Dal sacrificio come rito cruento al sacrificio come atto spirituale

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ISTITUTO DI LITURGIA PASTORALE Abbazia di S.Giustina-Padova Incorporato alla Facoltà di Teologia del PONTIFICIO ATENEO S.ANSELMO-ROMA _______________________________________ DISSERTATIO

AD

LAUREAM XLIII

DAVIDE POLOVINEO

DAL

SACRIFICIO COME RITO CRUENTO

AL SACRIFICIO COME ATTO SPIRITUALE LA

SOSTITUZIONE SACRIFICALE A LIVELLO ANTROPOLOGICO E STORICO TIPOLOGICO

RILEVANZE

PER IL MONDO CRISTIANO

Estratto della Tesi per il conseguimento del Dottorato in Sacra Teologia con specializzazione liturgico-pastorale

PATAVII A.D. MMVI


Vidimus et adprobamus ad normam Statutorum Pontificii Athenaei S.Anselmi

ALDO NATALE TERRIN, Moderator ROBERTO TAGLIAFERRI, Censor primus ANDREA GRILLO, Censor alter PATAVII,

DIE

XX

MENSIS IUNII

A.D. MMVI

Nihil obstat MARK SHERIDAN O.S.B. Rector Magnificus Pontificii Athenaei S.Anselmi ROMA, DIE II MENSIS OCTOBRIS A.D. MMVI In memoriam SS. Angelorum

Imprimatur INNOCENTIUS AUGUSTINUS NEGRATO O.S.B. Abbas Sanctae Justinae de Padua Et Vice Magnus Cancellarius Instituti PATAVII, DIE XVIII MENSIS OCTOBRIS A.D. MMVI In festivitate S.Lucae Evangelistae




PREFAZIONE IN FORMA DI RINGRAZIAMENTO Come metafora silenziosa e austera, inscritta nelle pieghe della storia delle religioni, la simbolica del deserto mi permette di tracciare la linea sottile di comprensione della rara esperienza del dottorato. La trama inconscia, ma a sua volta estremamente lucida per Colui cha ha sfogliato avanti e indietro il libro della mia vita, ha il suo inizio proprio in un deserto. Il preludio della vicenda è da ricercare nei rintocchi autunnali della fine di Settembre del 1991, quando con i docenti e gli alunni dell’Istituto Teologico Marchigiano di Fermo compimmo un viaggio studio in Giordania, nella penisola sinaitica e in Israele. L’avventura fu estremamente affascinante: la spettacolare città di Petra, il monastero di El Deir e i luoghi alti, Amman, Nuweiba el Muzeini, il gruppo montagnoso del Matamir, Santa Caterina, con il suo monastero di fama mondiale, lo storico Jebel Moussa, Gerusalemme, con i suoi arcani misteri, il Mar Morto, Masada, Gerico e le altre città d’Israele. Ma tutto s’annullo in modo sublime dinanzi alle visioni tremende e vertiginose del maestoso scenario desertico di Wadi Rum e del deserto sinaitico. La compagnia era delle migliori ma attraversando questi due deserti compresi, immediatamente, nonostante i volti e il clamore degli amici di cordata, che proprio il mare di sabbia annegava ogni vita in una malinconica solitudine. Tale è il mistero di un dottorato: nell’avventura di ricerca si è soli, fisicamente e affettivamente. Tanti sono i pericoli incontrati e anche se alla fine tutto sembra relativo, il peso dell’esperienza rimane visibile come un solco colmato da sabbia formata da miriadi di granelli. In tal modo, tante sono le vite che hanno arricchito questa esperienza di ricerca e che con gemiti di ringraziamento sono ricamati nella trama sottile di queste pagine. Innanzitutto alla natura cortese del moderatore della tesi, prof. Aldo Natale Terrin, che in maniera premurosa, attenta e rispettosa ha saputo spronare suggerendo le svolte e gli indirizzi della tesi. All’originale funzione censoria del prof. Roberto Tagliaferri che come censor primus ha saputo rivelare la sua grande capacità di profondo ricercatore e come amico mi ha aiutato a procedere con entusiasmo. Al censor alter, prof. Andrea Grillo, alle autorità accademiche nella persona del Magnifico Rettore Mark She ridan e ai docenti del Pontificio Ateneo Sant’Anselmo di Roma porgo i miei ringraziamenti rinnovando la mia stima per la loro intensa attività di ricerca. Giammai potrei dimenticare, accanto a coloro che sono stati sospiranti interlocutori per la redazione della tesi, di disegnare un dolcissimo pensiero di ringraziamento, e in questo caso è proprio opportuno l’incantevole richiamo latino nomen est omen, a mons. Paolo De Angelis e don Angelo Bisioni che, mirando fissi il mio cuore, come angeli sopra la mia testa, hanno oscillato l’ombra delle loro calme e autoritarie mani. In loro, come un fanciullo che conduce la sua mano sul mento del padre, è inscritta l’intera vicenda dei miei affanni e delle mie liberazioni. A don Raffaele Canali, mons. Gabriele Miola, don Luigino Marchionni, don An tonio Nepi, prof.sa Rosanna Virgili, don Filippo Concetti, don Silvio Ciambechini, formatori e docenti di Sacra Scrittura e Liturgia all’Istituto Teologico Marchigiano, devo non solo il mio innamoramento iniziale per la storia e lo studio esegetico delle fonti documentarie della letteratura semitica antica, ma anche l’avermi concesso l’onore di poter interagire, nei seminari di studio e nei convegni, con grandi nomi del panorama culturale internazionale: P. Bovati, L. Alonso Schökel, J.L. Ska, R.Penna, G.Barbaglio, A. Nocent e H.G. Gadamer. Queste esperienze di vita accademica fermana ho portato curricularmente nel-

