1 L’INDAGINE DIMENTICATA:
OVVERO SULLA LETTURA ANTI-SACRIFICALE DEL CULTO NEL PROFETISMO E NELL’ESSENISMO
DI DAVIDE POLOVINEO davide.polovineo@fastwebnet.it
1 LINEAMENTI INTRODUTTIVI Sul finire dello scorso secolo, in ambito storiografico e teologico biblico, un notevole tentativo di sintesi delle tipologie sacrificali veterotestamentarie (Zebah šelamîm, ‘ōlāh, hattā’t )e della rilettura profetica anti-cultuale era stata operata da A.Marx1 che aveva analizzato la dinamica “funzionale” rituale come elemento redazionale che assume un’importanza notevole per la redazione testuale della prassi sacrificale. La dimensione funzionale degli elementi di passaggio dal sacrificio cruento alla dimensione cultuale, definita in ambito teologico-biblico, fase di spiritualizzazione, era stata individuata nella letteratura dei nebi’im e soprattutto nelle redazioni dei testi profetici post-esilici. Da un punto di vista esegetico e teologico-biblico, riguardo al rapporto profezia culto-ufficiale il principio della “contestualizzazione” negli anni cinquanta e sessanta, dello scorso secolo, sicuramente ci offriva la possibilità di una lettura adeguata in merito. Ricordiamo che due erano le tendenze di lettura:
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MARX A., Familiarité et transcendance. La fonction du sacrifice d’aprés l’Ancien Testament, in AA.VV., Studien zu Opfer und Kult im Alten Testament, a cura di A. SCHENKER, Tübingen 1992; IDEM, La place du sacrifice dans l’ancien Israel, in J. A. EMERTON (ed.), Congressi Volume: Cambridge 1995, VTSup 66, Leiden 1997. Cfr. anche ANDERSON G. A., Sacrifices and Offerings in Ancient Israel: Studies in Their Social and Political Importance, Atlanta, 1987; ATTRIDGE H. W. - ROBERT A. O, Philo of Byblos: The Phoenician History, (CBQMS 9), Catholic Biblical Association, Washington 1981; BECKWITH R. T.- SELMAN M. J., Sacrifice in the Bible, Grand Rapids 1995; BERGMANN M. S. , In the Shadow of Moloch : The Sacrifice of Children and Its Impact on Western Religions, New York 1992; EILBERG-SCHWARTZ H., The Savage in Judaism: An Anthropology of Israelite Religion and Ancient Judaism, Bloomington 1990; HALLO W. W., The Origins of the Sacrificial Cult: New Evidence from Mesopotamia and Israel, in P.D. MILLER, Ancient Israelite Religion, Philadelphia 1987; HARAN M., Temples and Temple Service in Ancient Israel: An Inquiry Into the Character of Cult Phenomena and the Historical Setting of the Priestly School, Oxford 1978; JAY N., Throughout Your Generations Forever: Sacrifice, Religion, and Paternity, Chicago 1992; MILGROM J., Leviticus 1-16, Anchor Bible, New York 1991; ZWICKEL W., Zur Frühgeschichte des Brandopfers in Israel, in AA.VV., Biblische Welten. Festschrift für Martin Metzger zu seinem 65. Geburtstag, a cura di W. ZWICKEL, (Orbis biblicus et orientalis 123), Freiburg 1993
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A )I profeti esemplificano nella vita d’Israele un rifiuto assoluto del culto ufficiale. Volz presenta questa tesi con particolare forza: i profeti reclamano il luogo del culto l’esigenza positiva di Dio della fratellanza, della giustizia, della conoscenza di Dio2.La prospettiva di Hertzeberg non è da meno. Il profeta combatte la pratica e la realtà stessa del culto3. Insanabile era la discrepanza esistente fra l’azione liturgica compiuta con le mani e con le labbra e una vita vuota di contenuti etici. B) Se gli esegeti anticultuali votavano per l’opposizione a ogni rito del tempio, gli esponenti del profetismo cultuale non resistono alla tentazione di un profeta-funzionario liturgico. Per primo Gunkel, partendo dal libro dei Salmi, spiega questo fenomeno con un’imitazione di stile tra profezia e Salmi: tale fase prende nome di stadio di spiritualizzazione dei sec VIII e VII4. Mowinckel trapianta l’intuizione alla profezia ; scopre in molti Salmi un oracolo, un elemento profetico5. Le varie posizioni riguardanti il rapporto profetismo-culto è stato studiato esaurientemente da A. Gonzales che inoltre ha stilato una lista degli autori a favore e contro il profetismo cultuale6.
2 L’IMPOSTAZIONE ANALITICA DI L.ALONSO SCHÖKEL E J.L.SICRE DIAZ L.Alonso Schökel e J.L.Sicre Diaz nel loro commento ai profeti sintetizzarono chiaramente i punti deboli di ambedue le posizioni7. Dalla loro esauriente pur sintetica esposizione è ancora da ereditare il punto di partenza per individuare gli elementi fondamentali dell’atteggiamento dei nebi’im nei confronti della prassi sacrificale cruenta: “ La teoria del profetismo cultuale ha ragione quando considera il profeta incorporato nella vita religiosa del suo tempo; quando investiga sull’influsso del culto e dei suoi generi sul linguaggio profetico. Vi sono forme profetiche che si spiegano bene a partire dal tempio; altre sono invece più intellegibili se situate sulla porta”8.
Ciò che sottendeva all’attenzione di studio di L.Alonso Schökel e J.L.Sicre Diaz era il profondo legame tra profezia-culto-fede in Jhwh. In effetti,
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P.VOLZ, Prophetengestalten des A.T. Sendung und Botschaft der alttestamentlichen Zeugen, Stuttgart, 1938 3 H.W. HERTZBERG, Prophet und Gott, Gutersloh 1923. 4 H. GUNKEL-J.BEGRICH, Einleitung in die Psalmen. Die Gattungen der religiosen Lirik Israels, pp. 112 ss. 5 S.MOWINCKEL, Die Erkenntnis Gottes bei den alttestamentlichen Propheten, in“ Norsk Teologisk Tidskrift 42 (1941), pp. 62-66 6 A. GONZALES, Profetismo y sacerdocio. Profetas, sacerdotes y reyes en el antiguo Israel, p. 64 ss. 7 L.ALONSO SCHÖKEL-J.L.SICRE DIAZ,I Profeti, Roma 1980, pp.82-84. 8 Ivi, cit. p. 82.
