1 “SULLA FINE DEL SACRIFICIO” IL SAPERE SACRIFICALE DI W.BURKERT ED E.GANS NELL’EPOCA DEL POST-NARRATIVO di Davide Polovineo
1 La narrazione sacrificale nel periodo post-narrativo: quale possibile livello dialogico? Negli anni del secondo conflitto mondiale del secolo scorso Roger Fry e Daniel-Henry Kahnweiler ebbero la premonizione di uno smantellamento, a livello epidermico e fondativo dell’assetto sociale, della comprensibilità logica di uno sviluppo lineare delle grandi narrazioni storiche e dei grandi modelli idealtypici su cui erano poste le basi sociali e le narrazioni individuali e di gruppo. Penso che sia utile ricordare che proprio i modelli d’indagine di Fry e Kahnweiler, sono le premesse epistemiche di quel profondo movimento definito post-narrativo che soprattutto negli Stati Uniti, in Giappone e nel Nord Europa pone le basi per necessarie indagini e ricerche sulla validità o meno di grandi modelli narrativi idealtypici artistico-letterari, figurativi e religiosi per l’identità sociale e per la costruzione sociale. Il contributo di Fry e Kahnweiler è ripresentato, sintetizzato e criticato in particolare dal filosofo e critico d’arte Arthur Danto che in After the End of Art. Contemporary Art and the Pale of History1 afferma: I primi teorici che ebbero il sentore di un cambiamento di ordine diverso rispetto a quelli che si potevano descrivere come stadi di uno sviluppo lineare, ad esempio Roger Fry o Daniel Henry Kahnweiler, si possono interpretare in due modi diversi. Si potrebbe attribuire loro l’intuizione che la storia si fosse conclusa e una nuova fase si fosse inaugurata; un nuovo sistema di segni aveva sostituito quello precedente, secondo Kahnweiler, e potrà a sua volta essere sostituito[…]. Da questo punto di vista, la tesi di Kahnweiler ricorda la straordinaria visione di Erwin Panofsky, secondo cui la storia dell’arte consiste in una sequenza di forme simboliche che si sostituiscono una all’altra senza comporre uno sviluppo. La straordinaria mossa di Panofsky fu quella di prendere la scoperta della prospettiva lineare, simbolo quasi universale del progresso, e trasformarla in quella che definì una forma simbolica, cioè semplicemente un modo diverso di organizzare lo spazio. E, in questo modo di organizzare lo spazio, essa apparteneva ad una particolare filosofia che permeava altri aspetti della cultura, come l’architettura, la teologia, la metafisica e perfino i codici morali, che costituivano dei sistemi culturali da studiare attrverso gli strumenti interpretativi dell’iconologia[….]. L’altra interpretazione articolata da Roger Fry, fu che gli artisti non si preoccupassero più di imitare la realtà bensì volessero dare un’espressione oggettiva ai sentimenti che la realtà 2 suscitava in loro .
Danto, tuttavia, pone delle serie difficoltà sulla comprensibilità e sulle proposte di Fry e Kahnweiler, senza escludere, tuttavia la loro notevole sottolineatura nei riguardi della problematica della narrazione lineare storica nel A.C.DANTO, After the End of Art. Contemporary Art and the Pale of History, National Gallery of Art, Washington 1997 (trad. Dopo la fine dell’arte. L’arte contemporanea e il confine della storia, a cura di Nicoletta Poo, Bruno Mondadori, Milano 2008). 2 Ibidem, cit., pp.63-64 1
2 periodo post-moderno e per il movimento post-narrativo: L’impegno a un livello più maturo di consapevolezza filosofica impregna tutta la cultura e non solo l’arte, e quasi di certo è uno dei connotati del modernismo, inteso come uno dei sistemi culturali di Panofsky 3.
Proprio su questo asserto Danto pone la sua indagine sulla funzione idealtypica del sacrificio come modello che delinea implicitamente gli sforzi del mondo i culturale di soffocare la sua origine vergognosa e fondamentale cioè quella di essere violenta: in questo senso il sacrificio andrebbe inscritto nell’arte della disturbazione 4 . Il sacrificio è in qualche modo una componente affettiva dell’arte disturbazionale, e di solito si tratta di una realtà già di per sé disturbante: sangue, carne,pericolo reale, dolore effettivo, morte possibile. Si dà distrazione allorquando i confini che separano l’arte dalla vita sono sfondati e questo avviene nell’ambito sacrificale. Secondo Danto l’arte disturbazionale è un movimento regressivo;invece di procedere verso la propria trasfigurazione nella filosofia, essa retrocede verso gli inizi della performance, e il coinvolgimento in quest’arte pone chi guarda in uno spazio interamente differente da tutto ciò per cui la filosofia dell’arte ci ha preparato. Danto sostiene che “ciò cui mira l’artista disturbativo” è di sacrificare se stesso così che attraverso di lui un pubblico di spettatori possa essere trasformato, è un impegno a recuperare uno stadio dell’arte in cui l’arte stessa era quasi come la magia- come una magia seria; in breve, si tratta del tentativo di recuperare all’arte qualcosa di quella magia che fu eleminata quando l’arte divenne arte. Ora in base a questa sensibilità contemporanea non si può non porre una semplice domanda: è possibile ancora parlare di sacrificio come modulo narrativo e idealtypico del religioso e della società nell’epoca post-narrativa? Contro l’interpretazione “antisacrificale” del movimento post-narrativo è lecito portare obiezioni dal versante antropologico e storico-culturale sul rapporto Forma e contenuto sacrificale? Da queste domande nasce l’opportunità di stabilire una tecnica per vincere le resistenze del senso comune e della logica “a occhi aperti”. Il ricercatore comprende che, nel movimento post-narrativo, è in gioco la forma della narrazione. Ora, in tal gioco, nasce la nostra consapevolezza che non è acuendo il normale spirito critico che si riuscirà a far emergere il “qualcosa oscuramente premente simile al sorriso enigmatico di Leonardo” ma utilizzando la tecnica del “pensare ad altro” o, nel nostro caso, proponendo o ri-proponendo la tecnica d’indagine di due autori che dal versante dell’altro della forma ovvero del contenuto si sono mossi per costruire un’analisi sacrificale implicante una forma narrativa socio-biologica del sacrificale (W.Burkert) e una forma narrativa originaria che lecitamente Eric Gans definisce estetica sacrificale.