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l’ambiente di studio dell’Abbazia e dell’Istituto di Liturgia Pastorale di Santa Giustina. Al suo Abate P. Innocenzo Negrato, alla laboriosa comunità monastica, al Signor Preside don Giorgio Bonaccorso, al segretario P. Filippo Resta e al personale docente e non docente, porgo i miei ringraziamenti per l’accoglienza. Ma tanti amici ancora sorgono dal ciglio della mia memoria: il mio vescovo mons. Michele Seccia, mons. Antonio Nuzzi, mons. Cleto Bellucci, mons. Abele Conigli, mons. Vincenzo D’Addario, i miei insegnanti di letteratura italiana delle scuole superiori prof. Giuseppe De Berardis e prof.sa Giovanna Picotti Canzio, don Michele Panis sa, don Danilo Belotti, Oliviero Bianco, don Michele Fioretti, Amedeo Angelozzi, Micheli na Canali, Alessandro Ridolfi, Roberto Manzi, don Andrea Tanchi, don Matteo Scarafia, don Vittorio Menestrina, don Ferdinando Gallu, Enrico Beraudo e la sua famiglia, don Giovanni Melis, Adelina e Derna Di Giacobbe, i coniugi Carlo e Ludovica Anselmi, i coniugi Guido e Clementina Talarico, la Sig.na Anna Talarico, il personale della Biblioteca Nazionale di Roma e della Biblioteca del Monumento Nazionale di Santa Giustina. Neanche essi possono lontanamente immaginare quanto avaramente siano nascosti, come monili preziosi, nel mio sguardo che sta controllando l’atto di scrittura di queste righe. Similmente tale ignaro tesoro è gelosamente nascosto anche alla “famiglia” dei musicisti che inenarrabilmente sono custoditi nella mia esperienza musicale di pianista. Al mio compagno di avventure concertistiche, M° Gabriele Giampaoletti, con cui sperando in nuove prossime edizioni, ho organizzato il Concorso Internazionale di Sas sofono Premio Roma- International Sax Prix Rome all’Arts Academy e al Conservatorio Santa Cecilia di Roma: a lui progo il mio fraterno affetto che estendo anche a Roberta e ai piccoli Francesco, Filippo e Federico. Inoltre un caro e affettuoso ringraziamento alla mia insegnante di pianoforte, M° Tiziana Cosentino, che per dieci anni è stata meticolosamente professionale e al contempo estremamente intelligente nel saper coniugare l’azione performativa all’ermeneutica musicale. E come non ricordare il M° Fran cesco La Vecchia, il M° Fausto di Cesare e il M° Mario Calisi che mi hanno accolto come insegnante di pianoforte all’Arts Academy di Roma, i M° Sergio Cafaro, Lazar Ber man e Felix Ayo che magistralmente mi hanno concesso le chiavi comprensive della prassi esecutiva pianistica e della musica da camera, i maestri Ada Gentile, Federico Mondelci, Gaetano Di Bacco, J.Y.Fourmeau, Alessandra Taglieri, Roberto Genitoni e Gi rolamo Bottiglieri che hanno posto fiducia ai progetti concertistici e all’International Sax Prix. Inoltre agli allievi, e rispettive famiglie, del mio Istituto Europeo di Musica, alle porte del suo secondo lustro di attività, il mio profondo ringraziamento e affetto, assicurando sempre la mia professionalità e premura didattica come pianista. Infine, cercando nel mio silenzio parole scavate da attimi lieti e tristi di segreti parentali, ringrazio la mia famiglia e soprattutto il mio papà Mario, che “avendo le mani in pasta” nella società Italiana Autori ed Editori, ha saputo coltivare, insieme a mamma Lucia, le predisposizioni e le attitudini mie e dei miei fratelli, Gaetano, Gabriella e Domenico, sensibilizzandoci e immergendoci sin da piccoli nel mondo meraviglioso dell’arte e nel grande panorama letterario italiano. Un altro grande ringraziamento anche a mio cognato Piero, a mia cognata Elena, a mia cugina Enrica e ai miei nipoti Ilaria, Marianna e Pierpaolo. A mio padre, dedico la trama testuale di questo lavoro che spero contribuisca, in ambito editoriale e accademico, a tracciarmi la strada per nuovi itinerari di ricerca, e al suo affetto paterno a marcare la foscoliana certezza che “a egregie cose il forte ani mo accendono l’urne de’ forti”. Davide Polovineo