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la riforma deuteronomica (cfr. 2Re 22,3-23,24) aveva rinnovato la fede jahvista, abolendo il sincretismo religioso instaurato da Manasse: il declino dell`Assiria aveva permesso a Giosia di intraprendere la riconquista della Samaria e della Galilea (2Re 23,15; 2Re 23,19; 2Cr 35,18)9. Il profetismo redazionalmente vicino alla riforma deuteronomica proprio in un quadro storico determinato avvia la sua profonda riflessione sull’instaurazione di un nuovo culto utilizzando spesso il vocabolo prostituzione sia per evocare simbolicamente l`infedeltà di Israele al suo Dio sia per descrivere con realismo atti sacrificali solo esteriori all’interno della fede jahvista. La qinah di Os 4,1 sembra riassumere questa duplice impostazione: Israele ha un atteggiamento cultuale talmente insensato che : “le figlie si prostituiscono e le nuore commettono adulterio”. In Ger 2,20 non vivendo una prassi rituale autentica a Jhwh, Israele sprofonda nella schiavitù degli idoli. Nella linea delle azioni simboliche dei profeti anteriori (Cfr. Ger 18,1) Geremia qualifica come prostituzione il culto che i cananei rendevano ai loro idoli, a motivo delle pratiche di prostituzione sacra che vi erano associate (Es 34,15). Imitando la loro idolatria, anche Israele si prostituisce (Es 34,16). Osea è il primo a rappresentare con l`immagine dell`unione coniugale i rapporti di Jhwh con il suo popolo dopo l`alleanza del Sinai, e a qualificare il tradimento idolatrico di Israele non solamente come prostituzione, ma come adulterio: dopo di lui il tema sarà ripreso dai profeti maggiori (Is 1,21, Ger 2,2, Ger 3,1, Ger 3,6-12). Ezechiele sviluppa lo stesso leit-motiv in due grandi allegorie simili (cfr. Ez 16 ed Ez 23). La seconda parte di Isaia presenterà la restaurazione d`Israele come la riconciliazione d`una sposa infedele che aveva seguito “altri mariti” (Is 50,1, Is 54,6-7, cfr. Is 62,4-5). Infatti il nome Baal, “padrone”, (Os 2,2) si dava al marito; un tempo esso entrava in composizione in numerosi nomi di persona (cfr. 1Sam 14,49, 2Sam 2,8; 1Cr 8,33, 1Cr 9,39-40), senza che ciò implicasse idolatria. Ma nel profetismo, la parola baal fu ritenuta come empia, per il suo riferimento ai sacrifici cruenti di comunione cananei a Baal (cfr. Gdc 2,13). Il passaggio da “mio padrone” a “mio marito” insinua che l`accento è ormai posto più sull`intimità che sulla subordinazione della sposa allo sposo. In Ger 44,17 lo stesso atteggiamento è legato anche alla condanna del culto alla Regina del cielo Ishtar; le focacce preparate in suo onore rappresentavano la dea nuda. Il culto della dea si collegava anche altri rituali sacrificali di tipologia imprecatoria: il culto del dio Ptah. In Ger 46,15 il toro Api, incarnazione del dio Ptah, era il protettore di Menfi; vivo, veniva nutrito in un tempio; morto, diventava un Osiride-Api o Osar-Api, donde il nome di Serapeum, necropoli dove veniva imbalsamato e sepolto. Di fronte a questo idolo, per il profeta, il
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BUCHANAN G. W. Symbolic money-changers in the Templum, in “New Testament Study” 37 (1991), pp. 280-290; VRIEZEN, K.J.H., Cakes and figurines, related womwn's cultic offerings in ancient Israel? ( Cfr.VAN DIJK HEMMES, Fokkelien, On reading prophetic textes, gender-specific and related studies in memory of Fokkelien van Djik-Hemmers, Leiden 1996.
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solo vero Dio è precisamente il «Potente di Giacobbe» (Cfr. Gen 49,24, Sal 132,2, Sal 132,5, Is 1,24, Is 49,26 e Is 60,16). La dea Ishtar era legata anche ai culti sacrificali di comunione agli dei Amon,Camos, Beljhwh. In Ger 46,2 il profeta condanna il culto di Amòn il dio ariete di Tebe, città che in ebraico viene indicata con il nome «No» (Cfr.Na 3,8, Ez 30,14-16). Ger 48,7 parla del culto di Camos, Dio nazionale dei moabiti (vv 13 e 46; Cfr.Nm 21,29, 1Re 11,7, 1Re 11,33) e Ger 50,2 di Bel (Cfr.Baal), nome abituale di Marduch (o Merodach), dio principale di Babilonia (Cfr.Ger 51,44, Is 46,1, Bar 6,40, Dn 14). Tuttavia, oltre la condanna del culto idolatrico dei popoli limitrofi, sia il profetismo del Regno del Nord e del Sud, sia il profetismo esilico e postesilico avviano anche una profonda critica alla prassi sacrificale cruenta d’Israele. Una corrente profetica importante (da studiare non diacronicamente ma seguendo una tessitura sincronica) riferendosi al decalogo - il documento dell`alleanza che non contiene nessuna prescrizione rituale10- non solo condanna i sacrifici di animali ma pone anche gli elementi di passaggio per una nuova comprensione etico-cultuale dei sacrifici cruenti (cfr. Os 6,6; Mi 6,68; Am 5,21;1Sam 15,22, Is 1,10-16, Is 29,13-14, Is 58,1-8, Os 6,6, Mi 6,5-8, Ger 6,20, Ger 7,21; Ger 33,11; Gl 2,13, Zc 7,4-6; cfr. Sal 40,7-9, Sal 50,5-15, Sal 51,1819). Os 8,13 è un testo redazionalmente significativo per questa comprensione anti-sacrificale: “Essi offrono sacrifici e ne mangiano le carni ma Jhwh non li gradisce”.