Ibidem, cit., p.65 A.C.DANTO, The Philosophical Disenfranchisement of Art, Columbia University Press, New York 1986 (trad.it. La destituzione filosofica dell’arte, a cura di T.Andina, trad. di C.Barbero, Aesthetica Edizioni, Palermo 2008). Cfr. inoltre per una ricerca attenta sul rapporto sacrificio/arte anche lo studio di D.PERLMUTTER, L’estetica sacrificale:rituali di sangue, dall’arte all’assassinio, in rivista in rete “Anthropoetics”5, n.2 (Fall 1999/Winter 2000); trad.it. di Fabio Brotto. 3 4
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2 La narrazione sacrificale pre-verbale” del sacrificale
di
W.Burkert:
il
biologico
come
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Nell’ultimo trentennio, l’indirizzo di studio dell’American Anthropological Association, finalizzato ad una maggiore articolazione fra scienze antroposociali e scienze naturali, ha posto le basi, soprattutto nell’area di ricerca anglofona, per una riorganizzazione degli studi sui fenomeni religiosi e per una ridefinizione dei comportamenti rituali legati al sacrificio 5 . Tale indirizzo di studio, tuttavia ha disorientato antropologi di aree geografiche differenti, che dinanzi alle sottolineature, di ricerca e di metodologia dell’American Anthropological Association, di un comportamento rituale marcato e controllato dal sistema biologico, tendono di conseguenza a mettere da parte il modello antropologico statunitense o in alternativa a dargli eccessiva importanza6. In questo quadro, il libro Creation of the Sacred. Tracks of Biology in Early Religions, opera di W.Burkert nata dalle Gifford Lectures tenute dallo studioso svizzero presso l’università di St. Andrews nel febbraio-marzo 1989, è sicuramente un testo che, cercando un percorso di sintesi tra le differenti impostazioni metodologiche delle associazioni antropologiche internazionali, potrebbe segnare un modello innovativo di ricerca interdisciplinare tra scienze Attraverso le pubblicazioni nel suo organo ufficiale “American anthropologist”, l’American Anthropological Association, già negli anni settanta e ottanta dello scorso secolo, si propose di dare un’interpretazione unificante di tutti i comportamenti dell’ uomo utilizzando i dati delle varie discipline che si occupano del comportamento, dalla genetica e dalla fisiologia comparata fino all’etologia. In fondo l’Associazione non fece altro che riprendere un progetto già delineato agli inizi del novecento da F. Boas. (Cfr. F.BOAS, Evolution or Diffusion, in “American anthropologist” 26 (1924), pp.340-344). Cfr. anche BARKOW J.H., Culture and Sociobiology, in “American Anthropologist” 80(2) (1978), pp. 5-20; BOEHM CH., Rational Preselection from Hamadryas to Homo Sapiens: the Place of Decisions in Adaptive Process, in “American Anthropologist”, 80(2) (1978), pp.265-296; CHAPPLE E., The Science of Humanics: Multidisciplinary Renaissance of General Anthropology, in “American Anthropologist”, 80(1) (1978), pp. 42-52; DYSON H. - DYSON S., Human Territoriality: an Ecological Reassessment, in “American Anthropologist” 80(1) (1978), pp.21-41; GOULD R. A., The Anthropology of Human Residue, in “American Anthropologist”, 80(5) (1978), pp. 815-835; PRESS I., Urban Folk Medicine: A Functional Overview, in “American Anthropologist”, 80(1) (1978), pp.71-83; SISKIND J., Kinship and Mode of Production, in “American Anthropologist”, 80(4) (1978), pp. 860-872; WHITTEN N. E., Ecological Immagery and Cultural Adaptability: The Canelos Quichas of Eastern Ecuador, in “American Anthropologist”, 80(4) (1978), pp.836-859; LASKER G. W., Surnames in the Study of Human Biology. in “American Anthropologist”, 82(3) (1980), pp. 525-537; CHAPPLE E. D., The Unbounded Reaches of Anthropology as a Research Science, and Some Working Hypotheses, in “American Anthropologist”, 82(4) (1980), pp. 741-757. 6 LORING B.C.- FRANK S., 1941-1999: Historian of Biological Anthropology, in “American Anthropologist” 103(1) (2001), pp.171-173; GOODENOUGH W. H., Anthropology in the 20th Century and Beyond, in “American Anthropologist” 104(2) (2002), pp. 423-440; NADER L., Missing Links: a Commentary on Ward H. Goodenough’s Moving Article “Anthropology in the 20th Century and Beyond”, in “American Anthropologist” 104(2) (2002), pp. 441-447; TRENCHER S. R., The American Anthropological Association and the Values of Science:1935-70, in “American Anthropologist” 104(2) (2002), pp. 450-460; URBAN G., Metasignaling and Language Origins, in “American Anthropologist” 104(1) (2002), pp. 233-243; BRIGGS CH., Linguistic Magic Bullets in the Making of a Modernist Anthropology, in “American Anthropologist” 104(2) (2002), pp. 481-498; D’ANDRADE R., Cultural Darwinism and Language, in “American Anthropologist” 104(1) (2002), pp. 223-231; ALVARD M.S.-KUZNAR L., Deferred Harvest: The Transition from Hunting to Animal Husbandry, in “American Anthropologist” 103(2) (2001), pp. 295-311. 5
4 biologiche e scienze antropologiche per lo studio delle tematiche religiose e, per quanto riguarda l’impostazione di questa ricerca, per l’analisi della prassi sacrificale7. Non potevamo trovare metodo migliore dato che per Burkert c’è una specie di simbolica primitiva e originaria iscritta nel linguaggio sacrificale: un legame simbolico con l’irreversibilità biologica della stessa natura dove il cibo genera vita e morte nello stesso tempo8. In maniera latente, il legame profondo con la socio- biologia era già stato sottolineato da Burkert in Homo necans: Interpretationen altgriechischer Opferriten und Mythen9, ma ne La Creazione del Sacro viene alla luce in maniera evidente per affrontare la prospettiva del sacrificio che interpretato a livello biologico, culturale e sociale, risulta, per Burkert, uno dei nodi più complessi del mondo religioso ed evidenzia, a sua volta, il problema di ristabilire la relazione individuo/società/specie come permanente e simultanea10. Appunto per la costruzione di un modello metodologico, nella prefazione de La creazione del Sacro, Burkert auspica la necessità di una interdisciplinarietà tra le differenti scienze che studiano il sacrificio affermando: Il tentativo di collegare la ricerca storica e filologica all’antropologia biologica richiede l’esplorazione di campi diversissimi, ognuno gremito di innumerevoli pubblicazioni, condotte con metodi sempre più raffinati e specialistici benché spesso contrastanti e dai risultati controversi.[….]Ma gli storici, proprio perché sono divenuti consapevoli di quanta parte del loro lavoro, al di là del mero recupero e accumulo dei dati sia condizionata dai particolari modelli, principi e tendenze della loro civiltà, devono guardare oltre le strette prospettive storiche del passato e prendere in considerazione gli orizzonti scientifici sempre più ampi del nostro mondo. L’antropologia generale dovrà alla fine fondersi con la biologia.[...] Se per esempio, il linguaggio e il simbolismo del sacrificio in un determinato contesto culturale suscitano una varietà d’interpretazioni, nel sito rimangono ossa reali a dimostrare che avvenne un’uccisione reale. La religione è 11 fondamentalmente realistica; e questa la mantiene vicina alla natura .