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PREMESSA ALL’ESTRATTO DELLA TESI Le indicazioni metodologiche per la Scholarship of Classical Studies and Rela ted Disciplines finalizzate alla strutturazione degli elaborati di ricerca delle facoltà dell’area anglofona, invitano i ricercatori ad enucleare in maniera sintetica e diretta, già nella scelta del titolo, la finalità del lavoro. Ho voluto rispettare questo “adagio metodologico” accademico indicando immediatamente nel titolo della tesi la finalità del presente lavoro, che si prefigge come unico compito di ricostruire le visuali del processo di assimilazione e reinterpretazione degli elementi rituali del sacrificio cruento delle antiche civiltà della mezzaluna fertile e del mondo greco nel modello del sacrificio spirituale che avrà posteriormente grande importanza per la prassi rituale della Civitas cristiana. E’ un importante tema analizzato spesso dalle correnti storico-teologiche del movimento liturgico del secolo scorso: il tema tuttavia necessità di un approccio sinottico con i risultati antropologico-culturali e con la modellizzazione idealtypica storico-sincronica: in questo, il lavoro della tesi presenta già un aspetto originale da un punto di vista prettamente metodologico poiché non “scomoda” le scienze teologiche per l’analisi del sacrificio. In effetti, già il sottotitolo del lavoro di ricerca indica uno spostamento dell’assetto metodologico con cui viene affrontato il tema che si articolerà proprio attraverso un’ indagine interdisciplinare antropologico-culturale e storico-tipologica radicata nei modelli di ricerca sintetizzati dall’ American Anthropological As sociation e dell’ambito storico-accademico dell’area anglofona. A partire da questa impostazione metodologica che è riscontrabile con variabili differenti in W.Burkert, R.Girard ed E.L.Gans, che reggeranno la trama della parte antropologico-culturale, e nei maggiori storici di area anglofona, che ci permetteranno di costruire le modellizzazioni idealtypiche del sacrificio cruento e degli indicatori strutturali di passaggio al sacrificio spirituale, intendo verificare: Tesi: Rimanendo unicamente in una prospettiva interdisciplinare antropologico-culturale e storico-tipologica è possibile individuare gli indicatori strutturali del passaggio dalla prassi sacrificale cruenta al sacrificio spirituale. Primo corollario: Il sacrificio spirituale si modellizza idealtypicamente sul sacrificio cruento che ha analogie in un programma biologico operante come elemento di equilibrio in vari stadi dell’evoluzione umana e nella strutturazione delle civiltà antiche. Secondo corollario: Le fonti documentaria storiche della morte e risurrezione di Gesù di Nazareth, come indicatori del locus antropologico in cui si modellizza il passaggio da un prassi sacrificale cruenta ad una forma sacrificale spirituale. Terzo corollario: Il sacrificio spirituale non è una modellizzazione teoretica ma resta nelle coordinate delle dinamiche rituali. Esso si modellizza idealtypicamente come un’e stetica rituale in cui avviene un differimento della violenza sull’oggetto sacrificale attraverso l’emissione di un segno di rinuncia che sposta l’attenzione dei carnefici dalla dimensione appetitiva a quella segnica.Tale operazione fa scaturire la nascita di una nuova cultura ovvero la “sacrificing Culture” e una nuova funzione del sacrificio che elabora la sua dimensione di rito cruento per divenire un sacrificio modellato dai vettori estetico-linguistici. Nell’intera tessitura della tesi ho ritenuto necessario porre alla fine delle due