Al lamento di Jhwh con il suo popolo risponde un aspetto del profetismo che tende ad abbandonare il mondo rituale come luogo di mediazione dell’evento dell’Alleanza; ciò mette bene in risalto l`aspetto etico della religione per il profeta. Il popolo propone sacrifici più o meno legittimi; il profeta li rifiuta e li sostituisce con esigenze che già sono state insegnate all`uomo: la giustizia , la misericordia, il timore di Jhwh. In questo quadro i nebi’im pongono il richiamo alla conoscenza intima di Jhwh. Il verbo conoscere nell’esame del vocabolario profetico assume una rilettura ulteriore rispetto la sfumatura dell’ebraico. Per Osea [Os 2,22]la “conoscenza del Signore” accompagna hesed (cfr. Cos. 4,2, Os 6,6). Non si tratta di una semplice conoscenza intellettuale. Come Dio “si fa conoscere” all`uomo legandosi a lui con una alleanza manifestata per mezzo dei suoi benefici (hesed), così l`uomo “conosce Dio” per mezzo d`un atteggiamento che implica la fedeltà alla sua alleanza, il riconoscimento dei suoi benefici (Cfr.Gb 21,14, Pr 2,5, Is 11,2, Is 58,2). In Am 5,4 conoscere viene associato a cercare: frequentare i santuari può ben dirsi “cercare Dio” (Cfr.Am 5,5, Deut 12,5, 2Cr 1,5). Ma Amos proclama che la sola autentica ricerca di Dio è quella che cerca il bene e fugge il male (Am 5,14): è l`unica che conduce alla vita (Am 5,3, Am 5,6).
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REYMOND PH., Sacrifice et spiritualité ou sacrifice et alliance? Jer 7,22-24, in “Theologische Literturzeitung” 21 (1965), pp.314-317
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I profeti, spesso, hanno messo Israele in guardia contro pratiche che non impegnavano il cuore (Am 5,21; cfr. Gen 8,21) o contro una fiducia presuntuosa nella presenza di Dio nel suo tempio (Cfr.Ger 7,3-4). Nel giudaismo che segue l`esilio, qualunque sia ancora l`importanza del tempio come segno di salvezza (Zc 1,16), il culto interiore si affina sempre più e le stesse disposizioni del cuore, la preghiera, l`obbedienza, l`amore, assumono il valore di sacrificio (Cfr. anche Sal 50, Sal 51,19, Sal 69,31-32, Sal 141,2, Pr 21,3; Cfr.anche Sir 34,18, Sir 35,10, Tb 4,11). Di qui l’ammonizione dei nebi’im che non condannano il sacrificio in quanto tale, ma le sue contraffazioni ed in particolare le pratiche idolatriche ( Cfr. Os 2,15; 4,13). Di per sé, la molteplicità dei riti non onora Jhwh. Per Ger 7,22 un tempo questa proliferazione non esisteva (Cfr.Am 5,25; Is 43,23s): senza le disposizioni del cuore il sacrificio si riduce ad un atto vano (Am 4,4; Is 1,11-16). Lo stesso Geremia insiste con forza, secondo il genio della sua lingua, sul primato dell’Alleanza ( Cfr.Am 5,24; Os 6,6; Mi 6,8). Possiamo comprendere che, in fondo, i nebi’im non fanno innovazioni e continuano una tradizione narrativa esodica (Es 19,5; 24,7s) e sapienziale (I Sam 15,22; I Cron. 29,17; Prov 15,8; 21,3.27; Sal 40,7 ss; 50,16-23; 69,31 s; Eccli 34,18) in cui l’oggetto sacrificale della prassi cruenta era stato assimilato e reinterpretato in una struttura cultuale individuale e collettiva (Sal 51,18) in cui era avvenuta una frattura tra prassi ed evento (Eccli 35,1-10; Dan 3,38s). In questo spazio letterario, con carattere inclusivo, si deve citare l'associazione Nuova Alleanza di Ger 31,31,34. 3 LA TESI SULLA BERIT HADASHAH DI ETIENNE NODET E JUSTIN TAYLOR In continuità con tale atteggiamento rielaborativo-cultuale del termine Nuova Alleanza, Etienne Nodet e Justin Taylor11, dell’Ecole Biblique di Gerusalemme, hanno studiato con particolare attenzione la prassi cultuale essena della berit hadashah e i suoi impliciti rapporti con la prassi sacrificale cruenta veterotestamentaria e con il culto neo-testamentario. In base ai loro risultati di ricerca la comunità essena si pone proprio alle porte della comunità civile d’Israele creando una frattura con l’atteggiamento cultuale gerosolimitano del Tempio. La fonte che inquadra l’atteggiamento antisacrificale essenico è proprio il Rotolo del Tempio della grotta 11. Il rotolo tratta appunto del tempio di Gerusalemme, ne dà la pianta, elenca gli arredi, le attrezzature, e parla dei riti che vengono praticati all'interno di esso ma di riflesso pone anche una critica all’atteggiamento sacrificale cruento soprattutto nel sesto Libro della Legge12. In esso sono contenute le leggi riguardanti i riti e le cerimonie del culto del Tempio, quindi il rituale di
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E.NODET-J. TAYLOR, Essay sur les origines du Christianisme, Paris, 2002. Per la documentazione e le citazioni seguiamo: MORALDI L., I manoscritti di Qumran, Torino 1971. 12
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purificazione, le leggi riguardanti il matrimonio e le pratiche sessuali ma anche notizie interne su una pratica antinomica a quella gerosolimitana associata all’idea della venuta del Messia di Aronne della comunità essena13. Tuttavia è la Regola della Comunità ( 1QS)14 che delinea i criteri per l’ammissione alla cerimonia della berit hadashah (culto della nuova Alleanza), le regole che guidavano la vita della comunità15, le istruzioni al Maestro e ai subalterni e i principi di comportamento16 e le punizioni per la loro violazione17. In questo brano del rotolo, proprio parlando del Nuovo Patto, si