Burkert, con queste esplicite affermazioni, pone le basi per una decostruzione vera e propria della categoria sacrificale non solo da un punto di vista contenutistico, ma soprattutto metodologico, ponendosi sul crinale dell’antropologia di D. Sperber12, che affermava che in chiave antropologica ogni generalizzazione del concetto di sacrificio comportava immediatamente una manipolazione indebita dell’idea stessa di sacrificio13, della sociobiologia di Wilson W.BURKERT, La creazione del sacro. Orme biologiche nell’esperienza religiosa, Adelphi, Milano 2003 (ed. orig. Creation of the Sacred. Tracks of Biology in Early Religions, Harvard University Press, Cambridge, Massachusetts, London 1996). 8 Cfr. ivi, p. 62. 9 W. BURKERT, Homo necans. Antropologia del sacrificio cruento nella Grecia antica, Boringhieri, Torino 1981 ( ed. orig. Homo necans: Interpretationen altgriechischer Opferriten und Mythen, W. De Gruyter, Berlino-New York 1972), p.204. Già in quest’opera Burkert pone una prima lettura del biologico mettendo in relazione il sacrificio con l’iniziazione. 10 W.BURKERT, La creazione del sacro, pp. 17-42. 11 Cfr. ivi, cit. p.13. 12 D. SPERBER, Le savoir des anthropologues, Hermann, Paris 1982 (trad. it., Il sapere degli antropologi, Feltrinelli, Milano 1984), pp. 41-52. 13Si veda a questo proposito la sintesi magistrale in chiave critica proposta da C. Grottanelli in C. GROTTANELLI- N.F. PARISE (a cura di), Sacrificio e società nel mondo antico, Laterza, Bari 1993, pp. 3-53. 7
5 e Lumsden14 e della storia comparata di Vernant e Detienne15. Ne scaturisce, che per lo studio di quel tipico comportamento rituale dell’uomo definibile col termine sacrificio, le influenze dell’ambiente risultano essere indistricabili da quelle biologiche e genetiche. Per Burkert, come per Wilson, diventa allora un nodo insolubile stabilire se, in questo comportamento rituale, esista un primato dell’ambiente sui geni o se siano piuttosto i geni a predisporre l’attivazione delle influenze che l’ambiente può esercitare sull’individuo e sui geni stessi. Dai biologi, presi in esame da Burkert, la soluzione a questa impasse viene fornita dai modelli della complessità, che sottraggono l’individuo sia al determinismo dei geni sia a quello ambientale. L’individuo, per questi modelli, è portatore di un repertorio di potenzialità che in modo attivo tende ad attuare nell’ambiente in cui vive e nei suoi comportamenti rituali legati al cibo. Tuttavia stabilire in che misura la plasticità del comportamento umano sia condizionata dai geni o dall’ambiente è impossibile. I modelli della complessità tendono a concepire l’essere umano come il risultato di un’ interazione tra natura e cultura anche se non è riducibile a nessuno di questi due poli concettuali. Siamo quindi in presenza di una coazione tra predisposizioni genetiche e opportunità ambientali. Burkert, all'interno di questa impostazione, enuclea, nella Creazione del Sacro, tre diversi modelli esplicativi: 1) il primo modello prevede un'ipotesi genetica secondo la quale l’espressione rituale e comportamentale legata al cibo è geneticamente determinata (Hamilton, 1964)16; 2) il secondo modello prevede un'ipotesi extra-genetica ed extra-biologica per cui l’ espressione rituale e comportamentale legata al cibo è acquisita e non è geneticamente controllata. Secondo questa ipotesi sono i processi di apprendimento e l'ambiente a determinare il comportamento ( Rappaport, 1971)17; E.O. WILSON, Sociobiology: The New Synthesis, Harvard University Press, Cambridge 1975 (trad.it. Sociobiologia. La nuova sintesi, Zanichelli, Bologna 1979); IDEM, On Human Nature, Harvard University Press, Cambridge 1978 (trad. it. Sulla natura umana, Zanichelli, Bologna 1980); IDEM,Genes, Mind and Culture, Harvard University Press, Cambridge 1981; LUMSDEN CH.- WILSON E.O., Promethean Fire. Reflections on the Origin of Mind, Harvard University Press, Cambridge ( trad.it. Il fuoco di Prometeo. L'origine e lo sviluppo della mente umana, Mondadori, Milano 1984); IDEM, Biophilia, Harvard University Press, Cambridge 1984 (trad.it. Biofilia, Mondadori, Milano 1985 ); IDEM, The Diversity of Life, Norton, New York 1993.(trad.it. Diversità della vita, Rizzoli, 1993); IDEM, Naturalist, Island, Washington 1994; IDEM, Consilience. The Unity of Knowledge, Alfred Knopf, New York 1998 (trad.it. L'armonia meravigliosa, Mondadori, Milano 1999). 15 J.P. Vernant critica la tendenza a porre il problema del simbolismo nei termini del linguaggio e ad affrontarlo secondo i modelli linguistici. Nell’ambito dell’applicazione di rigidi schematismi sintattici, una volta entrata in crisi la validità degli schemi della linguistica strutturale nello spiegare i processi e gli effetti simbolici, si è tentato di indagare ciò che la sintassi e la semantica non sembrava potessero fornire quali strumenti interpretativi. Il problema, sottolinea Vernant, consiste nella specificità dei diversi linguaggi. Cfr. M. DETIENNE, J.P. VERNANT, La cuisine du sacrifice en pays grec, Gallimard, Paris 1979 (trad. it. La cucina del sacrificio in terra greca, Boringhieri, Torino 1982) . Vedi anche l’importante articolo di J. P. VERNANT, Théorie générale du sacrifice et mise à mort dans la thusia grecque, in AA.VV., Le sacrifice dans l’antiquité, a cura J. RUDHARDT-O. REVERDIN, Fondation Hardt, Vandoeuvres-Genève 1981, pp. 1-39 ; M. DETIENNE, Dionysos mis à mort, Gallimard, Paris 1977 (trad. it. Dioniso e la pantera profumata, Laterza, Roma-Bari 1981). 16 W.BURKERT, La creazione del sacro, p. 31. 17 ivi, p. 33. 14
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3) il terzo modello prevede, a livello rituale-comportamentale, un'ipotesi integrata, che comprende un rapporto di complementarità fra gene e cultura; per questo modello assume grande importanza la funzione dell'encefalo (Wilson-Lumsden, 1978)18. Se i primi due modelli, per Burkert, vivono ancora nella tensione dicotomica delineata dai termini natura e cultura, il terzo modello wilsoniano, sempre per lo studioso svizzero, potrebbe delineare un nuovo campo d’indagine per lo studio del comportamento sacrificale. È proprio sulla strutturazione di questo terzo modello che Burkert tesse la trama testuale e contenutistica de La Creazione del Sacro. I comportamenti rituali legati al nutrimento e la prassi sacrificale possono essere spiegati attraverso l'immagine del circuito, che comprende vari elementi e si chiude su se stesso. Si tratta del circuito coevolutivo geno-culturale e comprende vari livelli di osservazione: molecolare, cellulare, organica e popolazionale, dove il concetto di comportamento religioso o rituale comprende anche lo studio della cultura e delle dinamiche bio-sociali che vi sono alla base che vi sono alla base della forma pre-verbale del sacrificio 19 . Infatti una corretta spiegazione del terzo modello dipende da una teoria coevolutiva, in cui la relazione gene-cultura permette di comprendere in termini scientifici il circuito di causa-effetto 20 . Tale circuito procede dai geni alla struttura del cervello fino alle leggi epigenetiche di sviluppo mentale, quindi presiede alla formazione della cultura per poi ritornare all'evoluzione dei geni attraverso l'azione della selezione naturale e di altri agenti evolutivi. Pertanto per Burkert, una storia naturale del comportamento rituale della ricerca del cibo e quindi della prassi sacrificale ad essa interconnessa in base ad una metodologia sociobiologia, è legata all'ipotesi di modelli biologici compatibili con il passaggio dall'innato all'acquisito e quindi capaci di ristrutturazioni cui corrispondono funzioni nuove, non codificate dal gene. Ciò implica che ogni disposizione ad un determinato comportamento sacrificale non possa non essere compatibile con il codice genetico ma, a sua volta, non può essere contenuto come un datum. Al contrario un vero è proprio datum, per Burkert, è l’evoluzione encefalica che, secondo il modello di Lumsden e Wilson, si presenterebbe come un mediatore bio-culturale per la comprensione di ogni comportamento. In altre parole, per Burkert, è necessario un'ipotesi integrata per lo studio del comportamento sacrificale, centrata sull'importanza dell'encefalo, ipotesi che permette di sottrarsi ad una rigida visione deterministica del comportamento alimentare, sia di tipo genetico che culturale. Secondo questa ipotesi, la strutturazione dell'encefalo dipende dal codice genetico; l'organizzazione idonea alle funzioni innate rende possibile, attraverso la plasticità encefalica, il passaggio da comportamento rituale legato alla sfera alimentare al comportamento ivi, p. 36, passim. ivi, p.36. In questa pagina Burkert riporta fedelmente la tesi di Lumsden e Wilson. 20 Il riferimento burkertiano è alla tesi di P.LIEBERMANN, On the evolution of Human Language, in Proc. of the 7Th International Congress of Phonetic Science, Leiden 1972. 18 19
7 sacrificale. Di riflesso in contrapposizione alla separazione natura-cultura delineate dalle scienze antropologiche si farebbe strada per l’analisi del comportamento sacrificale, l'ipotesi di una complementarità tra patrimonio genetico e plasticità dell'encefalo. In questa ipotesi di lavoro è particolarmente importante, per lo studioso svizzero, il concetto di programma genetico, la cui complessità pone le basi di un possibile grado di plasticità capace di garantire all'individuo un comportamento rituale relativamente "libero". Il modello integrato, infatti, implica il rifiuto di qualsivoglia concezione, che postuli l'esistenza nell'uomo di istinti innati, dal momento che il comportamento sacrificale dipende da un programma aperto che si manifesta in un' interazione costante con l'ambiente. Caratteristica di tale programma è proprio la non separazione tra "interno" ed "esterno", cioè tra organismo ed ambiente. L’idea dell’ uomo religioso che ne deriva è quella di un essere plasticamente disposto in rapporto con l’ambiente extrasomatico, che include anche la storia compresa come un circuito feedback plastico, dalle multiple possibilità nei confronti dell’ambiente. La presenza di un encefalo plastico e di circuiti encefalici plastici non possono prescindere da questo rapporto con l’ambiente-storico, le cui stimolazioni per l’encefalo cambiano da momento a momento. Tuttavia lo stesso Burkert si rende conto della delicatezza metodologica di questa ipotesi integrata tanto da affermare: La tesi della sociobiologia nel senso forte di “coevoluzione di geni e cultura” non può essere verificata nel caso della religione, in quanto tale evoluzione è antecedente a periodi osservabili e rimane troppo complessa per stabilire chiari rapporti tra i due elementi. La mancanza di prove non autorizza tuttavia a separare la cultura dalla biologia o la religione da sottostrutture formatesi nel corso dell’evoluzione della vita. Il carattere ibrido della religione- tra biologia e cultura- richiede un incontro interdisciplinare di metodi: la derivazione dovrebbe accompagnarsi all’interpretazione. In questo senso, si può tentare un’analisi di 21 mondi religiosi in relazione al paesaggio di fondo .