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parti in cui è formata la ricerca, due appendici come approfondimento della tematica: la prima appendice cercherà di leggere la modellizzazione di passaggio dal sacrificio cruento al sacrificio spirituale all’interno della metodologia antropologico-culturale di V.Turner; la seconda appendice, storico-esegetica, analizzerà la modellizzazione di pas saggio dal sacrificio cruento al sacrificio spirituale nel testo di Ger 7,21-28. Il presente estratto della tesi riproduce l’introduzione generale, i tre capitoli della parte antropologica e la conclusione generale della tesi stessa. L’aspetto motivazionale che ha guidato la scelta della prima parte antropologica della tesi è la necessità di un ulteriore confronto dei dati di analisi della parte storico-tipologica con i contributi di ricerca, sul tema, dei più importanti centri universitari europei e dell’area anglofona, confronto che potrà illuminare ulteriormente gli indicatori strutturali del passaggio dal sacrificio cruento al sacrificio spirituale indicati nella presente tesi, permettendo, successivamente ad altri ricercatori dell’ ambito teologico, di sprigionare ciò che implicitamente è ancora nascosto e segreto nell’arcano ma sempre affascinante tema del sacrificio.

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SCHEMA DELLA TESI DAL SACRIFICIO COME RITO CRUENTO AL SACRIFICIO COME ATTO SPIRITUALE La sostituzione sacrificale a livello antropologico e storico-tipologico Rilevanze per il mondo cristiano

PREFAZIONE IN FORMA DI RINGRAZIAMENTO PREMESSA INTRODUZIONE PARTE PRIMA: IL PROCESSO SACRIFICALE NELLE INTERPRETAZIONI ANTROPOLOGICO-CULTURALI CAPITOLO PRIMO La prospettiva sociobiologica e antropologica di W. Burkert: le “orme biologiche” del sacrificio cruento AVVIO METODOLOGICO: LE “ORME BIOLOGICHE” DELLA RELIGIONE E DELLA PRASSI SACRIFICALE

1 L’HOMO NECANS E L’ATTO DI UCCIDERE COME ORGANIZZAZIONE SOCIALE E CULTUALE 2 L’AGGRESSIVITÀ E LA VIOLENZA COME ORDINAMENTO E FORMA DI POTERE 3 IL SACRIFICIO NEL QUADRO DELLA TEORIA DEL DONO E DELLA SPARTIZIONE DEL PASTO RITUALE SINTESI DEI RISULTATI CAPITOLO SECONDO La genesi del sacrificio come rito cruento nella prospet tiva antropologica di René Girard AVVIO METODOLOGICO 1 LE FONTI DEL PENSIERO DI GIRARD 2 LA RIVALITÀ MIMETICA E LA VIOLENZA COLLETTIVA 3 LA RISOLUZIONE DEL CAPRO ESPIATORIO 4 SMASCHERAMENTO DEL MECCANISMO VITTIMARIO 5 VALUTAZIONE DEL METODO E DELLE IPOTESI GIRARDIANE SINTESI DEI RISULTATI