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Nei rotoli ritrovati non compare il nome Esseni. Nelle fonti greche essi sono citati come Essaioi o Essenoi. Sul significato della parola Esseni sono state fatte numerose congetture. Secondo alcuni sembra che la forma latina potesse derivare dall'ebraico " hasidium" (pii), secondo altri il nome derivava dall'aramaico "asya" (medico). La questione, però, è di secondaria importanza; infatti, sebbene alcuni autori antichi abbiano citato gli Esseni, solo oggi, attraverso i loro scritti, possiamo capire chi essi siano. Tra i rotoli vi sono opere che sono sicuramente collegate agli scritti esseni, ma ve ne sono altre che non sono interamente di provenienza essena. Gli Esseni erano impegnati nello studio della Bibbia per ritrovare il loro ruolo nella storia del mondo; essi composero delle opere di esegesi biblica. Si stanziarono nella zona del Mar Morto, vicino a Ein Gedi, e qui fondarono la loro comunità e misero i rotoli nelle grotte, proprio nel luogo dove essi vennero ritrovati. 14 MORALDI L., I manoscritti di Qumran, pp. 52 ss. 15 Similmente alla Regola della Comunità, il Commento ad Abacuc racconta di un certo numero di membri della comunità che, seguendo le istigazioni di un personaggio chiamato "uomo di menzogna", si allontanarono rompendo il patto e cessarono di rispettare la Legge. Questo fece sì che esplodesse un conflitto fra loro e il capo della comunità, il Maestro di Giustizia. Venne nominato anche un avversario malvagio conosciuto come il "Sacerdote empio". Ciò che rende importante questa figura è l'indizio che fornisce per datare gli eventi narrati nel Commento ad Abacuc. Se il sacerdote empio era un membro della gerarchia del Tempio, significa che il Tempio esisteva ancora. Come nel caso della Regola della Guerra, in questo rotolo si fa riferimento alla Roma Imperiale, quindi alla Roma del primo secolo avanti Cristo. Il Commento ad Abacuc allude ad una pratica particolare: le truppe romane vittoriose fanno offerte sacrificali alle loro insegne. Tale pratica non avrebbe potuto essere riferita al periodo della Roma repubblicana, perché a quell'epoca le truppe vittoriose avrebbero offerto sacrifici agli dei. Solo con la creazione dell'impero, quando l'imperatore venne considerato una divinità e divenne, per i suoi sudditi, un dio, la sua immagine o il suo simbolo furono riprodotti sugli stendardi dell'esercito. Quindi il Commento ad Abacuc, la Regola della Guerra, il Rotolo del Tempio fanno riferimento all'epoca di Erode. 16 Inoltre dal testo comprendiamo che essi conducevano una vita semplice, alzandosi ogni mattina prima dell'alba per studiare, si bagnavano ritualmente nell'acqua fredda ed indossavano tuniche bianche. Dopo il lavoro quotidiano nei campi e nelle vigne consumavano il loro frugale pasto in silenzio: non mangiavano carne e non bevevano vino. La sera era l'inizio della loro giornata, e il loro Sabato, o giorno santo, cominciava il venerdì sera ed era, per loro, il primi giorno della settimana. 17 Il testo incominciava enunciando i principi in base ai quali la comunità si definiva e si distingueva. Secondo tali principi i membri dovevano impegnarsi in un "Patto davanti a Dio per fare tutto quanto Egli ha ordinato" e, sempre secondo tali principi, a chi praticava l'obbedienza sarebbero "state perdonate tutte le colpe". La fedeltà alla Legge aveva una importanza fondamentale; tra le varie denominazioni che designavano i membri c'erano i "Guardiani del Patto"e gli "zelanti della legge". Il Patto prevedeva determinati riti, tra cui il lavaggio e la purificazione per mezzo del battesimo, non una volta soltanto, ma tutti i giorni. Vi erano le preghiere quotidiane
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fa riferimento a due figure regali, a due Messia distinti: uno discendente dalla stirpe di Aronne, l'altro della stirpe di Davide e Salomone18. La cerimonia della berit hadashah era un particolare rito in cui i neofiti accedevano gradualmente alla vita comunitaria. Il candidato veniva, in una prima tappa, esaminato dal paqid, l’ispettore della comunità: “ Se è capace di disciplina potrà essere (introdotto) nel patto nuovo” (1QS VI,14)19. Tuttavia l’ammissione non comportava l’introduzione alla vita della comunità ma un anno di prova. Alla fine di questo anno di prova l’assemblea decideva di ammetterlo al primo grado della vita comunitaria per un altro anno o di espellerlo (1QS VI,16-17)20. Al termine di questo secondo anno di nuovo veniva scrutinato per accertare la comprensione nello studio della Legge e la sua conformità alla regola della comunità (1QS VI, 18-19); se lo scrutinio risultava positivo, era introdotto solo in parte nella vita comunitaria: condivideva con i molti i suoi beni e il suo lavoro ma non poteva accedere al tesoro della comunità e non poteva partecipare al vitto con “i molti”. Soltanto al termine del terzo anno era integrato pienamente nella vita comunitaria ( IQSb 1,11-12) attraverso la cerimonia berit hadashah. In tale cerimonia si racchiudeva tutto l’atteggiamento problematico della comunità verso il culto ufficiale del tempio sulla prassi dei sacrifici cruenti che venivano condannati proprio da un lettura all’interno del rito essenico ovvero da un commento in pesher, : “Il tributo delle labbra ha il gradito profumo della giustizia, e la vita perfetta è come un’offerta spontanea” (1QS X,3-5). Giustizia e Verità erano considerati i luoghi del vero culto (IQS X,5). Forse appunto per questo i profeti erano importanti nella vita della comunità. Basti pensare come diversi manoscritti, scoperti a Qumran, hanno aperto un ventaglio notevole nella critica testuale del libro di Geremia [ 4QGer (a) del 200 a.C; 2 QGer (b) dell’inizio del I sec. d.C.; 4 QGer (c)]. I manoscritti di Geremia che fanno parte dei pesharim di Qumran sono tra i più completi e interessanti di questa serie. L’attualizzazione storica di questa letteratura occupa un posto di primo piano negli elementi rituali. Il “maestro di giustizia” riveste il suo ruolo con le parole di Geremia proprio nell’accoglienza dei neofiti. La dottrina comunitaria mutua dal testo geremiano, in particolar modo, il concetto di patto e alleanza ma viene accentuato il carattere di esclusività e di particolarismo21.Nella linea profetica i
all'alba e al tramonto e la recita della Legge. Tra questi riti si parla anche del "patto della comunità"simile, come dimostrano altri rotoli, all'Ultima Cena; essa parla anche del Messia. I membri che "procedono nella via della perfezione" devono rispettare la Legge "fino alla venuta del Profeta e dei Messia di Qumran e di Israele". 18 All'epoca il termine Messia aveva un significato ben diverso da quello della tradizione cristiana: significava "l'Unto", cioè colui che era stato consacrato con l'olio. Nella tradizione di Israele sia i re che i sacerdoti erano unti, cioè messia. 19 MORALDI, I manoscritti di Qumran, pp.157-160. 20 Ivi, p.160. 21 Ivi, p.160.
