Il Packaging come Medium

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Marco Senaldi

Nelle opere dell’artista catalano il packaging è un contenitore di senso ma anche una sottile denuncia dell’universo consumista.

Antoni Muntadas: il Packaging come Medium

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Questa non è una pubblicità (1985) Il significato sta sparendo proprio nellʼepoca in cui è più facile trasmetterlo: emblema di tutto ciò è questa installazione di Antoni Muntadas sul tabellone pubblicitario più famoso del mondo a Times Square, New York City.

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This is not an Advertisement (1985) Meaning is disappearing in the very age when it has become easier to transmit the same: emblematic of this installation by Antoni Muntadas on the most famous advertising hoarding of the world, at Times Square, New York City.

L’interesse di Antoni Muntadas – catalano residente a New York, attivo come artista da oltre trent’anni, veterano di Documenta e di Biennali – è indirizzato verso quello che lui chiama, fin dagli anni 70, il “paesaggio mediale”, “the media landscape”. Con questo termine intende non tanto l’invadente presenza nel panorama urbano di schermi, videocamere, tabelloni

pubblicitari, light-box, segnali luminosi, e via dicendo, quanto il fatto che la comunicazione di massa ha veramente eroso il significato di ogni altra forma comunicativa dall’orizzonte delle società avanzate. Tutte le installazioni a cui Muntadas ha dato vita in questi anni, la maggior parte delle quali raccolte nella grande antologica Proyectos che la Fundaciòn Arte y Tecnologìa di

Madrid gli ha dedicato nel 1998, parlano di questo: la sparizione del significato proprio nell’epoca in cui è diventato più facile trasmetterlo in ogni sua forma. In This is not an Advertisement (“Questo non è uno slogan pubblicitario”), del 1985, ad esempio, egli ha usato il tabellone pubblicitario più famoso del mondo, quello in Times Square a New York, appunto per trasmettere la frase che dà il titolo all’opera – creando un evidente cortocicuito di senso. In un’altra installazione, Exhibition (1987), ha costruito una mostra perfettamente vuota, senza opere, esponendo le tipiche forme di installazione che si impiegano nell’allestimento di una mostra: le luci soffuse per i quadri a parete, il videoproiettore acceso per i video, il piedistallo per le sculture, il proiettore di diapositive per le fotografie, le bacheche illuminate per i disegni, ecc. È chiaro che con lavori come questo Muntadas ci dice come gran parte del fascino di cui godono le opere nei musei dipende non tanto dal loro contenuto – ormai secondario – quanto dall’eleganza con cui sono esposte. Per Muntadas, nell’epoca dei massmedia succede davvero che il medium finisca per diventare il messaggio, che il contesto predomini sul testo, che la cornice diventi più importante del quadro e, alla fine, coincida con esso. In questa direzione, non stupisce che questo artista abbia dedicato notevole attenzione al tema del packaging, non tanto come contenitore dominato dai segni della marca, o come veicolo pubblicitario, quanto come cornice che racchiude un contenuto su cui finisce per prevalere. D’altra parte la cornice, proprio come elemento che separa, che segna la differenza tra esterno e interno, tra contenuto e ambiente circostante, tra prodotto e consumo, è anche un concetto molto

