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Che cosa dice il packaging oggi? Un’analisi semiotica dell’imballaggio ...


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... e delle sue eccessive promesse

Mauro Ferraresi


Non vogliamo tentare qui un’analisi esaustiva delle tendenze, delle evoluzioni e delle direzioni verso cui procede il packaging. Anche perché, vista l’ampiezza e l’importanza del fenomeno, potremmo tranquillamente affermare che il packaging non va da nessuna parte in specifico o, per meglio dire, che esso va dappertutto. Una prova? Elenchiamo, in ordine cronologico, alcune tappe evolutive del confezionamento, ovvero di quello che potremmo definire, con complicato neologismo di cui non si avvertiva la mancanza, il processo di ornatizzazione della merce. Dal nudo prodotto all’ornato della confezione, ecco le principali tappe del percorso. La prima ragione per ornare il prodotto dotandolo di una ancora incerta forma di packaging è stata quella di conservare e proteggere il contenuto dagli agenti esterni, dalla polvere e dallo sporco. Ma non ci si deve fare troppe illusioni sul ruolo, come dire, igienico del packaging. Esso è un “di cui”, una conseguenza derivata soprattutto da un altro compito che il pack doveva assolutamente assolvere. Quelle prime carte che avvolgevano amorosamente il prodotto nascondendolo alla vista e trasformandolo così in un dono occultato e prezioso, rispondevano innanzi tutto a problemi di maneggevolezza e di trasporto. È questo l’aspetto che sopravvive ancor oggi nei nostri mercati rionali e di cui ha dato così ben rilievo Franco La Cecla, analizzando l’antropologia del confezionamento nei mercati di Palermo (1). Nei mercati, infatti, sopravvive ancora la primissima funzione del packaging, quella del trasporto. Oggi essa convive insieme a molte altre che, nel corso del tempo

si sono fatte sempre più presenti e schiaccianti. Quella igienica, in primo luogo, quella di protezione, quella di comunicazione e, infine, quella contemporanea che definiamo di “messa in discorso” (2). La funzione comunicativa del packaging è sorta quando si è avvertita la necessità di ribadire in qualche modo quello che il packaging stesso nascondeva, vale a dire il prodotto. Inizialmente tale processo avveniva semplicemente nominando il prodotto. Poi, le scritte si trasformano in categoria merceologica e il nome in marca. In seguito, si pensa di trovare maggiore aiuto comunicativo grazie a una serie d’informazioni soprattutto visive sul prodotto. Quest’ultimo doveva rimanere sempre nascosto, racchiuso dalla carta, dal cartone, o dalla plastica, ma poteva e doveva esibire una sua rappresentazione più o meno veridica, una foto, un disegno, un’illustrazione, in modo tale da costruire quello che in semiotica si definisce contratto di veridizione. Nel contratto di veridizione tra packaging e consumatore, è la figura del prodotto, per esempio la fotografia del riso in una confezione di riso o di spaghetti in una confezione di spaghetti, che testimonia che la confezione “dice la verità”: nasconde un prodotto che dopotutto contiene davvero. In questo non mente. E il consumatore deve sapere ciò ed essere rassicurato. Ma una tale definizione semiotica non coglie appieno il significato di questo gesto visivo, per molti aspetti inaugurante il packaging moderno. Non è solo per mostrare e dimostrare la verità del contenuto che sono comparse foto e illustrazioni di prodotto, singolo oppure contestualizzato nelle


occasioni di consumo. È anche e soprattutto perché la sintesi visiva, il piano cromatico che questa reca con sé, e il gioco delle figurativizzazioni che in una qualunque illustrazione producono specifici effetti di senso, rendono molto più attraente il packaging e costringono più frequentemente il consumatore che si aggira distratto lungo i corridoi del super o ipermercato a volgere l’attenzione verso quella o quell’altra confezione posta sugli scaffali. Questi fenomeni, che costringono l’attenzione del potenziale consumatore, che chiamano alla interlocuzione anche solo per pochi secondi, che spingono a voltare la testa e a fermare l’attenzione, sono definiti fenomeni attinenti alla indicalità del packaging. La capacità indicale di un packaging misura e spiega perché esso può attrarre l’attenzione. In seguito, con l’aggiunta della specifica degli ingredienti, delle informazioni nutrizionali, della corretta (e comunicata) gestione ecologica del packaging, e di tutti quei testi atti a intrattenere il più possibile l’attenzione del consumatore sulla confezione data, quest’ultima si trasforma in una vera e propria disposizione discorsiva. Siamo alla più recente funzione del packaging. Ed è in questa funzione che gli elementi visivi, foto, illustrazioni, disegni, diventano anche e soprattutto di intrattenimento. Non più solo rappresentazione del prodotto visto singolarmente o in situazione di consumo, ma evocazione visiva di determinate caratteristiche, come per esempio la visione di un alpeggio per illustrare un packaging di una marca di latte. Tale visione evoca più che denotare, e amplia il lavoro semiotico del packaging, che così contribuisce a indurre nel consumatore alcune

sensazioni specifiche e nuove, contigue al mondo del latte. Le promesse della pubblicità (e il packaging è un concreto e importantissimo veicolo pubblicitario) sono tutte qui: nell’accogliere il consumatore nel mondo possibile della marca che gli evoca questi stati d’animo e pensieri, e gli suggerisce che se acquista il prodotto li potrà vivere davvero. Da trasportatore, a igienizzatore, a protettore, a comunicatore, a istitutore di un contratto con il consumatore, infine a vero e proprio interlocutore posto sullo stesso piano semiotico del consumatore, il packaging è diventato adulto. E ora? Ora si tratta di vedere quali tipologie discorsive questo interlocutore mette in atto. Ormai dotato di profonde competenze semiotiche e in grado di metterle in atto per condurre un dialogo, diremmo così, adulto con il consumatore, oggi il packaging è diventato, nella sua essenza, eccessivo. Perché? La funzione della messa in discorso ha generato una funzione sociale che si colora di aspetti volta a volta artistici, passionali, mitici. Spieghiamo bene questo passaggio. Se il packaging è stato abilitato a dialogare, se gli sono stati dati cioè i mezzi semiotici per farlo, allora questa sua capacità di interlocuzione lo rende agente sociale a tutti gli effetti, un tale dialogo gli permette di essere interdefinito nel e dal tessuto sociale, perché a quel punto si può analizzare quel che dice e soprattutto come lo dice, e attraverso quali mezzi e modalità. In questo modo ciò che il packaging comunica può diventare, per esempio, oggetto di un fare artistico. È per tali ragioni che si crea una mitologia del packaging: il


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suo discorso è diventato smodato. Esso esonda dal suo alveo naturale per allagare altri luoghi sociali: l’arte, i comportamenti quotidiani, i nostri rapporti con gli oggetti e con le persone. È tale la produzione discorsiva del packaging, la sua insistenza e persistenza nel tessuto sociale e semiotico, che ora ci sentiamo tutti “impacchettati”, presi nelle confezioni meticciate di noi stessi, in cui le nostre caratteristiche fisiche e psichiche si mescolano con l’ornato di quella griffe, di quella data marca, di quel dato stile, di quel dato gruppo di appartenenza, a cui demandiamo parte del nostro “confezionamento”.

L’eccessività del packaging non sta nel singolo testo, ma nell’insieme del discorso ch’esso porta avanti. Non importa cioè se alcuni criteri sacrosantamente ecologici, o naturalistici, spingono alcuni tipi di packaging a essere minimalisti. Non importa se alcuni criteri artistici muovono pure in questa direzione, né se criteri di marketing vogliono un packaging ridotto sempre più ai minimi termini perché non c’è niente di più comunicativo del prodotto stesso, per cui forza e avanti con un packaging che tende a scomparire per mostrare più prodotto possibile. Non importa, infine, se le esigenze di spazio richieste da ricolmi scaffali dei


PASSANDO DA TRASPORTATORE, A PROTETTORE, A COMUNICATORE, INFINE A VERO E PROPRIO INTERLOCUTORE POSTO SULLO STESSO PIANO SEMIOTICO DEL CONSUMATORE, IL PACKAGING Eʼ DIVENTATO ADULTO.

FROM A MEANS OF TRANSPORT, TO PROTECTION, TO COMMUNICATION, FINALLY AS A GENUINE INTERLOCUTOR PLACED ON THE SAME SEMIOTIC LEVEL AS THE CONSUMER, PACKAGING HAS COME OF AGE.

nostri super e ipermercati, unitamente ai pochi spazi presenti nelle madie delle nostre cucine e in generale delle nostre case, spingono verso una miniaturizzazione del pack. Nel suo insieme questi aspetti di miniaturizzazione producono, paradossalmente una eccessività di packaging perché il suo discorso ormai si genera e si riproduce all’infinito... Certo, c’è un intero filone del packaging che è eccessivo in concreto, e non solo da un punto di vista semiotico (si pensi alle ingombranti confezioni di Corn Flakes che occupano uno spazio triplo rispetto al prodotto contenuto) oppure ai voluminosi sacchetti di




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patatine, di biscotti, o di pop corn. Da dove proviene questo filone dell’eccessività concreta? Da una serie di motivi. Innanzitutto, il grande formato è più protettivo e se il prodotto è fragile, come i biscotti, una sovradimensione lo protegge meglio da urti e sconquassamenti. Inoltre, un packaging grande copre eventuali carenze e povertà del prodotto e dona una dignità che altrimenti non potrebbe avere. L’appeal di una confezione di patatine è data dai colori, dal gonfiore pacioso della confezione che racchiude una certa quantità d’aria, dalle importanti dimensioni del sacchetto. Basta porre mente al senso di pochezza e di tristezza che forniscono le confezioni unbranded di patatatine, quelle ripiene di tanto prodotto ma dentro sacchetti trasparenti sprovvisti di alcuna comunicazione; si tratta di merce povera in una confezione povera e oltretutto esattamente dimensionata al contenuto. Il consumatore non accetta questo, per altro più che conveniente value for money, non gli sembra sufficiente, non lo gratifica abbastanza. Ecco perché le confezioni anonime o private label di patatatine non hanno scalfito la leadership delle, per portare un esempio, coloratissime confezioni PAI. Il terzo motivo può essere esemplificato dai vari fustini per lavatrice. Ragioni storiche, legate a una situazione di consumo nella quale avere tanto prodotto significava aver fatto un buon affare, hanno prodotto fustini sovrabbondanti. Oggi la tendenza si è parzialmente invertita, e tutto il settore della detergenza comunica il fatto che con poco si può lavare, ammorbidire, detergere, sgrassare, pulire, scrostare superfici sempre più

ampie. Ma le due tendenze, quella del poco per pulire tanto, e quella del tanto acquistato per poco, convivono. E così ritroviamo i vari Svelto, CIF, ma anche i vari Shampoo Johnson, nelle confezioni famiglia o forniti di un trenta per cento in più di prodotto gratis. E il packaging deve testimoniare tale aggiunta attraverso una sua percepibile sovradimensione. Ma la vera dimensione eccessiva del pack risiede, oltre che in questi casi concreti analizzati, nell’ordine del discorso smodato e pluridirezionale. Il packaging va dappertutto perché non è un testo, né una teoria di testi, ma piuttosto un vero e proprio discorso, con proprie configurazioni, temi, figure. E come ogni oggetto semioticamente evoluto, il packaging è inflazionato. Parla e fa parlare di sé, fagocitando altre configurazioni discorsive, in primo luogo quella artistica. In questo senso Antonio de Pascale, un artista che costruisce enormi pacakging con stravaganti, improbabili e contraddittorie illustrazioni, è riuscito a coniugare l’eccessività concreta con quella semiotica, unendo paradossalmente testimonianza e denuncia.

Mauro Ferraresi insegna Sociologia dei consumi allo IULM; di recente ha pubblicato Il packaging. Oggetto e comunicazione, Franco Angeli 1999 e Pubblicità e comunicazione, Carocci, 2002. 1 F. La Cecla, “Viaggio al mercato”, Impackt, 1/2002, p. 26. 2 M. Ferraresi, Il packaging. Oggetto e comunicazione, Franco Angeli, Milano 1999.

Photo by Erica Ghisalberti



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A word on Packaging What does packaging say today? A semiotic analysis of packaging and its excessive promises.

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Mauro Ferraresi

We do not wish here to attempt an exhaustive analysis of the trends, developments and directions towards which packaging is moving. This is also because, given the size and importance of the phenomenon, we could quite happily state that packaging is going nowhere in particular, or rather, that it is going everywhere. The proof? Let us list, in chronological order, some of the steps on the road of packaging, or the one which we could define, with a complicated neologism we did not even realise was missing, the process of the “embellishment” of goods. From naked product to the decoration of packaging, here are the main stages of our journey. The first reason for embellishing the product by giving it a still fairly shapeless form of packaging is to preserve and protect the contents from outside agents, from dust and dirt. But one should not have too many illusions about the, so to speak, hygienic role of packaging. It is an “of which”, a consequence deriving from the other task which it is absolutely necessary for the pack to perform. Those first pieces of paper which lovingly wrapped the product, hiding it from view and thus transforming it into a concealed and precious gift, in the first instance were a response to the problems of handling and transport. It is this function which still survives today in our neighbourhood markets and to which Franco La Cecla (1) has given such a high profile, analysing the anthropology of packaging in the markets of Palermo1. In fact it is in the markets that the very basic function of packaging survives, that of

transport. Today it lives side by side with many others which, over the course of the years, have become more and more dominant. Hygiene, in the first place, protection, communication and finally, modernity: these are the aspects we define as “under discussion” (2). The communicative function of packaging came about when it was realised that there was a need to assert in some way what the packaging itself was concealing, that is to say, the product. At first, this process took place simply by naming the product. Later, the inscriptions changed to indicate the type of goods and the brand. Later still, attempts were made to provide greater communicative help by including information, especially visual, about the product. The product itself had to remain hidden, enclosed within the paper, card or plastic, but its more or less accurate representation, a photograph, a drawing or an illustration could and had to be shown, so as to create what in semiotics is known as the “contract of truthfulness”. In the contract of truthfulness between the product and the consumer, is the face of the product, for example the photograph of rice on a packet of rice or of spaghetti on a packet of spaghetti, testifying that the packet is “telling the truth”: it conceals a product which, after all, it contains. In this it does not lie. And the consumer must know this and be reassured. But this semiotic definition does not fully cover the meaning of this visual signal, in many ways the harbinger of modern packaging. It is not only to show and demonstrate the true nature of the contents that photographs and illustrations present the product, alone or in the context of the occasions on which it is used. It is also, and above all, because the visual image, the colored representation of itself, and the play on the figurative aspects which in some illustrations produce specific effects on the senses, makes the packaging much more attractive and persuade the consumer more often, as he wanders distractedly


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level as the consumer, packaging has come of age. And now? Now we shall see what types of discourse this interlocutor uses. Already equipped with sound semiotic expertise and able to use it to hold a, shall we say, adult, dialogue with the consumer, today packaging has become, essentially, excessive. Why? The discourse function has generated a social function which from time to time takes on artistic, passionate or mythical aspects. Let us explain this clearly. If packaging has been given the ability to hold a dialogue, if it has been given the semiotic means to do so, then this interlocutory ability makes it to all intents and purposes a social agent, such a dialogue allows it to be interdefined in and of the social fabric, because at this point it is possible to analyse what it is saying, and especially how it is saying it, and by what means. In this way, what packaging is communicating could become, for example, something artistic. It is for these reasons that a mythology of packaging has been created: its discourse has become exaggerated. It has overflowed the bounds of its natural course and flooded into other social areas: art, everyday behaviour, our relationships with objects and with people. This is the discursive production of packaging, its insistence and persistence in the social and semiotic fabric, so that now we all feel “packaged”, absorbed into the crossbred packages of ourselves, in which our physical and psychological characteristics blend with the embellishment of the trade mark, of that particular brand, of that particular style, of that particular group, which we insist on being part of our “packaging”. The excessive nature of packaging lies not in the text alone, but in but in the discourse which it carries forward. It does not matter if some

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along the aisles of the supermarket or hypermarket, to turn his attention to this or that product placed on the shelves. These phenomena, which attract the attention of the potential customer, which demand an interlocution of just a few seconds, which turn the head and hold the attention, are definite phenomena relating to the drawing power of packaging. The pulling power of a pack is measured and explained by the extent to which it can attract attention. Later on, with the addition of specifications of ingredients, nutritional information, the correct (communicated) environmental management of the packaging, and all that text on the pack aimed at attracting as far as possible the attention of the consumer, packaging became transformed into a true setting out of discourse. We have arrived at the most recent function of packaging. And it is in this function that the visual elements, photographs, illustrations and drawings have also, and especially, become entertainment. They are no longer just a representation of the product, portrayed on its own or in a situation of consumption, but a visible evocation of specific features such as, for example, a view of the Alps embellishing the packaging of a particular brand of milk. This vision evokes more than it shows, and expands the semiotic task of the packaging, in this way helping to arouse in the consumer certain specific, new feelings connected with the world of milk. The promises of the advertising (and packaging is a concrete and very important vehicle for advertising) are all here: by welcoming the consumer into the potential world of the brand which evokes in him these states of mind and thought and suggests that if he buys the product he will really be able to live. From a means of transport, to hygiene, to protection, to communication, to being the instigator of a contract with the consumer, finally as a genuine interlocutor placed on the same semiotic


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Mauro Ferraresi teaches Sociology of Consumption at IULM; he has recently published Il packaging. Oggetto e comunicazione, Franco Angeli 1999 and Pubblicità e comunicazione, Carocci, 2002. 1 F. La Cecla, “Viaggio al mercato”, Impackt, 1/2002, p. 26. 2 M. Ferraresi, Il packaging. Oggetto e comunicazione, Franco Angeli, Milano 1999.

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sacrosanct ecological or nature-linked criteria drive some types of packaging to be minimalist. It does not matter if some artistic criteria move in this direction, or if marketing criteria demand packaging reduced to the absolute minimum because there is nothing to communicate about the product itself. Onwards and upwards, with packaging which is tending to become more and more invisible to show as much of the product as possible. Finally, it does not matter if the requirements for space demanded on the crowded shelves of our supermarkets and hypermarkets, together with the limited space available in our kitchen cupboards and our houses in general, are pushing towards packminiaturisation. In general, these aspects of miniaturisation, paradoxically, result in an excess of packaging, because its discourse is already generated and reproduced infinitely. Of course, there is a whole range of packaging which is excessive now, and not only from a semiotic point of view (think of the bulky packets of Corn Flakes which take up three times as much room as the product they contain) or the enormous packets of potato crisps, biscuits or popcorn. Where does this excess come from? It is here for several reasons. Fist and foremost, the large format protects the product better and if it is fragile, like biscuits, an oversize bag is a better protection against knocks and crushing. Moreover, a large pack conceals any possible deficiencies in the product and bestows upon it a dignity which otherwise it would not have. The appeal of the packaging of potato crisps comes from its color, the satisfying inflation of the bag which includes a certain amount of air and the important size of the bag. One only has to think of the sense of smallness and sadness given by the packaging of unbranded potato crisps, those which contain plenty of the product but come in transparent bags carrying no communication. This seems like

poor merchandise in poor packaging which is made exactly the right size for the contents. The consumer will not accept this, except as a value for money product, it does not seem substantial, it does not provide enough gratification. This is why the anonymous or private label potato crisps have not undermined the leading position of, for example, the very colorful PAI packs. The third reason can be demonstrated by the various boxes for detergent. Historical reasons, linked to a consumption situation in which getting a lot of product means having got a bargain, has produced oversized boxes. Today this trend has been partially turned around, and the whole detergent sector now tells us that with a little of the product we can wash, soften, clean, remove grease from, etc, etc, more and more washing. But the two trends, that of a little cleaning a lot, and that of a lot bought for a little, live together happily. It is the same with Svelto and CIF, but also the various Johnson’s Shampoos, in family packs or with “30% extra free”. And the packaging must bear witness to this additional product through noticeable oversizing. But the real excessive dimension of the pack, other than the concrete cases analysed, lies in the exaggerated and omni-directional order of discourse. Packaging can go everywhere, because it is not a text, nor is it a theory of texts, but rather a genuine discourse, with its own configurations, themes and figures. And like every semiotically developed subject, packaging is overworked. It speaks and makes itself spoken of, swallowing up other discursive configurations, most of all artistic ones. In this regard Antonio de Pascale, an artist who builds enormous packs with extravagant, improbable and contradictory illustrations, has managed to blend concrete excess with semiotic excess, paradoxically uniting witnessing and denouncement.


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VENDITORE DI PATATINE FRITTE A BAGDAD, PRIMAVERA 2002. CHIP SELLER AT BAGHDAD, SPRING 2002

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PHOTO BY PAOLA DI BELLO


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Antonio De Pascale: Take-away Un tetrabrik di latte “Feltrinelli”. Una scatola di sigarette “Dadi Knorr”. Un litro di profilattici “Hatù”. Una busta di biscotti “Creme Caramel Royal”. Un tubetto di farina tipo “00”. Non è la lista della spesa di una casalinga impazzita, ma le opere di un artista che ha fatto della merce la propria musa ispiratrice. Sonia Pedrazzini

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Andata e Ritorno In questa pagina e nelle precedenti: le opere di questa serie sono un “work in progress” cominciato nel 1995/96 e, al momento, raggruppa un centinaio di confezioni rielaborate in scala reale con tela trattata, fustellata e dipinta con acrilici. In this page and in the previous ones: the works of this series are work in progress begun in 1995/96 and at the moment group together a hundred or so packs reworked in full scale on coated canvas die-cut and painted with acrylics. Courtesy: Galleria Gian Carla Zanutti, Milano

Nella serie Andata e Ritorno, Antonio De Pascale dipinge su tela con colori acrilici i marchi e i logotipi di prodotti assai diffusi e popolari; lui è un artista, ma non è un pittore e non è neppure uno scultore sebbene utilizzi la tridimensionalità; le sue tele dipinte non sono quadri ma imballaggi. De Pascale è un creatore di packaging e i suoi involucri sono strani e paradossali: non contengono prodotti ma storie, quelle “narrazioni parassite che si annidano nell’impianto simbolico/persuasivo del prodotto”; non sono imballi realizzati con tecniche industriali ma artigianali (ogni immagine è dipinta a mano per opporre il tempo soggettivo alla velocità della produzione seriale); soprattutto non sono la semplice riproduzione di imballaggi esistenti. De Pascale ha fatto la spesa... Ha comprato tre birre confezionate in astuccio di cartone, una scatola di

formaggini “Tigre”, un litro di succo d’arancia, uno di latte, rotoloni “Scottex Casa”, biscotti, una torta, un libro, un cd, l’insetticida “Baygon”, un pacchetto di “Marlboro”, aspirine, e molto altro ancora. Probabilmente, come tutti noi, avrà usato la merce contenuta nei pacchetti colorati, ma poi senza il minimo imbarazzo e senso di colpa, come un bravo chirurgo plastico, ha cominciato ad operare sulla pelle di quelle immagini, cioè sul loro packaging: ha aperto con cura le scatole, le ha smontate ed appiattite, ne ha dissolto il volume, facendole regredire alla loro primigenia forma bidimensionale, la fustella, rappresentazione del progetto industriale che le aveva generate. Nel frattempo ha preparato le tele e ha riprodotto con sapienza, dipingendoli a mano uno per uno, marchi e logotipi. Infine,seguendo le sagome


spesa: spaghetti, burro, biscotti, dadi, guanti per stoviglie e un pacchetto di chewing gum. L’operazione continua. Il suo tavolo da chirurgo è troppo piccolo e deve lavorare per terra, aiutandosi con chiodi e martello. Le scatole sono diventate grandi a dismisura (o meglio “a misura d’uomo”, come dice lui), e le figure dipinte non sono più amichevoli e rassicuranti. Nella serie di opere Zoom, al gigantismo fisico

May-be Sopra e sotto: serie di acrilici su tela montata su telaio. Up and down: series of acrylics on canvas on frame. (Creme Caramel cm 111 x 87 x 21) (Lines cm 70 x 70 x 65) Courtesy: Galleria Gian Carla Zanutti, Milano Photo by Matteo Danesin

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di confezioni diverse da quella che rappresentavano la merce originaria ha riassemblato e ricostruito le scatole. Come dopo una chirurgia plastica, il vecchio corpo ha una nuova pelle, ma in questo caso si potrebbe anche dire che la vecchia pelle ha un nuovo corpo. Gli imballaggi di De Pascale sono ambiguamente fedeli e infedeli a due realtà contemporanee e i logotipi giusti sui contenitori sbagliati creano un senso di disorientamento ed estraneità con il modello originale. È una situazione paradossale perché le scatole di prodotti a noi noti sono nello stesso tempo riconoscibili e non-riconoscibili, quindi contengono una contraddizione rispetto a quella che esprime tradizionalmente la rassicurante funzione simbolica del packaging, cioè di rappresentare la verità univoca della merce. De Pascale ha fatto di nuovo la


Photo by Santi Caleca

Zoom Acrilici su tela montata su telaio. (On the Bridge,1999, ogni scatola misura cm 150 x 44 x 30). (Marigold, 1998, cm 142 x 71 x 23). Acrylics on canvas on frame. (On the Bridge,1999, each box measures cm150 x 44 x 30). (Marigold, 1998, cm 142 x 71x 23).