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membri della comunità si considerano come coloro che realizzano il concetto di “resto” di cui parlavano i profeti. Nel concetto di “residuo-eletto” sta quindi la coscienza particolare che anima il gruppo: ci troviamo alla fine dei tempi e la sètta è stata scelta da Dio per incarnare il residuo annunciato dai profeti; ed è questa sicurezza che dà ai membri del gruppo la certezza di una relazione particolare e privilegiata con l’antico patto: l’espiazione non si compie più con i sacrifici nel tempio ma con il sacrificio spirituale della preghiera e con la sofferenza dei “figli di Sadoq”, come è documentato in 1QS 8,3-4. Testo parallelo è 4Qflor 1,6-7: “Il santuario d’Israele è causa dei loro peccati. Egli disse che gli fosse edificato un santuario tra gli uomini affinché ci fosse chi in esso facesse salire quel profumo dei sacrifici, in suo onore, al suo cospetto, le opere della Legge. E quanto disse a David: “ ma ti concederò riposo da tutti i tuoi nemici”, significa che egli darà loro riposo da tutti”22.
Tuttavia, se prendiamo i testi nel loro stato attuale, tutto risulta inserito in un quadro messianico. Gli stessi testi esseni forniscono ancora una prospettiva a questo fatto. In effetti, il rinnovamento solenne dell’Alleanza è realizzato secondo una dimensione sacerdotale; il pasto inizia con la distribuzione del pane e vino ovvero il frutto delle primizie ed è presieduto da una sacerdote, che compie un segno escatologico sulle primizie. Segue la lettura di Is 11,1s. da questi due primi elementi rituali comprendiamo che la ritualità vive all’interno di un messianismo post-sacerdotale, da cui deriva un’iconografia guerriera, ma senza particolare attualità politica23. Contrariamente agli zeloti, gli Esseni considerano due fasi ben distinte: il tempo attuale, con un ideale sacerdotale ed un rituale escatologico, una realtà al di là di ogni rito. Il legame con la Pentecoste e l’alleanza è ancora più evidente nella concezione escatologica del commento al rito: nel pasto messianico l’ultimo il sacerdote (Messia aronide) apre il pasto con la benedizione delle primizie del pane e del vino24 e la condivisione di una stessa vivanda o di una stessa coppa sono dei segni semplici e manifesti di comunione (Cfr.Sal 16,5; 1Cor 10,20). Comprendiamo che la berit hadashah non è altro che una sorta di pasto
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Ivi, pp. 573-574. Sull’intera questione P.C. CRAIGIE, The Problem of War in the OT, Grand Rapids 1972. 23
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I QS 6,4-6: “ E quando essi preparano la tavola per mangiare o il tiroš per bere, il sacerdote deve ogni volta anzitutto stendere la mano per farsi benedire prendendo la prima parte del pane e del tiroš”. Per la bibliografia a riguardo Cfr.: D.BARTHÉLEMY-J.T.MILIK, Qumran Cave I, Oxford 1955, p.111; M. BURROWSJ.C. TREVER- W.H. BROWNLEE, The Dead Sea Scrolls of St. Mark’s Monastery II,2. Plates and Trascription of the Manual of Discipline, New Haven 1951.
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comunitario, i cui elementi significativi sono il pane e/o il vino25 e la sua espressione centrale si ricollega alla Pentecoste, con un aspetto di rinnovamento dell’Alleanza (Sinai) e di dimensione escatologica (primizie). Tutti questi sono elementi, anche se ipotetici, da prendere in considerazione anche per lo studio del N.T. In tal senso Vermès afferma: “The most probabile Qumran influence on the New testament is associated with organization and religious practice”26.