CAPITOLO TERZO L’estetica sacrificale: smascheramento del sacrificio cruen to e origine dell’arte dei linguaggi in Eric Gans (il passaggio all’estetica) AVVIO METODOLOGICO 1 LA MATRICE GIRARDIANA DI ERIC GANS 2 RIVALITÀ MIMETICA GIRARDIANA E L’ORIGINE MIMETICA DEL MONDO DEI SEGNI 3 IL CAPRO ESPIATORIO E L’ORIGINE DEL LINGUAGGIO 4 L’ESTETICA SACRIFICALE: IL SACRIFICIO COME LUOGO IN CUI L’UOMO RICONOSCE IL LINGUAGGIO

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5 LA RILETTURA GANSIANA DEL SACRIFICIO CONCLUSIONE GENERALE DELLA PARTE ANTROPOLOGICA

APPENDICE Liminale e liminoide in Turner come indicatori strutturali del pas saggio dal sacrificio cruento al sacrificio spirituale? AVVIO METODOLOGICO 1 2

LA PERFORMANCE SACRIFICALE COME STRUTTURA “TRASFORMATIVA” DAL SACRIFICIO COME PERFORMANCE TRASFORMATIVA LIMINALE AL SACRIFICIO CRISTOCENTRICO COME PERFORMANCE TRASFORMATIVA LIMINOIDE

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LA PERFORMANCE SACRIFICALE CRISTOCENTRICA COME COMMENTO METASOCIALE

SINTESI DEI RISULTATI

PARTE SECONDA: ANALISI STORICO-TIPOLOGICA DEL SACRIFICIO COME RITO CRUENTO E PASSAGGIO AL SACRIFICIO COME ATTO SPIRITUALE CAPITOLO PRIMO Analisi storico-tipologica dei sacrifici nelle religioni antiche della mezzaluna fertile INTRODUZIONE E AVVIO METODOLOGICO 1 2 3 4 5

ANALISI DELLE TIPOLOGIE SACRIFICALI CRUENTE NELLE ANTICHE CULTURE SEMITICHE ORIENTALI ANALISI DELLE TIPOLOGIE SACRIFICALI CRUENTE NELLA RELIGIONE IRANICA ANTICA LE TIPOLOGIE SACRIFICALI NELLA PRIMA ETÀ IMPERIALE E NEL REGNO MEDIO DELL’ANTICO EGITTO ANALISI DELLE TIPOLOGIE SACRIFICALI CRUENTE NELLA CULTURA GRECA ANTICA ANALISI DELLE TIPOLOGIE SACRIFICALI CRUENTE DEL MONDO BIBLICO

CONCLUSIONE GENERALE DELLE TIPOLOGIE SACRIFICALI CRUENTE

CAPITOLO SECONDO Analisi storico tipologica del passaggio dal sacrificio da rito cruento a forma spirituale DISCUSSIONE METODOLOGICA 1

IL PASSAGGIO AL SACRIFICIO SPIRITUALE NELLA RELIGIONE ZOROASTRIANA: DAL SACRIFICIO CRUENTO SAOSHYANT AL CULTO DEL FUOCO SACRO

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IL PASSAGGIO DAL SACRIFICIO CRUENTO DI COMUNIONE ALLA RITUALITÀ S ˘APATTU NEL TARDO IMPERO BABILONESE E NELL’ORIGINE DELL’IMPERO DEI PARTI E DEI PERSIANI

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PROCESSO DI ASSIMILAZIONE E REINTERPRETAZIONE DEI SACRIFICI CRUENTI E D’IMPRECAZIONE NEL CULTO SPIRITUALE DELLA RELIGIONE EGIZIO-TOLEMAICA

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IL PASSAGGIO DAL SACRIFICIO COME PASTO IN COMUNE AL CULTO SPIRITUALE NELLA GRECIA ANTICA E NELL’ELLENISMO

