nulla comprensione del governo italiano per l’impresa compiuta, per l’indifferenza all’arrivo in piroscafo a Venezia, compensata, almeno, dall’abbraccio dei concittadini della nativa Thiene. E giunge anche il riconoscimento del Re che riceve Ferrarin al Quirinale e gli dedica parole di cortesia ed incoraggiamento.
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Le tappe del volo di Ferrarin (esclusi gli atterraggi occasionali intermedi) sono riportate nella seguente tabella, con le distanze tra una città e l’altra. ROMA-GIOIA DEL COLLE km 390; GIOIA DEL COLLE-VALONA (VLORE) km 220; VALONA-SALONICCO (SALONIKI) km 290; SALONICCO-SMIRNE (IZMIR) km 440; SMIRNE-ADALIA (ANTALYA) km 350; ADALIA-ALEPPO (HALEB) km 585; ALEPPO-BAGHDAD km 740; BAGHDAD-BASSORA (BASHRAH) km 460; BASSORA-BUSHIR-BANDAR ABBAS km 560; BANDAR ABBAS-CIAUBAR (CHAHBAHAR) km 490; CIAUBAR-KARACHI km 640; KÀRACH I-DELHI 1.100; DELHI-ALLAHABAD km 585; ALLAHABAD-CALCUTTA km 720; CALCUTTA-AKYAB (SITTWE) km 550; AKYAB-RANGOON km 510; RANGOON-BANGKOK (KRUNG THEP) km 560; BANGKOK-UBON km 485; UBON-HANOI km 650; HANOI-CANTON (KUANG CHOU) km 810; CANTON-FU CHOU (MIN HOU) km 700; FU CHOU-SHANGHAI km 610; SHANGHAI-TSINGTAO (CHING TAO) km 550; TSINGTAO-PECHINO (PEICHING) km 550; PECHINO-KOW PANGTZU km 490; KOW PANGTZU-SHINGISHU (SINUIJU) km 270; SHINGISHU-SEOUL km 360; SEOUL-TAIKJU (TAEGU) km 240; TAIKJU-OSAKA km 630; OSAKA-TOKYO km 410.
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