interessante perché può diventare a sua volta un tramite per nuovi e imprevisti significati. Chiamato ad esempio a pensare un progetto di “public art” per lo spazio di arte contemporanea francese La Maison du Rhone, Muntadas ha rinunciato a grandi installazioni per le strade o le piazze della città, a favore di un intervento molto più “modesto” ma anche a grande diffusione nella vita pubblica locale, ossia la messa in produzione di una bottiglia (a tiratura illimitata, quindi non da prendersi come “multiplo d’artista”) che recava l’immagine a rilievo della stessa Maison. «In fondo - dice lui stesso - il Museo non è forse una forma di packaging?». Ma l’opera che più lascia sorpresi per la sua scarna semplicità risale al 1987 e si intitola Natura Morta Generica. In sostanza si tratta dell’esposizione, sugli scaffali della galleria parigina Gabrielle Maubrie, di una serie di prodotti confezionati, e dei loro “ritratti fotografici”, proprio come se fossero pezzi d’arte. Il fatto che i prodotti scelti non riportassero sulla veste grafica esterna, rigorosamente in bianco e nero, nient’altro che il nome del loro contenuto, dà senza dubbio a tutta l’installazione il tono, quasi raffinato ed elegante, di un’abile costruzione “concettuale”. L’artista stesso (che abbiamo incontrato in occasione di un workshop a Torino) spiega che si trattava semplicemente di merci realmente esistenti comperate in alcuni hard discount che le vendevano in quella forma evidentemente per recuperare margini sul costo del packaging e del graphic-design dell’imballaggio. “Io sono più interessato a questo tipo di approccio culturale sui dettagli, che alle grandi teorie”, dice, e conferma che l’opera sulla natura morta faceva in effetti parte di un


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progetto più ampio sulla “genericità”, ossia su quegli oggetti, fatti o significati che, per abitudine o debolezza abbiamo smesso di considerare “specifici” cioè degni di attenzione. «In Natura Morta Generica c’era un po’ un riferimento alla Merda d’Artista di Piero Manzoni, ma anche alle tele spagnole di bodegones [quadri barocchi di caraffe e bottiglie]; l’idea era quella di un prodotto anonimo che, se non diventa originale, assume un’altra presenza, cambiando un po’ il contesto».

nell’aristocratica cornice di una galleria d’arte alla moda in una città europea come Parigi, acquista un plusvalore, un’aura di artisticità, che dà alla sua modesta veste grafica un senso di metafisica astrazione. Su tutto, in Natura Morta Generica vince l’estrema pulizia formale che rimanda non a caso alle antiche nature morte spagnole del XVII secolo, insieme a una compostezza quasi morandiana – cose molto belle, che non cancellano però la sottile denuncia della frenesia consumista che caratterizza il nostro rapporto

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Maison du Rhône (1992-96) Un museo si può trasformare nel tetrapak di se stesso? È quanto ha provato a fare Muntadas con lʼarchitettura della Maison du Rhône. Can a museum be transformed into a tetrapak of itself? This is what Muntadas has tried to do with the architecture of the Maison du Rhône.

Tramite la messa in bella mostra della merce nella sua forma “generica”, e perciò, anche se imballata, totalmente spoglia di segni, lo spettatore è condotto a riflessioni contrastanti sullo statuto degli oggetti e sul proprio desiderio in quanto consumatore. Da un lato, la merce, svestita dagli abiti sgargianti con cui la si incontra solitamente sugli scaffali dei supermercati appare grigia, monotona e quasi triste, priva di quell’appeal seducente a cui siamo ormai da troppo tempo abituati. Dall’altro, esposta così,

con gli oggetti in questo passaggio di secolo. «Non amo molto il packaging, sono abbastanza anti-consumista… Se devo comprare qualche cosa divento super-nervoso. La cosa che mi ha sempre sorpreso negli USA è che la gente si trova per andare a “fare shopping” insieme, come un fatto socializzante; ma anche in Spagna si sente dire “vamos de compras” (andiamo a far compere)» dice nel suo italo-spagnolo da artista seminomade.

«Non mi piace neanche collezionare oggetti. L’unica cosa che ho collezionato per anni – e ne ho veramente tanti – sono quei fogli messi sull’aereo con le istruzioni per come salvarti. È una cosa che nessuno legge. Strano, perché dovrebbe servire a salvarti – nel caso succeda qualcosa sicuramente uno si darebbe dello stupido per non aver letto le istruzioni. È divertente perché è un oggetto basato sulle figure, ma, anche se il messaggio è sempre uguale, il disegno cambia; ogni Paese e ogni compagnia aerea lo

questo rapporto fra lo standardizzato e lo specifico. Sto anche facendo un lavoro per Barcellona, sul merchandising museale di Mirò. La Càixa, ad esempio, una grossa banca spagnola con un intenso programma culturale, ha preso il suo logo da un segno di Mirò, così anche la Iberia Airlines, e anche l’Ente per il turismo spagnolo, per le sue pubblicità. E alla Fundaciòn Mirò è tutto un merchandising che va dai piatti alle t-shirt, dalle calze all’underwear! Poi, quando sono stato a Cuba, per