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Courtesy: Galleria Gian Carla Zanutti, Milano

corrisponde una mutazione comportamentale; le merci sono diventate quasi vive, sono zombie che si ribellano ai modelli di inossidabile sicurezza venduti dalla pubblicità e che decidono di ammutinarsi aggirandosi ironici e minacciosi tra le pareti domestiche in cerca di vittime: la busta di biscotti “Mulino Bianco” è la prefigurazione di un gigantesco pacco bomba; “Marigold”, il guanto assassino, spezza la vita ad un bicchiere di cristallo; il ponte di “Brooklyn“, quello della “gomma del ponte” esplode spaccandosi in due; un essere misterioso aggredisce con violenza la signora dei dadi “Star“. L’esperimento “plastico-genetico” realizzato da De Pascale sulla merce, costringe lo sguardo a perforare la pelle delle cose e a rivelare il disagio del quotidiano mediante un effetto di sottile inquietudine nel rapporto con i prodotti. Senza alcun intento

moralistico né denigratorio verso questo o quel marchio, l’artista cerca l’anima della merce, che secondo lui risiede nella sua pelle, cioè nel suo packaging. Staccare la pelle dalle cose vuol dire possederne l’anima. Questo processo di scuoiamento, travestimento, ri-dislocamento sul corpo sbagliato è un modo per creare un luogo di trasfigurazione dell’identità. Le anime dannate vengono portate in superficie e le merci, sottratte per un momento al loro veloce destino di produzione e consumo sono così rimesse in circolo e riproposte come antidoto.... Incontriamo Antonio De Pascale nel suo studio di Padova. È come essere in uno di quei piccoli supermercati di paese dove, chissà perché, i prodotti, anche quelli più comuni e conosciuti, hanno qualcosa di “diverso” da come li percepiamo in un grande ipermercato o alla televisione.


Parliamo di cose banali…fare la spesa, per esempio. Quando devi scegliere un prodotto, sai già cosa vuoi o ti lasci sedurre dal packaging? Anche quando mi sembra di sapere cosa voglio ho la sensazione di essere io ad essere già stato offerto in pasto al prodotto: in base a reddito, cultura e “grado di permeabilità all’immaginario” in cui il prodotto stesso mi è stato incartato. Devo dire che vado sempre più dissociandomi nei confronti del packaging e delle merci in genere. A volte entro nei negozi solo per guardare, affascinato da colori, display, atmosfere. Ma ultimamente il dover scegliere in una condizione di sovraesposizione mi crea disagio. Una specie di “sindrome di Stendhal” da merci. Per cui sono costretto ad uscire, facendo a meno di quello che un attimo prima mi sembrava indispensabile.

Raccontaci come è nata la tua “insana” passione per le confezioni delle merci. (Ride) I primi supporti per i miei quadri sono stati i coperchi delle scatole per scarpe, così una volta finiti mi sembravano già incorniciati. Ma di scarpe allora non se ne comprava più di un paio all’anno e le scorte di coperchi finivano subito.

Photo by Matteo Danesin

In questo momento a chi daresti la palma dʼoro per il packaging più esagerato? Non saprei… quando cerco di chiudere il sacchetto della spazzatura mi sembrano tutti esagerati, faccio sempre più fatica a farceli stare dentro… Se poi penso a quanti in quello stesso momento stanno facendo la stessa operazione… Chissà, forse è stato per dare forma a questa sensazione che ho cominciato ad ingrandire a “dis-misura” d’uomo i packaging che normalmente circolano per casa, a farli, come dire… “crescere”.


Borse nel panico (2001) Matite colorate su carta, piegata, incollata e trasformata in shopping bag. Colored pencils on paper, folded, glued and turned into a shopping bag. Courtesy Tullio Leggeri

Così i fondi delle torte, che erano di cartone come le “guantiere” delle paste che recuperavo nei bar, diventavano “tele” altrettanto preziose. Poi per fare dei quadri più grandi cominciai ad usare gli scatoloni da imballo, quelli generici, di cui, se mi era chiara la funzione della freccia per indicare l’alto, il simbolo del bicchiere e l’ombrellino con la pioggia mi sembravano molto misteriosi. Con i legni delle cassette della frutta ci costruivo i telai per farli stare su. Ma tu mi chiedi della passione “insana”… questa è molto più recente, ma dato che si tratta pur sempre di “quadri fustellati” forse l’affiorare di quella lontana memoria ne è la causa principale. Il packaging è un’interfaccia ampiamente condivisa, una manifestazione della potenza visiva del “reale” che ha destituito di centralità il monopolio dell’arte nella produzione di immagini. Adottare il packaging come soggetto per farlo poi ritornare oggetto è stato tutt’uno con la scelta di misurarmi con contenuti più diretti e comunicativi. Come si sta sviluppando il tuo percorso artistico? Dopo l’uso di tela e telaio in Zoom e Andata e Ritorno, con le opere Takeaway, ho lavorato con un altro supporto classico del fare artistico: il foglio di carta bianco, che ho disegnato con immagini catturate dai palinsesti televisivi e ho poi fustellato e trasformato in shopping bag. Si tratta quindi di “immagini da asporto” (take away, appunto), immagini sottratte al loro naturale ritmo narrativo (fiction, informazione, pubblicità…) e disegnate quasi a


spiegazioni, in quei giorni era su tutti i giornali. In un’altra serie invece i “ frame” televisivi sono finiti dentro i classici sacchetti di carta del pane: immagini di poliziotti, solo poliziotti, nelle loro bellissime armature da guerre stellari, “catturati” dalle sequenze del G8. Per nuovi progetti sto intercettando i segni del lusso e del glamour nella loro visibiltà invasiva con l’intenzione di compenetrarlo in dissolvenza con lavoro e fatica, quella fisica e alienante, sempre più invisibile. Senza alcun intento moralistico, solo come un’altra possibilità per dare forma ai paradossi con cui abbiamo imparato a convivere con leggerezza, anzi con il “light” che ritorna fin troppo ossessivamente in molte confezioni.

Courtesy: Galleria Gian Carla Zanutti, Milano

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“Anche le scatole hanno un’anima!” sembra volerci dire De Pascale, e... attenti! perché qualche volta può essere pericolosa.

Takeaway - immagini da asporto (2001) Matite colorate su carta, piegata, incollata e trasformata in shopping bag. Colored pencils on paper, folded, glued and turned into a shopping bag.

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ricalco. Dislocate secondo modalità che non sono più quelle dello schermo/finestra per essere riofferte allo sguardo in una diversa scala percettiva - con una modalità che sottrae, piuttosto che imporre, le immagini alla visibilità - e che richiede allo sguardo un onere: soffermarsi, rallentare, “guardare dentro”… In una particolare serie di questo lavoro, che ho chiamato Borse nel panico, ho disegnato alcuni “frame” delle registrazioni dell’attacco alle Twin Towers. Nella quotidiana esposizione di eventi catastrofici alla spettacolarizzazione, realtà e finzione hanno trovato in questo evento una loro tragica sintesi. Il gesto del raccogliere e del porgere, in una dimensione intima ed allusiva, immagini che continuavano ad essere trasmesse a rallentatore come un’azione da goal ben riuscitami sembrava un modo per creare distanza ma aprire uno spazio di riflessione. Il titolo non ha bisogno di


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Antonio De Pascale: Take-away A “Feltrinelli” milk tetrabrik. A packet of “Knorr” cube cigarettes. A litre of “Hatù” condoms. A “Creme Caramel Royal” bag of biscuits. A tube of “00” flour. No, this is not the shopping list of a housewife who has gone crazy, but works of art that have taken merchandise as their inspirational muse. Sonia Pedrazzini

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In his series entitled Andata e ritorno Antonio De Pascale paints in acrylics on canvas the trademarks and logos typical of rather well-known and popular products. He is an artist, but not a painter nor a sculptor even though he works three dimensionally. His painted canvasses are not paintings, they are packaging. De Pascale is a creator of packaging but his wrappings are strange and paradoxical: they do not contain merchandise but rather they tell us a story, stories that he defines as “parasitical narratives that embody the symbolic/persuasive nature of the product”. They are packagings made using not industrial but handcrafted techniques (each image is hand painted as a statement against the subjective speed taken in serial production) and, above all, they are not a simple reproduction of existing packaging. De Pascale has been shopping... He bought three beers in a carton multipack, a box of “Tigre” cheese, a litre of orange juice, one of milk, Scottex paper towels, biscuits, a cake, a book, a cd, some “Baygon” insecticide, a packet of

“Marlboro”, aspirins and many other things. Probably, like the rest of us, he used the products inside the packaging, but then without the least trace of embarrassment or guilt, like a good plastic surgeon, he started to operate on the skin of those images, that is to say, on their packaging: he carefully opened the boxes, he took them apart and flattened them, he dissolved their volume and returned them to their original two dimensional form, the die, the representation of the industrial project that generated them. In the mean time he prepared the canvasses and he knowingly reproduced them, painting them one by one, brand name and logo. In the end, following the contours of packaging meant for merchandise of a different kind than the original containers were meant for, he reassembled and rebuilt the boxes. Then came the plastic surgery, the old body has a new skin, but in this case you could also say that the old skin has a new body. De Pascale’s packaging is ambiguously faithful and unfaithful at the same time, it shares two realities, and the right brand name on the wrong container creates a sense of disorientation with the original model. It is a paradoxical situation because the well known boxes and products are at the same time recognisable and unrecognisable, therefore they contain a contradiction with respect to the symbolic function of the packaging, its traditionally reassuring message, that is to say the unequivocal true representation of the merchandise. De Pascale has again been shopping: spaghetti, butter, biscuits, stock cubes, rubber gloves and a packet of chewing gum. The process continues. His surgeons table is too small and he has to work on the floor, aided by a hammer and nails. The boxes have become huge, out of proportion (or as he would say “human sized”) and the painted figures are no longer friendly or reassuring. In the Zoom works serie there is a behavioural changes that go with the enormous physical size;


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the merchandise has become nearly alive, as if made up of Zombies that are rebelling against the models of stainless assurance which are sold to us by advertising and that decides to become mutinous, becoming ironic and menacing within the domestic setting looking for victims: the bag of “Mulino Bianco” biscuits looks like a giant parcel bomb, “Marigold” the murderous glove snaps the stem of a crystal glass; the “Brooklyn” bridge, the one from the chewing gum, explodes and splits into two, a mysterious being violently attacks the lady on the “Star” stock cubes. The “plastic - genetic” experiment carried out by De Pascale on the merchandise forces us to look below the skin and to delve more deeply into things revealing a slight unease in our relationship with goods in general. Without any moralistic or denigratory intentions towards any particular brand names, the artist is looking for the soul of the merchandise which according to him lives inside its skin, that is to say its packaging. Stripping away the skin from artifacts means possessing their soul. This process of flaying, disguising, reallocating onto the wrong body is a way of creating a means for identity to be transfigured. The damned souls are brought to the surface and the goods are momentarily removed from their speedy destiny of production and consumption, they are therefore placed in view again and proposed by the artist as an antidote.

Tell us how your “unhealthy” passion for the packaging of goods came about. (He laughs) The first backs for my paintings were shoebox lids, so when they were finished they seemed as though they were already framed. But in those days we didn’t buy more than one pair of shoes a year and so the supply of lids ran out at once. So cake bases, which were made of cardboard like the pastry trays I got from bars, became canvases which were just as precious. Then to make larger paintings I began to use ordinary packing boxes and while the symbol of

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Letʼs speak of banal things… doing the shopping for example. When you have to choose a product, do

Right now who would you give the prize for the most exaggerated packaging to? I wouldn’t know… when I try to close the rubbish bag they all seem exaggerated, I find it harder and harder to fit them all in… If I then think of how many people there are who are in that very moment doing the same thing… Who knows, perhaps it was to give form to this feeling that I started to enlarge packaging items which we usually find around the house “out of all proportion” to human beings, making them, in a manner of speaking….“grow”.

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We meet Antonio De Pascale in his studio in Padua. It is like being in one of those small town supermarkets where, who knows why, the products, even those more common and wellknown ones have something different about them to how we perceive them in a large hypermarket or on television.

you know what you want or do you allow yourself to be seduced by the packaging? Even when I think I know what I want I have the feeling it is I who have been fed to the product: on the basis of my income, culture and “degree of permeability to the set of images” in which the product has been wrapped for me. I must admit I increasingly disassociate myself from packaging and merchandise in general. Sometimes I go into shops just to look, fascinated by the colours, displays, atmospheres. But in the end having to choose where there is too much on display unsettles me. A kind of merchandise “Stendhal syndrome”. So I am forced to leave, doing without the thing that a moment before seemed indispensable.


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the arrow indicating which way up was clear to me, the symbol of the glass and the umbrella with rain seemed very mysterious to me. With wood from fruit crates I made the frames to hold them. But you ask me about my “unhealthy” passion… this is a lot more recent but given that it still deals with “die-cut paintings” perhaps the surfacing of that distant memory is the major cause. Packaging is a widely shared interface, a demonstration of the visual power of the “real” which has removed the centrality of the monopoly of art in the production of images. Using packaging as a subject to then turn it into an object was all one with my decision to measure myself against more direct and communicative contents.

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How is your artistic career developing? After using canvas and frame in Zoom and Andata e Ritorno, with works entitled Take-away, I worked with another classic artistic expedient: the sheet of white paper, on which I drew images culled from T.V. programme schedules to then die-cut and transform it into a shopping bag. They are therefore “take away” images, images removed from their natural narrative rhythm (fiction, information, publicity...) and almost traced. Dislocated according to means which are no longer a screen/window to be seen once again in various scales of perception - in a way which subtracts, rather than imposes, images from visibility -and which obliges the eye to: linger, slow

down, “look within”… In one particular series of these works, which I called Borse nel panico, I drew some frames of the recording of the attack on the Twin Towers. With the daily turning of catastrophic events into a spectacle, reality and fiction found their tragic synthesis in this event. The gesture of gathering and placing images which continued to be broadcast in slow motion - like a brilliant goal in a football match - in an intimate and allusive dimension seemed to me to be a way of creating distance but also of opening up a space for reflection. The title needs no explanation, in those days it was all over the papers. In another series instead the TV frames have ended up inside classic paper bread bags: images of policemen, just policemen, in their fantastic Star Wars armour, “captured” by the G8 sequences. For new projects I am intercepting signs of luxury and glamour with their intrusive visibility with the intention of penetrating it with a fade-out of increasingly invisible physical and alienating work and fatigue. There is no moralistic intention, it is just another chance to give shape to the paradoxes with which we have learned to live thoughtlessly, indeed “lightly”, the light that returns almost too obsessively in many forms of packaging. “Even boxes have a soul!” De Pascale seems to want to tell us and… be careful! because sometimes it can be dangerous.


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Geroglifici di Oggi: Hans Rudolf Lutz Barbara Fässler

Hans-Rudolf Lutz (1939-1998, Zurigo) dedicò tutta la sua vita alla ricerca nell’ambito della tipografia, aprendo nuove prospettive a questa disciplina poco conosciuta e tanto usata. Era in grado di sensibilizzare non solo i suoi innumerevoli studenti in Svizzera (Scuola d’Arte a Zurigo e Lucerna) e negli Usa (University of Alberta e Ohio State University), ma anche un pubblico più ampio tramite le pubblicazioni della sua casa editrice (Verlag Hans-Rudolf Lutz, Zurigo). Conosciutissimo in area tedesca, riuscì ad allargare le nozioni base della tipografia, esplorando con un’enorme curiosità nella stampa di tutto il mondo, ma persino nelle strade o nelle campagne. Nessuna possibilità gli fu estranea, dalla pastina a forma di lettere (che mangiava con gli studenti), alle tracce del trattore che formavano involontariamente una V nel campo, passando per i graffiti del Terzo Mondo, al fine di dimostrare quanto siamo invasi dalla tipografia nella nostra vita quotidiana. Modificando il testo, ma non la forma grafica delle copertine di riviste famose, sapeva dimostrare quanto siamo condizionati dall’immagine grafica indipendentemente dal contenuto. La sua “enciclopedia” internazionale della segnaletica nel mondo del packaging - i “geroglifici di oggi” - è ormai diventata storica.


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Il contenuto è il cuore, l’imballaggio le ossa e la pelle che lo protegge – il marchio, infine, è il vestito che da senso al volume marrone e anonimo del cartone. Hans-Rudolf Lutz ha raccolto nell’arco di quindici anni, percorrendo mezzo mondo con lo zaino sulle spalle, i “geroglifici di oggi”, cioè i segni stampati sui cartoni d’imballaggio. Non temeva né gli ubriaconi e i barboni, né la polizia che lo perseguitava durante le sue ricerche nel dedalo delle strade buie, mentre scavava nelle immondizie, nei container, nei depositi di merci da Marsiglia a Singapore, dal Guatemala a New York. Il risultato è un’opera di portata scientifica dedicata ai creatori ignoti ed anonimi di questi segni grafici, differenziati e ridotti all’essenziale, spesso prodotti con mezzi semplicissimi come la xilografia o l’incisione su linoleum.

Il volume indaga da vari punti di vista, in 530 pagine e in 40 capitoli, il significato e la resa visiva del segno di uso quotidiano, un linguaggio universale che non ha bisogno di traduzione tenendo conto che, secondo l’Unesco, un quarto della popolazione mondiale è a tutt’oggi analfabeta. Il segno sostanzialmente “descrive” il contenuto o il suo uso, denomina il produttore e la provenienza, ci avverte dell’utilizzo, oppure rappresenta il trasportatore o il venditore. La raccolta di questa sconfinata varietà di esempi è ordinata in maniera enciclopedica, seguendo dei criteri frutto di un’analisi approfondita ed accurata dei vari livelli di significato e di lettura. Il segno, denominando il contenuto, copia spesso il design hightech dell’imballaggio del prodotto che si trova all’interno, con il mezzo più antico di riproduzione meccanica: la xilografia (1000 d.C.). Si tratta di un transfert e di una decontestualizzazione di un segno da una tecnologia attuale ad una tecnica antica, da un’epoca all’altra, un viaggio nel tempo alla rovescia.


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La provenienza del prodotto viene indicata geograficamente, ad esempio tramite cartine o nomi di città e paesi, oppure mostrando il luogo di produzione: la fabbrica, il campo, la vigna, le montagne. Un’altra serie di disegni ci racconta invece la storia del trasporto stesso: a cavallo, a dorso di mulo, con il carrello oppure sulle spalle. Anche gli stessi i produttori ci vengono presentati: il contadino, il cuoco, il pizzaiolo e il panettiere. I segni, oltre alla descrizione del prodotto e della sua provenienza ne indicano l’uso o spiegano come aprire la scatola. Chiaramente non mancano i “classici” con una varietà espressiva incredibile, come i loghi delle ditte, il segno FRAGILE rappresentato da un bicchiere, NON BAGNARE indicato tramite l’ombrello aperto e, last but not least, centinaia di frecce per far capire dove si trova l’ALTO e il BASSO del pacco. I mezzi di comunicazione nascono da un bisogno di comunicare, di stendere le braccia verso l’altro, di estendere i nostri sensi e i nostri corpi. Anche chi non possiede il mezzo elementare della scrittura o la tecnologia complessa del digitale è comunque in grado di sviluppare dei geroglifici comprensibili dovunque e per chiunque. Perciò un imballaggio non è semplicemente un contenitore, ma anche un mezzo di comunicazione che, accennando con un disegno alla cosa celata al suo interno, risveglia la nostra curiosità. Ed è un eterno stimolo alla voglia irresistibile di aprire quel cartone che ci porterà finalmente a scoprire il tesoro nascosto. Barbara Fässler, artista e grafica, docente di grafica all’Accademia Carrara di Bergamo, vive a Milano.

Images from Hans-Rudolf Lutz Die Hieroglyphen von Heute Grafik auf Verpackung für den Transport, Verlag Hans-Rudolf Lutz, Zürich 1990, 528 pagine, http://www.lutz.to http://www.inf.fu-berlin.de/~rbecker/lutz/index.html


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Hieroglyphics of Today: Hans Rudolf Lutz Barbara Fässler

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Hans-Rudolf Lutz (1939-1998, Zurich) dedicated his entire life to typographical research, opening new prospects for this little-known and muchpractised discipline. He was capable of not only sensitising his numerous students in Switzerland (Art Schools in Zurich and Lucerne) and in the USA (University of Alberta and Ohio State University), but also a broader public through the publications of his publishing house (Verlag Hans-Rudolf Lutz, Zurich). Extremely wellknown in the German-speaking world, he managed to broaden the basic notion of typography, exploring with great curiosity printing the world over, but also scouring the streets and the countryside for the same. No possibility appeared too far-fetched for him, from lettershaped pastina (that he would eat with his students), to the tractor tracks that involuntarily formed a V in the field, going by way of Third World graffiti, this in order to demonstrate how

much we are invaded by the typography in our daily lives. Modifying the lettering, but not the graphic design of the covers of famous magazines, he was able to demonstrate how much we are conditioned by the graphic image never mind the content. His international “Encyclopaedia” of signs in the world of packaging - the “hieroglyphics of today” - is now a historic work. The content is the heart, the packaging is the skin and the bone that protects it - finally the brand is the clothing that gives sense to the brown and anonymous volume of the cardboard. Hans-Rudolf Lutz, in over fifteen years roaming the world around with his rucksack, has collected the “hieroglyphics of today”, that is the signs printed on packaging. He feared neither drunks nor tramps, nor the police who persecuted him during his searchings in the backstreets, while he burrowed amidst rubbish, among containers and in storage areas from Marseilles to Singapore, from Guatemala to New York. The result is a work of scientific standing dedicated to the unknown and anonymous creators of these graphic signs, set apart and reduced to the bear essentials, often produced using simple means like wood- or linocut. The volume looks into the subject from various


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points of view, in 530 pages and 40 chapters, delving into the meaning and the visual yield of the sign in everyday use, a universal language that does not need translating, bearing in mind the fact that, according to Unesco, a quarter of the world population is still illiterate. The sign substantially “describes” the content or its use, names the producer, the place of origin, tells us how to use it or represents the transporter or salesperson. The collection of this limitless variety of examples is ordered in an encyclopaedic manner, following the criteria, fruit of a careful in-depth analysis of the various levels of meaning and reading. The sign, naming the content, often copies the hi-tech design of the packaging of the product inside using the most antique means of mechanical reproduction: the woodcut (1000 a.d.). This is a transfer and a decontextualization of a sign that goes from current technology to an ancient craft, from one era to another, a voyage backwards in time. The place of origin of the product is indicated geographically, for example by a map or name of town or country, or by showing the place of origin: the factory, the field, the vine, the mountain. Another series of drawings tell us the history of transport in itself: on horseback, by packmule, cart or on ones shoulder. We are even

shown the producers: the farmer, the cook, the pizza chef and baker. The signs, as well as the description of the product and its place of origin indicate the use or explain how to open the container. Clearly one has the “classics”, showing an incredible expressive variety as in the company logos, the sign FRAGILE represented by a glass, DO NOT WET indicated by an open umbrella and, last but not least, hundreds of arrows to allow one to understand where the TOP and the BOTTOM of the pack is to be found. These means of communication are born out of a need to communicate, to reach out to fellow man, to extend our senses and our bodies. Even those who do not posses the elementary means of writing or the complex digital technology is at any rate capable of developing hieroglyphics that are understandable everywhere by anyone. Thus a packaging item is not simply a container, but also a means of communication that, alluding with a de-sign to what is concealed within, arouses our curiosity. And it is an eternal stimulus to the irresistible desire to open that carton that will finally lead us to discover that hidden treasure. Barbara Fässler, artist and graphic designer, lecturer of graphic arts at the Accademia Carrara, Bergamo, she lives in Milan.