Con queste affermazione, Burkert conduce ad un livello superiore di analisi la tesi sopra esposta. Infatti in questa affermazione burkertiana possiamo comprendere che i codici bio-genetici e codici religiosi, apparentemente inconciliabili, possono trovare una sintesi di lavoro nelle teorie coevolutive che rappresentano il tentativo di legare due poli concettuali (genotipo-fenotipo) 22 altrimenti destinati alla separazione. Tale separazione, nel corso della storia, ha dato spesso vita ad un singolare duello tra ciò che si può definire un determinismo biologico ed un determinismo culturale-ambientale. Il vivente viene interpretato come risultato di un processo auto-organizzatore la cui unità è costituita dall'unione geno-fenomenica. L'inseparabilità di genotipo e fenotipo va concepita non soltanto nell'interpretazione e nell'interdipendenza, ma anche nella totalità dinamica di un processo ricorsivo in cui i prodotti organizzati sono necessari alla ricostruzione e alle operazioni di questa stessa organizzazione e quindi organizzanti. In questo processo l'organizzato (fenotipo) contribuisce necessariamente all'organizzazione del suo organizzatore (genotipo). L'insieme costituisce ciò che Wilson-Lumsden definiscono Auto-Geno-Feno-Organizzazione, nella quale il generato è necessario alla rigenerazione del generante. Non si dovrà 21 22
W. BURKERT,La creazione del sacro, cit. p. 42. ivi, p. 48 in cui Burkert delinea l’analisi del genotipo e fenotipo.
8 quindi concepire uno schema lineare del tipo Genotipo-Fenotipo, ma uno schema in cui il fenotipo nel corso del tempo e delle generazioni retroagisca sul genotipo. Per Burkert, inoltre, è necessario per lo studio dei codici bio-religiosi, ampliare tale schema includendovi il concetto di ambiente e costituendo una relazione Genotipo-Fenotipo-Ambiente, in cui ciascuno dei termini partecipi alla rigenerazione degli altri. Il codice religioso quindi è interpretato come il prodotto di questa doppia dipendenza del genotipo nei confronti del fenotipo e del fenotipo nei confronti del genotipo. La dialettica di questo doppio sviluppo ne comporta un terzo, quello della società/ambiente. Il modello coevolutivo rovescia da un punto di vista concettuale il rapporto innato/acquisito, dal momento che lo sviluppo di una disposizione ad acquisire è inseparabile dallo sviluppo di una organizzazione cerebrale innata. Geni e cultura per i modelli coevolutivi sono indissolubilmente connessi, perciò questo passaggio ci permette di sfuggire alle mutilazioni e agli equivoci che derivano dal ritenerli disgiunti. Per Burkert, lo schema proposto da J.Lumsden e E.O.Wilson (1984) ne Il Fuoco di Prometeo è esplicativo23: 1) i geni impongono le leggi di sviluppo (leggi epigenetiche) mediante le quali viene costruita la mente; 2) la mente cresce assorbendo parte della cultura già esistente; 3) la cultura è ricreata di nuovo ad ogni generazione mediante la somma delle innovazioni e delle decisioni di tutti i membri della società; 4) alcuni individui possiedono leggi epigenetiche che li rendono in grado di sopravvivere e di riprodursi meglio di altri individui nella cultura contemporanea; 5) le leggi epigenetiche più competitive si diffondono nella popolazione, insieme ai geni che le codificano. In altre parole la popolazione si evolve geneticamente. La cultura è creata e modellata da processi biologici, mentre, contemporaneamente, i processi biologici sono alterati in risposta al mutamento culturale24. Secondo le teorie coevolutive, la cultura diventa il modo primario dell'uomo per raggiungere il successo riproduttivo e i particolari sistemi socioculturali rappresentano il perfezionamento di un comportamento, di un pensiero e di un modo di sentire che contribuiscono alla sopravvivenza e alla riproduzione dei gruppi sociali25. Queste ipotesi ci mostrano come, per gran parte dei sociobiologi, le leggi epigenetiche selezionino comportamenti, che a loro volta retroagiscono sulle medesime rafforzandole, oppure eliminandole26. ivi, pp. 36-42. ivi, p. 41. 25 ivi, pp. 48-49. 26 ivi, pp. 52-54. Per la sociobiologia, l’essenza di tutti i processi evolutivi spesso risiede nel fatto che quando una certa tipologia di informazione viene copiata vengono spesso introdotti degli errori su cui poi agisce un processo di tipo selettivo. Come Darwin fece notare per primo, se esistono delle creature che variano e si verifica una selezione tale per cui solo alcune di esse sopravvivono, 23 24
9 Siamo in presenza di un sistema di pensiero che prevede un processo ricorsivo che procede dal gene alla struttura encefalica, alla cultura e, quindi, la retroazione di questa sul primo. La cultura assume il potere di incidere sulla eredità genetica fino a trasformarla. Il maggior successo di certe modalità comportamentali rende possibile che le leggi epigenetiche sottostanti e i geni che le determinano si diffondano nella popolazione 27 . Secondo queste teorie, l'evoluzione genetica procede in modo tale che le future generazioni siano pronte a sviluppare quelle forme di pensiero e di comportamento che hanno assicurato il loro successo nel corso dell' evoluzione. La cultura, in questo modo, agirebbe come un rapido fattore di mutazione modificando nel corso delle generazioni le leggi epigenetiche28. Il superamento di uno schema determinista del tipo Gene-Comportamento e l'introduzione di un termine medio come l'encefalo fa sì che venga proposta una nozione di cultura descritta come aggregato di molecole "colonizzatrici" della mente, i cultur-geni capaci di colonizzare le menti, sia pure in modo non permanente (sono infatti soggetti all'estinzione per disuso o per il deteriorarsi della memoria)29. Nel circuito coevolutivo così attivato fra geni, mente e cultura, la diffusione di nuovi modelli culturali induce mutamenti nella distribuzione di frequenza dei geni nella popolazione e di conseguenza mutamenti nelle regole epigenetiche (comunque dotate di una componente genetica) che formano la mente degli organismi individuali30. Come si può osservare si passa dal livello cellulare al livello organico e dal livello dei processi epigenetici a quello popolazionale, il che significa che i processi epigenetici possono produrre un'acquisizione differenziale di tratti culturali. In altri termini: in una stessa popolazione, secondo le generazioni, si diffondono differenti tratti di cultura perché i processi epigenetici rendono più probabile che si trattengano certi tratti culturali e meno probabile che se ne fissino altri31. La trasmissione culturale copia quella genetica ed ha nel cultur-gene l'unità di memoria o imitazione dell'evoluzione culturale. I cultur-geni rappresentano una nuova classe di replicatori: i replicatori culturali, micro-tratti di cultura, che passano da una mente all'altra, riproducendosi uguali in ciascuna e dando origine a combinazioni infinitamente variabili. Essi, secondo queste teorie, si evolvono per sopravvivenza differenziale e al pari dei geni motivano i loro portatori a comportarsi in modo tale da accrescere le loro probabilità di sopravvivenza. Per lo studioso svizzero, il modulo sacrificale trova le sue radici nell’originario biologico e nel comportamento rituale-alimentare del mondo e se questi sopravvissuti sono in grado di trasmettere questo quid che permette loro di sopravvivere alla discendenza, allora questa discedenza sarà maggiormente adattata a questo particolare ambiente in cui la selezione ha avuto luogo più di quanto non lo fossero i suoi progenitori. È l’inevitabilità di questo processo che lo rende uno strumento così potentemente esplicativo. In presenza dei tre requisiti - variazione, selezione, ereditarietà - si ha ipoteticamente l’evoluzione. (Cfr. sulla questione l’intera opera di R.DAWKINS, Il gene egoista, Zanichelli, Bologna 1979). 27 ivi, nota p. 48. 28 ivi, pp. 47-48. 29 ivi, p. 209. 30 ivi, p. 48. 31 ivi, p. 48.