Natura Morta Generica (1987-88) La merce, svestita dalla seduzione, acquista un plusvalore metafisico. Generic Still Life (1987-88) Merchandise laid bare in order to seduce, takes on an added metaphysical value.

interpreta in modo diverso, Lufthansa è differente da Iberia, Quantas da Alitalia, eccetera. Dà molti riferimenti sulla cultura del Paese da cui proviene; però, anche se il disegno vorrebbe essere generico e chiaro, il fatto è che anche la “chiarezza” è un concetto che cambia – in alcuni casi, per certi Paesi come la Corea o il Giappone, è addirittura barocco. Così, l’ho utilizzato per il lavoro sulla traduzione a cui sto lavorando - On Translation - un work in progress che proseguo dal 1997. Quello che mi interessa è appunto

la Bienal de Havana, ho visto che è successo lo stesso con Che Guevara… In Spagna hanno messo il merchandising nel museo, là hanno usato tutto il Paese!». Le chiacchiere amabilmente intelligenti di Muntadas fanno pensare… Forse che anche gli Stati, i Paesi e le Nazioni si stiano trasformando in giganteschi packaging, con i loro bravi logo colorati e le istruzioni per l’uso, senza che noi, genericamente disattenti, nemmeno ce ne accorgiamo?


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Antoni Muntadas: Packaging as a Medium In the works of this Catalan artist, packaging is a meaningful container, but also a sharp condemnation of the consumerist world.

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Through this attractive displaying of goods in their “generic” form and, even if packaged, totally devoid of decoration, the viewer is forced into contrasting reflections on the status of objects and the desires of the consumer. On

the one hand the goods, stripped of the gaudy apparel in which we are used to seeing them on the supermarket shelves, seem grey, monotonous and almost sad, without that seductive appeal which we have been used to for so long. On the other hand, displayed like this, within the aristocratic framework of a fashionable art gallery in a European city such as Paris, they assume an additional value, an aura of artiness which imbues their modest graphic facade with a sense of metaphysical abstraction. Above all, Generic Still Life demonstrates an extreme formal cleanliness of line which by no means coincidentally recalls Spanish still life of the 17th century, together with an almost Morandian composure – very beautiful features which do not, however, erase the subtle condemnation of the frenetic consumerism which characterises our relationship with objects at this stage in the century. «I don’t like packaging very much, I’m quite anti-consumerism… If I have to buy something, I get hyper-nervous. The thing that has always surprised me here in the United States is that people go shopping together, as if it is a socialising event; although in Spain, too, you hear people say “vamos de compras” (let’s go and buy)» says the semi-nomadic artist. «I don’t even like collecting things. The only thing I’ve collected for years – and I’ve got loads of them – are those cards they put in aeroplanes with instructions on how to save yourself. They’re things which nobody reads. Strange, because they would help to save you – if something happened, you’d look really stupid if you hadn’t read the instructions. They are amusing because they are based on figures but, although the message is always the same, the pictures are different; each country and

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The interests of Antoni Muntadas – a Catalan living in New York who has worked as an artist for more than thirty years and is a veteran of Documenta and the Biennials – are directed towards what he, since the 1970s, has called the “media landscape”. By this, he means not so much the invasive presence in the urban landscape of screens, videocameras, advertising hoardings, light-boxes, neon signs and so on, rather the fact that mass communication has eroded the significance of every other form of communication in advanced societies. All the works created by Muntadas over the years, most of which are gathered together in the large anthological Proyectos which Madrid’s Fundaciòn Arte y Tecnologìa devoted to him in 1998, speak of this theme: the disappearance of meaning in an age when it has become easier and easier to transmit it in many forms. In This is not an Advertisement of 1985, for example, he used the most famous advertising screens in the world, those in Times Square, New York, to transmit the phrase which is the title of the work – creating a clear short-circuit of meaning. In another work, Exhibition (1987), he constructed a completely empty exhibition, devoid of exhibits, using only the typical