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Dove c’è Barilla c’è Packaging

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Perché il packaging Barilla è grande, anzi, è doppiamente grande. Sonia Pedrazzini

Non è esagerato, non è ingombrante, non è barocco, ipertrofico, imponente. Non urla e non stupisce con effetti speciali, ma è grande lo stesso. Il packaging Barilla, contenitore di cibo e di sogni, evidenzia una “doppia” dimensione che è in effetti una “dismisura ideale” del semplice imballaggio. Per esempio, il primissimo marchio aziendale, già in uso fin dal 1910, pur avendo un’impostazione iconografica piuttosto tradizionale, conteneva un elemento “esagerato” che lo rese subito particolarmente avvincente oltre che - la storia lo confermerà vincente. Si trattava di un grosso uovo (spropositatamente grosso, più grosso che qualunque altro elemento dell’immagine) il cui tuorlo, ricco e nutriente, veniva versato a fatica, per quanto era ingombrante e pesante, dal giovane garzone pastaio in una madia piena di farina... Tutto qui. Ma era tutto davvero... infatti, quel

gigantesco uovo, così semplice, così primordiale, così copioso, non solo s’imporrà assai facilmente nella memoria di ogni avventore per il suo aspetto “predominante” ma anche farà sognare di squisite pastasciutte fumanti. Montagne di pastasciutte all’uovo. Barilla, naturalmente. Gli ingredienti comunicativi erano stati così impostati e, da allora in poi, i futuri messaggi promozionali saranno basati soprattutto su quei pochi ma efficaci elementi: tradizione, genuinità, semplicità, abbondanza, e l’uovo, che in forma più astratta e stilizzata, diverrà il futuro e universalmente noto marchio Barilla. Al grande uovo si affiancò, nel 1926, un diverso marchio-personaggio, un allegro cuoco alato che recava un pacco di pastina glutinata anch’esso enorme. Pure in questo caso è interessante notare l’uso del “superlativo” per rappresentare, stavolta attraverso il suo packaging, un prodotto speciale.

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Barilla è stata una delle prime aziende in Italia ad utilizzare il packaging per supportare il proprio marchio e distinguersi dalla concorrenza e, fin da prima che fosse obbligatorio per legge impacchettare la pasta (1967), si era attrezzata per confezionare - prima manualmente, poi in modo sempre più industrializzato - i suoi prodotti.

abbia deviato dalla sua lineare evoluzione di semplice “contenitore di cose” diventando oggetto metaforico e comunicatore di un vero prodotto industriale, quindi, controllato e sicuro. Dopo l’immagine del cuoco alato, la comunicazione della Barilla procedette ancora per “ingigantimenti” proponendo, nel

I primi “packaging” erano fatti della tipica carta blu usata per gli alimenti secchi (da cui deriva la tradizione, valida ancora oggi, di utilizzare il blu come colore aziendale) legati con uno spago e caratterizzati da un cartiglio contenente le informazioni necessarie, nome e marchio. L’idea di rappresentare una grande confezione di pastina, e non più la pastina stessa, segna una svolta davvero importante perché mostra come per la prima volta l’imballaggio

calendario di Adolfo Busi del 1931, un bambino-cameriere a cavalcioni di maccheroni giganti. L’imballaggio, in quanto protagonista iconografico fu qui però soppresso e, per rispondere in modo inequivocabile e diretto alla polemica futurista che voleva imporre nella dieta degli italiani il riso al posto della pastasciutta, si preferì enfatizzare il prodotto in sé. Poi Barilla andò in Africa Orientale per partecipare all’impresa economica e commerciale nei territori dell’Impero e



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la sua presenza fu subito accolta e testimoniata dalla “sponsorizzazione” spontanea quanto curiosa dei bambini del luogo che riciclarono e usarono, a mo’ di magliette, i sacchetti di tela bianca della pasta e crearono una sorta di involontario packaging a dimensione d’uomo! Mentre casuale non era stato per niente l’uomo-sandwich, a forma di scatoletta di conserva, utilizzato per animare assieme ad altri buffi personaggi uno stand fieristico nella Francia degli anni Venti. Anche qui siamo di fronte a una deviazione

evolutiva del packaging che, associato a elementi espressionisti e spettacolari a metà tra Disney e il Moulin Rouge, anticipava il valore della sua futura funzione immaginaria e riusciva a profetizzare lo stravolgimento-godimento che caratterizzerà in seguito tutta l’industria dell’entertainment. Una svolta decisiva avvenne negli anni Cinquanta con il viaggio di Pietro Barilla negli Stati Uniti per studiare i problemi relativi alla produzione, alla pubblicità e al “pacchettaggio”. L’esperienza fu illuminante e fece


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esempio in Italia di costruzione consapevole di immagine coordinata. L’evoluzione del suo packaging prese una duplice strada e da un linearismo quasi darwiniano (in cui i cambiamenti avvenivano per assecondare le funzioni precipue per le quali l’imballo era stato costruito a fini aziendali: contenere, proteggere, indicare il contenuto e il nome del produttore), prese a modificarsi per intuizioni successive assolvendo a funzioni più immaginarie e immateriali e ad essere posto a totale servizio del

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intuire all’imprenditore quale sarebbe stata la giusta via da seguire in un’epoca che si annunciava foriera di grandi mutamenti sociali. Senza rinunciare alle prerogative di qualità del prodotto, fu chiaro che per essere i protagonisti dei futuri scenari economici e commerciali gli attori in gioco erano sempre di più il marketing, la pubblicità, il packaging e una forte relazione emotiva con il proprio pubblico. Barilla ben presto realizzò, con il prezioso contributo creativo del grafico-artista Erberto Carboni, quello che fu forse il primo


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consumatore. Quindi, packaging giganti e “sdoppiati”. Gli esempi sono parecchi: in un annuncio pubblicitario del 1959 ben quattro scatole di Nidi di rondine surreali, giganteschi, galleggianti, incombevano su una folla di persone “vestite a festa” (perché con pasta Barilla è sempre domenica) come se l’imballaggio stesso, più e meglio della pasta, potesse indicare con la sua esistenza artificiale la forza della modernità, della tecnologia, dello sviluppo umano; e ancora, in un manifesto pubblicitario - tutto giallo (come il colore della pasta all’uovo) con una bambina felice di trascinare su un carrettino due ipertrofiche scatole di pastina - che realizzava un bizzarro cortocircuito temporale tramite la sovrapposizione di tradizione e modernità; o in un’altra campagna, dove il pacco di pasta campeggiava sempre grande a dismisura, come un mobile su cui

appoggiarsi; oppure, messo in più esemplari nella sporta della spesa, doveva essere portato a casa da una signora elegante che, nonostante l’evidente ingombro di scatole, non mostrava fatica (quasi a suggerire che ...la pasta non appesantisce). All’epoca del Carosello il pack continuava a essere un “protagonista esagerato” anche televisivamente, come nel girotondo conclusivo di una rèclame in cui tanti bambini facevano cerchio attorno a una gigantesca totemica scatola di pastina glutinata. Insomma, il “vero” pacchetto di pasta era di dimensioni normali ma si ingrandiva a dismisura sotto la lente della pubblicità per sublimare ed esaltare il prodotto contenuto e per abituare ed educare il consumatore alla presenza e ai vantaggi della confezione stessa. Non erano esenti dall’iperpackaging neppure gli stand delle


poliedriche, come, ad esempio, il farsi “divo” assieme alla “grande” Mina, testimonial d’eccezione nei Caroselli dal 1965 al 1970, adagiata sopra scatole “over size” di tagliatelle per invitare le donne italiane a... scoprire la cuoca che c’era in loro. Questo fu forse uno degli ultimi esempi espressamente visivi di gigantismo del pack. Il successo della Barilla a questo punto era talmente consolidato che non fu più necessario esasperare “fisicamente” gli imballaggi per far ricordare marchio e prodotto. Con i cambiamenti sociali e politici dagli anni Ottanta in poi, l’aumento delle reti televisive e quindi il bisogno sempre più forte di “comunicare” e di distinguersi, con la diffusione del marketing, con l’avvento delle grandi agenzie di pubblicità, con la definitiva affermazione in Italia di super e ipermercati, i fast food cominciarono a imperversare, Carosello andò in pensione, le réclame divennero spot

- da un episodio, da un mondo, da una scatola di pasta - per entrare in un blu profondo che è quello del cielo ma anche, di nuovo, quello delle confezioni. Come scatole cinesi una dentro l’altra, così, con un abile gioco filmico e narrativo, vari livelli di packaging di varie grandezze fisiche e mentali, si sovrappongono e si compenetrano facendoci sentire protagonisti dentro e fuori dalla scatola e facendo diventare noi stessi il contenuto del grande organismo-contenitore Barilla. Definitivamente l’imballaggio non è più fine a se stesso e viene integrato, assieme a tutti gli altri elementi che compongono l’immagine aziendale, in un “sistema packaging” più grande e complesso che avvolge, come una pellicola immateriale, come uno sleeve ideale, tutta l’azienda, la cui stessa architettura, ideata da Bob Noorda, non è altro che un grande, grandissimo, totemscatola.

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Sonia Pedrazzini è designer e si occupa di cultura del packaging. Fonti iconografiche: Archivio Storico Barilla (Parma). Bibliografia: AA.VV., Barilla 100 anni di pubblicità e comunicazione, a c. di A.I. Ganapini e G. Gonizzi, Parma, 1994

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e il consumatore si trovò ormai “solo” nella sua scelta davanti allo scaffale. Il packaging non poteva più essere solo un contenitore. Barilla a questo punto fece un ulteriore passo avanti e rese la sua comunicazione più sofisticata ed emozionale, trasformando metaforicamente le sue scatole di cartone in altrettante narrazioni ideali. È interessante notare come in alcuni spot televisivi degli anni Novanta lo svolgimento della storia avvenga tutto “dentro” la scatola. Ce ne accorgiamo solo alla fine, quando, con una zoomata, la telecamera esce

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manifestazioni fieristiche che accoglievano gli acquirenti all’ombra di ciclopiche scatole di pasta all’uovo e, come in un grande parco giochi, facevano sentire più reale quello che la gente pensava fosse solo finzione pubblicitaria. La sempre maggiore diffusione della televisione dagli anni Sessanta in poi e di conseguenza l’influenza dell’immaginario nel quotidiano domestico, determinò un ulteriore scatto nell’evoluzione concettuale del packaging Barilla che, da adesso in poi sempre meno ingenuo, venne ad assumere forme inaspettate e


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Where Barilla, there Packaging Why Barilla packaging is great, or rather, it is doubly great.

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Sonia Pedrazzini It is not over the top, it is not bulky, it is not baroque, inflated or imposing. It does not scream at you, nor does it amaze by its special effects, but it is great all the same. Barilla packaging, the container for food and dreams, shows a “double” dimension which is, in effect, a “perfect excess” of the simple pack. For example, the company’s very first brand, in use as far back as 1910, while having a fairly traditional iconographic formulation, contained an “exaggerated” element which immediately made it particularly fascinating as well as – as history confirms – a winner. It was a large egg (disproportionately large, larger than any other element in the image) and its yolk, rich and nutritious, flowed with difficulty, being large and heavy, from the hands of the young pastamaker into a container full of flour… All there. But it really was all… in fact, that enormous egg, so simple, so fundamental, so plentiful, not only fixed itself easily in the memory of every customer because of its “predominant” aspect, but would also make them dream of delicious steaming pasta. Mountains of egg pasta. Barilla, of course. In this way the communicative ingredients were established and, from that moment on, future promotional messages would be based above all on those small but effective elements: tradition, naturalness, simplicity - and plenty of eggs which, in the most abstract and stylised form, were to become the future world-famous Barilla trade mark.

In 1926, a different trade mark was placed alongside the great egg, a cheery winged chef carrying a packet of pasta, which was also enormous. In this case, too, it is interesting to note the use of the “superlative to represent, this time through the packaging, a special product. Barilla was one of the first Italian companies to use packaging to carry its trade mark and make it stand out from the competition and, from the moment when it became legally compulsory to sell pasta in packets (1967), it equipped itself to package its products, first by hand, then in a more and more industrialised way. The first “packaging” was done in the blue paper typically used for dry foodstuffs (this is the origin of the tradition, which still continues today, of using blue as the company color) tied with string and bearing a scroll containing all necessary information, the name and the trade mark. The idea of depicting a large packet of pasta, and not the pasta itself, was a truly important landmark, since it shows how for the first time packaging turned away from its evolutionary development of a simple “container of items”, becoming a metaphorical object, the communicator of a product which was truly industrial, and therefore controlled and safe. After the image of the winged chef, Barilla’s communication continued with its “gigantic” theme when, in Adolfo Busi’s 1931 calendar, it portrayed a child waiter astride giant macaroni. In this case, however, packaging as the iconographic protagonist was suppressed and, in unequivocal response to the futurist debate which was trying to impose rice upon the Italian diet in place of pasta, the decision was made to emphasise the product itself. Later, Barilla moved into East Africa to take part in the economic and commercial undertakings in the Imperial territories. Its presence was immediately welcomed, as is shown by the amazing spontaneous “sponsorship” by the children of the area who recycled the white canvas


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this: in a 1959 advertisement four boxes of surreal, gigantic, floating Nidi di rondine (“swallows nests”) hung over a crowd of people “in their Sunday best” (because “with Barilla pasta every day is Sunday”) as if the packaging itself, better than the pasta, could indicate through its artificial existence the power of modernity, technology and human development. Again, an advertising poster – completely yellow (like the color of egg pasta) with a happy little girl pulling two enormous packets of pasta in a little cart – created a bizarre temporal short-circuit through the superimposition of tradition and modernity. In another campaign, the packet of pasta stood out incongruously large, like the piece of furniture on which it was placed, or was placed in prime position in a shopping bag and had to be carried home by a smart lady who, despite the obvious bulk of the box, showed no signs of strain (almost as if to suggest that… pasta does not make you put on weight). During the days of the TV programme Carosello, the pack continued to be an “exaggerated protagonist”, this time on television, as in the final “ring-a-ring-a-roses” of an advertisement in which a lot of children danced around a huge totemic box of pasta. To sum up, the “real” packet of pasta was of normal size, but it grew out of all proportion under the magnifying glass of advertising to exalt the product it contained and to train the consumer and get him used to the idea of the presence and advantages of the pack itself. Not even the stands at exhibitions were exempt from this “hyperpackaging”. They welcomed purchasers into the shade of cyclopean boxes of egg pasta and, as in a giant playground, made what people thought was only the pretence of advertising seem more real. The ever greater spread of television from the 1960s on, and the consequent influence of the make-believe on everyday life, resulted in a further leap forward in the conceptual development of

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bags containing the pasta as a kind of T-shirt, creating a sort of man-sized unintentional packaging! Although fortuitous, the “sandwichboard man” in the form of a packet was not for nothing, as it was used as an attraction with other comic characters on an exhibition stand in France in the 1920s. Here again we see a move away from the evolution of packaging which, associated with expressionist and show business elements somewhere between Disney and the Moulin Rouge, anticipated the value of its future image function and managed to predict the upheaval/pleasure which would later characterise the whole entertainment industry. A decisive event took place in the 1950s with Pietro Barilla’s trip to the United States to study the problems relating to production, publicity and “packeting”. It was an illuminating experience which made the entrepreneur realise what would be the right course to follow at a time which was heralding great social changes. Without giving up the prerogatives of product quality, it was clear that to take a part in future economic and commercial scenarios, the main factors were more and more becoming marketing, advertising, packaging and a strong emotional relationship with the public. Barilla, with valuable creative contributions from the graphic artist Erberto Carboni, very soon created what was perhaps the first example in Italy of the conscious construction of a co-ordinated image. The development of his packaging took a two-track approach and from an almost Darwinian linearity (in which changes took place to fulfil the principal functions of packaging from a company point of view: to contain, protect, indicate the contents and the name of the producer), began to undergo successive changes driven by more imaginative and abstract functions and were placed at the total service of the consumer. The result was the giant, “double” packaging. There are many examples of


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Barilla packaging which, from then on becoming less and less naive, began to take on unexpected polyhedral shapes as if, for example, to make itself “a star” together with the “great” Mina, an exceptional advocate in the Carosello programmes from 1965 to 1970, placed on oversize boxes of tagliatelle to invite Italian women to “discover the cook within them”. This was perhaps one of the latest examples which expressly showed the “giganticness” of the pack. At this point, Barilla’s success was so well-established that it was no longer necessary to inflate the packaging “physically” to get people to remember the brand and the product. With the social and political changes from the 1980s on, the increase in television networks and thus the ever more pressing need to “communicate” and get noticed, with the spread of marketing, the advent of large advertising agencies, the definitive presence in Italy of supermarkets and hypermarkets, fast food becoming all the rage and Carosello being pensioned off, advertisements will become shorter and shorter and the consumer will find himself “alone” in his choice before the supermarket shelves. Packaging can no longer be a mere container. At this point, Barilla is taking another step forward, making its communication more sophisticated and emotive, metaphorically transforming its cardboard

boxes into so many perfect narratives. It is interesting to note how in some television advertising of the 1990s the unfolding of the story took place entirely “inside” the box. We only realise this right at the end, when the camera zooms out – from an episode, a world, a box of pasta – into a deep blue which is that of the sky but also, once again, that of the packaging. Like Chinese boxes one inside the other, with clever tricks of film and narrative, several levels of packaging of several physical and mental sizes are superimposed one on another, making us feel like protagonists inside and outside the box and making us become the contents of the great Barilla organism/container. Certainly, packaging is no longer an end in itself and is integrated, together with all the other elements which make up the corporate image, into a larger and more complex “packaging system” which, like an ethereal film, like the perfect wrapper, envelops the whole company, whose own architecture, designed by Bob Noorda, is none other than a large, very large, totem/box.

Sonia Pedrazzini is a designer involved with the culture of packaging. Iconographic sources: Barilla Historical Archive, Parma. Bibliography: on demand, Barilla 100 anni di pubblicità e comunicazione, produced by A.I. Ganapini and G. Gonizzi, Parma, 1994



A Scuola di Packaging

Politecnico di Milano - Facoltà del Design All’interno dei diversi percorsi formativi proposti dalla Facoltà del Design del Politecnico di Milano (Facoltà del Design Politecnico di Milano via Durando 38/a, Milano) il packaging è presente in molteplici laboratori di progettazione. Particolare attenzione viene rivolta sia alla sua dimensione comunicativa che a quella d’uso e di riuso/riciclo. Per quanto riguarda la comunicazione, la progettazione del packaging viene affrontata a partire dall’identità del prodotto e dalle sue relazioni con il sistema

della marca. In quest’ambito, viene dato grande risalto alle valenze comunicative dell’oggetto, agli aspetti sinestesici, ai linguaggi e dunque al portato semantico di strutture, materiali ed elementi grafici. Nei corsi e nei laboratori focalizzati alla messa a punto di strategie di prodotto, il packaging è uno degli elementi che contribuiscono alla definizione del sistemaprodotto a cui appartiene, ossia a quell’insieme di prodotto, servizio e comunicazione che costituisce l’identità della moderna offerta

industriale. In quanto parte di un sistema, il packaging è dunque pensato e progettato come tassello fisico, comunicativo e logico di un mosaico complesso, la cui visione d’insieme è oggetto del lavoro del progettista designer. Pertanto, sono valutati ed elaborati non tanto gli aspetti grafici, stilistici e strutturali che definiscono l’identità visiva del prodotto-packaging, ma la modalità d’uso che esso permette e promuove, sia nella fase della sua prima vita, ossia quando ha il compito di veicolare il contenuto dal luogo di vendita a quello di consumo,


che nella fase della sua seconda vita, quando, cioè, diventa rifiuto per una parte dei suoi utenti e potenziale nuova risorsa per altri ambiti industriali e produttivi. Il packaging, quindi, nell’intero suo ciclo di vita, è sempre progettato con l’attenzione dovuta rispetto alle problematiche ambientali, in modo da ridurre la quantità di risorse che richiede per essere prodotto, promuovere nel consumatore finale comportamenti che consentano il recupero delle risorse ancora presenti nel rifiuto di imballaggio e permettere che

tali risorse possano, il più facilmente possibile, ritornare a essere nuova materia prima per altri processi produttivi. In quanto parte di un sistema integrato ed eco-sostenibile, il packaging è sempre progettato in stretta relazione al suo contenuto, secondo una visione unitaria dell’intero prodotto. Gli studenti hanno così modo di applicarsi alla progettazione di soluzioni per diversi ambiti merceologici e sono addestrati alla restituzione grafica bidimensionale e tridimensionale delle qualità visive e d’uso loro dei loro progetti.

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tools

At Packaging School

Milan Polytechnic Faculty of Design

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Packaging is found in many design workshops as part of the various educational paths proposed by the Faculty of Design at Milan Polytechnic (FacoltĂ del Design - Politecnico di Milano, via Durando 38/a, Milan). Special attention is paid to both its communicative role and the aspects of use and reuse/recycling. With regard to communication, the process of designing packaging is approached by starting with the identity of the product and its relations with the brand system. Here great importance is given to the communicative value of the object, its aspects of synaesthesia, the language used and thus the semantic import of the structures, materials and graphic elements. In the courses and workshops that focus on developing product strategies, packaging is one of the elements that contribute to the definition of the product-system to which it belongs, i.e. to that combination of product, service and communication that makes up the identity of modern industrial supply. Being part of a system, the packaging is thus thought of and designed as a physical, communicative and logical block in complex mosaic, with the designer responsible

for the overall picture. Therefore, it’s not so much the graphic, stylistic and structural aspects that establish the visual identity of the packagingproduct that are evaluated and processed, but rather the method of use that this allows for and promotes, both during the phase of its initial life (when it’s charged with the task of carrying the content from the sales outlet to the place of consumption) and its second life (when it becomes waste for some of its users and a potential new resource for other fields of industry and production). Packaging during its entire life cycle, therefore, is always designed with all due attention to environmental issues in order to reduce the amount of resources needed for it to be produced, to promote behaviour in end consumers that allow the resources still present in the waste packaging to be recovered and to allow for these resources to become - as easily as possible - a new raw material to be used in other production processes. Part of an integrated eco-sustainable system, packaging is always designed with a close eye on its content, according to an organic vision of the entire product. The students thus have the chance to get involved in designing solutions for many different goods categories and are trained to produce 2-D and 3-D graphic ideas of the visual and functional qualities of their projects.


show box

Cargo-Design

O, come dice il titolo della mostra, Milan in a Van. È stata una mostra sui generis, che si è tenuta Londra al Victoria and Albert Museum tra aprile e giugno scorsi. Il concetto è semplice quanto originale, il curatore, Gareth Williams, ha freneticamente scelto durante i giorni del Salone del Mobile a Milano i pezzi di

design più significativi ed interessanti, li ha imballati in casse e, trasportati da un grande camion, li ha portati a Londra in modo da allestire una mostra che fosse una sorta di visione alla moviola di quello che era lo spirito e l’atmosfera milanese dei giorni immediatamente precedenti. Due cose ci paiono interessanti: l’uso massiccio e

disinvolto dell’imballaggio sia prima che durante l’evento – al V&A tutti gli oggetti erano mostrati appoggiati su casse e pallet – e l’utilizzo “televisivo” del tempo e dello spazio che, tramite tagli, montaggi, ricostruzioni della scena e replay, ha permesso di realizzare un evento fiction, apparentemente improvviso e provvisorio, estremamente reality.

Photo by Carlo Draisci

Design e imballi nellʼallestimento della mostra Milan in a Van.

Design and packaging in the show Milan in a Van.

during the event - at the V&A all the objects were displayed on packing cases and pallets - and the television-like use of time and space that, by way of cuts, splicing, reconstruction of the scenes and replays, enabled the creation of a fictitious event, apparently improvised and temporary, that appeared extremely realistic.

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design pieces, put them in packing cases, transported them to London in a huge lorry, to put together a show that was a kind of slow motion viewing of the spirit and atmosphere gleaned at the Milanese event just a few days before. Two things appear interesting to us: the huge and uninhibited use of packaging both before and

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Or as the title of the show runs, Milan in a Van. Weird and unique in its kind, held in London at the Victoria & Albert Museum between April and June last, the concept of the show was as simple as it was original: during the days of the Milan furniture show, curator Gareth Williams frenetically chose the most significant and interesting


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La Perla e l’ Ostrica Stravaganze, eccessi e metamorfosi del packaging. Testo e foto di Maria Gallo

Il packaging industriale, così come noi lo conosciamo, nasce ridondante. Scritte, immagini, firme, dimensioni e colori non sono affatto necessari alla conservazione e al trasporto delle merci. Il contenitore deve essere funzionale e riconoscibile, certo, ma le informazioni sull’identità e le caratteristiche della merce contenuta, subiscono, in breve tempo, una radicale metamorfosi trasformandosi da “comunicazioni di servizio” in “amabili conversazioni”, tra produttore e consumatore. Un evento tutto sommato prevedibile, se si pensa che la distribuzione delle merci attraverso adeguati punti vendita, mette in qualche modo la parola fine al rapporto diretto tra produttore e consumatore.

Si ringrazia il negozio Carpe Diem, Milano Thanks go to the shop Carpe Diem, Milan


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Questo significa che le lunghe e ipnotiche chiacchiere con cui il produttore/venditore ammansiva un tempo i potenziali clienti, devono trasferirsi sulla merce, unico punto di contatto rimasto. Al contrario del prodotto artigianale però, il prodotto industriale offre la possibilità di fare “discorsi” a un pubblico potenzialmente molto vasto e particolarmente ricettivo, per questo anche l’angusta superficie che ricopre una caramella ha lo stesso potere comunicazionale del grande manifesto esposto in piazza. Alla sua nascita, insomma, il packaging è già un nuovo media che, in attesa della televisione, distribuisce messaggi in modo mirato e capillare. Prima di trovare un suo specifico linguaggio, il packaging attraversa però un lungo periodo parassitario, in cui il ruolo di seduttore è affidato interamente ai manifesti pubblicitari.