10 animale; l’evoluzione encefalica, che condusse alla fisionomia psico-attitudinale dell’homo sapiens, permise anche l’evoluzione del comportamento alimentare dei primati in un nuovo modello comportamentale in cui le funzioni simboliche 32 posero le basi per una serie di fitness33 in cui vennero ricomprese e gestite l’ansia e l’aggressività: la prassi sacrificale. A sua volta la prassi sacrificale oltre ad interiorizzare l’istinto di sopravvivenza biologica, riorganizza le fitness comportamentali originarie in un modello organizzativo eusosociale 34 che conserva attraverso i tempi e le epoche, proprio attraverso la ritualità sacrificale, i legami profondissimi con la biologia stessa, con la vita nelle sue origini, con la dinamica “nascita-morte”, ineludibile del vivere stesso35.
3 La forma estetico-narrativa del sacrificio in
Eric Gans
Similmente alla ricerca di Walter Burkert e all’interno delle coordinate di ricerca dell’American Anthropological Association, uno studioso californiano di scuola girardiana, Eric Gans, pone all’inizio della sua ricerca sul sacrificio il legame binomio Natura*Cultura36. Tuttavia la sintesi della ricerca gansiana approda a conclusioni differenti dall’analitica e dalla sintesi burkertiana sulla tematica sacrificale come possiamo comprendere da un intervento al Convegno Colloquium on the Violence und Religion svoltosi ad Innsbruck nel giugno del 2003 37 nel quale il prof. Gans espose i dati di sintesi della sua tematica sacrificale, tesi precedentemente analizzata nelle sue opere fondamentali. Nella prospettiva fisio-meccanicista che talvolta fa da capolino in “La Violenza e il Sacro” l’atto sacrificale scarica l’eccesso di energia investita nell’oggetto appetitivo come risultato dell’intensificazione mimetica del desiderio: possiamo assumere come paragone la giustificazione addotta da Bataille per il suo concetto di dépense come scaricamento dell’eccesso o riserva di energia richiesta dall’evoluzione per assicurare la sopravvivenza. Che il surplus si basi su un eccesso di energia rispetto a quella richiesta dalla sopravvivenza è in verità un turismo fisiologico, fisico. Ma questa energia non è immessa nel processo allo stato grezzo: essa è mediata da modi di interazioni umani, o all’origine proto-umani, che non possono essere semplicemente assimilati al rinforzo ivi, p. 49. ivi,p. 27 34 Il termine eusosocialità è fondamentale per la ricerca di Wilson. La sociobiologia ha preso le mosse dallo studio di alcune società di insetti. Vere società organizzate sono presenti in due soli ordini di insetti: Isotteri (termiti) e Imenotteri (formiche, api e vespe). Le complesse organizzazioni sociali di queste specie sono dette "eusociali". L'eusocialità è definita come un'organizzazione sociale in cui: 1. Più individui della stessa specie cooperano nelle cure alla prole;2. Vi è una divisione riproduttiva delle funzioni: individui sterili eseguono particolari compiti a vantaggio di altri individui fertili;3. Le generazioni si sovrappongono almeno parzialmente e cooperano tra loro. 35 W.BURKERT, La creazione del Sacro, p.54. 36 ERIC GANS, The Body Sacrificial, in AA.VV, The Body Aesthetic: From Fine Art to Body Modification, a cura di T. SIEBERS, University of Michigan Press, Ann Arbor 2000, pp.159-178. 37IDEM, The Market and Resentment, in rivista in rete “Chronicles of Love and Resentment” n° 286, Saturday June 28-2003. Cfr. anche IDEM, The Market and Resentment, AAVV, Passions in Economy, Politics, and the Media, a cura di W. PALAVER-P. STEINMAR-PÖSEL, Lit. Verlag, Vienna 2005, pp. 85-102. 32 33
11 fisiologico. Un’analisi più specificatamente antropologica dovrebbe misurare la violenza della rivalità mimetica in base all’energia simbolica impiegata per differirla. La mediazione del centro è anzitutto una operazione di interdizione: l’essere sacro che garantisce il processo di scambio e ciò che è proibito non scambiabile almeno per un certo tempo, e l’investimento energetico di desiderio mimetico trasferito al centro sacro non viene “sacrificato” ma al contrario viene 38 consacrato all’oggetto di devozione comunitario .