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ASSIMILAZIONE E REINTERPRETAZIONE DELLE TIPOLOGIE SACRIFICALI CRUENTE NELLA COMPRENSIONE DEL CULTO SPIRITUALE DEL PROFETISMO E DELL’ESSENISMO

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CONCLUSIONE GENERALE: IL PROCESSO DI ASSIMILAZIONE E REINTERPRETAZIONE DELLE TIPOLOGIE SACRIFICALI CRUENTE NEL SACRIFICIO SPIRITUALE

APPENDICE Il passaggio dal sacrificio cruento al sacrificio spirituale in Ger 7,21-28: analisi esegetica e interpretazione 1.0

PRESENTAZIONE DI GER 7,21-28 ALL’INTERNO DELLA TEMATICA DEL SACRIFICIO SPIRITUALE

1.1 1.2 1.3 1.4 2.0

Bibliografia ragionata Delimitazione del testo: la strutturazione Analisi esegetica di Ger 7,21-23 Analisi esegetica di Ger 7,24-28

ALLEANZA E SACRIFICIO IN GER 7,21-28: DUE CATEGORIE COMMENSURABILI? 2.1 La difficoltà di una ricerca biblica condizionata 2.2 Evento dell’alleanza come prassi: le formule qum berit e karat berit 2.3 La berit diviene Evento dell’alleanza: frattura dei significati 2.4 La dicotomia tra Evento e sacrificio rituale in Geremia: la modellizzazio ne idealtypica del sacrificio spirituale

CONCLUSIONE GENERALE: RETROSPETTIVA ANALITICA E SINTETICA E RILEVANZA DEI CONTRIBUTI PER IL MONDO CRISTIANO ANALISI DELLA METODOLOGIA DI RICERCA 1 2 3

DE CIVITATE IN SACRIFICIO SANGUINIS DE CIVITATE IN SACRIFICIO SPIRITUALI DE CIVITATE IN SACRIFICIO LAUDIS

EPILOGO

BIBLIOGRAFIA INDICE

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Come dolmen sulle spoglie di mio padre Mario

1

Cfr. STROUMSA G.G., La fine del sacrificio. Le mutazioni religiose della tarda antichità, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 2006, pp. 61-62. In queste pagine l’autore, docente presso l’Università ebraica di Gerusalemme e direttore del Centro per lo studio del cristianesimo, afferma:“ La nostra epoca tuttavia si distingue per uno sconvolgimento dell’equilibrio tra il mito e il rito conservato dai sacrifici nelle società antiche. Sacrificiorum aboleatur in sania:“che la follia dei sacrifici sia abolita“, dice una legge di Costanzo II, ripresa nel codice teodosiano. Possiamo caratterizzare la rivoluzione iniziata con Costantino, e continuata dai suoi successori, attraverso una delle conseguenze più radicali: la fine dei sacrifici pubblici. Dobbiamo però aggiungere una precisazione: nemmeno il fiat imperiale ha il potere di sradicare un’istituzione affermatasi così in profondità come il sacrificio” (cit. p.61). Sull’abolizione dei sacrifici cfr. anche T.D. BARNES, Constantine’s Prohibition of Pagan Sacri fice, in “American Journal of Philology” 105 (1984), pp. 69-72; R.C. BLOCKLEY, Ammianus Marcellinus. A study of His Historiography and Political Thought (Collection Latomus, 141), Bruxelles 1975, pp. 107 ss.; J. GAUDEMET, Quelques remarques sur le droit naturel à Rome, in “Revue Internationale des Droits de l’Antiquité” 1 (1952), pp. 452 ss H. KARPP, Kon stantins Gesetze gegen die private Haruspizin aus den Jahren 319 bis 321, in “Zeitschrift für die Neutestamentliche Wissenschaft” 41 (1942), pp. 145 ss.; F. MARTROYE, La répres sion de la magie et le culte des gentils au IVe siècle, in “Revue historique de Droit français et étranger” 9 (1930), pp. 670 ss.;J. MAURICE, La terreur de la magie au IVe siècle, in “Revue historique de Droit français et étranger” 6 (1927), pp.108 ss. 2

Sul libro XVI del Codice Teodosiano si veda S. BRADBURY, Constantine and the Problem of Anti-pagan Legislation in the Fourth Century, in “Classical Philology” 89 (1994), pp. 129 ss.; IDEM, Julian’s Pagan Revival and the Decline of Blood Sacrifice, in “Phoenix” 49 (1995), pp. 331 ss.