L’ influenza essenica, vista la sottolineatura degli elementi rituali stessi, può indicare anche una nuova tipologia di lettura redazionale di Mt 26,26-29; Mc 14,22-25 e Lc 22,14-20 ai quali si aggiunge il brano di 1Cor 11,17-33 che ha avuto un’influenza su Lc Testo Alessandrino (aggiunta dei vv. 19b-20). Il confronto dei testi richiama più osservazioni. Nonostante le complessità del calendario, il contesto letterario di queste redazioni del nuovo Testamento che inquadrano la ritualità dell’ultimo pasto di Gesù di Nazareth è pasquale. Tuttavia la festa di Pasqua ha tradizionalmente una duplice dimensione: la commemorazione dell’uscita dall’Egitto (Es 12-13) e la celebrazione dell’entrata nella terra promessa a Galgala (Gs 5,10s.). Questa seconda Pasqua di riferimento ha una caratteristica notevole: corrisponde alla cessazione della manna, poiché gli Israeliti iniziano allora a mangiare del prodotto del paese, cominciando dagli azzimi. Nei racconti evangelici dell’ultima cena, non c’è allusione all’uscita dall’Egitto, ma delle menzioni molto nette della Terra promessa, espressa nei termini del regno di Dio. Gesù di Nazareth annuncia una celebrazione futura in questo regno e ciò risulta particolarmente nitido in Lc 22,15-18, con l’agnello pasquale ed il vino27. Ci sarà in seguito un’interruzione ed infine una festa futura: questo scarto tra il presente e il futuro indefinito è indicato anche in Mt 26,29 e Mc 14,25, ma soltanto a proposito del “prodotto della vigna”. La scena si svolge non soltanto in Giudea, ma anche a Gerusalemme. Pertanto, questo non è un arrivo, ma una partenza. Si tratta di una dimensione messianica in base alla tradizione giudaica che sviluppa il tema del ritorno del messia in una notte pasquale.Tuttavia le allusioni all’Alleanza ed al sangue (Mt 26,29 e par.) aprono un registro che non sembra avere relazione diretta con la Pasqua, poiché non si fa alcun collegamento con l’agnello, né con il rito del sangue di
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J. JEREMIAS, Le parole dell’ultima cena, Paideia, Brescia 1973. J.Jeremias rivela come inverosimile questa tesi riferendosi principalmente al pasto comunitario di Qumran. Mentre Milik, più saggiamente propone di distinguere quattro pasti comunitari in relazione ai quattro gruppi di esseni (Qumran, damasceni,i terapeuti e quelli che vivevano nei villaggi della Palestina). Le tendenze delle sette variano a seconda delle epoche e hanno avuto influssi notevoli sul movimento battista: Cfr.J.JEREMIAS, op.cit.,30 ss. 26 VERMES G., The Dead Sea Scrools in English, Harmodsworth 1975, p.122. 27 F.M. CROSS, The Ancient Library of Qumran and Modern Biblical Studies, New York 1958, p. 35 s. Il Cross richiama il fatto che il banchetto essenico e la cara cena del cristianesimo primitivo sarebbero stati un’anticipazione del convito messianico.
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Es 12,22s. Si è notato dopo molto tempo che il “sangue dell’Alleanza” di Matteo e Marco fa allusione al sacrificio che suggella la rivelazione al Sinai (Es 24,8) e che la “nuova alleanza” di 1 Cor e LcTA rinvia a Ger 31,31. Per gli Esseni, la festa dell’Alleanza è la Pentecoste, che cade sempre la domenica 15 del terzo mese; è anche la festa dei primi frutti. L’alleanza non viene riallacciata come tale a Mosè ma parte da Noè, per il quale l’Alleanza suggella la liberazione dal Diluvio. Essa prosegue con Abramo, nell’episodio degli animali divisi (cfr. Gen 15,7), ove gli viene promessa una posterità ed una terra; con Mosè, si tratta dunque di un rinnovamento della stessa Alleanza. L’elemento conduttore è la tipologia del diluvio: un mondo nuovo deve apparire dopo il ribaltamento e la scomparsa del mondo antico. Da queste osservazioni risulta che bisogna accostare le due espressioni concorrenti “sangue dell’Alleanza” e “nuova Alleanza”. Si tratta nei due casi del rinnovamento della stessa Alleanza, senza l’abbandono di una alleanza antica: dapprima da parte di Mosè, poi da parte di tutti quelli che si impegnano a ritornare alla sua Legge. C’è, in effetti, una periodicità: il popolo è incostante, ma c’è sempre un resto fedele condotto da guide ispirate da Dio e che la sètta chiama gli “unti del suo Spirito Santo”. Questa che non è altro che il “resto”, si considera come il vero Israele, cioè come l’espressione concreta dell’Alleanza; in effetti, entrare nella comunità è sinonimo di entrare nell’Alleanza28. Anche la Pentecoste, come festa dell’Alleanza, ha una doppia dimensione: ammissione dei neofiti e rinnovamento liturgico dell’Alleanza, con abluzioni appropriate. Evidentemente questa prospettiva dà un significato insieme molto semplice e assai centrale alla Pentecoste di At 2, che si conclude con numerosi battesimi. Questa prospettiva della Pentecoste permetterà di dare un senso agli elementi caratteristici che sono il pane ed il vino, che si inseriscono in maniera non adeguata nel rituale pasquale. Al contrario, la Pentecoste è anche la festa delle primizie e secondo Lv 23,17, le primizie da portare prima non sono altro che del pane lievitato. È notevole che questo non sia il prodotto della terra allo stato bruto, il grano, ma una vivanda preparata. Come complemento di questo elemento fondamentale della festa propriamente detta, altri testi esseni indicano un ritmo di cinquanta giorni, dunque delle piccole pentecosti che cadono sempre di domenica, dove vengono offerti successivamente del vino dolce (mosto) e poi dell’olio; una volta ancora, questi sono dei prodotti preparati.
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J.BARR, Some Semantic Notes on the Covenant in Beiträge zur alttestamentlichen Theologie, Festschrif. fur W. ZIMMERLI, Göttingen 1977, pp.23-38; P.BEAUCHAMP, Propositions sur l’alliance de l’AT comme structure centrale , in “Recherches de Science Religiuse” 58 (1976), pp. 37-48.