Come possiamo notare la matrice sociobiologia della prassi sacrificale, come per Burkert, e la fisio-dinamica dell’aggressività sono le coordinate in cui si muove la tesi gansiana. La prassi sacrificale, per Gans, è all’origine di una ipotetica scena originaria in cui dei proto-umani (privi del linguaggio ovvero del sistema comunicativo tipico di ogni società civile) si trovano tutti attorno al loro unico e comune oggetto del desiderio: l'istituzione umana centrale della scena ovvero l’oggetto centrale del sacrificio39, sulla quale le energie della comunità sono polarizzate, sorse quando divenne necessario differire proprio la violenza. Il focalizzare sia le energie positive sia quelle negative della mimesi su un mediatore centrale, universale e sacro è la base su cui si fonda la rappresentazione, attività propria dei soli umani, la quale fonda un ordine sociale (diritto) che contemporaneamente esiste ed è rappresentato dai suoi membri: l'energia della mimesi negativa viene spesa nel sacrificio che rinforza la sacralità di questa divinità centrale. La violenza sull’oggetto sacrificale viene differita (dalla prospettiva del diritto) e l’oggetto diviene luogo di contemplazione (prospettiva dell’arte). Da questo atto di differimento Gans sostiene che non solo il linguaggio, ma anche altre componenti della società civile nascano. In particolar modo individua la nascita del sacro (religione) e dell’estetica (arte) come immediatamente posteriore all’emissione del primo segno di differimento della violenza. Infatti sostiene che l’oggetto centrale del desiderio è la prima espressione di qualcosa di sacro in quanto ha la capacità di bloccare (ovvero di far nascere l’esigenza del diritto), per un attimo, il ciclo di mimetismo violento. Ma ciò che frena il mimetismo violento è emissione del primo segno differimento è il segnale Name of God in quanto permette di differire la violenza salvando l’umanità. Esso è Nome di Dio perché fondato dalla trascendenza che per la prima volta si manifesta tra gli uomini esplicandosi concretamente sotto forma di linguaggio del quale è l’essenza. Ma Gans non soltanto analizza la superficie della struttura sacrificale ma anche le dinamiche interne che permettono l’atto di differimento: il meccanismo nascosto, che regola dall’interno la prassi sacrificale, è messo in movimento dalla logica dello “scambio”. La comprensione prettamente antropologica dei meccanismi endocrini del sacrificio, per Eric Gans, era già stata formalizzata dal modello fornito dal Saggio sul dono di Mauss40. Per Eric Gans la riflessione di Mauss è importante per la sua Cit. in IDEM, The Market and Resentment, in rivista in rete “Chronicles of Love and Resentment” n° 286, Saturday June 28-2003, traduzione italiana a cura del prof. Fabio Brotto. 39 Per uno studio sul pensiero e le ipotesi di ricerca di Eric Gans cfr. D.POLOVINEO, L’estetica sacrificale in Eric Gans. Dal paesaggio sacrificale cruento alla origine delle forme estetiche, in StPat 55 (2008),pp.163-190 . 40E.L.GANS, The Market and Resentment, in rivista in rete “Chronicles of Love and Resentment” n° 286, Saturday June 28-2003.Qui Gans rilegge e decostruisce il maussiano Saggio sul dono ( Cfr. M.MAUSS, Saggio sul dono, Einaudi, Torino 2002). Il dono di cui parla Mauss non è 38
12 significanza endocrina del sacrificio proprio poiché si basa sul concetto di “scambio”41. Il modello fornito dal “Saggio sul dono” di Hubert e Mauss -afferma Eric Gans- è un importante passo avanti sul lato empirico, ma la sua significanza antropologica può essere compresa solo dal punto di vista del concetto originario dello scambio virtuale. Il fatto che le porzioni “eguali” del banchetto che segue sono virtualmente scambiabili è una conseguenza necessaria dell’originario scambio dei segni” […] Il dono nel senso di Hubert e Mauss crea una ineguaglianza spazialmente e temporalmente circoscritta che si può comprendere solo sullo sfondo dell’uguaglianza originaria, virtuale. Nel fare il mio “sacrificio” a te invece che alla divinità centrale, io presumo che la tua implicita partecipazione all’originaria reciprocità dello scambio dei segni e alla conseguente distribuzione egualitaria ti condurrà anche qui ad un atteggiamento di reciprocità, ma con l’introdurre una dilazione temporale al di là dei vincoli della temporalità rituale-qui possiamo cominciare a parlare di “fuoriuscita” dal contesto rituale, e di un entrare in una temporalità esplicitamente non rituale o trans-rituale- io pongo questa reciprocità non come una parte quasi autonoma di un processo necessario, ma come una sfida: trasforma questo tempo non rituale in tempo rituale rispondendo al dono col dono! Tale offerta di doni è legata all’esistenza di un’accumulazione diversa da un surplus momentaneo […] Qui si rivela anche che la figurazione scenica non garantisce la simmetria egualitaria, perché le funzioni del centro condivise dalla comunità, possono essere monopolizzate da pochi membri di questa comunità, o da uno soltanto. L’utopia della periferia non può ignorare il centro. Lo scambio di doni basato sul surplus conduce alla gerarchia, emerge il cosiddetto Big-man, ai cui doni non si può rispondere con doni di pari valore e che gradualmente assume su di sé la funzione centrale sacra della distribuzione. Il sacro è sempre stato un surplus, ma è esistito solo per la comunità e nel tempo comunitario o rituale, mentre con lo sviluppo dell’agricoltura ( o in altri casi di risorse abbondanti come nelle società di pescatori del Pacifico nord-occidentale) alcuni individui possono mantenere propri surplus che finiscono per essere soggetti a quella rivalità 42 mimetica che la rappresentazione originaria ha prevenuto .
Il sacrificio vive le sue dinamiche nella logica dello scambio 43 e affinchè assimilabile alla moneta, l'equivalente universale di scambio della moderna economia di cui rappresenterebbe l'origine, in quanto le cose scambiate negli esempi addotti da Mauss sono oggetti di natura problematica perché composita, circolano e non circolano, sono contemporaneamente valori e talismani, condensano il tempo e le virtù dei loro possessori. Neppure è assimilabile al contratto, che non è equivalente allo scambio, ma deriva semmai dalla necessità di alienare un diritto per instaurare simultaneamente le convenzioni che fondano il diritto e la nuova libertà che esso consente. Il dono di cui parla Mauss è invece il "prestito usuraio". L'errore di Mauss, per Gans, comincia quando, per ragioni che difficilmente si comprendono, egli vuole che un prestito sia un dono, e che la reale positività di quest'ultimo sia omologata con l'obbligo terribile che l'usura impone a colui che vi ricorre, a rischio della propria libertà, per avere ciò che non ha. L’usura prende vita quando il desiderio, il bisogno di avere, è tanto forte che per soddisfarlo mettiamo in pericolo anche la nostra anima. Rilevando come essa sia il calco della teoria della magia di Mauss, interamente basata sulla nozione di mana, Gans in The Market and Resentment afferma che il mana piuttosto è il vero della cosa: essere, stato, esperienza, accessibili ed esprimibili. La categoria è un attributo di sostanza, in certi casi equivalente all'attributo di “iesistenza” che concettualmente fissa il manifestarsi dell'authentikòn (inteso etimologicamente come 'ciò che produce da sé) che la vista, l'intendimento conoscono. 41 Cfr. anche. J.P. DUPUY- P. DUMOUCHEL, L’enfer des choses. René Girard et la logique de l’economie, le Seuil, Paris 1979, pp. 8ss. 42 Citazione in E.L.GANS, The Market and Resentment, in rivista in rete “Chronicles of Love and Resentment” n° 286, Saturday June 28-2003, traduzione italiana a cura del prof. Fabio Brotto. 43 E.L.GANS, The Market and Resentment, rivista in rete “Chronicles of Love and Resentement”.