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INTRODUZIONE Una costituzione del 341 d.C. attribuita a Costanzo1 (Cod.Th. 16,10,2) e indirizzata al vicario d’Italia, Madaliano, contiene un riferimento ad una disposizione costantiniana sull’ abolizione dei sacrifici di animali2: [Imp. Constantius A. ad Madalianum agentem vicem P(raefectorum) P(raetori)o]. Cesset superstitio, sacrificiorum aboleatur insania. Nam quicumque contra legem divi principis parentis nostri et hanc nostrae mansuetudinis iussionem ausus fuerit sacrificia celebrare, conpetens in eum vindicta et praesens sententia exeratur. [Acce(pta) Marcellino et Probino Conss.].

Siamo in presenza di un testo, che codifica, giurisprudenzialmente, la fine della prassi sacrificale cruenta per la romanità e non deve sembrare strano che è proprio questo atto conclusivo il punto di partenza di questa tesi, poiché il carattere rivoluzionario, sul piano politico, religioso e giuridico, di tale scelta costantiniana, peraltro non esclusivamente ‘personale’, perché tradotta in un ‘complesso’ normativo, era la rottura non solo della precedente prassi, ma soprattutto della grande visione in cui il sacrificio cruento era il grande indicatore delle culture orientali e occidentali antiche e della civi 3

Cfr. S. BRADBURY, Constantine and the Problem of Anti-pagan Legislation in the Fourth Century, pp. 129 ss. 4

Sulla centralità di questi riferimenti allo spazio urbano, con particolare riguardo alla Basilica di Pietro, si veda T.D. BARNES, Constantine’s Prohibition of Pagan Sacrifice, pp. 6972; G. LA PIRA, Chiesa e Stato dal IV al VI secolo, in “Prospettive” 2 (1974), pp. 134-135. 5

Cfr. La letteratura sul sacrificio è enorme. Per un’ampia rassegna Cfr. R. D. HECHT, Stu dies on Sacrifice: 1970-1980, in “Religious Studies Review” 8 (1982),pp. 253-258; e ancora Sacrifice in Religions Experience, a cura di A.I. BAUMGARTEN, (Numen Book Series Vol. XCIII), Brill, Leiden-Boston 2002; I. STRENSKI, Between Theory and Speciality: Sacrifice in the 90s, in “Religious Studies Review” 22 (1996), pp.10-20. Si veda poi la grande rassegna di G.S. KIRK, Some Methodological Pitfalls in the Study of Ancient Greek Sacrifice, in J. RUDHARDT, O. REVERDIN (a cura di), Le sacrifice dans l’Antiquité, Vandoeuvres, Genève 1981, pp. 42-56. Cfr. inoltre G. GUSDORF, L’experience humaine du sacrifice, PUF, Paris 1948; Gifts to the Gods: Proceedings of the Uppsala Symposium, 1985, a cura di T. LINDERS-G. NORDQUIST, Acta Universitatis Upsaliensis: Boreas 15, Uppsala Universitet, Uppsala 1987; Sa crificio e societa’ nel mondo antico, a cura di C.GROTTANELLI-N.F.PARISE, Laterza, Bari 1988;C. GROTTANELLI, Il sacrificio, Laterza, Roma-Bari 1999; J. C. HEESTERMAN, The Broken World of Sacrifice: An Essay in Ancient Indian Ritual, Chicago University Press, Chicago 1993; F. HÉRITIER, De la violance, Odile Jacobe, Paris 1996; B. LEMPERT, Critique de la pensée sacrificielle, Seuil, Paris 2000.