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Le primizie del pane e del vino si trovano anche messe in relazione con la Pentecoste, con un significato escatologico centrale: è il consumo dei frutti del nuovo anno, che rappresenta il mondo nuovo, la nuova creazione. Ma il legame con la Pentecoste e l’alleanza è ancora più evidente nella concezione escatologica della comunità: nel pasto messianico l’ ultimo il sacerdote (Messia aronide) apre il pasto con la benedizione delle primizie del pane e del vino29. Il rito è da rispettare fin d’ora sotto una forma minore per ogni pasto quando ci sono dieci convitati, la principale differenza è che allora la benedizione è fatta sul pane e sul vino. L’accostamento con l’ultima cena di Gesù di Nazareth può farsi facilmente se si osserva che il rito verte su una sola coppa e non su tutto il vino disponibile (la brocca, o l’insieme di tutte le coppe). Si tratta di una piccola parte dell’alimento, ma venerato, il che esprime bene un gesto di primizie. Quanto al pane, basta considerare che il gesto della “frazione”, sufficientemente significativo per aver dato il suo nome al rito, non è semplicemente l’atto materiale necessario ad ogni distribuzione, ma esprime la separazione di una parte, dunque ancora un gesto di primizie. La tradizione cristiana ulteriore ha conosciuto in effetti due tipi di pasto cultuale: l’agape, o pasto del Signore, dove ciascuno consuma normalmente, e l’eucaristia, con l’azione di grazie caratteristica e la consumazione simbolica. Secondo le fonti disponibili, queste due forme, che erano congiunte all’origine, si sono in seguito separate. La testimonianza di 1Cor 11 ed i racconti dell’ultima cena attestano questo primo stato: pasto simbolico e pasto vero, dove la parte simbolica è un segno delle primizie. In questa maniera, diviene facile capire come il racconto dell’ultima cena si inscrive nella forma di un pasto abituale per Gesù di Nazareth e per i suoi discepoli, disgiunto dalla Pasqua. Tuttavia, se prendiamo i testi nel loro stato attuale, tutto risulta inserito in un quadro pasquale e dunque messianico. Gli stessi testi esseni forniscono ancora una prospettiva a questo fatto come abbiamo visto. C’è in effetti una doppia allusione alla Pasqua: la Pasqua attuale, che corrisponde alla morte di Gesù di Nazareth ed una futura, che corrisponde all’arrivo del Regno; in altri termini, lo scacco di un messianismo più o meno rivelatosi finalizzato a Gerusalemme, seguito dall’annuncio di un messianismo finale, debitamente trasformato. Tra i due, il rito del pane e del vino, nato dalla Pentecoste, è un segno escatologico nel tempo attuale (che altri passi del NT esprimono con una partecipazione ad una liturgia celeste). La Pentecoste ed i segni associati, con lo Spirito, corrispondono al mantenimento dell’Alleanza, cioè al tempo della Chiesa. La realtà finale è
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I QS 6,4-6: “ E quando essi preparano la tavola per mangiare o il tiroš per bere, il sacerdote deve ogni volta anzitutto stendere la mano per farsi benedire prendendo la prima parte del pane e del tiroš”. Per la bibliografia a riguardo cfr D.BARTHÉLEMYJ.T.MILIK, Qumran Cave I, p. 111.
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tuttavia rappresentata dalla Pasqua. Questa interpretazione permette di comprendere i racconti dei vangeli considerando che essi sono il risultato dell’inserzione di due blocchi nella Pasqua effettiva di Gesù di Nazareth: da una parte il segno escatologico del pane e del vino e d’altra parte un commento sull’appuntamento messianico futuro30. Questo risulta particolarmente netto in Matteo e Marco; in Luca, i due blocchi sono prima giustapposti: all’inizio troviamo la Pasqua attuale e la Pasqua futura e la frazione del pane soltanto in seguito. In questa linea, bisogna sottolineare il parallelismo tra Mc 14,12-16, l’invio per la preparazione della Pasqua, e Mc 11,1-6, l’invio per cercare l’asinello messianico; questi elementi convergono per una messa in scena pasquale propriamente escatologica. Le parole sul pane e sul vino, che Gesù di Nazareth identifica con il suo corpo ed il suo sangue, sono parallele e pronunciate tutte e due con ritardo, una volta fatta la distribuzione, cioè dopo che il corpo è mangiato e il sangue è bevuto. È dunque la reinterpretazione di un gesto consueto, come si è notato da tempo, ma esso è fatto in termini molto vivi, piuttosto scandalosi. È notevole che gli apostoli non sollevino alcuna obiezione. Ma questo fatto si chiarisce se si osserva che il racconto del pasto include un’altra fase: quella del tradimento. La formula di Mc 14,18b (“ e mentre essi mangiavano”) è ripresa al v.23, il che crea un parallelismo, cioè un effetto di raddoppiamento, tra il tradimento ed il rito del pane e del vino. Quando Gesù di Nazareth annuncia che uno degli apostoli sta per tradirlo, ciascuno domanda: “ Sono forse io?”. Judah non è nominato, ma “colui che intinge con me la mano nel piatto”. Si tratta dunque, generalmente, di una rottura di fraternità, rappresentata dalla commensalità; in conseguenza è anche una rottura dell’Alleanza. I paralleli essenici forniscono ancora un quadro preciso, fondato su Lv 19,17-18: “Tu non odierai il tuo fratello nel tuo cuore e non incorrerai in peccato a causa sua. Tu non ti vendicherai; tu non conserverai rancore verso i figli del tuo popolo, ma amerai il prossimo tuo come te stesso” (Cfr.Sir 28,1-6).
Infatti non c’è ingresso nell’alleanza se non mediante la comunità. D’altronde, la condivisione di una stessa vivanda o di una stessa coppa sono dei segni semplici e manifesti di comunione (Cfr.Sal 16,5; 1Cor 10,20). Il tradimento è dunque una rottura maggiore dell’Alleanza; tuttavia, non ne risulta qui alcuna scomunica, ma, al contrario, un rinnovamento della stessa Alleanza, mediante un gesto che ha tutte le apparenze di un crimine. Infatti “mangiare il sangue” è il simbolo di tutti i crimini. Narrativamente, ci sono dunque due movimenti che si sovrappongono: dapprima il tradimento, virtuale o reale, che conduce alla morte di Gesù poi il Nazareno stesso riprende l’iniziativa donandosi liberamente attraverso un rito, mediante il quale la sua uccisione
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I QS 2,21 s.