13 questa dinamica abbia luogo, l'oggetto sacrificale, che si trova nel luogo sacro e appartiene all'essere sacro, deve venire diviso tra i partecipanti del rito che ottengono delle porzioni non dell'indivisibile sacro/divinità, ma della creatura referenziale che esemplifica l'eterno significato. Il fatto che le porzioni "eguali" del banchetto che segue siano virtualmente scambiabili è, per Gans, una conseguenza necessaria dell'originario mutuo scambio di segni. Il valore adattativo del segno è reso possibile dalla combinazione di rendimento in termini di soddisfazione degli appetiti e riduzione di tensione mimetica che esso consente: lo scambio di segni identici è garantito dallo scambio di cose "eguali"44. Una volta che questa uguaglianza è realizzata nella distribuzione rituale, essa implica l'eguaglianza di tutti i possessi divisibili "fuori" del rituale. Tuttavia dobbiamo considerare che noi non siamo mai realmente al di fuori del rituale, ma solo al di fuori del contesto scenico rituale. Di conseguenza un modello di sistema di scambio originario richiede che alla reciprocità dello scambio periferico si aggiunga un fattore supplementare o supplément, che riflette l'onere o "tassa" sul processo di scambio, imposto dal centro rituale. Tale onere o tassa si esprime nella forma del sacrificio o dei suoi derivati secolari. Già in Girard, nella Violenza e il Sacro, l'atto sacrificale scarica l'eccesso di energia investita nell'oggetto appetitivo come risultato dell'intensificazione mimetica del desiderio. Tuttavia per Gans un'analisi più specificamente antropologica dovrebbe misurare la violenza della rivalità mimetica in base all'energia simbolica impiegata per differirla. La mediazione del centro è anzitutto un'operazione di interdizione: l'essere sacro che garantisce il processo di scambio è ciò che è proibito, non scambiabile almeno per un certo tempo, e l'investimento energetico di desiderio mimetico trasferito al centro sacro non viene "scaricato", ma al contrario viene consacrato all'oggetto di devozione comunitaria. In tal modo il sacro, nel senso più generale del termine, è il processo mediante il quale il desiderio mimetico è trasceso nella rappresentazione. Il sacro può essere insito in vari oggetti o pratiche, ma non lo si può comprendere se lo si concepisce come una qualità: come il bello, il sacro si realizza soltanto nell'esperienza interattiva, con la differenza che l'estetico trova la propria garanzia sulla scena individuale della rappresentazione, laddove il sacro è collegato almeno virtualmente alla scena comunitaria. Il sacro è la dinamica di uguaglianza materiale approssimativa che segue la divisione dell'oggetto centrale, ma non è l’inizio ma la conclusione del processo originario di distribuzione. Per Gans pertanto il sacro è la vera attività economica che dipende dal differimento della centralità rituale, nella sua duplice dinamica di attività che è stata svolta fuori dal centro sacrificale e che viene al centro sacrificale per la valutazione. Molto prima che si trasformi in una forza dominante, e per quanto fortemente un ordine sociale dato tenti di resistere alla sua influenza, il Sacro è, per Gans, sempre un "mercato": un luogo dove il valore è determinato attraverso lo scambio ma che a sua volta eccede lo scambio. Lo stesso Girard ammette che “si l’on me demande si tout désir est mimétique, j’ai tendance à répondre oui. Simultanément il me faut répondre non. Si on considère qu’il existe un désir de la mère pour l’enfant et un désir de l’enfant pour la mère, je ne pense pas que l’affection maternelle soit mimétique, ni que l’affection de l’enfant pour sa mère soit mimétique.” Citazione in P. DUMOUCHEL, Violence et vérité autour de René Girard. Colloque de Cerisy, Grasset, Paris 1985, p.379. 44
14 Conclusa l’indagine dei meccanismi endocrini della prassi sacrificale, Gans pone la sua riflessione sulla conseguenza dell’atto di differimento regolarizzato dalla logico dello scambio ovvero ciò che l’autore californiano definisce con il termine “risentimento”: Si può anche dire che esso (il sistema dello scambio dei doni) porta al risentimento non scaricato. Se io come Big man sono in grado di offrire un banchetto più opulento del tuo, tu proverai risentimento verso di me. Forse questo ti spingerà a dare una festa ancora più grande, ma qual caso sarò io a provare risentimento nei tuoi confronti. I sistemi gerarchici fluidi sono instabili per il fatto che essi non possono riclicare il risentimento che generano: essi tendono ad evolvere verso forme gerarchiche più strette, i cui leader acquistano il potere necessario per mantenersi al comando. Il rinnovarsi delle rivalità in condizione di abbondanza conduce alla centralizzazione del surlpus comunitario 45 sotto il controllo di un unico potere politico-rituale
Per comprendere attentamente come Gans pone questo passaggio sul risentimento dobbiamo implicitamente mantenere i memoria anche la lezione burkertiana sul rapporto tra colpa e sacrificio 46 . Per Gans tutto ha inizio dal risentimento che il gruppo prova nei confronti dei propri simili: tale risentimento è mediato verso un unico oggetto centrale ovvero attraverso il centro; il trasferimento dell’aggressività verso il centro, il risultato dell’abdicazione dell’animale alfa sotto la pressione collettiva del gruppo è il meccanismo girardiano del capro espiatorio, che susseguentemente provoca lo sparagmos o distruzione/divisione collettiva dell’oggetto/vittima centrale. Nella scena originaria, l’unica figura marcata è quella centrale, ma alla conclusione della scena, la vittima non esiste più. La tensione tra il luogo vuoto e la vittima ricordata è ciò che nella scena originaria corrisponde al concetto gansiano di risentimento e a quello burkertiano di senso di colpa47 . Afferma Eric Gans: Il risentimento, o resentment, è il sentimento di esclusione dal centro ove si genera il significato. Non vi può essere alcuna significazione senza risentimento; il segno che ri-presenta/rappresenta l’oggetto centrale è per sua stessa natura sia un’espressione che un differimento del risentimento per il suo mancato possesso, indirizzata verso il centro stesso piuttosto che verso gli altri umani alla periferia. Questa è la forma generale del meccanismo del capro espiatorio di Girare. Se tutto il significato rimane nel centro, allora alla periferia non vi è nulla da scambiare. Perché lo scambio abbia luogo, l’oggetto centrale deve venire diviso tra i partecipanti periferici, come accade di norma durante un banchetto rituale. Il centro è sacro, ma l’oggetto centrale è sacro solo per associazione: esso si trova nel luogo sacro e appartiene all’essere sacro. Così quando i partecipanti lo dividono essi ottengono delle porzioni non dell’indivisibile SACRO/DIVINITA’, 48 ma della creatura referenziale che esemplifica l’eterno significato .
Risentimento e senso di colpa sono inseparabili, dal momento che Citazione in E.L.GANS, The Market and Resentment, in rivista in rete “Chronicles of Love and Resentment” n° 286, Saturday June 28-2003, traduzione italiana a cura del prof. Fabio Brotto. 46 IDEM, The Culture of Resentment, in “Philosophy and Literature” 8/1 (1984), pp. 55-66. 47 IDEM, Le Logos de René Girard. in AA.VV., René Girard et le problème du mal, a cura di J.P. DUPUY- M. DEGUY-, M. SERRES, Grasset, Paris 1982, pp.179-214 . 48 Citazione in IDEM, The Market and Resentment, in rivista in rete “Chronicles of Love and Resentment” n° 286, Saturday June 28-2003, traduzione italiana a cura del prof. Fabio Brotto. 45
15 l’espulsione immaginaria della figura centrale che riempie la fantasia del risentimento è ciò che lascia il luogo (immaginariamente) vuoto. In questo contesto nasce il segno che non ha nulla da indicare se non il luogo vuoto che era occupato dalla vittima. Il momento originario del senso di colpa si colloca dopo lo sparagmòs, una volta che la vittima è stata divisa tra i partecipanti. Lo scenario dell’origine di Freud come quello di Girard situano in questo punto una forma di senso di colpa. In Totem e Tabù, i figli si sentono colpevoli per aver ucciso il loro padre, e di conseguenza rinunciano alle donne per le quali l’assassinio originale è stato compiuto. Ne La violenza e il sacro di Girard, il sollievo avvertito dagli uccisori della “vittima emissaria” è la fonte della sua divinizzazione. Per Gans, l’idea di Girard corre il rischio di anacronismo meno di quella di Freud, dal momento che essa non richiede un senso di colpa soggettivo, ma nella prospettiva originaria dello studioso californiano il punto importante è che i partecipanti sentono di dovere alla vittima, o più precisamente all’essere sacro che la vittima incarna, onore e sacrificio. Questo movimento ha la stessa struttura di quello dell’esperienza estetica, in cui la coscienza dello spettatore oscilla tra il segno e il suo referente immaginario: lo spettatore è risentito verso la sua dipendenza dal segno estetico, sentendosi colpevole per il suo cortocircuito immaginario. Di fronte allo sparagmos, la reazione dei partecipanti non è la naturale pietà per la vittima di cui parla Rousseau 49, ma un senso di sacrilegio per la violazione del referente sacro. Poiché questa violazione è stata realizzata come atto collettivo, il senso di colpa originario implica la possibilità di ricattare gli altri partecipanti, una possibilità che rimane latente nelle società premoderne, nelle quali la responsabilità per il sacrilegio è rimessa in scena e purgata attraverso il sacrificio.