In quelli firmati da Dudovich, nel 1920 per il Bitter Campari così come in alcuni manifesti di Carboni (1950) per la pasta Barilla e nella réclame del dentifricio Fluorodont, disegnata negli stessi anni da Ramos, il packaging semplicemente non esiste. Casuale o meditata, l’esclusione sembra confermare lo scarso appeal delle confezioni, la cui presenza, forse, è considerata del tutto superflua in un prodotto graficamente raffinato, come il manifesto pubblicitario. D’altra parte l’offerta di merci, e quindi di potenziali concorrenti, è, tutto sommato, relativamente limitata così, nonostante molti prodotti siano già dotati di packaging ben disegnati, il ruolo di front-man della comunicazione resta saldamente nelle mani della pubblicità. Sarà insomma il boom economico e l’esplosione dei mercati a imporre il cambiamento di rotta. Per non passare inosservate, le merci iniziano a urlare, facendo propria le lezione della réclame. Sarà, infatti, prima di tutto “grafico” l’eccesso di cui si rivestiranno le merci. Alcuni esempi scelti a caso: l’esplosione del logo OMO sulla scatola dell’omonimo detersivo, l’allegro svolazzare delle farfalle Barilla, sulle confezioni di pasta disegnate sempre da Carboni, l’idilliaco paesaggio rupestre su cui si staglia il bue che, probabilmente, ha donato le sue carni al signor Simmenthal.


semplicemente il supporto materiale di una comunicazione finalizzata a ben altro. Illuminante l’esperienza di Rodchenko e Majakovskij nell’Unione Sovietica degli anni Venti. Il primo riproduce sull’involto dei dolci “Proletarskaia” i ritratti del capo del Comitato esecutivo del Partito Comunista Sovietico, M.I.Kalinin e del Ministro degli Affari Esteri, G. Chicherin. L’operazione si svolge nell’ambito di una campagna di educazione politica. Oggi, di questo packaging, colpisce in particolare la straordinaria somiglianza dei due funzionari con Lenin e Trotzki. Sorge qualche dubbio sulla fedeltà dei ritratti rispetto agli originali, ma del resto... questo è il bello della propaganda politica. A partire dal 1919 invece, un giovane

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Quest’ultimo esempio appartiene a un genere per la verità piuttosto antico, che annovera illustri precedenti. Le confezioni di Borotalco Robert’s, infatti, sono ormai impresse nella nostra memoria grazie al dolce quadretto che ritrae, fin dal 1904, un bimbo sulle ginocchia della sua nurse. La leggenda vuole che si tratti in realtà di una bimba, e in particolare di “Helen French, figlia di Benjamin e di Elisabeth Little, vedova di Edmund Roberts” (1). La scenetta ha un impatto tale da diventare pressoché ineliminabile dalle confezioni di Borotalco, nonostante alcune sostituzioni: dopo pochi anni la nurse diventa più giovane e anche il pupo, per ovvi motivi, sarà sostituito. Senza saperlo, insomma, Henry Roberts (creatore della polvere) inventa il “Carosello” pretelevisivo e fonda la dinastia a cui appartengono i vari Giovanni Rana e signori Amadori, imprenditori che, per promuovere un prodotto, non esitano a mettere in gioco se stessi, la propria prole e, forse, anche quella dei propri dipendenti. Il packaging graficamente barocco nasce anche da problemi economici. Modificare il design di una confezione, dalla latta fino alla scatola in cartone, è molto costoso. Per cambiare colori e testi servono invece investimenti relativamente bassi e la libertà d’azione è praticamente senza confini. Inutile dire che questi confini, se mai sono esistiti, sono stati abbondantemente attraversati, superati e ridisegnati molte volte. Tanto che la merce, in casi estremi, ha finito col diventare

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Vladimir Majakovskij, sull’onda dell’entusiasmo post-rivoluzionario, illustra con disegni e narra con brevissimi testi, le gesta eroiche dell’Armata Rossa sulle carte contenenti le omonime caramelle. Qualcosa di molto simile ai fumetti

del “Corrierino” raggiunge i bambini attraverso un packaging fisicamente modesto ma ad altissimo contenuto informativo. Difficile immaginare un discorso più lontano dalla “sostanza” caramella. Nel packaging, insomma, l’eccesso


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dentro una confezione ma è spalmato su dei facsimile di packaging noti, come quelli delle sigarette Camel. Una sorta di proporzione matematica lega il bene voluttuario ai barocchismi del suo packaging, così, come in un gioco al rialzo, il regalo prezioso può diventare persino una matrioska dell’imballaggio. Valga per tutti l’esempio della confezione di una collanina in argento, con relativo ciondolo e perla. Il produttore ha scelto di separare gli oggetti, cioè la perla dalla collanina, e questo ha

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può assumere anche modalità immateriali, quasi subliminali. Classico l’esempio della bottiglia di Coca Cola. Volontario o inconsapevole, l’ingombrante destino di questo manufatto in vetro ormai viaggia oltre i confini del contenitore industriale e nei suoi ottantasette anni di vita è diventato, soggetto artistico, simbolo politico, oggetto di considerazioni intellettuali e oggi anche “gusto”. Le caramelline gommose Gelco al gusto di cola, infatti, quale forma potevano assumere se non quella della famosa bottiglia? Così, quando l’eccesso si sposta sul piano materiale, il packaging significativamente debordante finisce col trasformarsi, inesorabilmente, in oggetto autonomo. Terminata la sua funzione primaria, questo tipo di packaging continua generalmente a vivere di vita propria. Si pensi per esempio alle bambole e ai vari personaggi dei fumetti che, realizzati tridimensionalmente in coloratissima plastica, sono diventati dei contenitori per shampoo e bagnoschiuma, destinati al pubblico dei giovanissimi. Il settore dei cosmetici è in un certo senso predestinato all’eccesso, quando poi il prodotto proviene dal mondo del regalo promozionale (che si potrebbe dire barocco per definizione) non è raro imbattersi in vere rarità come la serie di profumi prodotti da Gainet. In questo caso delle semplici boccette in vetro sono state integralmente rivestite di morbido materiale espanso, a cui sono state date le forme più varie: dai classici paperi e pinguini fino ai trofei calcistici, caratterizzati dai colori delle varie squadre del cuore. Deo-Promotion invece, grazie allo studio di una nuova serie di inchiostri per la stampa offset (in grado di resistere agli oli utilizzati per le profumazioni) propone un’operazione di “metapackaging”. Nel suo caso infatti il profumo per ambienti non è


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creato un aumento esponenziale del packaging. La perla è confezionata nella sua originale integrità e, quindi, ancora ben sigillata nell’ostrica. L’ostrica è conservata in liquido marino, contenuto in una lattina del tutto simile a quelle in cui acquistiamo il tonno o la carne in scatola. La collanina invece è ancorata a un supporto in velluto, usato spesso nel confezionamento dei gioielli. Gli oggetti, la latta e il supporto sono contenuti a loro volta in una grande scatola. Ben quattro imballaggi (ostrica, acqua, latta, scatola) proteggono la naturale secrezione calcarea dell’ostrica, chiamata perla. La merda di un uomo chiamato Manzoni si è accontenta di molto meno. Esiste infine un genere di packaging “funzionalmente” eccessivo che, lungi dal diventare un testimonial di lunga durata, generalmente ha una vita tanto breve quanto complessa. Si tratta dei packaging macchina, strumenti operativi che entrano in funzione per ottimizzare l’utilizzo della merce. Da pochi anni, per esempio,


abbracciati sulle scatole dei baci Perugina o la perenne rincorsa all’effetto sorpresa delle boccette di profumo, qualche volta vale pena di correre. Maria Gallo è designer; scrive di packaging e di cultura degli oggetti per L’Unità. 1 L. J. Bonomi in L’Italia che cambia, ed. Artificio, Firenze 1989, pag. 261

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sono arrivate sul mercato italiano le bevande “Caldo Caldo” e “Freddo Freddo”. Le confezioni sono una perfetta macchina funzionale e comunicazionale. Si noti che: - il nome del prodotto dice non già di cosa si tratti (particolare ininfluente, in questo caso) ma la sensazione che proveremo durante la fruizione del prodotto; - il packaging è studiato per produrre materialmente la sensazione e per farci gustare, nel migliore dei modi possibili, la bevanda, soprattutto in situazioni di relativa emergenza. Poco importa la qualità del tè o del caffè contenuto: questo packaging è studiato per offrire un momento di conforto non per promuovere un’ottima bevanda. La sua vita perciò sarà, come dire?, breve ma intensa. Come i replicanti di Blade Runner, condannati a morte precoce per eccesso di perfezione, anche il packaging splendido e eccessivo sa bene insomma di correre dei rischi. Sono rischi però che, come dimostrano gli amanti ancora oggi


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The Pearl and the Oyster The eccentricities, excesses and metamorphosis of packaging.

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Maria Gallo (text and photos)

Industrial packaging, as we know it, is created overabundant. Text, images, names, sizes and colours are not actually necessary for the preservation and transport of goods. Certainly, the container must be functional and recognisable, but information on the identity and features of the goods contained in a very short time undergo a radical metamorphosis, being transformed from “service communication” into “loving conversations” between producer and consumer. All in all, this phenomenon has been predictable, bearing in mind that the distribution of goods through suitable points of sale is in some ways the last step in the direct relationship between producer and consumer. This means that the long, hypnotic chat with which the producer/vendor would once woo potential customers must now be transferred to the goods themselves, the only remaining point of contact. Unlike craft products, however, the industrial product offers the opportunity to have “conversations” with a potentially vast and particularly receptive public, and in this regard a simple sweet wrapper has the same communicative power as a huge poster displayed in the town square. So at its birth, packaging was already a new form of media which, before the advent of television, spread its message in a targeted and capillary way. However, before finding its own specific language, packaging went through a long parasitic phase, in which the role of seducer was wholly entrusted to

advertising posters. In those created by Dudovich in 1920 for Bitter Campari, in some posters by Carboni (1950) for Barilla pasta and in the advertising for Fluorodont toothpaste, designed about the same time by Ramos, the packaging simply did not feature. By accident or design, its exclusion seems to confirm the lack of appeal of packaging, whose portrayal was perhaps considered completely superfluous for such a graphically sophisticated product as an advertising poster. On the other hand, the supply of goods, and therefore of potential competition, was relatively limited and despite the fact that many products had well-designed packaging the role of front-man for communication remained firmly in the hands of advertising. It was to be the economic boom and the explosion of markets which would bring about a change of course. In order not to go unobserved, merchandise began to cry out, thus itself doing the job of the advertisement. At first, the excessive manner in which goods were dressed up was in the graphics. A few examples chosen at random: the explosion of the OMO logo on the box of the detergent of the same name; the happy fluttering of the Barilla butterflies on the pasta packaging designed by Carboni; the idyllic rocky landscape on which stands the bull which has probably given its meat to Mr. Simmenthal. This last example belongs to a fairly old type which includes illustrious precedents. The various packs for Robert’s Talcum Powder are now impressed on our memories, thanks to the sweet little picture which since 1904 has depicted a little boy on his nurse’s knee. Legend has it that it was in fact a little girl, specifically “Helen French, the daughter of Benjamin and Elisabeth Little, the widow of Edmund Roberts” (1). The scene had such an impact that it was almost impossible to eliminate it from the Talcum Powder packs, despite several changes: after a few years, the nurse


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modest but of very high informational value. It is difficult to imagine a subject further removed from the sweets themselves. In packaging, the excesses can take on unreal, almost subliminal, aspects. The classic example of this is the Coca-Cola bottle. Whether by accident or design, the cumbersome destiny of this glass product goes far beyond the limits of an industrial container and in its eighty-seven years it has become and artistic symbol, a political symbol, the subject of intellectual considerations and, today, even of “taste”. In fact, what shape could the Gelco cola-flavoured fruit gum take on except that of the famous bottle? In this way, when the excess is moved to a material plane packaging which is significantly detached ends up being inexorably transformed into an object in its own right. Its primary function over, this type of packaging usually continues to live a life of its own. Think, for example, of dolls and comicbook characters which, created threedimensionally in colored plastic, have turned into containers for shampoo and bath foam, aimed at a very young public. The cosmetics sector is in some ways foreordained to excess, and when the product comes from the world of the promotional gift (thus Baroque by definition) it is not unusual to come across genuine rarities such as the series of perfumes produced by Gainet. In this case, simple small glass bottles were covered with soft expanded material, which was then formed into very varied shapes: from the classic goslings and penguins to football trophies bearing the colors of the various teams close to the supporters’ hearts. Deo-Promotion, thanks to the development of a new series of inks for offset printing (which are able to resist the oils used in the perfume industry) has come up with the idea of “metapackaging”. In this case, perfumes for the environment are not packed within containers but spread onto the facsimile of a

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became younger and, for obvious reasons, the child was replaced. Without realising it Henry Roberts (the creator of the powder) had invented the pre-television “Carosello” and founded the dynasty which includes the Giovanni Ranas and Mr. Amadoris, entrepreneurs who, to promote a product, do not hesitate to push forward themselves, their children and, in all probability, those of their employees. Graphically Baroque was also born out of economic problems. Changing the design of a pack from a can to a cardboard box, is an expensive business. However, only relatively modest investment is necessary to change colors and text, and freedom of action is virtually limitless. It goes without saying that these limits, if they have ever existed, have been massively crossed, overcome and redesigned many times. So much so that in extreme cases, the goods have ended up being merely the support material for a communication aimed at something very different. The experience of Rodchenko and Majakovskij in the Soviet Union in the 1920s is illuminating. The former reproduced on the wrappings of “Proletarskaia” cakes the portraits of the head of the Executive Committee of the Soviet Communist Party, M.I.Kalinin, and the Minister for Foreign Affairs, G. Chicherin. The operation took place as part of a political education campaign. Today, the striking thing about this packaging is the extraordinary similarity of the two functionaries to Lenin and Trotzki. Some doubts arise as to the faithfulness of the portraits to the originals, but for the restÖ this is the beauty of political propaganda. From 1919, on a wave of post-revolutionary enthusiasm, a young Vladimir Majakovskij illustrated with drawings and told with very short texts the heroic deeds of the Red Army on the papers containing the sweets of the same name. Something similar to “Corrierino” cartoons reached children through packaging which was physically


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famous product, such as Camel cigarettes. A kind of mathematical proportion links unnecessary merchandise to the Baroque nature of its packaging so that as in a hyped-up bull market, the precious gift can even become a Russian doll of packaging. One example serving to illustrate the principle is the packaging of a silver necklace with a pendant and pearl. The manufacturer decides to separate the objects, to keep the pearl apart from the necklace, and this results in an exponential increase in the amount of packaging. The pearl is packed in its original intact state, that is sealed in its oyster. The oyster is preserved in sea water, in a tin similar to the ones used for tuna or canned meat. The necklace meanwhile is fixed to a velvetcovered support, of the type often used for jewellery. The components, the tin and the support, are in their turn packed in a large box. Four types of packaging (oyster, water, tin, box) protect the natural limestone secretion of the oyster, known as a pearl. The crap of a man known as Manzoni is content with much less. Finally, there is a kind of “functionally” excessive packaging which, far from becoming an enduring testimonial, usually has a life as short as it is complex. This is packaging machines, working tools which come into use to optimise the use of the merchandise. For example, a few years ago the soft drinks “Caldo Caldo” and “Freddo Freddo” appeared on the Italian market.

The packaging for these is a perfect functional and communicative machine. One must note that: - the name of the product does not say exactly what it is (an unimportant detail in this case) but describes the feeling we will experience while using the product; - the packaging is designed to actually produce this feeling and to allow us to enjoy the drink in the best possible way, especially in a sort of “emergency” situation. The quality of the tea or coffee inside is of little importance: this packaging has been designed to provide a moment of comfort, not to promote an excellent drink. Its life will be, shall we say, short but sweet. Like the Replicants of Blade Runner, condemned to an early death because of an excess of perfection, wonderful and excessive packaging also knows that it is running risks. However, these are risks which, as is demonstrated by the lovers who still today embrace on the packets of Baci by Perugina or the never-ending pursuit of surprise effects for perfume bottles, sometimes they are risks worth running.

Maria Gallo is a designer, and writes on packaging and the culture of objects for L’Unità. 1 L. J. Bonomi in L’Italia che cambia, ed. Artificio, Firenze 1989, pag. 261



Bertozzi & Casoni: Per Niente Fragili Due artisti si sono impegnati a stravolgere e a reinventare quella che una volta si chiamava “ceramica artistica�. Marco Senaldi

Reincarnazione di Andy Warhol nel nostro cane Dettaglio (2001), ceramica policroma Detail (2001), polychrome ceramics Courtesy Galleria Sperone, Roma Photo by Bernardo Ricci


identi-kit

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Composizione n°2 con cassette, dollari e cicogna 2002, ceramica policroma. 2002, polychrome ceramics Courtesy Galleria Sperone, Roma Photo by Bernardo Ricci

La storia del sodalizio artistico tra Stefano Casoni e Paolo Bertozzi è lunga, tortuosa, avvincente, impossibile da riassumere in poche righe. Eppure, non appena si mette piede nel loro laboratorio di Imola, è come se tutto diventasse chiaro, come se fosse del tutto evidente che non potevano non fare ciò che fanno, non dedicare tutti i loro sforzi a inventare un mondo doppiamente parallelo, un delirante surrogato della realtà, interamente realizzato in ceramica. Per quanto possa sembrare incredibile – e sulle prime lo è veramente – tutte le opere di B&C

sono infatti realizzate con uno dei materiali insieme più antichi e più versatili che l’uomo conosca - la ceramica – e con un’abilità quasi diabolica nel ricostruire iperrealisticamente qualunque oggetto, animale, utensile, accessorio, rifiuto, che si presenti ai loro occhi. Benché lavorino insieme da vent’anni, B&C hanno dapprima frequentato più l’area del design e dell’oggetto d’arredo stravagante e in copia unica, per poi raggiungere solo in un secondo momento l’indipendenza dell’opera d’arte. Indiscutibilmente, uno dei pezzi che ha attirato l’attenzione generale sul loro lavoro è stata la Brillo-cuccia, esposta fra l’altro in occasione di


Artefiera a Bologna nel 2001, presso lo stand della Galleria di Sperone (che insieme a Cardi promuove il loro lavoro). Molti visitatori, credendo fin troppo ai loro occhi, non credevano nemmeno alle loro mani, anche quando queste ultime gli dicevano (di nascosto, dato che vicino all’opera campeggiava il classico NON TOCCARE) che non si trattava di cartone, ma di ceramica! Ma la cosa davvero straordinaria è che, una volta arrivati dentro la fucina dei due maghi, il rischio di ingannarsi si moltiplica a dismisura: un vecchio bidone di gasolio è invece un vaso di enormi

deriva dal fatto che tutti questi residuati cosmici assumono un’aulica dignità dal momento che sono investiti dal sacro furore del perfezionismo estetico…

proporzioni e di inverosimile verosimiglianza, mentre tra cartoni veri, cartoni di ceramica, cestini pieni di spazzatura abilmente contraffatta e oggetti reali che invece appaiono evidentemente “ceramizzati” si rischia una sindrome di Stendhal da eccesso di mimesi. Questa mimesi però è salvifica: applicando alle cose più infime dell’universo una tecnica da grandi virtuosi dell’arte, B&C riscattano la vanità del mondo mettendola in piena evidenza. Nei loro pezzi sembrerebbe che il trauma risieda nel “tema” prescelto (ossa spolpate, cartoni lacerati, piatti bisunti, persino cacche di cane!), mentre invece il vero shock

Ormai non vi spaventa più niente… Ma non è strano che la ceramica, un materiale che rappresenta un vincolo fortissimo, possa assumere le forme più disparate? È un materiale fra i più eclettici, e su cui continua a essere fatta una grandissima sperimentazione, se pensi che le testate dei missili sono fatte di porcellana, e che alcune parti di motore, alcuni circuiti informatici sono in materiali ceramici… è un materiale che si presta a diventare quello che ti pare, con la ceramica sono stati realizzati persino dei tessuti. È un materiale che accompagna l’esperienza dell’uomo; gli archeologi quando trovano un pezzetto di ceramica riescono a

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Voi siete dei virtuosi tremendi! Sai, alcuni pezzi sono veramente difficili da eseguire – non è solo un’impressione di chi guarda. Comunque, non è mai un virtuosismo a vuoto; questo tavolo [di Saarinen] è tutto rifatto in ceramica, i posacenere con i mozziconi, i giocattoli rifatti, la tovaglia con le macchie… Tecnicamente possiamo fare quasi tutto, dipende dai mezzi...

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Barile Bardahl 2001, ceramica policroma. 2001, polychrome ceramics

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Courtesy Cardi&Co, Milano Photo by Bernardo Ricci

capire molto su una determinata civiltà o insediamento e lo chiamano “il fossile guida”.

ceramica, anche se qui quell’antica tradizione è applicata alla cassetta della frutta.

Come mai i vostri lavori hanno spesso a che fare collʼimballaggio? La ceramica ha costituito il materiale dei primi contenitori… È stata la prima cosa che ha sostituito le mani nel bere; il primo materiale dove c’è realmente un processo tecnologico – plasmare, cuocere, smaltare, eccetera; una tecnologia che è venuta per prima nella storia umana e ha anticipato la tecnologia dei metalli. Questa cicogna che sta posata su un nido coi dollari, sovrasta una pila di cassette di plastica; poi ci sono le cucce con le confezioni Brillo, le scatolette di cibo per cani… oppure i cestini: qui ci sono vecchi flaconi di detersivo, ma anche bicchierini in plastica. C’è anche un recupero dei cosiddetti “bianchi di Faenza” del Rinascimento, una tradizionale tipologia di oggetti ornamentali in

Voi state andando verso una sorta di iperrealismo nevrotico… che include anche il packaging! Sì, un po’ di nevrosi c’è… ma è normale! Queste scatolette però sono tutte inventate; non esistono packaging così; noi interveniamo poi sulle scritte; qui c’è un’etichetta di un medicinale, poi un’etichetta di una pomata… lavorare sui rifiuti è un cammino. Non ci si rende conto di quanto sono belle queste cose finché non si guardano con un occhio esterno – ed ecco che assumono un senso. È la riflessione, il momento in cui capisci realmente l’oggetto. [Stefano] Io mi sono reso conto che quando mi metto a fare una cosa, se non la rifaccio non la so descrivere, non l’ho capita. Ogni volta che rifai una cosa hai l’occasione per accettarla.


Che tecnica usate? Da qualche anno abbiamo acquistato un macchinario per la fotoceramica; stampiamo colori grafici, però sulla ceramica – per intenderci, è un po’ lo stesso procedimento che si usa oggi per ceramizzare le foto dei defunti. Solo che noi stiamo sperimentando per riprodurre immagini anche su superfici curve. Però, prima vedevo Paolo che dipingeva a mano gli occhietti di minuscole mosche di ceramica… [Paolo] Beh, naturalmente molte parti sono dipinte a mano; poi si sperimenta molto, perché come si sa i colori cambiano completamente con la cottura…

Come siete arrivati a questa deriva artistica “anomala”? È stata una scelta… Prendendo coscienza che eravamo finiti fuori dalle strade battute, ci siamo trovati in quello spazio, che non è mai stato occupato da nessuno, che una volta nelle vecchie fabbriche di ceramica si chiamava l’oggetto decorativo. Che era il vaso da fiori, la fruttiera, il canestro, la “ceramica artistica” - che però era solo quella antica, tutt’al più riprodotta con le tecniche e gli stili tradizionali.