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diviene un nutrimento per gli omicidi. In questo modo è naturale che le parole sul pane e sul vino vengano dopo la loro rispettiva distribuzione, poiché esse commentano un’azione reale. Queste osservazioni permettono d’avanzare una sintesi sulla costruzione dell’ultima cena: gli elementi speciali che sono il pane e il vino, che hanno un’origine propria, legata al senso escatologico delle primizie, sono inserite nel dramma unico e irripetibile della morte di Gesù di Nazareth31, per la quale la cornice pasquale annuncia lo scacco di un messianismo (politico) e la promessa di un altro. Lo scacco matto è dovuto in particolare dalla fragilità dei discepoli, che tradiscono effettivamente o sono scandalizzati dalla croce. Tuttavia, il peccato non conduce ad una condanna, ma ad un riscatto; tale è questo rinnovamento dell’Alleanza di un tipo nuovissimo. Ritroviamo così per un altro verso, l’idea sviluppata sopra: un trasferimento di debito. La dimensione sacrificale è dunque manifesta (Cfr.Lv 17,11 sul sangue sparso per l’espiazione dei peccati ed Eb 9,7), ma essa non va a sovrapporsi al rito del pane e del vino, che non ha niente in se stesso di un sacrificio espiatorio, in particolare a causa della presenza del vino. In altri termini, è l’inserzione dell’atto libero di Gesù di Nazareth che dà al rito del pane e del vino una dimensione nuova. In questo modo, possiamo ritrovare senza sconvolgimenti testuali il senso della testimonianza dell’autore della prima lettera ai Corinzi sull’eucaristia (1Cor 11): 1. Egli dice la “vigilia della sua passione”, ma senza fare allusione ad un rituale pasquale. L’autore non conosce la costruzione dei vangeli, ma, d’altro canto indica chiaramente un legame rituale con la Pasqua di Gesù di Nazareth, morto nel momento stesso dell’immolazione dell’agnello. 2. Il “fate questo in memoria di me” vuol semplicemente dire di continuare il rito del pane e del vino, ma con un senso nuovo. Per contrasto, diviene perfettamente chiaro che Gesù di Nazareth
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R. LE DEAUT, La nuit pascale, Roma 1965.In riferimento c'è da ricordare soprattutto il sacrificio d'Isacco (Gen. 22). In tutta la tradizione giudaica, il sacrificio d’Isacco è senz'altro il punto di riferimento fondamentale. Gen. 22 termina con il gradimento da parte di Dio dell'offerta da parte di Abramo del suo figlio unigenito, ma con la sostituzione d' Isacco mediante un capro.Orbene tutta l'economia sacrificale (tutti i sacrifici descritti nel Levitico) d'Israele poggia qui: la sostituzione di Isacco rappresenta Isacco, cioè Israele. Dell'uomo che si offre, è Israele che si offre attraverso ciò che Dio ha comandato di offrire, ma è la vita d'Israele che è offerta, la vita dell'uomo che è offerta; è un sostituto, gli agnelli sono dei sostituti e dei rappresentanti dell'uomo del popolo d'Israele. Soprattutto l'agnello è il sostituto essendo la vittima per eccellenza.C'è forse un punto che non è tanto noto e solo lo accenno: secondo la tradizione ebraica, Israele è stato liberato a causa del sangue dell'agnello, e del sangue della circoncisione che è elemento della berit come abbiamo visto nella comprensione di Gen 15: anche la circoncisione provoca sangue (è prescritto: deve cadere qualche goccia). Il sangue della circoncisione è un sacrificio nella coscienza d'Israele, è il sangue dell'agnello che ha liberato, indubbiamente, ma non senza il sangue della circoncisione, che ha dato la vita.
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non dà alcun comandamento di ripetizione nel quadro dell’ultima cena, poiché una tale consegna verterebbe allora sulla ripetizione della Pasqua, cosa mai messa in questione nella tradizione. 3. La spiegazione “ogni volta che voi mangerete (..) voi annuncerete la morte del Signore” precisa il senso, un po’ alla maniera del tradimento dei discepoli nei vangeli; il tema è familiare all’autore della lettera, che vuol conoscere solo lo scandalo della croce. 4 SINTESI DEI RISULTATI Le tipologie sacrificali cruente veterotestamentarie vengono assimilate e reinterpretate nella teopolitica dei profetismi in un quadro etico-simbolico ovvero in una fase di spiritualizzazione cultuale. Dalla lettura testuale ci rendiamo conto che i libri profetici, quando denunciano le cadute e ricadute del popolo nell’idolatria e lanciano parole di fuoco contro l’abitudine degli ebrei dell’età post-davidica a mescolare il sacrificio del Tempio a Jhwh con quello a Baal e Astarte, segnalano sia la corruzione del monoteismo mosaico, sia l’incapacità, da parte d’Israele, di elaborare una prassi cultuale differente rispetto ai popoli limitrofi. I profeti, fondamentalmente, hanno operato all’interno del culto, elementi di specificità della ritualità d’Israele ricostruendo in modo alternativo la stessa prassi sacrificale veterotestamentaria e aprendo la possibile dimensione dicotomica tra Parola Rivelata e prassi sacrificale. Infatti individuando all’interno degli elementi strutturali della prassi sacrificale un ambiguo rapporto tra Rito ed evento ed individuando una discontinuità contenutistica tra Rito e storia salvifica, il profetismo recupera il codice deuteronomico come elemento con valore di contrasto -rispetto alla prassi sacrificale- capace di ridisegnare in forma simbolica i contorni autoritari e totalizzanti della ritualità. Climax di questa operazione profetica è la prassi della berit hadashah o culto della Nuova Alleanza dell’essenismo. Era un particolare rito in cui i neofiti accedevano a gradi alla vita comunitaria. In tale cerimonia si racchiudeva tutto l’atteggiamento problematico della comunità verso il culto ufficiale del tempio. Gli elementi rituali non erano legati ai sacrifici di comunione né ai sacrifici pasquali ma presentavano i caratteri di una prassi celebrativa in cui il pane e il vino erano gli elementi prefiguranti la dimensione pentecostale. Simili elementi rituali sono presenti nei racconti della cena di Gesù di Nazareth. In tal senso riusciamo a comprendere quanto l'organizzazione rituale del sacrificio di Gesù e la prassi rituale della cena sia realmente alleanza. Il sacrificio-rito di Gesù precede la dimensione dell'evento morte e risurrezione che, straordinariamente, tuttavia può essere compreso soltanto e necessariamente dando priorità al libero atto sacrificale di Gesù di Nazareth.