4 Prospettiva valutativa: la forma sacrificale come “abuso della bellezza”? Verso un’estetica sacrificale? Dalla presentazione dell’ultimo Burkert, nasce la nostra consapevolezza che il mondo sacrificale, sia da un punto di vista sociobiologico e sia antropologico, non possa svincolarsi dai suoi elementi cruenti. Sarebbe impossibile, restando legati ai suoi testi, vedere in Burkert una forma sacrificale che non sia cruenta e che non rimanga all’interno dell’orbita della “cultura della violenza”. Proprio questo grande sfondo naturale e culturale s’insinua profondamente nella sottolineatura di una forma pre-verbale del sacrificio iscritta negli stessi codici biologici. In tal senso, forse, è legittimo parafrasare la forma pre-verbale del sacrifico burkertiano cone le affermazioni di Bataille che rilegge la dimensione sacrificale come una tipologia della nostra stessa carnalità: È compito comune del sacrificio, porre in armonia la vita e la morte, dare alla morte l’impulso della vita, alla vita la gravità e la vertigine della morte, apertura su un mondo sconosciuto…..se ora consideriamo la somiglianza tra l’atto d’amore e il sacrificio. Entrambe rivelano la carne. Il sacrificio sostituisce alla vita ordinata dell’animale una cieca convulsione erotica; essa allenta le briglie ad IDEM, The Victim as Subject: The Esthetico-Ethical System of Rousseau's Rêveries, in “Studies in Romanticism” 21/ 1 (1982), pp.3-32. 49
16 organi estravaganti, la cui cieca attività oltrepassa la volontà deliberata degli amanti50.
Sembrerebbe proprio che sono la violenza, il sangue, la carne la forma pre-verbale originaria del sacrificio. Questa forma, tuttavia, specifica ciò che è l’ambito sacrificale come brutta forma o meglio forma del Brutto, performance violenta, un’arte della “disturbazione”. Il sacrificio burkertiano è in qualche modo una componente effettiva dell’arte disturbazionale, e di solito si tratta di una realtà già di per sé disturbante: sangue, carne, pericolo reale, dolore effettivo, morte possibile. Come abbiamo visto, secondo Danto l’arte disturbazionale è un movimento regressivo; invece di procedere verso la trasfigurazione nella filosofia esso retrocede verso gli inizi della performance ovvero verso la forma pre-verbale che Burkert delinea nella sua narrazione socio-biologica del sacrificio. Ulteriormente è piuttosto interessante il fatto che la visione di Danto circa l’arte disturbativa in campo estetico e la teoria del sacrificio di Gans della narrazione originaria presentino la stessa posizione riguardo al significato della partecipazione degli spettatori. Secondo Danto, è la scelta dello spettatore se partecipare o meno ad un’azione violenta che distingue la performance art da tutto ciò che la filosofia dell’arte ci ha insegnato ad identificare come arte. Secondo Gans, la scelta di uno degli spettatori (della scena originaria) se partecipare o no ad un’azione violenta è ciò che pone l’atto di differimento. In questo è posto in gioco il fatto che la brutta forma sacrificale, inscritta nel pre-verbale del mondo biologico sia attratta dall’altro da sé ovvero dalla Bella Forma. Così non è affatto una coincidenza che l’arte della performance violenta non rientri nella costruzione hegeliana della storia dell’arte operata da Danto e che senza partecipazione del pubblico rappresenti quel che per la matrice gansiana della logica del mercato e del risentimento potremmo definire girardianamente “crisi sacrificale”, perché in ciascun caso l’arte violenta, nell’arte e nella religione, non è culturalmente approvata né portatrice di beneficio se non orienta dall’altro da sé ovvero dal Bello. Per questo per Gans le forme estetiche, pur rimanendo sacrificali, si sono evolute da caratteristica necessaria dell’organizzazione sociale ad elemento psicologico della condizione umana. Per Gans l’emergere dell’umanità, e quindi di tutte le componenti che la strutturano, compresa quella rituale-sacrificale, non può essere riletta semplicemente in termini di teoria dell’evoluzione: l’origine dell’uomo, come è definita tramite il nostro uso del linguaggio, deve essere compresa non soltanto come un processo ma come un evento. Ed è proprio nella delineazione di una forma estetica sacrificale non abusante dell’altro da sé, ovvero della bella forma, che vi è il terreno più favorevole a un dialogo fruttuoso fra il movimento post-narrativo e la prospettiva antropologico-culturale poiché la forma può essere compresa sia come risultato di un processo che genera un “effetto estetico” particolare, che come traccia memorabile nella durata del relativo soggetto: meccanismo destinato deliberatamente a provocare nel suo pubblico l’esperienza di un nuovo evento. Non è strano che proprio nella costruzione della forma estetica, Gans interconnetta l’impostazione abitativa:
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G. BATAILLE, Eroticism, Death & Sensuality, City Lights Books, San Francisco 1986, p,92
17 Questo genere di senso estetico è un perfezionamento del tropismo che provoca il movimento delle amebe verso le soluzioni che possiedono il pH richiesto. L'ameba non deve esercitare il "giudizio" perché il suo tropismo è definito da una singola equazione computata dal sistema di percezione dell'ameba stessa. Per contro, denominiamo il nostro proprio giudizio "estetico" perché il campo della percezione che lo occasiona è troppo complesso e l'insieme dei criteri valutativi troppo vago per permettere una concettualizzazione semplice. L'ipotesi del paesaggio attraente offre una base evolutiva per il "giudizio senza concetto" dell’estetica kantiana. Il nostro giudizio sarà chiaramente più rapido e più decisivo se non ci richiede di ragionare, cioè di confrontare nelle nostre menti un dato paesaggio con una serie di immagini di paesaggio con diversi gradi di idoneità all’abitazione o all'esplorazione da parte degli umani. Fra i cacciatori del Pleistocene che si muovono sul terreno, la capacità di decidere correttamente, senza riflessione, che direzione seguire ha sicuramente la stessa probabilità di interessare la selezione evolutiva che ha la capacità di scegliere correttamente, con una semplice annusata o un morsetto, quale cibo è da mangiare. Non è affatto una coincidenza che la nozione di gusto sin dall'inizio sia stata connessa con l'estetico. Se il nostro gusto per quanto riguarda il cibo ha un uso pratico, allo stesso modo lo ha, o lo aveva, il nostro gusto per quanto riguarda il paesaggio51.
Ma in che modo questa lezione formale del sacrificale si può articolare con i fenomeni contenutistici compresi come modelli narrativi idealtypici a livello personale e sociale? In effetti, per Gans, come si può ben comprendere, non è più importante l’oggetto del sacrificio ma la nascita del segno che sposta l’attenzione dei carnefici dalla dimensione appetitiva a quella segnica.Il segno di differimento della violenza fornisce un “supplemento” all’interesse estetico naturale o biologico, con l conseguenza che il campo visivo da dimensione strumentale (poiché inizialmente rivolta in maniera cruenta verso l’oggetto) diviene dimensione assoluta poiché la mediazione del segno è equivalente ad un ritiro dal mondo dell’appetito e all’affermazione di una contmplazione disinteressata. Pertanto la cultura rinforza le disposizioni relative dell’estetico naturale con la significatività assoluta generata dal segno. L’estetico acquista la sua specificità, cioè la sua indipendenza dalla prassi appetitiva, soltanto sulla scena comune della Rappresentazione, dove il desiderio del pericolo mimetico ci porta non più ad una risoluzione violenta e alla nascita di una cultura della violenza, ma alla contemplazione del segno, del linguaggio e dell’arte. Pertanto in questa impostazione gansiana comprendiamo che proprio la forma sacrificale offre alla nostra cultura la possibilità di risoluzione di ciò che il livello contenutistico del sacrificio non ha potuto offrire come grande narrazione e modello tipologico a livello personale e sociale: se il contenuto sacrificale “abusava della bellezza”, la forma si realizza come apertura verso una contemplazione fondamentale e appropriativa delle nostre radici biologiche e quindi della possibilità di non sentire più la necessità di ancorarci ad ataviche narrazioni (cause di quelle forme abusanti che solitamente definiamo fondamentalismi) ma di comprendere che ogni persona è una possibile e ineludibile “Rappresentazione” estetica della vita e dell’Altro.
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E.L.GANS, Sacrificing Culture, in “Chronicle” 184. Rivista in rete.