But the work which is most surprising in its stark simplicity dates from 1987, and is entitled Generic Still Life. In essence, this is a display, on the shelves of the Gabrielle Maubrie Gallery in Paris, of a series of packaged products, and of their “photographic portrait”, as if they really were works of art. The fact that the products selected do not depend on their external graphic appearance, strictly in black and white, nothing but the name of their contents, undoubtedly gives the exhibit the almost refined and elegant tone of a skilful “conceptual” construction. The artist himself (whom we met during a workshop in Turin) explains that we are simply dealing with goods which really exist, and which can be bought in any discount store, where they are clearly sold in this way to contain the costs of packaging and graphic design. «I am more interested in this type of cultural approach to detail than to grand theories», he says, confirming that this still life work is in effect part of a larger project on “generics”, or rather on those objects, facts or meanings which, through habit or weakness, we have ceased to consider as “specific” and therefore worthy of attention. «In Generic Still Life there was a slight reference to the Merda d’Artista by Piero Manzoni, but also to the Spanish canvases of bodegones (Baroque pictures of carafes and bottles); the idea was that of an anonymous product which, if not actually original, takes on another presence, changing its context a little».

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equipment necessary to stage an exhibition: spotlighting for paintings on the walls, a video projector switched on but with no video, pedestals for sculptures, a slide projector, illuminated display cases for drawings, etc. It is clear that with works like this Muntadas is telling us that a large part of the fascination engendered by works in museums is due not so much to their content – which is secondary – as to the elegant surroundings in which they are displayed. For Muntadas, in this age of mass media, it is a fact that the medium truly ends up being the message, the context imposes itself on the text, the frame becomes more important than the picture and, in the end, becomes a part of it. In this respect, it comes as no surprise that this artist has devoted much of his attention to the subject of packaging, not so much as a container dominated by its trade mark, or as a vehicle for advertising, rather as a frame which encloses the contents over which, in the end, it prevails. On the other hand, the frame, a component which separates, which marks the difference between interior and exterior, between the contents and the environment surrounding them, between the product and consumer, is also a concept which is of itself interesting, because in its turn it can become a vehicle for new and unforeseen meanings. Called upon, for example, to think of a project for the Maison du Rhone for contemporary French art, Muntadas rejected large structures for the streets or squares of the city in favour of a much more “modest” solution, but one which loomed equally large in local public life – the production of a bottle (of unlimited production, therefore not to be considered as an artist’s “limited edition”) bearing in relief an image of the Maison itself. As Muntadas himself says, “Deep down, is not the Museum perhaps a form of packaging?”.


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each airline interpret them in different ways, Lufthansa is different from Iberia, Quantas from Alitalia, and so on. They tell you a lot about the culture of the country they come from; but even though the pictures try to be generic and clear, the fact is that this “clarity” is a concept which can change – in some cases, for countries like Korea and Japan, it is downright baroque. This is why I have used them for something I’m working on called On Translation, something I’ve been engaged on since 1997. What really interests me is this relationship between the standardised and the specific. I’m also engaged on a work for Barcelona, on the museum merchandising of Mirò. La Càixa, for example, a very large Spanish bank with an intensive cultural program, has taken its logo

from a design by Mirò, as has Iberia Airlines, and also the Spanish Tourist Authority, for its advertising. At the Fundaciòn Mirò it’s all merchandising, which goes from plates to tshirts, from socks to underwear! Then, when I was in Cuba for the Havana Biennial, I saw that the same thing had happened with Che Guevara…In Spain, the museum has exploited the merchandising, there the whole country has used it!». Muntadas’ charmingly intelligent musings make you think… Are, perhaps, even states, countries and nations being transformed into gigantic packages, with their bold colourful logos and instructions for use, without us, being generically unaware, even noticing?


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