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Ma certe idee, la Madonna che tosa il prato, una gallina che si specchia sulla superficie nera di un bidone di gasolio, una cicogna

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Voi provenite da studi specifici nel campo della ceramica? Siamo in buona parte degli autodidatti; abbiamo studiato all’Istituto d’Arte di Faenza che

aveva una vocazione esclusivamente ceramica… ci si va da giovani, come se fosse un liceo; ti dà una buona preparazione artigianale, sulla maiolica, sulla ceramica, sulla cottura…


1 Avanzi n°372 2001, ceramica policroma. 2 Gorilla albino con giochi 2002, ceramica policroma. 3 Madonna con bambino e tagliaerbe 1997, ceramica policroma.

appollaiata su una torre di batterie dʼauto – come vi vengono? La Madonna che tosa il prato… Paolo dice che l’ha vista! – [Paolo] beh nessuno mi crede, però, quando ero bambino, quella Madonna è stata una fissazione… poi il fatto che tagli il prato è una cosa anche banale dal punto di vista concettuale: è un discorso sulla Vita e sulla Morte… La prossima Madonna sarà scheletrita, è un percorso di accettazione di questa Mamma che uccide. Il tagliaerba però è stato sostituito da una vera macchina, ecco il passaggio: nel ‘99 lo avremmo fatto ancora stilizzandolo, oggi abbiamo preso un tagliaerba vero e proprio, lo stiamo smontando pezzo per pezzo e lo stiamo rifacendo interamente in

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ceramica, salvo un’armatura di sostegno perché naturalmente il materiale non ha le stesse caratteristiche strutturali e meccaniche del metallo. Prima c’era quindi molta più pittura, ora è tutto molto più chiaro, andiamo dritti alla “cosa in sé” – anche perché il tempo si assottiglia, noi andiamo avanti negli anni… o ci sbrighiamo a farci capire o è finita! [risate]. Tu dici come avete fatto a fare tutto questo percorso, ma è molto semplice, è un lavoro in collaborazione: c’è un dialogo… [Stefano] le cose nascono sempre da un’immagine: poi devi fare un lungo lavoro per mantenere viva quest’immagine. I nostri progetti sono tutti lunghi da realizzare, ci si può impiegare anni… questa tensione


che resta viva per tanto tempo ti porta però anche a scartare tutto ciò che non serve. Stiamo lavorando anche a delle sedie elettriche, riempite di farfalle che sulle ali portano tatuate i nomi di tutti i condannati a morte del Texas. Cʼè un amore per la catastrofe… È lo sguardo oggettivo - guardi un morto, sì, ti emoziona, ma poi devi accettarlo… …e voi siete pronti a rifarlo in ceramica! Il punto è spostare un po’ lo sguardo, finché riesci a vedere la cosa nel suo aspetto formale – poi in definitiva, non c’è cosa che non possa diventare di ceramica!

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Bertozzi & Casoni: No Way Fragile Two

artists have put all their energy into reinventing what was once called “artistic pottery”.

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The story of artistic ties between Stefano Casoni and Paolo Bertozzi is long, tortuous, engrossing and impossible to summarise in just a few lines. And yet, as soon as one steps into their workshop in Imola, it’s as though everything’s clear, evident, there’s no question they could do otherwise, but dedicate all their energy and efforts to invent a doubly parallel world, a mad surrogate for reality, made entirely from pottery. Although it might seem incredible – and at first sight it really is – all the works by B&C are indeed made with one of the oldest and most versatile materials man has ever known - baked clay – and with an almost diabolic ability in producing a hyper-realistic copy of any object, animal, tool, accessory, waste item they set eyes on. Although they’ve been working together for twenty years, B&C were first active in the area of design and extravagant one-off objets d’art and only later managed to gain independence in their work. There’s no denying that one of the pieces that first attracted general attention to their work was the “Brillo- kennel”, even being exhibited at the Artefiera in Bologna in 2001, at the Sperone Gallery stand (which promotes their work together with Cardi). Many visitors, implicitly believing their eyes, couldn’t believe their hands, even when these told them (in secret, given that there was the classic DO NOT TOUCH sign next

to the exhibit) that it wasn’t cardboard, but baked clay! But the really extraordinary thing is that, on entering the pottery of these two wizards, the risk of being deceived multiplies out of all proportion: an old gas can is in reality a huge, extremely lifelike vase, while amidst real boxes, pottery boxes, baskets full of cleverly copied waste and real objects that, instead, appear to have evidently been given the “ceramic effect”, there’s the real risk of suffering from Stendhal’s syndrome due to too much mimesis. However this mimesis is salvific: by applying a technique of great art virtuosi to even the most ephemeral of things, B&C free the vanity of the world by putting it in full show. It would seem that the trauma in their pieces lies in the chosen “theme” (bones picked clean, torn boxes, greasy plates, even dog shit!), while the real shock comes from the fact that all these cosmic waste items assume a solemn dignity since they’re cloaked with the poetic frenzy of aesthetic perfectionism… Youʼre true virtuosi! Well, some pieces are really difficult to make – it’s not just an impression of the viewer. In any case, it’s never a case of pointless virtuosity; this table here [Saarinen] has been reproduced entirely in clay, the ashtrays and cigarette stubs, the copies of toys, the tablecloth with its stains… Technically speaking, we can do almost everything, it all depends on the means... Nothing scares you anymore… But donʼt you find it strange that clay, a material that represents a really strong restraint, should assume such widely differing shapes? It’s one of the most eclectic of materials, which people still continue to experiment with: just think, missile heads are made from porcelain and some motor parts, some IT circuits are made from


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ceramic materials… It’s a material that can be moulded to become whatever you want: even fabrics have been made from clay. It’s a material that has always accompanied man’s experience: when archaeologists find a piece of pottery, they’re able to understand great amounts about a certain civilisation or settlement, calling it their “fossil guide”. How come your works often have a packaging theme? Clay was the first material used for containers… It was the first thing that replaced our hands when drinking; the first material where one can really speak of a technological process – mould, bake, enamel, etc.; the first technology in the story of man, before the metal technologies. This stork on its nest of dollars is perched on top of a stack of plastic crates; then there are the kennels made from Brillo pad packs, dog food tins… Or the baskets: here are used detergent flacons and plastic cups. There’s even a recovery of the so-called “Faenza white” from the Renaissance, a traditional type of ceramic ornament, even if here that old tradition is applied to the fruit crate.

What techniques do you use? A few years ago we purchased a machine for photoceramics. We print graphic colors, but on ceramics – in other words, it’s a bit like the procedure used today to glaze funereal photos. But we’re experimenting to reproduce images even on curved surfaces. However, earlier I saw Paolo painting masses of tiny ceramic flies by hand… [Paolo] Well, of course, many parts are still hand-painted; but we experiment a lot because, as you know, the colors change dramatically once in the kiln… Have you studied pottery specifically? We’re both a good deal self-taught. We both studied at the Faenza Art Institute, which had an exclusively ceramics vocation… You go there when young, just like a high school. It provides you with a good background in the art of majolica, ceramics, firing clay… How did you reach this “abnormal” artistic drift? It was a conscious decision… We realised that we’d left the beaten path, we were in that “noone’s land” that once upon a time was called “decorative object” by the old pottery factories. The flower vase, the fruit bowl, the basket, “artistic ceramics” - but that term only deals with the old style, at the most reproduced with traditional techniques and in the traditional styles.

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But certain ideas - such as Our Lady mowing the lawn, a chicken reflected in the black surface of a gas can, a stork perched on a tower of old car batteries - how do you get them? Our Lady mowing the lawn… Paolo says he

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Youʼre heading for a sort of neurotic hyper-realism … that even includes packaging! Yes, there’s definitely a bit of neurosis… but then that’s normal! These containers are all invented, though; there’s no such packaging. We even consider the wording: here there’s a medicine label, then one for an ointment… To work with waste is a real journey. You can’t even start to imagine just how beautiful these things are until you look at them with a fresh eye – and that’s when they take on meaning. It’s reflection, the moment when you really understand an object. [Stefano] I’ve realised that when I start to do something, if I don’t imitate it, I can’t describe it, I

haven’t understood it. Every time you imitate something, you’ve the chance to accept it.


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actually saw her! – [Paolo] Of course, nobody actually believes me, but the Virgin Mary was a fixation for me when I was young… Then the fact that she mows the lawn is such a banal thing conceptually: it’s a discussion of Life and Death… The next Madonna will be like a skeleton, it’s all part of accepting this Mother who kills. The lawnmower has been replaced with a real machine, however, that’s the change: in ‘99 we did it again, stylising it; today we’ve taken a proper lawnmower, dismantled it piece by piece and we’re now reproducing it entirely in clay, apart from a support frame, because the material obviously doesn’t have the same structural and mechanical properties of metal. So, while there was much more painting before, now it’s all much clearer: we’re going straight to “the thing itself” – also because time’s short and we’re getting older… or because we’ve got to do our best to make ourselves understood or else it’s all over! [laughs]. You ask how we’ve managed to

do all this, but it’s very easy: it’s a matter of teamwork: there’s dialogue… [Stefano] Things always start with an image: then you’ve got to work hard to keep this image alive. Our projects all take a long time, even years… This tension that stays alive for so long also helps you discard what’s not strictly necessary. We’re also working on electric chairs, filled with butterflies that have the names of all those on Death Row in Texa tattooed on their wings. Thereʼs passion for catastrophe… It’s the objective eye - you see a dead person, OK. You get upset. But then you have to accept it… …and youʼre willing to reproduce it in clay! The point here is to shift the perspective a bit, until you see the thing in its formal aspect – then finally, you realise there’s nothing that can’t be made from baked clay!


Immagine e Somiglianza Antonio Curcetti

Sono un uomo di Pavlov, trasparente come un sacco d’immondizia, lacerato dagli stessi denti del cane che ringhiava e mordeva alla sua paura - la sola cosa umana che lui avesse. All’interno delle ferite, tutto si è disperso e si è raccolto assieme ai resti d’estinta purezza, riciclati da un bell’aspetto; strategie di marketing ora rivestono l’osso che fui, come se, così facendo, anche l’io risultasse meno nudo. Antonio Curcetti, poeta, ha pubblicato Tutto il resto è variazione, Geiger, 1977 e, di recente, Reduci da un bel nulla, Anterem, 2000.


Natura Morta Bertozzi & Casoni 2001, dettaglio, ceramica policroma Photo by Cesari e Studio Pym Courtesy Cardi&Co, Milano

Image and Resemblance Antonio Curcetti

I am Pavlov’s man, as transparent as a bag of rubbish, lacerated by the same teeth of the dog that snarls and bites at its fear - the only human thing that it has. Within the wounds, all is dispersed and has gathered together with the remains of the extinct purity, recycled by its pleasant appearance; marketing strategies now clad the bones I once was, as if doing so that Ego too might appear a little less naked. Antonio Curcetti, poet, has published Tutto il resto è variazione, Geiger, 1977 and recently Reduci da un bel nulla, Anterem, 2000.


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Pupa nel Paese delle Meraviglie I fantastici iper giocattoli della bellezza


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Capita di vedere nelle vetrine di alcune profumerie, oltre a flaconi, creme, rossetti e smalti di varia foggia, anche voluminosi oggetti e che a prima vista sembrano giocattoli messi lì per sbaglio. Hanno l’aspetto di diavoletti, angioletti, orsetti, topini, cappuccetti rossi; di stelle, lune, soli, sfere, cubi. Oppure sono come piccoli giardini sotto plexiglas, vassoi di pasticcini, vasi di ikebana. Spesso il colore dominante è il rosso acceso, primario e lucido per richiamare l’attenzione. Infatti ci si ferma a guardare meglio e si scopre che si tratta di profumi o di kit per il make up “disegnati” apposta per incuriosire e stupire; sono iperbolici packaging-giocattolo che seducono non solo ragazzine e

adolescenti ma tutte quelle piccole donne che non vogliono crescere. I cofanetti Pupa sono oggetti senza mezzi termini “esagerati”: taluni evocano esplicitamente un mondo infantile e sognante (favole, caramelle e yo-yo), altri rispecchiano, semplificandole, le tendenze del momento (tecnologia, aromaterapia e stile giapponese); tutti sono “barocchi” perché è impossibile non farci caso e non avere le voglia di

aprirli, schiudendo tutti i micro cassetti e i piccoli sportelli che li caratterizzano, per vedere se la promessa del sogno è mantenuta. Sono oggetti “goduriosi”, un po’ per l’aspetto colorato, caramelloso, arrotondato, che ricorda tanto i bon bon dei cartoni animati, un po’ perché evocano mondi sensuali abitati da lolite impertinenti, dolci e maliziose. Sono oggetti in cui il packaging eccessivo è la vera peculiarità che proclama l’identità e la riconoscibilità della marca. Il prodotto si adegua alla fiaba e poche gocce di profumo colorano delicatamente i boccioli dei fiori sintetici dai lunghi steli; tre candele


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galleggianti accompagnano il bagno doccia “Bonsai”; semi veri e farfalle polimeriche abitano il “piccolo giardino” degli aromi; tre perle da bagno a forma di cuore sono accostate a profumo e talco per la segreta bellezza del corpo; stelline, sali da bagno e gel glitterato aspettano sotto una volta celeste di plastica. Rossetti, lip gloss, ciprie, ombretti di tutti i colori, si adeguano ai capricci di imballaggi ipertrofici e camaleontici; fondotinta, fard, mascara, matitoni per gli occhi, sono fagocitati dagli innumerevoli

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scompartimenti di astucci incredibili. Rendiamo merito all’abilità tecnica e ingegneristica che fa di questi packgiocattolo delle piccole opere di perizia costruttiva. L’attuale tendenza del packaging cosmetico di proporre soprattutto scatole e flaconi dalle forme pulite ed essenziali, talvolta appena segnate da un dettaglio, algide e minimaliste,

è sovvertita da Pupa senza alcun imbarazzo e senza mezze misure. Questi packaging ridondanti rispecchiano l’aspetto più esagerato e vistoso che talvolta caratterizza le nostre artificiose esistenze. Come in un Truman Show, la finzione totale diventa la regola di quella realtà, anzi, iper realtà (intesa come grande, iperbolica, fantasmagorica), che vorremmo almeno una volta esperire, senza leggi né regole che non siano quelle dello stupore e della meraviglia di Alice nel suo viaggio fantastico. L’importanza dei packaging-giocattolo di Pupa è quella di aver assunto con consapevolezza e professionalità l’onere del trash e di aver occupato, senza compromessi, un posto ben preciso nell’immaginario del giovane pubblico femminile.


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Pupa in Wonderland

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The fantastic hyper-toys of the beauty world It sometimes happens that in the windows of some perfumeries, among the bottles, creams, lipsticks and nail varnishes of various shapes, you see large objects which look like toys which have been put there by mistake. They look like imps, cherubs, teddy bears, mice and Little Red Riding Hoods; like stars, moons, suns, spheres and cubes. Or maybe they are like little gardens under plexiglass, little trays of petit fours, vases of ikebana. Often the main colour is red – bright, bold and shiny, to catch the attention. In fact, if you stop and have a closer look, you realise that these are perfumes or make-up kits specifically ‘“designed” to arouse curiosity and astonish; they are deliberately-exaggerated packaging-toys aimed at attracting not only children and teenagers but also those little women who do not want to grow up. Pupa gift boxes are, to put it bluntly, “exaggerated”; some of them explicitly evoke a child’s dream-world (fairy tales, sweets and yoyos), while others reflect, in a simplified way, today’s trends (technology, aromatherapy and Japanese style). They are all “Baroque”, because it is impossible not to be attracted to them and want to examine them, opening all the little boxes and drawers which are their main features, to see if the promise of the dream is fulfilled. They are “blissful” objects, partly because of the colors used, and their rounded shapes, like sweets, recalling those in animated cartoons, and partly because they evoke sensual worlds inhabited by saucy Lolitas, sweet but malicious. They are objects in which excessive packaging is

actually the particular feature which proclaims the identity and recognisability of the brand. The product adapts itself to the fairy tale, and a few drops of perfume delicately color the buds of long-stemmed flowers; three floating candles accompany the “Bonsai” bath foam; real seeds and polymer butterflies inhabit the “little garden” of scents; three heart-shaped bath pearls adorn perfume and talc for the secret of bodily beauty; little stars, bath salts and gel glitter as they wait under a blue plastic sky. Lipsticks, lip gloss, powders and eyeshadows of every hue are adapted to the whims of bulging, chameleon-like packaging; foundation, blusher, mascara and eyebrow pencils are swallowed up in the innumerable compartments of the fantastic boxes. We give credit to the technical and engineering ability that has made these pack-toys into little constructional masterpieces. The present usual trend for cosmetics packaging to offer boxes and bottles with clean, functional lines, sometimes marked out with a small, austere and minimalist detail, has been subverted by Pupa without embarrassment and without halfmeasures. These grandiose packagings reflect the most exaggerated and garish aspect which sometimes characterises our unnatural existence. As in the Truman Show, total pretence becomes the rule of this reality, even hyper-reality (meaning great, hyperbolic, phantasmagoric), which we want to experience at least once, without the laws or rules which are those of Alice’s amazement and wonder on her fantastic journey. The importance of Pupa’s packaging-toys is to have taken on, with awareness and professionalism, the burdens of trash and, without compromise, occupied a well-defined place in the imagination of a young female public.


Il nostro non è un

semplice lavoro di macchine, piuttosto si sostanzia nell’abilità di interpretare le esigenze degli utilizzatori. Su questo fondamento si è costruita la Cartografica Pusterla che con il passare degli anni è cresciuta fino all’acquisizione della francese Coffrets Creation.

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La Tremenda

Come far apparire il contenuto pi첫 abbondante di quanto non sia? Rimpicciolendone il contenitore. Antonio Piotti


psychopackaging

Abbondanza


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Nel suo bel libro Il mondo alla McDonald’s (1), George Ritzer parla di una retorica della quantità che caratterizza l’immagine commerciale di questa come di molte altre grandi reti di ristorazione. Lo scopo sarebbe quello di far credere al consumatore di aver acquistato una gran quantità di cibo spendendo poco. Così si presentano “Burger King”, “Big Fish”, dimensioni “Mega” nelle porzioni di patatine, ecc. L’illusione della quantità non viene trasmessa solo attraverso una connotazione di ordine linguistico, ma anche ovviamente ricorrendo al packaging. Si tratta però di un ricorso del tutto particolare e di una strategia che merita di essere approfondita innanzi tutto facendo notare ciò che non avviene. Generalmente, infatti, si pensa che una delle funzioni del packaging sia proprio quella di dare al consumatore la sensazione di aver comprato qualcosa di grosso anche se poi le dimensioni reali dell’oggetto sono ridotte. Un esempio tipico in

questo senso va forse ricercato nelle confezioni dei primi CD ROM didattici. Come si sa, questi oggetti contengono moltissimi dati in pochissimi spazio e quindi un CD di dimensioni ridotte può contenere un’intera enciclopedia… In effetti, ciò che contraddistinse le prime confezioni era appunto la presenza di un imballaggio sproporzionato, come se il consumatore non fosse ancora veramente pronto ad accettare fino in fondo l’idea di un’enormità virtuale anziché concretamente tangibile. Perciò il packaging veniva in aiuto al lato concreto e, se volete, un po’ ingenuo del nostro atto d’acquisto, serviva a toglierci la fastidiosa sensazione di aver speso circa duecento degli attuali euro per acquistare un piccolo disco. Da questo punto di vista ci si aspetterebbe dunque che gli involucri che contengono i prodotti di McDonald’s debbano essere grossi, molto più grossi di quanto sarebbe invece necessario per contenere il


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prodotto. Ebbene, questo è proprio ciò che non accade. L’illusione della quantità viene trasmessa invece attraverso una sorta di tracimazione, di eccedenza non compresa, di fuoriuscita rispetto al packaging. Ancora Ritzer ci spiega che “per le patate fritte si adoperano mestoli speciali per disporle in modo che il cliente abbia l’impressione di riceverne una grande quantità. Buste e scatole sono fatte in modo da dare

l’impressione di essere rigonfie, straripanti…” (2) come se si cercasse di trasmettere l’idea di un surplus “talmente grande” che non possa essere contenuto dalla scatola e - per estensione - da nessun tipo di contenitore. Una scatola grande con un contenuto ridotto dà l’idea di aver ricevuto meno di quanto desiderato, una scatola conforme al prodotto tende a dare una sensazione realistica, una scatola incapace di contenere ci trasmette la sensazione


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se stesso? McDonald’s ha capito bene tutto questo e ha saputo interpretare la domanda del consumatore: in altri termini ha capito che non si trattava di una domanda di cose (più patatine) ma di una richiesta di godimento (surplus rispetto al contenuto, senso dell’incontenibile) e ha trovato un packaging appropriato alla situazione. Proviamo ad arrivare alla stessa conclusione attraverso un’altra

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che il prodotto appunto sia incontenibile. Questa considerazione, tuttavia non deve applicarsi (e qui bisognerebbe correggere Ritzer) tanto all’idea di quantità, quanto alla categoria di desiderio. In altri termini, ciò che è incolmabile, incontenibile, non è tanto il prodotto, quanto il mio desiderio rispetto all’oggetto. E non è forse proprio il desiderio ciò che non accetta nessun contenimento e che anzi si caratterizza proprio per la sua tracimazione o fuoriuscita rispetto a


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strada: molti ricorderanno una straordinaria sequenza del film Un giorno di ordinaria follia, nella quale un Michael Douglas in profonda crisi di nervi decide di minacciare a mano armata i commessi di un fast food proprio perché il panino veramente servito ai clienti non coincide affatto con quello reclamizzato dalle insegne pubblicitarie che invitano ad entrare nel punto vendita. Ebbene, qual è la differenza tra i due panini? Seguendo la tesi di Ritzer, la differenza sarebbe

semplicemente quantitativa: il cliente, si rende contro della discrepanza tra ciò che viene dato e ciò che viene promesso e, in preda ad un attacco di nervi, inscena un acting out distruttivo. Dal nostro punto di vista invece, le cose non sono così semplici, il fatto è che di fronte al desiderio del soggetto nessun panino reale avrebbe potuto fare al caso e ciò semplicemente perché il cliente NON desidera un panino grande o piccolo, ma il surplus


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ATMOSFERA RAREFATTA NEL PADIGLIONE GIAPPONESE DELLA BIENNALE DI VENEZIA DEL 2001. IL MARCHIO MCDONALD’S, INTERPRETATO DA NAKAMURA MASATO, DIVENTA ELEMENTO ARCHITETTONICO PER LA COSTRUZIONE DI UNO SPAZIO TUTTO MENTALE E RIFLESSIVO.

RAREFIED ATMOSPHERE IN THE JAPANESE PAVILLION AT THE VENICE BIENNALE 2001, THE MCDONALD’S BRAND, BY THE ARTIST NAKAMURA MASATO, BECOMES AN ARCHITECTURAL ELEMENT FOR THE CONSTRUCTION OF A MENTAL AND REFLECTIVE SPACE.

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Ebbene questo surplus di godimento trova la sua descrizione migliore proprio nella scelta del packaging operata da McDonald’s: non una confezione grande, ma una confezione da cui la merce straripa, come se la patatina veramente gustosa non fosse una delle tante fornite ma proprio quella che, impossibilitata a essere racchiusa nella confezione, tracimante rispetto ad essa, ritrovi proprio in questa eccedenza non compresa la

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immaginario dato dal consumo, l’idea di aver colmato quel buco dentro di sé che, altrimenti, è semplicemente incolmabile. In un certo senso, la domanda del soggetto è sempre bulimica esattamente come il buco che egli avverte al suo interno. Perciò non è con un panino più grande che questa domanda può essere soddisfatta quanto piuttosto fornendo la sensazione di aver ricevuto un “più-di-panino”, un plusgodere rispetto al panino.


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dimensione più pura del desiderio. In un certo senso, questa stessa dimensione potrebbe esser fatta valere anche per il panino vero e proprio se solo si considerassero le due fette di pane come l’involucro (e quindi il packaging) nel quale è racchiuso il medaglione di carne. Ancora Ritzer dice che “la grande (e poco costosa) focaccia che avvolge la carne dell’hamburger lo fa sembrare più grande di quanto non sia. Per accentuare l’effetto

illusionistico, la carne nell’hamburger e i vari condimenti sono disposti in modo da fuoriuscire vistosamente, quasi che la focaccia, per quanto grande, non riuscisse a contenerne la tremenda abbondanza” (3). Ognuno di noi avrà fatto l’esperienza di consumare un panino da McDonald’s: ognuno si sarà reso conto empiricamente di quanto salsa, carne, cipolla e foglia d’insalata abbiano una forte


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Antonio Piotti (www.piotti.it), psicologo, ha pubblicato (con Marco Senaldi) Lo Spirito e gli Ultracorpi, Franco Angeli 1999 e Maccarone m’hai Provocato, Bulzoni, 2002. 1 G. Ritzer, Il mondo alla McDonald’s, ed. italiana Il Mulino, 1997. 2 Ibidem 3 Ibidem Photo by Erica Ghisalberti

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fossero il vero segreto del successo del marchio al di là di tutte le economie di spesa, i modelli di identificazione simbolici, il risparmio nei costi? L’arma in più di McDonald’s sta forse qui: nell’aver compreso la sottile dinamica del desiderio nell’aver intuito che le mani unte, come quelle che il bambino intinge nel barattolo della marmellata, sono proprio ciò che desideriamo molto più di un etto di carne macinata.

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tendenza a fuoriuscire a ricadere nel contenitore e ad ungere le mani di chi sta consumando. Ognuno si sarà detto che, in effetti, è abbastanza strano che una così famosa catena di ristorazione non abbia pensato ad un modo più pratico e meno imbrattante di proporre i suoi prodotti. Ebbene, e se invece, proprio questo imbrattamento, queste dita unte nella salsa, questa fuoriuscita, questa tracimazione incontrollabile


psychopackaging

Tremendous Abundance How to make the contents seem more than they really are? By making the container smaller.

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Antonio Piotti

In his clever book, McDonaldization of Society (1), G. Ritzer speaks of a rhetoric of quantity that distinguishes the commercial image of this, like many other major fast food chains. The purpose would seem to be how to make the consumer feel he’s bought a large quantity of food while spending very little. Hence “Burger King”, “Big Fish”, “Mega” dimensions for chip portions, etc. This illusion of quantity isn’t just transmitted by the use of language, but also by the choice of packaging, naturally enough. However, it’s a clever, special choice and strategy that merits to be looked at in-depth, especially in terms of what doesn’t happen. In fact, one generally believes that one of the main functions of packaging is to give the consumer the sensation that he’s bought something big, even if the actual size of the object is far smaller. A good example of this can be seen in the packs used for the first teaching CD ROMs. As is known, these objects contain a lot of data in the minimum of space and so a small CD can contain an entire encyclopaedia… In fact, the distinguishing feature of the first packs was the presence of oversized packaging, as though the consumer wasn’t really ready to accept deep down the ideal of virtual enormity rather than something tangible. Therefore the packaging came to our aid together, if one wants, with a bit of naiveté on our part at the moment of buying the CD ROM, getting rid of that annoying feeling that we’ve just spent the equivalent of two hundred Euros to buy a small disk. So, from this point of view, one would expect that the

packaging used to contain McDonald’s products should be large, far larger than is actually needed to contain the product. And yet this isn’t the case. Instead, the illusion of quantity is created by a sort of spilling over, of uncontainable surplus, of an overflow from the packaging. Again, Ritzer explains that “special ladles are used for the French fries so that these are arranged to give the customer the impression of receiving a huge amount. Bags and boxes are made to give the impression of being swollen, overflowing…” (2) as though to get across the idea of a surplus that’s “so big” that it can’t be contained by the box and - by extension - any other form of container. A large box with a small content gives the idea of having received less than desired, a box of the right size for the product gives a realistic sensation, while a box incapable of containing the product gives us the sensation that the product is impossible to contain. This consideration, however, shouldn’t apply (and here Ritzer needs to be corrected) so much to the idea of quantity as to the category of desire. In other words, what’s too big to be held, what’s uncontainable isn’t so much the product, but my desire for that object. And isn’t it precisely the desire that refuses to be contained and which is distinguished by its spilling over or escape from itself? McDonald’s has clearly seen all this and known how to interpret consumer demand: in other words, it’s realised that it’s not really a demand for things (more French fries), but for enjoyment (surplus compared to the contents, a sense of the uncontainable) and so has found the right packaging to suit the situation. Let’s try and reach the same conclusion adopting a different approach: many will remember the extraordinary sequence in the Falling Down, the one where Michael Douglas plays a man who has


psychopackaging

illusionary effect, the meat used for the hamburger and the various condiments are deliberately arranged to make them overflow conspicuously, almost as if the bread roll, no matter how big, can’t contain the tremendous abundance” (3). Each of us will have had the experience of eating a burger at McDonald’s: we’ll all have realised just how much the sauce, meat, onion and lettuce leaf tend to escape the container and get our hands greasy. We’ll all have commented that indeed it’s strange that such a famous food chain hasn’t found a more practical, less dirty way of proposing its products. And yet, what if it’s precisely this getting one’s hands dirty, having fingers greasy with sauce, this overflowing, this uncontrollable spilling over that’s the real secret behind the success of this brand, rather than all those economies of scale, the symbolic models of identification, the cost-cutting? Perhaps McDonald’s secret weapon is just this: having understood the subtle dynamics of desire, having realised that greasy hands, like those of a child dipping its finger in the jam pot, are exactly what we want most, much more than 100g of minced beef.

Antonio Piotti (www.piotti.it), psychologist, has published (with Marco Senaldi) Lo spirito e gli Ultracorpi, Franco Angeli 1999 and Maccarone m’hai provocato, Bulzoni, 2002. 1 G. Ritzer, McDonaldization of Society, Pine Forge Press, 1993 2 Ibidem 3 Ibidem

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Photo by Erica Ghisalberti

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a nervous breakdown and decides to threaten the workers in a fast food restaurant with a gun simply because the burgers they actually serve customers don’t coincide with that shown in the adverts that invite people to enter the restaurant. So, what’s the difference between these burgers? According to Ritzer, the difference would merely be quantitative: the customer realises the discrepancy between what he’s given and what he’s promised and so, in a fit of nerves, stages a destructive acting out. Things aren’t quite that simple when looked at from our viewpoint: the fact is that no real burger could ever satisfy the actual desire felt by the subject and this simply because the customer does NOT want a big burger or a small burger, but the imaginary surplus obtained in the act of consumption, the idea of having filled to overflowing that gap inside him that, otherwise, is simply impossible to fill. In a certain sense, the subject’s demand is always bulimic, just like the gap he feels inside. Thus, a bigger burger isn’t going to satisfy this demand, but rather the ability to create a sensation of having received “more-than-a-burger”, something extra, a surplus of enjoyment. And yet this surplus of enjoyment is best described in the choice of packaging used by McDonald’s: not a big pack, but a pack from which the goods overflow, as though the French fry that’s really worth eating is not one of those inside, but the one that sticks out, since it can’t be held in the pack. Where the purest dimension of desire is found in this uncontainable excess. In a certain sense, this very dimension could also be made to count for the actual burger, if one just considers the two slices of bread as the wrapper (and thus the packaging) for what’s inside: the hamburger itself. Again Ritzer says that “the large (and inexpensive) roll used to contain the meat in the hamburger makes it seem far bigger than it really is. To stress this


Iperpackaging Nelle opere dell始Iperrealismo il packaging 猫 l始illusorio Velo di Maja che avvolge il mondo. Marco Senaldi


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I dipinti, in ordine di apparizione da pagina 96 a pagina 100. The paintings, in order of appearance, from page 96 to page 100.

Copper Union Trash (1974) Idelle Weber dettaglio, olio su lino cm 114,3 x 162,6 Dr. Joe’s Joke (1971) Ben Schonzeit dettaglio, acrilico su tela cm 228,6 x 335,3 Safeway Interior (1974) Ralph Goings dettaglio, olio su tela, cm 121,9x172,7 Cauliflower (1975) Ben Schonzeit dettaglio, acrilico su tela cm 213,4x213,4

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Fonte/Source Fotorealismus - die Malerei des Augenblicks, Louis K. Meisel, 1989, Atlantis Verlag AG (Luzern)

Pop Art, Minimalismo, Concettuale, Arte Povera, Body-art… - fra le neoavanguardie artistiche del Secolo Scorso, verso le quali la confidenza ha sostituito il timore revenziale, il posto di eterna cenerentola spetta certamente all’Iperrealismo. Considerato più che altro una deriva laterale della pop art, l’incombenza dell’Iperrealismo risulta scomoda: delegato più alla cronaca che alla critica, i suoi prodotti e i suoi protagonisti sono stati confinati nell’alveo del folklore più che dell’arte. Eppure, assai fondato è il sospetto che l’iperrealismo abbia svolto un ruolo decisivo nel circoscrivere il nostro immaginario. A farlo sorgere, basterebbero le pagine che un pensatore come Jean Baudrillard dedica al concetto di iperreale, nel suo Lo scambio simbolico e la morte [1976, trad. it. 1979, pagina 85]. Riassumendo, secondo Baudrillard l’“assassinio della realtà” è un delitto portato a compimento in tre fasi che vanno dal realismo, al surrealismo, all’iperrealismo. In effetti, già l’atteggiamento “realista” è caratterizzato, in arte o nel cinema, da una buona dose di retorica, il che già indica come lo statuto della realtà in quanto tale sia “gravemente alterato”. In seguito il surrealismo, tentando di contraddire qualcosa che resta pur sempre “reale”, si serve di elementi anomali come l’eccezionale o l’onirico, per minacciare in maniera assai più seria il nostro “senso di realtà”. Solo con l’iperrealismo, però, abbiamo l’ultimo stadio della “distruzione della realtà”, perché in esso ogni distinzione tra vero e falso va perduta; l’iperrealismo “rappresenta una fase ben più avanzata, nella misura in cui questa contraddizione del reale e

dell’immaginario vi è cancellata”… L’iperrealtà coincide dunque con “un’allucinante somiglianza del reale a se stesso”. Qual è dunque il tratto specifico dell’iperrealismo? Pur rimanendo all’interno dei confini della rappresentazione, entro i quali noi riconosciamo benissimo ciò che si vede nel quadro, l’iperrealismo ci conduce ad una specie di trauma. Di fronte a queste opere non è più possibile provare stupore per la finzione, o per l’invenzione, per l’inedito o il bizzarro: ciò che si sperimenta viceversa è lo stupore per l’ovvio e il totalmente banale che, raffigurati fin nei minuscoli dettagli, ci si fanno dinanzi nella loro enorme e insostenibile evidenza. Qui si situa la differenza rispetto alla pop art; quest’ultima esalta il banale quotidiano nei suoi segni eclatanti, nelle sue superfici vistosamente cromatiche, nei suoi simboli grafici capaci di diventare significanti universali, come la Coca Cola – mito e icona tipicamente pop – laddove l’iperrealismo è un’arte ritrattistica, “imitazione di imitazione”. La pop art è volutamente iconica: non imita le merci, le replica, non somiglia alle cose, si appropria dei loro segni, non dipinge icone, le riproduce in vertiginosa serie; l’iperrealismo invece è tipicamente rappresentativo: fingendo di non mettere in discussione la tradizione figurativa per concentrarsi sul “tema” dell’opera, è subdolamente più eversivo, e non a caso arriva sulla scena internazionale dieci anni dopo l’esplosione pop. Con l’aria di essere niente più che una fotografia “in pittura” o “in scultura”, esso svela l’incredulità dello sguardo, rimpiazza l’ottimismo pop con un patologico


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scetticismo e in definitiva porta il trompe l’oeil a livelli comicamente estremi: alle prime mostre iperrealiste i visitatori scambiavano le sculture esposte per persone vere! Come, forse, un lettore disattento potrebbe prendere per fotografie le immagini dei quadri riprodotti. Benché sia stato spesso liquidato come “virtuosismo”, l’iperrealismo non è mai fine a se stesso, se non perché fine a se stesso è il mondo di cui fornisce la veritiera effigie; è il mondo ad essere un virtuosismo insé – il pittore o lo scultore iperrealista, per produrne la copia visiva o tridimensionale, si avvale degli stessi procedimenti impiegati dalla realtà per far sfoggio di sé e duplicarsi: fotografia, diaproiezioni, calchi in resina sintetica, colori acrilici, rivestimenti semantici, “imballaggio”... Fin da subito la realtà stessa è iperreale e l’iperrealismo non fa che restituirne una copia talmente conforme da risultare paradossale.

Al contrario, il packaging nella poetica iperrealista diventa un enigmatico gioco di trasparenze, un velare che è insieme una rivelazione; l’imballaggio è molto più che l’involucro intellettuale dei prodotti moderni – è anche il simbolo dell’apparenza ingannevole del mondo destinato a consegnarci al dubbio definitivo intorno alla sua verità. L’imballaggio delle cose assolve perciò il triste compito di rammentarci il lato illusorio della vita, l’inganno schopenhaueriano dal quale verremo puntualmente disingannati, eternamente ambigua rappresentazione di rappresentazione. “Guarda il packaging come ti seduce!” – dice l’iperrealista – ma solo per aggiungere: “E ora, guarda meglio! Non vedi il vuoto che si cela sotto quel guscio? Non vedi che anche il mio quadro, che anche il tuo sguardo, che Tu Stesso, sei solo un involucro, Puro Nulla, Vuoto a Perdere che il Tempo si porterà via?”. Arte del ripensamento e della crisi, così come la pop era stata l’arte del benessere e del “businnes”, l’iperrealismo emana un sentore di catastrofe, un senso di putrefazione, un’insana passione per la ruggine, lo sgraffio, il bagliore serale, tardopomeridiano, da “fine della festa”: superiore consapevolezza dell’iperrealismo che rinvia l’estasi del consumatore al deprimente spettacolo di ciò che ha consumato – sé medesimo.

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Da qui l’amore, tipicamente barocco, della pittura iperrealista per gli specchi, i riflessi, gli abbagli: nonché le varie Vanitas Vanitatum iperrealiste,

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Tutto ciò risalta in maniera paradigmatica quando si prenda in considerazione il tema della merce e specificatamente del packaging. Nell’approccio pop, l’essenza della merce risiede nei suoi segni (logo, simbolo, marca…) i quali istituiscono (per dirla in semiotichese) un contratto comunicativo con lo spettatore in termini di fruizione, che è esattamente analogo a quello che le marche “vere” stringono con l’acquirente in termini di consumo; il packaging è dunque per la pop art la verità stessa della cosa, superficie a cui l’artista deve arrestarsi («non avete che da guardare la superficie», Warhol). Per quanto colorata e “divertente”, la pop art è un’arte assai più concettuale di quanto lasci credere:

le sue opere costituiscono la moderna grammatica del consumismo.


Sculture “più vere del vero” di Duane Hanson, dalla mostra More than Reality, PAC Milano, 2002. Sculpture “truer than true” by Duane Hanson, from the show More than Reality, PAC Milan, 2002.

con tanto di teschi, frutta troppo matura, auto fracassate, obese inservienti, spazzatura apparentemente gettata a caso e invece tragicamente fatale. Da qui l’insopportabile violenza traumatica dei primissimi piani atrocemente animaleschi di Chuck Close, delle auto incidentate e rugginose di John Salt, dei fiori smisurati e morbosi di Estes, dei cavolfiori impacchettati di Schonzeit, delle Nature morte di Idelle Weber: svogliati souvenir di un mondo reale in cui credevamo di avere vissuto e che invece costituivano solo l’allettamento della più crudele verità. Fino ad arrivare alla sublime ambiguità delle sculture di Douane Hanson le cui flaccide casalinghe in resina di poliestere spingono un carrello da supermercato pieno zeppo di merci che non hanno nemmeno bisogno di essere artisticamente replicate, essendo già di per sé assolutamente iperreali…! Se l’antico Induismo insegna che tutta l’apparenza del mondo non costituisce nel suo durevole inganno che un Velo di Maja dietro cui si cela la Verità, l’Iperrealismo aggiorna l’intuizione alla società contemporanea: che cosa sono tutte queste sfavillanti e volgari confezioni se non la nuova versione del più magnifico e più illusorio degli imballaggi, l’eterno Velo di Maja, dietro cui la Vera Realtà non cessa mai di sfuggirci? Marco Senaldi, critico d’arte e filosofo, ha pubblicato (con A. Piotti) Lo Spirito e gli Ultracorpi, Franco Angeli, 1999 e Maccarone m’hai Provocato, Bulzoni, 2002.



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Hyperpackaging Within the works of hyperrealism packaging is the illusory Maya veil which envelops the world.

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Marco Senaldi

Pop Art, Minimalism, Concept Art, Poor Art, Body Art – among the list of the Art of the last century, towards which confidence has replaced reverential fear, the position of eternal Cinderella certainly belongs to Hyperrealism. Thought of more than anything as an offshoot of pop art, the task of Hyperrealism is difficult: consigned to the news item rather than to criticism, its production and its protagonists have been confined to the niche of folklore rather than that of art. Yet there is a strong suspicion that hyperrealism has played a decisive role in delineating our imagination. To prove this, it would be enough to cite the pages which a thinker such as Jean Baudrillard devotes to the concept of the hyperreal, in his Lo scambio simbolico e la morte [1976, italian transl. 1979, page 85]. To summarise, according to Baudrillard the “murder of reality” is a crime brought to its conclusion in three stages which go from realism to surrealism to hyperrealism. In effect, the “realist” attitude, in art or cinema, is characterised by a large dose of rhetoric, which indicates how the articles of reality have already been “seriously altered”. Subsequently surrealism, with its tendency to contradict something which remains “real”, makes use of anomalous elements such as the exceptional or the dreamlike, to threaten our “sense of reality” in a much more serious way. However, it is only with hyperrealism that we reach the last phase of the “destruction of reality”, because here all distinction between true and false is lost; hyperrealism “represents a much more advanced

stage, in which this contradiction between the real and the imaginary is cancelled out”... thus hyperreality coincides with a “terrifying similarity of the real to itself”. What, then, is the specific feature of hyperrealism? While remaining within the boundaries of representationalism, in which we recognise very well what we are looking at in the picture, hyperrealism leads us to a kind of trauma. Confronted with these works, it is no longer possible to feel amazement at the pretence, or at the inventiveness, at the never-before-seen or the bizarre: on the contrary, that which amazes us is the obvious and the totally banal which, depicted in the tiniest detail, leads us on with its enormous and unbearable factuality. Here lies its difference from pop art; pop art exalts simple everyday objects with extraordinary images, with garishly-colored surfaces, with its graphic symbols which take on universal significance, such as Coca-Cola – a typical myth and icon of pop – whereas hyperrealism is the art of portraiture, “imitation of imitation”. Pop art is deliberately iconic: it does not imitate the merchandise, it replicates it; it does not look like a thing, it takes over its main features; it does not paint icons, it reproduces then in giddying ranks. Hyperrealism, however, is typically representational: pretending not to bring into question the figurative tradition by concentrating on the “subject” of the work, it is in an underhand way more subversive, and it is no coincidence that it arrived on the scene ten years after the pop explosion. With the appearance of being nothing more than a photograph “in paint” or “in sculpture”, it reveals the incredulity of the glance, it replaces pop art’s optimism with a pathological scepticism and in the end raises trompe l’oeil to comically extreme levels. At the first hyperrealism exhibition, visitors mistook the sculptures on display for real people! And an inattentive reader could mistake these images of paintings for “photos”. Although often dismissed as “showing off”, hyperrealism is


Marco Senaldi, art critic and philosopher, has published (with A. Piotti) Lo Spirito e gli Ultracorpi, Franco Angeli, 1999 and Maccarone m’hai provocato, Bulzoni, 2002.

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Don’t you see the space which is concealed under this shell? Don’t you see that my picture, too, and your glance, and You Yourself, are only a wrapping, Nothing, a throwaway article which Time will carry away?” The Art of second thoughts and crisis, just as pop was the art of wellbeing and “business”, hyperrealism gives of a scent of disaster, a sense of putrefaction, an insane desire for rust, scratches, the evening glow, late afternoon, the “end of the party”: a greater awareness of hyperrealism which attracts the ecstasy of the consumer to the depressing sight of what he has consumed – himself. From here, the typically Baroque love of hyperrealist art for mirrors, reflections, blunders: as well as the various hyperrealist Vanitas Vanitatum, with so many skulls, so much overripe fruit, crashed cars, obese servants, rubbish apparently thrown down randomly but tragically fatal. From here the unbearable, atrociously animalistic, right in your face traumatic violence of Chuck Close, the rusting crashed cars by John Salt, the enormous morbid flowers by Estes, the packaged cauliflowers by Schonzeit, the Still Life by Idelle Weber: listless souvenirs of a real world in which we believed we had lived but which in fact only make up the attraction of the cruellest truth. Until we arrive at the sublime ambiguity of the sculptures by Douane Hanson whose drooping housewives in polyester resin push supermarket trolleys full to the brim with goods which do not even need to be artistically replicated, since they are already of themselves hyperreal...! If ancient Hinduism teaches that the whole appearance of the world with its enduring deceit is no more than a Veil of Maya behind which Truth hides, then hyperrealism brings this intuition in line with modern society: what are all these sparkly, vulgar packages if not the new version of the most magnificent and most illusory of all wrappings, the Veil of Maya, behind which the True Reality never ceases to flee?

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never an end in itself, if for no other reason than that an end in itself is the world which provides the true effigy; it is in fact the world which is showing off – the hyperrealist painter or sculptor, by producing a visual or three-dimensional copy of it, is making use of the same procedures used by reality to show itself off and duplicate itself: photography, slide projection, mouldings in synthetic resin, acrylic colors, semantic coverings, “packaging”... Immediately reality itself is hyperreal and hyperrealism is doing nothing more than giving it back a copy so conformist as to be paradoxical. All this stands out in a paradigmatic way when one considers the subject of merchandise, and especially packaging. In the pop approach, the essence of the merchandise lay in its signals (logo, symbol, brand name, etc.) which (to put into “semiotic slang”) instituted a communicative contract with the viewer in terms of use, which is exactly similar to that which the “real” brands had with the purchaser in terms of consumption; thus packaging is for pop art the truth of the object, the surface at which the artist must stop (“you only have to look at the surface”, Warhol). Although colorful and “enjoyable”, pop art is much more of a conceptual art than one would think: it is the modern grammar of consumerism. On the other hand, in hyperrealist poetics, packaging becomes an enigmatic game of transparency, a veil which is at the same time a revelation; packaging is much more than the intellectual wrapping of modern products – it is also the symbol of the deceptive appearance of the world aimed at raising strong doubts within us about its truth. The packaging of things absolves because of its sad duty of reminding us of the illusory side of life, the Schopenhauerian deceit from which we are quickly relieved, that eternally ambiguous representation of a representation. “Look how packaging seduces you!” says the hyperrealist, only to add, “And now, look closer!

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Packaging “Mobile”

e non hanno bisogno di struttura scheletrica! Le Sheetfold di Tjeerd Veenhoven, resistenti origami a forma di sgabelli. Pandora Design ha invece creato oggetti “usa e getta” per il caterering: tovaglie, posate, piatti e vassoi dal disegno originale e innovativo, spesso impacchettati sottovuoto come per garantire, oltre ad una maggiore igiene, un più forte appeal. Dal piccolo al grande: la casa in scatola di Jerszy Seymour consistente in un kit per la costruzione di un’abitazione provvisoria e spontanea, una graffiti-house ottenuta spruzzando bombolette di poliuretano espanso su uno stampo gonfiabile. Ripetendo più e più volte l’operazione, si possono così creare come dei multi-igloo perfettamente abitabili. Il kit contiene anche le porte e le finestre e il numero di telefono dei rivenditori locali di poliuretano spray. E per chiudere (e concludere) uno sguardo a ciò che ha aperto la rassegna: gli inviti alle mostre, sempre più esagerati, di grandi dimensioni, fatti con materiali particolari, fustellati e colorati, rigidi, vistosi, taluni veri e propri lenzuoli di carta, piazze di cartone, nastri di plastica, involucri di bollato. Trionfo di packaging, contenitori di nulla.

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dell’imballaggio: cartone ondulato, casse di legno, scatole varie, fogli di bollato, sono stati frequentemente utilizzati per l’allestimento e la realizzazione di show room e display, facendoci percepire una vera e propria diffusa tendenza al “pack style”, se così si può dire. Per quanto riguarda mobili e oggetti, tra i tanti si può ricordare il Container Table (il nome la dice lunga) di Marcel Wanders per Moooi, un tavolo da giardino in polietilene con base a forma di contenitore troncoconico da riempirsi di acqua per aumentarne la stabilità. Le inquietanti borsette da signora di Miriam van der Lubbe, in pelle sagomata come fossero il contenitore termoformato di fantasmatiche pistole. Le bottiglie di vino (tipo bordolese) di Antonio Cos tagliate e riasseblate per creare nuovi ready made, contenitoriscultura. Le ciotoline e i vasi in carta di Daniele Papuli per Dilmos, oggetti delicati e poetici. E ancora, seguendo il principio di impacchettare e avvolgere: i vassoi di metallo “spiegazzato” prodotti da Dilmos, come pure L’Apparita di Andrea Salvetti, un fantasma di poltrona in fiberglass realizzata a stampo; le Cowchair di Niels van Eijk, sedie in pura pelle di mucca che, preformata e indurita, diventano autoportante

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Che il packaging sia mobile lo sanno tutti, meraviglioso oggetto creato apposta per il trasporto e il contenimento. Ma il packaging può essere anche un “mobile” o un elemento d’arredo, del resto l’interior non è anche forse una questione di fodere e di astucci? (come diceva Jean Baudrillard nel suo Sistema degli Oggetti, 1979). Visitando l’ultimo Salone del Mobile, la grande kermesse milanese riservata al design e agli oggetti dell’abitare, ne abbiamo visto delle belle (e delle brutte) e molte di queste avevano a che fare con il packaging. L’acqua è stata la protagonista delle frenetiche giornate, non solo quella caduta abbondante dal cielo, ma soprattutto quella minerale della Ty-Nant la cui bella bottiglia, firmata Ross Lovegrove, era nelle mani di tutti e di tutte gli assetati del design. Anche la progettista olandese Hella Jongerius ha disegnato bottiglie, ibridi contemporanei formati da una metà in vetro e l’altra in porcellana tenuti assieme da nastro adesivo. Vari contenitoritetrapack del latte sono stati assemblati da Kuno Prey per la reinterpretazione del “botte-cul” il tipico sgabello per mungere, tema della divertente mostra che si è tenuta Al Centro Culturale Svizzero. I più classici materiali

design box


design box

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“Mobile” Packaging Everybody knows that packaging is mobile, a marvellous object created on purpose to transport and contain. But packaging can also be a piece of furniture, aren’t interiors anyway a question of cushion covers and cases? (as Jean Baudrillard said in his Sistema degli Oggetti, 1979). Visiting the latest Salone del Mobile, the enormous Milanese fair dedicated to design and objects for the home, we saw some beauties (and some monsters) and many of these had something to do with packaging. Water was the focus of frenetic days, not just the water which poured from the skies, but above all Ty-Nant mineral water whose lovely bottle, designed by Ross Lovegrove, was seen everywhere in the hands of all those thirsty for design. The Dutch designer Hella Jongeriius also designed bottles, contemporary hybrids made half in glass and half in porcelain held together with scotch tape. Various tetrapack milk containers were assembled by Kuno Prey in a reworking of the “botte-cul” the typical milking stool, theme of an amusing exhibition held at the Swiss Cultural Centre. The more classic packaging materials: corrugated cardboard, wooden crates, various boxes, sheets of seals have often been used to set up and create show rooms and displays, allowing us to perceive a really widespread “pack style” trend, if one might put it that way. With regard to furniture and objects, among the many present we might recall the Container Table (the name says it all) by Marcel Wanders for Moooi, a polyethylene garden table with a truncated cone base to be filled with water in order to increase its stability. Miriam van der

Lubbe’s disturbing bags in modelled leather as though they had been heat moulded by imaginary guns. Antonio Cos’s wine bottles (Bordeaux style) cut and reassembled to create new ready made container-sculptures. Daniel Pauli’s paper bowls and vases for Dilmos, delicate and poetic objects. And again, following the principle of packaging and wrapping: the “crumpled” metal trays produced by Dilmos, like Andrea Salvini’s L’Apparita, a mass-produced ghost fibreglass armchair; Niels van Eijk’s Cowchair, a seat in pure cowhide which, shaped beforehand and hardened, becomes self-supporting with no need of a frame! Tjeerd Veenhoven’s Sheetfold, hardy origami in stool shapes. Pandora Design has instead created “disposable” objects for catering: tablecloths, cutlery, plates and trays in an original and innovative design, often vacuum packed as though to guarantee, in addition to better hygiene, a greater appeal. From small to large: Jerszy Seymour’s house in a box consisting of a kit for building temporary and spontaneous homes, a graffiti-house obtained by spraying cans of polyurethane foam on a blow-up mould. Repeating the operation over and over again one can create a sort of perfectly inhabitable multi-igloo. The kit also contains the doors and windows and the telephone number of the local polyurethane spray retailer And to end (and conclude) a look at what opened the show: the invitations to the exhibition, increasingly exaggerated, large sized, made with special materials, die-cut and coloured, stiff, flashy, some actual sheets of paper, squares of cardboard, ribbons of plastic, wrappers made of seals. A packaging triumph, containers holding nothing.


flash

IL 27 SETTEMBRE 1968, NEL SUO APPARTAMENTO DI BRUXELLES, LʼARTISTA BELGA MARCEL BROODTHAERS INAUGURAVA IL SUO MUSÉE DʼART MODERNE, DÉPARTEMENT DES AIGLES, SECTION XIX SIÈCLE; AL POSTO DELLE OPERE DʼARTE FIGURAVANO LE LORO CASSE DʼIMBALLAGGIO.

SETTEMBER 27 1968, IN HIS FLAT IN BRUSSELS, THE BELGIAN ARTIST 2/02

MARCEL BROODTHAERS INAUGERATED HIS MUSÉE DʼART MODERNE, DÉPARTEMENT DES AIGLES, SECTION XIX SIÈCLE; IN PLACE OF THE

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WORKS OF ART THEIR PACKING CRATES.


Permesso di Soggiorno il design senza fissa dimora

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Non era intenzionalmente una mostra sul packaging, ma con gli imballaggi aveva molto a che fare. Un soggiorno realizzato con le scatole di famosi oggetti di design; scatole firmate, si potrebbe dire, con tanto di tavolo Zanotta, divano Edra, libreria Cappellini, sedie e tavolini Kartell, lampade Flos e Fontana Arte…e poi ancora: Baleri, Porro, Moroso, Danese, Zerodisegno, Magis, Knoll… Una strana commistione di packaging e di design in una atmosfera allo stesso tempo provvisoria -come quella di un trasloco in atto - e ufficiale come quella di un salotto di tendenza. Tutto ciò avveniva, durante l'ultimo Salone del Mobile a Milano, alla Galleria Luisa Delle Piane per desiderio della gallerista, Luisa Delle Piane, che, invece di esporre gli ennesimi oggetti di design ha proposto una riflessione critica producendo e presentato in modo innovativo e interessante un "oggetto teorico", il libro di Marco Senaldi Permesso di Soggiorno - il design senza fissa dimora, un saggio sullo

spostamento di senso del design dei nostri giorni e il suo valore come simulacro di sé stesso… A questo è seguito il progetto e la realizzazione dell'allestimento: imballi di popolari pezzi di design, esposti al posto degli oggetti stessi, per significare la possibilità di "guardare al design" in modo diverso, soprattutto di "pensare il design" in modo diverso. E la creazione, tramite scatole "firmate", di un soggiorno in cui la presenza del design, fortissima e ipertrofica, è

segnalata non più dalla forma delle cose ma dai nomi delle aziende. Come in un trasloco ideale dove c'è un momento in cui gli scatoloni - che racchiudono la memoria di luoghi familiari - si ammassano davanti a noi in attesa di una nuova collocazione, così il design, che ha ormai smarrito la capacità di dare un posto fisso agli oggetti trasformandoli in clandestini del vivere quotidiano, sta cercando di ricollocarsi altrove. Chissà se questo vale anche per il packaging.

Alcune immagini del salotto fatto di "scatole firmate" della mostra Permesso di Soggiorno - il design senza fissa dimora a cura di Marco Senaldi e Sonia Pedrazzini. Galleria Luisa Delle Piane, Milano, 2002


show box

Permit of Stay design of no fixed abode Not intentionally a show on packaging, but having a lot to do with the subject. Living room furniture created from boxes of famous design objects; designer packing cases one might say, along with a Zanotta table, an Edra sofa, Cappellini bookshelves, Kartell chairs and tables, Flos and Fontana Arte lamps... and again: Baleri, Porro, Moroso, Danese, Zerodisegno, Magis, Knoll… A strange mixture of packaging

and design in an atmosphere that is at the same time as temporary a move underway and as official as a designer furniture suite. All this during the last Milan Furniture Show at the Luisa Delle Piane Gallery at the very behest of Luisa Delle Piane, who instead of exhibiting the umpteenth design object proposed a critical reflection producing and presenting a “theoretical object” in an innovatory manner, the book by Marco Senaldi Permit of Stay design of no fixed abode, an essay on the shift in meaning

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Some pictures of the living room furniture constituted by “designer packing cases” from the exhibition Permit of Stay - design of no fixed abode organised by Marco Senaldi and Sonia Pedrazzini. Galleria Luisa Delle Piane, Milan, 2002.

of the design of today and its value as a simulacrum of itself... This was followed by the project and the creation of the setting: the packaging of popular design objects, placed on show in place of the objects themselves, in order to signify the possibility of “looking at design” in a different manner, aboveall a different way of “thinking of design”. This is constituted by the creation, using “designer” packing cases, of a living room where the presence of design, very strong and hypertrophic, is no longer signified by the shape of objects but by the names of the companies. As in an ideal change of abode where there is a moment in which the boxes - that contain the memory of familiar places are massed in front of us awaiting a new location, thus design, that has by now lost the capacity attributing objects set places, transforming them into illegal immigrants of everyday living, is trying to relocate them elsewhere. Who knows if this is also the case for packaging.

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Hermés Store, New York

Box House Dalla capanna alla “scatola abitativa”: l’Architettura, ovvero l’arte d’impacchettare gli edifici. Marco Biraghi

Transportable Housing Containers, Markka Hedman, Helsinki


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dunque il primo edificio, e la tessitura la prima tecnica elaborata per la sua messa in opera. A conforto di ciò Semper recava “evidenze” materiali (nastri, ghirlande, intrecci e decorazioni geometriche tessili, di cui trovava precisi corrispondenti in muratura o in pietra), formali (coperture, recinti, staccionate, che riferiva a copricapi e bordature in genere) e linguistiche (“la parola parete, Wand, ha la medesima radice e lo stesso significato sostanziale di veste, Gewand”), per concludere che abitazione e abito erano - alle origini una cosa sola, o perlomeno due cose molto prossime. Una volta isolato concettualmente, l’apparato di rivestimento dell’edificio (solido muro o superficiale ornamento che sia) perde la sua coerenza con la parte statica e incomincia a vivere una vita propria. Esclusivamente alla luce di questo passaggio si lascia spiegare la gran parte (quella più vitale) dell’architettura moderna: dove la parete - abbandonate come ormai inutili solidità e ornamentalità diviene un semplice involucro finalizzato al compito di delimitare e racchiudere lo spazio interno. Il pan de verre di Le Corbusier vale a questo proposito come paradigma di un’epoca che tende a concepire l’architettura come somma di elementi funzionali, ciascuno preposto alla risoluzione di un problema. E in questo senso alla facciata vitrea, sgravata da incombenze “portanti”, rimane l’incarico non meno importante d’illuminare la “scatola architettonica”. Ma vi è un altra “funzione” che la facciata libera finisce con l’assumere: quella di rappresentare la facies estetica dell’edificio. Ciò non significa che debba per forza essere bella. Una gran parte dell’architettura industriale - e in seguito anche di quella “terziaria” - ha reso canonica

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Nel 1753 l’Abate Laugier venne colto da una vertiginosa “intuizione”: la vera origine dell’architettura - e con piena ragione, dunque, la vera architettura - era tutta racchiusa nella sua struttura: colonne o pilastri (ovverosia quegli elementi di sostegno verticali di natura, se non proprio di forma, puntiforme), travature orizzontali e copertura (la pratica del tegere, del fabbricare tetti, quale essenza e fondamento dell’arte dell’architekton, la tettonica). Tutto il resto - archi, porte, finestre, apparati ornamentali, ma anche gli apparentemente più essenziali muri vi doveva evidentemente trovar posto, ma soltanto in un secondo momento, o meglio ancora, doveva esservi posto gerarchicamente in second’ordine. Questo radicale ritorno all’antico nel modo di concepire l’edificio (la capanna rustica “originaria” di Laugier somiglia curiosamente a un tempio greco) segna la nascita del modo di concepire l’edificio in senso moderno. Soltanto una razionalità di stampo illuminista poteva infatti «distinguere gli elementi che hanno parte essenziale nella composizione di un ordine d’Architettura, da quelli che vi vengono introdotti soltanto per necessità, o che vi sono stati aggiunti semplicemente per capriccio»; poteva insomma individuare nel sistema logicamente unitario dell’architettura due diversi “ordini” del discorso: uno strutturale, appunto, e un altro “sovrastrutturale”, come si direbbe oggi. O in altri termini ancora: una struttura e un involucro. Trascorso poco più di un secolo, Gottfried Semper, formulando - nella sua monumentale opera Der Stil l’ipotesi diametralmente opposta a quella di Laugier, ne confermerà però in pieno l’impostazione di fondo: l’architettura per lui trarrebbe origine non già dalla struttura bensì dal rivestimento: la tenda sarebbe


Wrapped Reichstag Berlin 1971-95 Christo and JeanneClaude

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Photo by Wolfgang Volz Copyright Christo 1971-2002

la netta separazione tra ossatura strutturale, lasciata in vista, e rivestimento esterno, impiegando per quest’ultimo semplici pannelli di tamponamento (trasparenti o meno a seconda delle circostanze) che spesso sono ben lungi dal conferire un valore “estetico” all’edificio. E non è evidentemente un caso che la tipologia del “capannone” costituisca lo sviluppo logico - benché ovviamente non diretto e immediato dell’idea di capanna rustica di Laugier. Conquistata la propria autonomia funzionale e linguistica rispetto al restante corpo dell’edificio, tuttavia, il rivestimento libera per intero le potenzialità di cui dispone, per diventare qualcosa di radicalmente diverso rispetto alle tradizionali facciate. Innanzitutto diventando “pelle”. In questo senso sempre più architetti contemporanei - da Frank

O. Gehry a Herzog & de Meuron, da Daniel Libeskind a Peter Zumthor risolvono l’aspetto esteriore dei loro progetti (non più distinti in prospetto principale e secondari o fronte e retro) avvolgendoli in una “guaina” protettiva uniforme, coibentante, a volte addirittura traspirante, la cui ragione ultima va però ricercata assai più fuori che non dentro l’edificio: vera e propria “confezione” di questo, per la quale valgono in pieno le parole che Barthes riferisce all’arte dell’“impacchettatura” giapponese: «Grazie alla sua stessa perfezione, questo involucro [...] differisce la scoperta dell’oggetto ch’esso racchiude e che spesso è un oggetto insignificante». A tutti gli effetti medium del messaggio (ma appunto per questo messaggio esso stesso), l’“involto” entro cui è racchiusa l’architettura contemporanea nasconde di sovente la


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ingigantite delle merci circolanti sul mercato, o più banali spazi liberi dati in affitto per commercializzare se stesse o qualsiasi altro prodotto, le architetture-advertisement operano una radicale disjunction tra la destinazione d’uso interna e la strategia di merchandising che perseguono vistosamente all’esterno. Radicale disjunction che si ripropone pure tra le parti visibili delle facciate e quelle che rimangono nascoste alla vista (qualcosa di simile - ma non d’identico - alla vecchia distinzione tra fronte principale e secondario, del tutto assente nel caso del rivestimento-“pelle”). Se infatti le superfici “utili” si presentano completamente coperte dalle “incrostazioni” aggiunte - e dunque sono matericamente e cromaticamente variabili a seconda delle diverse tipologie di queste -, le superfici “non utili” rimangono del

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convenzionalità del trattamento interno e diviene il vero oggetto della contemplazione e della valutazione estetica, il vero oggetto “memorabile”. Altre volte il rivestimento diviene superficie disponibile ad accogliere su di sé qualunque genere di “applicazione” (termine che rimanda ancora una volta alla sfera del cucito, e che la lingua francese rende significativamente con incrustation). Direttamente impresse o semplicemente apposte sull’involucro edilizio, tali “applicazioni” sono generalmente portatrici di messaggi estranei ad esso: scritte, insegne, apparecchi d’illuminazione, affissioni pubblicitarie, schermi televisivi, ogni genere di oggetto bidimensionale o tridimensionale. Da Las Vegas a Tokyo, l’architettura-advertisement fa della costruzione un puro supporto finalizzato ad altri scopi. Versioni


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1 Curtain Wall House Shigeru Ban,Tokyo

tutto spoglie: brutale disvelamento del carattere crudamente funzionale delle pareti in tale tipo di edifici; pareti ridotte a muti e ciechi piani verticali di cemento, “fodera” esclusivamente necessaria di quel multicolore e luccicante costume che l’architettura sfoggia verso strada. L’approssimarsi dell’“arte del costruire” a una forma di packaging a scala urbana è sottolineato ulteriormente dall’ampliarsi della gamma dei materiali utilizzati per rivestire gli edifici: ormai non più limitati alla pietra, alla muratura in mattoni o al vetro (in verità, anzi, sempre più rari) ma estesi anche al cemento armato, a diversi metalli o leghe (dal titanio del Guggenheim di

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2 L’edificio-scatola della Bayer a Leverkusen (D). Architettura, packaging e immagine aziendale si sovrappongono per enfatizzare il marchio in modo estremo. The Bayer boxbuilding in Leverkusen (D). Architecture, packaging and company image are superimposed giving an extreme emphasis of the brand. 3 Anz Bank Building Sidney

Bilbao all’alluminio del Museo Ebraico di Libeskind), alla plastica (dalla gomma dell’ormai “classico” teatro a struttura pneumatica di Victor Lundy e Walter Bird al policarbonato usato in numerose occasioni da Kazuyo Sejima), al legno (esemplare il padiglione della Svizzera all’Expo di Hannover 2000 di Zumthor, dove il legno tagliato a listelli e impilato formava delle pareti smontabili e riutilizzabili al termine dell’esposizione, conferendo ad esso l’aspetto di una grande cassa da imballaggio), al cartone (sorprendenti a questo proposito le soluzioni offerte dall’architetto giapponese Shigeru Ban, che per i suoi edifici si serve anche della carta e della tela), alla

rete metallica (si vedano ad esempio molte delle opere del primo periodo di Gehry in California, tra cui la sua celebre casa a Santa Monica). Emblematico della combinazione tra tattica pubblicitaria e adozione di un rivestimento-“pelle” è la proposta avanzata dallo stesso Gehry per l’One Times Square, secondo cui la ristrutturazione della Times Tower avrebbe dovuto effettuarsi mediante l’eliminazione delle vecchie facciate e l’apposizione di una rete di garza sopra le sue strutture residue, impacchettando così l’intero edificio e ricoprendolo parzialmente con giganteschi cartelloni di famosi trademarks. Interessante e paradossale caso di inversione di senso del valore dei segni, qui è il rivestimento a presentare un carattere effimero, incostante, letteralmente “svolazzante”, mentre la pubblicità costituisce la scena fissa, l’elemento di “solidità” e di continuità visiva che connota l’edificio. Ma se sempre più di frequente l’architettura si trasforma coscientemente e esplicitamente in “contenitore” in cui - sulla scorta delle più aggiornate tecniche di marketing - più che il contenuto è la presentazione ciò che conta, capita anche che l’architettura diventi contenitore di altre architetture. Gioco di scatole (cinesi) sono alcune opere di Herzog & de Meuron (ma già Leon Battista Alberti aveva fatto qualcosa di simile con il Tempio Malatestiano, a Rimini), dove il nuovo edificio avvolge letteralmente quello preesistente e - come nel caso della cabina di controllo ferroviario presso Basilea - finisce per richiudersi interamente su se stesso, come un pacchetto perfettamente ermetico. Quest’ultima particolarità si presenta in modo ancora più persuasivo nella Front Store Galery a New York di Steven Holl e Vito Acconci, dove l’idea della scatola da imballaggio, con tutto il suo corredo di alette da


piegare o da drizzare in conformità alla figura che si vuole ottenere, viene abilmente sfruttata per dare luogo allo spazio espositivo. L’assimilazione dell’architettura al packaging rivela come nel caso di entrambi ciò di cui si tratta non sia null’altro che merce. Ma non sarebbe merce fino in fondo se non andasse soggetta alle tiranniche esigenze e richieste dei clienti, sapendo continuamente adeguarvisi. “Novità” è la parola-chiave del commercio. Ed è precisamente in questo senso che l’architettura, prima ancora di essere “lanciata sul mercato”, deve suscitare intorno a sé interesse e curiosità, proprio come le vecchie costruzioni devono sapersi rinnovare per poter continuare a “circolare”. Sia per l’una che per le altre la chance è offerta dai ponteggi che le attorniano mentre sono ancora in costruzione o in restauro, e dai teloni che le rivestono. Completamente nascoste dai panneggi provvisori dei cantieri, come autentiche opere di ChristoJeanne Claude, le architetture impacchettate “giocano” con la propria identità, a volte soltanto evocandola bidimensionalmente, altre volte dissimulandola nel modo più completo. È in quest’ultimo senso che impreviste, “spiazzanti” presenze cominciano a fare la loro comparsa nello skyline delle metropoli, sotto forma di oggetti quotidiani fuori scala, secondo una strategia tipicamente “pop”, o di non meno colossali pacchi dono, con tanto di carta regalo e di vezzosi fiocchetti: architetture-sorpresa, almeno fino al giorno della loro apertura. Ma c’è da star certi che le sorprese che recano non finiranno semplicemente scartando il primo strato… Marco Biraghi, insegna Storia dell’architettura contemporanea al Politecnico di Milano; ha curato l’edizione di scritti di Palladio, Focillon, Bonfanti e Koolhaas. Fa parte del comitato di redazione di Casabella.

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Box House From the tent to the “habitable box”: Architecture, or the art of packaging buildings.

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Marco Biraghi

In 1753 Abbot Laugier was struck by an earthshaking “intuition”: the real origin of architecture and with all due reason therefore, the real architecture - was all contained in its structure: columns or pillars (i.e., the vertical support elements that by nature, if not exactly by shape, are punctiform), horizontal beams and the roof (the practice of tegere - of building roofs - as the essence and foundation of the art of architekton, tectonics). All the rest - arches, doors, windows, ornamental devices, and even the apparently more essential walls - were obviously part of it, but only later, or better still, in second place in the hierarchy. This radical return to the ancient way of conceiving the building (Laugier’s “original” rustic hut is curiously very reminiscent of a Greek temple) indicates the birth of the modern way of conceiving the building. Indeed, only the rationality typical of the enlightenment was able to “distinguish the elements that play an essential role in the composition of an order of Architecture, those that are introduced out of necessity as opposed to those that have simply been added on a whim”; in short, could identify two different “orders” in the logically unitary system of architecture: one structural, the other “superstructural”, as one would call it today. Or in other words: a structure and a wrapping. Just over a century later, Gottfried Semper formulated a theory - in his monumental work, Der Stil - that’s diametrically opposed to Laugier’s, but still endorsing the basic definition: architecture for

him originated not from the structure, but the cladding: the tent is thus the first building and weaving the first technique developed to erect this. To support his theory, Semper offered material “proof” (ribbons, garlands, plaits and geometric woven decorations, with accurate reproductions in brickwork and stone), formal (roofs, railings and fences referring back to the headgear and trims in general) and linguistic (“the word for wall in German, Wand, shares the same root and basic meaning as that for clothing, Gewand”), concluding that habitation and habit were originally - one and the same thing, or at least two very closely linked things. Once conceptually isolated, the equipment needed to clothe the building (whether a solid wall or superficial ornament) loses its coherence with the static part and starts to live a life of its own. It’s only in the light of this passage that one can explain the majority (the most vital part) of modern architecture: where the wall - now abandoned as being pointless solid/ornamental aspects becomes a simple wrapping with the purpose of marking out the limits and enclosing the internal space. Le Corbusier’s pan de verre is apt here, acting as a paradigm of an age that tends to conceive architecture as the sum of the functional elements, each aimed at solving a specific problem. And so in this sense, all that’s asked of the glass facade now, relieved of “load-bearing” duties, is the no less important task of providing light for the “architectural box”. But there’s another “function” that the free facade ends up taking on: to represent the aesthetic facies of the building. This doesn’t mean that it must necessarily be beautiful. A large proportion of industrial architecture - and later also “tertiary” architecture - has prescribed the net separation between the structural framework, in full view, and the external cladding, using just simple buffer panels for this (transparent or not, to suit


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a mere support for other purposes. Hugely enlarged versions of the goods on the market or more banal empty spaces rented out to sell themselves or other products, advertisementarchitecture creates a radical disjunction between the destination of use of the interior and the merchandising strategy clearly adopted on the exterior. A radical disjunction that’s also seen, if only in part, in the visible parts of the facade and those that remain hidden from view (somewhat similar - but not identical - to the old distinction between the main and secondary front, totally absent in the case of “skin” cladding). If, in fact, the “useful” surfaces are totally covered by additional “incrustations” - and so are materially and chromatically variable, depending on the different types used -, the “non useful” surfaces are completely bare: a brutal revelation of crudely functional character of the walls in this type of building: walls reduced to blind, dumb vertical slabs of concrete, the only “lining” needed for that multicoloured and sparkling costume that the structure shows off on the street. The comparison of the “art of construction” to a form of packaging on an urban scale is further stressed by the way the range of materials used to cover the buildings has been extended: no longer limited to just stone, bricks or glass (increasingly rarer these days), but extended to reinforced concrete, various metals and alloys (from the titanium used for the Guggenheim building in Bilbao to the aluminium of the Jewish Museum in Libeskind), plastic (from the rubber of the now “classic” tyre theatre by Victor Lundy and Walter Bird to the polycarbonate used on various occasions by Kazuyo Sejima), wood (a good example was Zumthor’s Switzerland Hall at Expo 2000 in Hannover, where the wood cut into strips and slotted together to form knock-down walls, ready to be used again at the end of the exhibition, give it the look of a large packaging crate),

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requirements) that often do anything but give the building an “aesthetic” value. And it’s clearly no coincidence that the typology of the “industrial shed” is the logical development - though not direct or immediate - of Laugier’s idea of the rustic hut. Having gained its own functional and linguistic autonomy from the rest of the building, however, the cladding frees up all its potential, to become something radically different from traditional facades. First, it becomes a “skin”. Here an increasing number of contemporary architects from Frank O. Gehry to Herzog & de Meuron, Daniel Libeskind and Peter Zumthor - solve the exterior aspect of their designs (no longer distinguished as main or secondary elevation, front or back) by wrapping them in a uniform, insulated protective “sheath”, that even breathes, whose first cause should be sought more outside than inside the building: the real “packaging” of this, fully deserving the words of Barthes when he refers to the Japanese art of “parcel wrapping”: “Thanks to this same perfection, this wrapping [...] postpones the discovery of the object it contains, which is very often an insignificant object”. A true medium of the message (but also a message in itself for this reason), the “package” used to contain a contemporary building often hides the conventionality of the treatment of the interior and becomes the real object for contemplation and aesthetic judgement, the real “memorable” object. Other times, the cladding becomes a surface that attracts all types of “application” (a term that again refers to the sphere of sewn items, which in French significantly becomes incrustation). Directly impressed or simply placed on the wrapping of the building, these “applications” are generally the carriers of extraneous messages: wording, signs, lighting, advertising, TV screens, all types of 2- or 3-D objects. From Las Vegas to Tokyo, advertisement-architecture makes the construction


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cardboard (the solutions from the Japanese architect, Shigeru Ban, are quite amazing, also using paper and cloth for his buildings) and metal mesh (for instance the many works of Gehry’s first period in California, including his famous house in Santa Monica). Symbolic of the combination between advertising tactics and the adoption of a “skin”-cladding is Gehry’s proposal for One Times Square, according to which the Times Tower should have been renovated by eliminating the old facades and placing a gauze mesh on top of the remaining structures, thus wrapping the entire building and partially covering it up again with enormous billboards bearing famous trademarks. An interesting and paradoxical case of the reversal of one’s sense of the value of signs, where the cladding here is ephemeral, inconstant, literally “fluttering”, while the advertising is the fixed scene, the element of “solidity” and visual continuity that connotes the building. But while the trend may be for buildings to turn into a “container” conscientiously and explicitly, where thanks to the very latest marketing techniques - it’s the presentation that counts more than the content, it sometimes happens that a building also becomes a container of other building. Boxes within boxes (Chinese) describes some of the works by Herzog & de Meuron (but Leon Battista Alberti had already done something similar with his Malatesta Temple in Rimini), where the new building literally envelopes the existing one and as in the case of the railway signal box in Basel - it ends up by closing entirely upon itself, like a perfectly hermetic pack. This feature is even more obvious in New York’s Front Store Gallery by Steven

Holl and Vito Acconci, where the idea of the packing box, with all its accompanying flaps to be folded or straightened to suit the figure one wants, is cleverly exploited to create exhibition space. The comparison of architecture to packaging reveals how in both cases one’s dealing with none other than goods. But it wouldn’t be goods proper if it weren’t subject to the despotic needs and demands of customers, knowing how to adapt itself continuously. “Novelty” is the keyword for trade. And it’s exactly in this sense that a new example of architecture must arouse interest and curiosity before being “launched on the market”, just as old buildings must be renovated in order to keep “circulating”. The chance is offered both one and the other by the scaffolding around them while in construction or being restored, and the awnings. Completely hidden from view by temporary construction site drapes, like authentic works by Christo-Jeanne Claude, these gift-wrapped buildings “play” with their own identity, at times just evoking it in 2-D, at others disguising it completely. And it’s here that sudden, “wrong-footing” figures start to appear on the city skyline, in the shape of out-sized everyday objects, according to a typically “pop” strategy, or equally giant gift packs with wrapping paper and ribbons: surprisearchitecture, at least until the day they’re unwrapped. But you can be certain that the surprises won’t just end when you tear off the first layer…

Marco Biraghi teaches History of Modern Architecture at the Milan Polytechnic; he has edited writings by Palladium, Focillon, Bonfanti and Koolhaas and is part of the editing staff of the Casabella magazine.


Scenografie Imballate

tools

Il regista è come un impacchettatore che “confeziona” il suo film attraverso l’inquadratura, il montaggio e la scelta degli elementi narrativi. Camillo De Marco

Demonlover, Olivier Assays (2002)

finzione, come la musica trasmessa da una radio ben visibile nel film (mentre è musica extradiegetica quella di commento a una scena). Ma il regista è anche un impacchettatore che utilizza i movimenti di macchina e quindi il montaggio per stabilire dei rapporti tra gli elementi profilmici, sino a raggiungere quella confezione che struttura l’immagine filmica e la sua natura significante. La consapevolezza del cineasta è che il film sia il prodotto di un’attività industriale destinato al mercato, in concorrenza con altre merci omologhe.

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Il packaging di un film sono l’inquadratura e il montaggio. Ogni inquadratura, che racchiude una porzione di spazio (tridimensionale), è frutto di scelte compiute su due livelli: quello del profilmico, cioè tutto ciò che sta davanti alla macchina da presa (ambienti, personaggi, oggetti), e quello del filmico, il come rappresentare, guidato dai codici del linguaggio cinematografico. «Inquadrare è scegliere. Selezionare, mettere in evidenza gli elementi significanti, quelli che lo spettatore deve individuare», ha scritto Dominique Villain sui Cahiers du cinéma. E non c’è dubbio che il regista sia prima di tutto un metteur en scène, un organizzatore di materiali racchiusi nello spazio diegetico, in quello spazio, cioè, cui appartiene tutto ciò che è proprio della storia raccontata e del mondo supposto dalla

Un oggetto che ha bisogno di un contenitore per attirare lo spettatore. E la concorrenza è anche quella virtuale tra elementi della narrazione ed elementi della realtà. Molti film hanno un’attenzione particolare per certi elementi profilmici, appartenenti al mondo delle merci riconoscibili, che diventano componenti essenziali del racconto, veicolatori di senso, oggetti con il compito di inserirsi nel flusso delle informazioni diegetiche indirizzate verso lo spettatore. Quelli che Barthes ha chiamato indizi. Per forzare lo sguardo dello spettatore e dirigerlo, questi elementi sono spesso ipertrofizzati. E’ il caso di un film come Demonlover di Olivier Assayas, presentato a Cannes 2002, un vero e proprio catalogo di gadget hi-tech funzionale alla narrazione: televisori al plasma ultrasottili applicati al muro, gli ultimi modelli di cellulare Samsung, di videocam Sony e di Audi sportiva, pornomanga giapponesi in 3D, siti Internet ultraviolenti in cui la interattività è spinta ai massimi livelli. Tutti materiali impacchettati dal regista francese nello spazio dell’inquadratura per


tools Se gli abiti dei personaggi de I Tanenbaum rappresentano gli involucri metaforici delle loro nevrosi, i pacchi postali della FedEx in Cast Away ne costituiscono il rovescio: sono tutto ciò che resta del naufragio della civiltà. If the clothes of the characters Tanenbaum represent the metaphorical wrapping or their neurosis, the postal parcels of FedEd in Cast Away constitute the exact opposite: they are all that remains of the “shipwrecking” of civilisation.

immergerci nella guerra delle multinazionali che sta alla base del plot del film. Una ostentazione ridondante ed eccessiva al servizio del racconto cinematografico. Con uno scopo simile ambientare in maniera credibile un futuro molto vicino, il 2079 - il regista Gary Fleder ha introdotto nel suo Impostor oggetti che oggi sono in via di sperimentazione: videotelefoni cellulari, potenti computer palmari, attivazione vocale degli elettrodomestici e case automatizzate, nanotecnologia medica di prossima generazione. Per sottolineare il conflitto culturale tra tradizione e innovazione, Monsoon Wedding di Mira Nair ha enfatizzato l’ossessione di uno dei

personaggi, Dubey, per internet e cellulare, la convivenza tra sitar e techno, il gruppo di ospiti provenienti da ogni angolo del mondo che parlano hindi, punjabi e inglese, il tutto incorniciato e confezionato negli sgargianti rossi e arancioni, colori locali che vivificano il gusto globalizzato della borghesia di Nuova Delhi. Viceversa, i pacchi postali FedEx alla deriva di Cast Away hanno un che di estremo nella loro vocazione consumistica. Le icone americane contenute in quegli imballi, a cui aggrapparsi per sopravvivere, sono il naufragio definitivo del mondo civilizzato delle merci. Alcuni registi cercano invece il legame con la realtà soltanto per destabilizzarla, ribaltarla,

invertirne il senso, per enfatizzarne le differenze con la specificità del linguaggio cinematografico. Qualcuno utilizza gli oggetti e il loro impacchettamento nello spazio dell’inquadratura come marche stilistiche e ne rivela la funzione semantica. Wes Anderson, con I Tenenbaum, mostra una vera e propria ossessione per gli oggetti, che reinventa, catalizza e imballa in scenografie infondate. Giornali, copertine di libri e manifesti falsificati; cooperative di taxi e società di trasporti pubblici non identificati, toponomastica newyorkese ridisegnata. I personaggi poi sono caratterizzati con studiata ridondanza dai loro stessi abiti,


tools

Packaged scenes A Director is like a packaging artist who “packs” his film by means of the framing, the cutting and the choice of narrative elements. Camillo De Marco

involucri che li inchiodano alle loro nevrosi: il capostipite (Gene Hackman) è vestito come un dandy anni ‘50, la figlia Margot (Gwyneth Paltrow) non si separa da un cappotto di pelliccia smisurato, il figlio Richie (Luke Wilson) ha il look del tennista Bjon Borg, Chas e i suoi due bambini cambiano la loro perenne tuta rossa Adidas in favore di una tuta nera Adidas soltanto in occasione di un funerale. E le scene del film sono separate e presentate da didascalie roboanti, etichette affisse su un packaging esagerato, come istruzioni per un uso improprio. Camillo De Marco è caporedattore di Cineuropa.org e critico di Kataweb Cinema.

The packaging of a film consists in framing and cutting. Each frame, enclosing a portion of space (3-D), is the result of choices made on two levels: the “profilm” level, i.e. all that stands in front of the camera (settings, characters, objects), and the film level, i.e. how to represent things, guided by cinematography language codes. «To frame is to select. To select, to highlight the meaningful elements, the one that the audience must pick out», wrote Dominique Villain on Cahiers du cinéma. And there’s no doubt that the director is, first and foremost, a metteur en scène, an organiser of materials enclosed in the diegetic space, i.e. in that space used by all matters concerning the narrative and the fictitious world, like the music broadcast by a radio that’s in full view in the film (while there’s also extra-diegetic music, i.e. commenting on a scene). But the director is also a packager who uses camera movement and thus the cutting room to establish the relations between the pro-film elements, ending up with the pack that structures the image of the film and its significant nature. Those in the film industry are aware that the film is the product of an industrial activity aimed at a market, expected to compete with other similar goods. An object that needs a container in order to attract the public. And this competition is also virtual competition between the narrated elements and elements in real life. Many films pay special attention to


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certain pro-film elements, belonging to the world of recognisable merchandise which then become essential components of the story, vehicles of sense, objects with the task of entering the flow of diegetic information aimed at the audience. What Barthes called clues. In order to force the gaze of the audience and direct it, these elements are often hypertrophied. This is the case with a film such as Demonlover by Olivier Assayas, presented at Cannes 2002, a real catalogue of hi-tech gadgets aiding the narration: ultra-thin plasma TVs on the walls, the latest Samsung mobile phones, Sony videocams and Audi sports cars, 3D Japanese pornomanga, ultra-violent Internet sites where interactivity is pushed to the limit. All materials packaged by the French director in the framing space to emerge us in the war raging between multinationals which forms the basis of the plot of this film. Redundant, excessive showing-off at the service of the movie storyline. With a similar purpose - to provide a credible setting for a film in the near future, 2079 - the director Gary Fleder has introduced objects in his Impostor that are currently still being tested: mobile videotelephones, powerful palmtop computers, voice activation of household appliances and automated homes and next generation medical nanotechnology. To stress the cultural conflict between tradition and innovation, Mira Nair’s Monsoon Wedding put the emphasis on the obsession of one of the characters, Dubey, for all things Internet and mobile, the coexistence of sitar and techno, the group of guests coming from all corners of the world speaking Hindi, Punjabi and English, all framed and packaged in the gorgeous reds and oranges, local colors that

enliven the globalised taste of the Nuova Delhi middle-class. Vice-versa, the FedEx parcels adrift in Cast Away have a certain extreme quality about them in their consumerist vocation. The American icons contained in those parcels, to which one clings to survive, are the true shipwreck of the civilised world of goods. Meanwhile, a few directors seek a link with reality simply to destabilise it, to upset it, to invert its sense, to emphasise the differences thanks to the specific nature of the language of films. Some use the objects and their packaging in the frame space as designer brands and reveal their semantic function. Wes Anderson, with his Tenenbaum, shows us a real obsession for objects, reinventing, catalysing and packaging these into improbable scenes. Falsified newspapers, book covers and posters; unidentified taxi firms and public transport companies; redesigned New York toponymy. The characters are given carefully studied redundant clothing, shells that nail them to their particular neurosis: the head of the family (Gene Hackman) is dressed as a 1950s dandy, his daughter Margot (Gwyneth Paltrow) is never separated from an outsized fur coat and his son Richie (Luke Wilson) has the look of the tennis star Bjon Borg, while Chas and his two children only change their constant red Adidas tracksuit for a black Adidas tracksuit to attend a funeral. And the scenes of the film are separated and presented by bombastic captions, labels stuck to an exaggerated packaging, like directions for improper use. Camillo De Marco is managing editor of Cineuropa.org and a critic for Kataweb Cinema.


Libri da Giocare Testo e foto di Maria Gallo

dare sollievo proprio ai bimbi in età di dentizione: mentre la mamma legge, il piccoletto sollazzerà le sue gengive né più né meno dell’adulto che fuma o beve un drink durante la lettura. Negli Happy Book il packaging ha fatto un vero salto generazionale. Il libro, infatti, è la materializzazione tridimensionale del protagonista del racconto. Immaginiamo di leggere il “Moby Dick” da un libro a forma di balena o “Il nome delle rosa” dalle pagine di un volume che riprenda la silhouette di un monaco medievale. Toccare fisicamente il protagonista immaginario di un mondo

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inesistente, potrebbe creare una certa inquietudine, ma per i bimbi, evidentemente, mondo reale e mondo immaginario non hanno grandi problemi di comunicazione. Così, per esempio, le avventure del topetto e della rana sono stampate su pagine di varie forme e grandezze che, una volta rilegate, costituiscono appunto il

corpo di un ranocchio. I Libri Sonaglio sono concepiti quasi come dei cofanetti. Come dice il nome ogni titolo racchiude qualcosa (piccole biglie, campanellini, legnetti...) in grado di far rumore. L’anomalo strumento musicale è inglobato nell’ultima pagina, che non possiamo definire retro di copertina. Perché in questo genere di libri, o meglio in questo genere di packaging, viene meno ogni regola per la corretta realizzazione del libro. Anzi l’oggetto libro viene praticamente reinventato ogni volta. Agli adulti non resta che consolarsi con l’enciclopedia Treccani, in edizione famiglia. Oltre ai normali sei volumi, ne esiste un settimo “fantasma”. O meglio il settimo volume è un falso libro che contiene il CD, ormai allegato a tutte le enciclopedie, con immagini, testi e database. Un raro caso di iperpackging, involontariamente spiritoso applicato al freddo e razionalissimo mondo della cultura.

2/02

Abituati a non vedere il libro che stiamo leggendo, perché persi e sprofondati nella lettura, forse non riusciamo neanche a immaginare che il volume tra le nostre mani è, prima di tutto, il packaging primario del testo. La copertina e il sacchetto che ci danno in libreria aggiungono più che altro immagine e comfort per il trasporto. Come tra i vini, i profumi e i gioielli, come tra tutte quelle merci, cioè, in grado di stimolare insane passioni, anche tra i libri ce ne sono alcuni che sono stati progettati per farci sognare e divertire, a partire proprio dal loro packaging eccessivo. Gran parte di questi appartengono alla categoria dei libri per l’infanzia, su cui già tanti anni fa Bruno Munari aveva operato delle vere magie. I suoi libri erano mutevoli e sorprendenti, con pagine morbide di stoffa, tagliate con strane diagonali per ottenere insoliti effetti optical, realizzate in materiali opachi e trasparenti per simulare la nebbia, il sole... Oggi, per i più piccoli, ci sono anche libri da mordere. Con grande invidia dei grandi, costretti a razionalizzare le proprie emozioni davanti a un testo amato o odiato, la collana “dentini” ospita una serie di mini volumetti alla cui costola è ancorato un anello di plastica. L’anello, che può essere staccato, lavato e messo anche a rinfrescare in frigo, è un massaggia gengive destinato a


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Books to play with

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2/02

Maria Gallo (text & photos)

Used to not seeing the book we are reading, because we are lost and engrossed in the act of reading it, perhaps we are not even able to imagine that the volume in our hands is, first and foremost, the primary packaging of the text. Its cover and the bag we are given in the bookshop more than anything else add image and convenience for transportation. As with wines, perfumes and jewels, as with all that merchandise that is capable of stimulating crazy passions, even among books there are some that have been designed to make us dream and have fun, starting out right from their overpackaging. Many of these belong to the category of children’s books, on which many years back Bruno Munari worked some real magic. His books were changeable and surprising, with soft pages in fabric, cut with strange diagonals to obtain unusual optical effects, made in opaque and transparent materials to simulate mist, the sun... Today for the very young there a books to bite into. To the great envy of adults, forced to rationalise their emotions in the face of loved or hated works, the “dentini” [literally “little teeth”] series is comprised of a collection of mini volumes with a plastic ring attached to the spine. The ring, that can be detached, washed and cooled in the fridge, is a gum massager for soothing children in the teething stage: while mummy reads, the child stimulates its gums in the same way as the adult who smokes, or drinks

during the reading. In the Happy Books the packaging has made a real generational leap forward. The book is in fact the 3D materialisation of the hero of the tale. Imagine reading “Moby Dick” from a book the shape of a whale or “The Name of the Rose” from the pages of a volume that has the silhouette of a mediaeval monk. To be able to physically touch the imaginary hero of an inexistent world might seem slightly offsetting, but for toddlers, evidently the real and the imaginary world do not have great problems of communication. Thus for example the adventures of the mouse and the frog are printed on various pages of various shapes that once bound in fact constitute the body of a frog. The Sonaglio books are virtually conceived as caskets. As the name of the series tells us [sonaglio = rattler] each title contains something (tiny marbles, bells, wooden sticks...) that makes a noise. The unusual musical instrument is incorporated in the last page, that we cannot define as a back cover. This is because this kind of book, or better still this kind of packaging, waives all the rules normally brought to bear for the correct creation of a book. Rather the book object is practically invented from scratch each time. The adults have no option but to console themselves with the Treccani encyclopaedia in the family edition. As well as the normal six volumes, a seventh “ghost” volume exists, or rather the seventh volume is a fake book that in actual fact contains the CD, like the one now attached to all encylopaedias, with pictures, texts and database. A rare case of hyperpackaging, involuntarily spiritually applied to the cold and ultra-rational world of culture.


Altri libri/Other books - Marc Augé, Il dio oggetto, Meltemi, 2002 - Peter Sloterdijk, L'ultima sfera. Breve storia filosofica della globalizzazione, Carocci, 2002 - T. Buchsteiner e O. Letz (eds.), Duane Hanson. More than reality, catalogo della mostra, Hatje Cantz, 2001

Experimental Packaging a cura di Daniel Mason

Rotovision, 2001

As opposed to the Perfect Package, brought out by the same

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publisher, this work concentrates on the most extreme and extravagant tendencies of contemporary packaging, justly considered as an

important tool in “redefining new desires”. An entire chapter is in actual fact dedicated to desires, where one encounters the most seductive packaging of the world like the Frost Design project for D&AD Show Reel, or the incredibly luxurious packs (in aluminium!) for the incredibly luxurious Treasurer Cigarette. But the top award for experimentation, seen in terms of craziness and an illogical approach to production, goes to the post-punk British group of performers :zoviet*france: that send their cassettes and records out to their fans in the most absurd of containers, such as cigar boxes, NATO bullet cases, folded sheets of aluminium, or packaging their CDs in felt disks purposefully cut from the headgear of the soldiers of the former Red Army...

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A differenza di The Perfect Package, apparso presso il medesimo editore, questo volume si concentra sulle tendenze più estreme e più stravaganti del packaging contemporaneo, considerato giustamente un importante strumento nel “ridefinire nuovi desideri”. Al “desiderio” viene in effetti dedicato un intero capitolo, dove si incontrano i più seducenti packaging del mondo come il progetto di Frost Design per D&AD Show Reel, o gli incredibilmente lussuosi

pacchetti (in alluminio!) per le incredibilmente lussuose Treasurer Cigarette. Ma la palma della sperimentazione va, per follia e illogicità produttiva, al gruppo post-punk di performer musicali inglesi :zoviet*france: che spediscono ai fans le loro musicassette o i loro vinile nei contenitori più assurdi, come scatole di sigari, contenitori di proiettili NATO, fogli di alluminio piegati, oppure imballano i loro CD in dischi di feltro tagliati appositamente dai cappelli dei soldati dell’ex-Armata Rossa…


design box

Marc Newson Booth-Clibborn Editions, 2002 Il volume, prodotto da Cappellini Italia, è dedicato a uno tra i più talentuosi designer della scena londinese. Benché non abbia diretta attinenza col mondo del packaging, la sua produzione non può lasciare indifferenti tutti coloro che, a vario titolo si occupano di imballaggio: il volume stesso, in modo molto allusivo, si presenta avvolto da una custodia in polipropilene semitrasparente, con il nome-brand di Newson impresso a scavo. Del resto, non solo Newson si è occupato di contenitori veri e propri, come nel caso della tazza in ceramica per Ricard, o dei vasi in vetro trasparente per

PackAge

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Catalogo della mostra, Lupetti, 2002 Il catalogo dell’omonima mostra tenutasi alla Città della Scienza di Napoli rende ragione di un modo più globale di considerare il packaging. Gli interventi di Bucchetti, Capodieci, Di Robilant, Kasam, Mannheimer, Mattei, Meana, Munari, Tadini, Volli spaziano nel concetto con vastità di riferimenti e in molte direzioni; se il packaging fa parte integrante della cultura pop del nostro tempo allora è legittimo

Ittala-Finland, ma in un certo modo molti suoi progetti di interior design richiamano la duplicità del rapporto internoesterno, come la famosa Orgone Chair (1993), con la sua struttura a “manicotto”, o il Gello Table (1994), disegnato per una compagnia di spedizioni svizzera e somigliante ad una grande lanterna cinese di carta, o il progetto d’arredo per W&L.T. (1996-7), consistente in moduli stampati di poliuretano, quasi dei grossi involucri colorati pronti a “contenere” i capi d’abbigliamento del brand omonimo . The volume, produced by Cappellini Italia, is dedicated to one of the most talented designers of the London scene. Although it is not directly related to packaging, his output cannot but interest all those that in various

leggerne le caratteristiche da punti di vista diversi, come il rapporto con l’arte, le ricadute sociali, le sfumature semiotiche, gli aspetti tecnico-pratici, le metamorfosi storiche… Ma davvero memorabile è un testo che Bruno Munari aveva dedicato - con mirabile humour - al “packaging” di un’arancia, ben caratterizzato come materia che come colore, la cui apertura avviene in modo così semplice che «non si rende necessario uno stampato allegato con le istruzioni per l’uso…»! The catalogue of the show with the same name held at the Naples Science City pays tribute to a more global way of considering

ways deal with packaging: the selfsame volume, in a very allusive way, comes wrapped in a semitransparent polypropylene cover, with the name-brand Newson scoured on it. What is more, not only has Newson dealt with true and proper containers, as in the case of the ceramic cup for Ricard, or the transparent glass vases for IttalaFinland, but in a certain way many of his interior design projects allude to the duplicity of the inside-outside relations, as in the famous Orgone Chair (1996-7), with its “muff” structure or the Gello Table (1994), designed for a Swiss shipping concern and resembling a huge paper Chinese lantern, or the W&L.T. interior design project consisting of stamped polyurethane modules, almost huge colored wrappings ready to “contain” the clothing bearing the same brandname.

packaging. Pieces by Bucchetti, Capodieci, Di Robilant, Kasam, Mannheimer, Mattei, Meana, Munari, Tadini, Volli, range within the concept offering a vast series of references leading off in many directions; if packaging is an integral part of the pop culture of our times it is legitimate to read its features from different points of view, like its relation with art, its social spin offs, its semiotic nuances, the technical practical aspects, the historic metamorphoses. But what was really memorable was the piece that Bruno Munari dedicated - with admirable humour - to the “packaging” of an orange, a well featured both as a material and as a colour, the opening of which is so simple that «it doesn’t need to be accompanied by a printed instructions sheet...»!


A pity not to

re@d it Marketing & Design Facts & Figures Industry & Management Environment & Legislation Materials & Machinery ... news and updates from the world of packaging in the magazine and on the website

Edizioni Dativo S.r.l. Via Benigno Crespi, 30/2 20159 Milano Tel. +39/0269007733 Fax +39/0269007664 italiaimballaggio@dativo.it www.italiaimballaggio.it



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