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tas romana: il rifiuto di Costantino inaugura un nuovo corso della politica imperiale, imponendo, anche nel contesto della urbs-civitas, nuovi ‘spazi’ di riferimento giuridico, alternativi al Campidoglio. L’abbandono del tempio di Giove Ottimo Massimo da parte dell’imperatore cristiano, al quale non è più consentito deporre l’alloro in onore della divinità “pagana”, determina non solo un mutamento nel cerimoniale pubblico, con la scomparsa del triumphus, ma anche uno stravolgimento dei luoghi di riferimento e delle modalità di espressione istituzionale del dibattito politico3. Tra i luoghi, destinati a divenire la sede privilegiata dell’incontro fra l’imperatore e il popolo, la Basilica di Pietro diviene, dopo Costantino, un nuovo centro di riferimento per gli imperatori, i quali, di fronte al sepolcro dell’apostolo, depongono il diadema, simbolo del loro status4. L’atto costantiniano è da ritenere, pertanto, la fine di una prassi rituale e soprattutto di un background socio-politico, affascinante quanto cruento, che non può, nel cuore di ogni storico, suscitare interesse, ammirazione e sudore di ricerca poiché il sacrificio come rito cruento5 è davvero stato una costante fondamentale per l’organizzazione culturale e sociale di tutte le civiltà antiche poiché è actio sacralizzata e sacralizzante in cui le forme culturali e di potere s’innestano direttamente nelle radici biologiche, come ci testimonia Walter Burkert; è atto risolutivo della violenza individuale e collettiva attraverso il meccanismo del capro espiatorio, come ci suggerirà l’antropologo René Girard, ma soprattutto è una prassi che trova una sua evoluzione organica nella dimensione estetico-etica dei linguaggi che divengono non solo il luogo del differimento della violenza dal capro espiatorio ma divengono i veri oggetti centrali del sacrificio stesso come ci suggerisce l’antropologo californiano Eric Gans. In fondo, in questa schematizzazione e in base ai contributi di questi tre antropologi si strutturerà la prima parte della tesi. È davvero fondamentale porre all’inizio della tesi la prospettiva antropologica, poiché negli ultimi decenni c’è stato un profondo contrappunto nello studio delle religioni, e di conseguenza anche del rituale e 6

Cfr.per un’ attenta e ampia presentazione sulla tematica A.N. TERRIN, Antropologia e oriz zonti del sacro, Cittadella Editrice, Assisi 2001, pp. 15-68. 7

Cfr. ivi, pp.57-61.

8

Cfr. ivi, pp. 69-72.

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del sacrificio, da parte dell’antropologia socio-culturale6. Dall’intreccio armonico degli studi antropologici emerge in modo indubbiamente positivo la consapevolezza che l’indagine sul sacrificio non può più rinunciare all’esigenza di analisi del quadro umano più vasto e completo che costantemente esprimono il rito e il mito7. Ma ancor più, chi si immerge costantemente in quel profondo “tema e variazione” che è il mondo codificato da internet riesce a comprendere quanto è attuale il tema del sacrificio e quante volte esso sia tematizzato e variato dall’arte figurativa odierna ponendosi come indicatore dei costumi ed in generale dell’ethos dei popoli. In questo quadro, l’antropologia culturale ha una sua concretezza che altre scienze umane non possiedono ed inoltre si pone in linea con il comportamento rituale, che appare anzitutto un’azione o un complesso di azioni di carattere simbolico che - almeno ad una prima indagine - non è dissociabile dal contesto socio-culturale in cui si manifesta8. La prima parte antropologica sarà seguita da un secondo livello di lettura di carattere storico-tipologico in cui si analizzerà il passaggio tipologico del sacrificio da rito cruento ad atto spirituale nelle culture assiro-babilonesi, iranica, egizia, greca e nella tipologia veterotestamentaria e delle comunità esseniche, in base ad una costruzione edificata sull’impianto weberiano dell’idealtypus9 e sulla configurazione di ciascuno dei termini del processo sacrificale: la vit tima e il suo status (ovvero il posto dell’animale nel bestiario, il com9 Weber definisce il tipo ideale (Idealtypus) come un costrutto intellettuale capace di elaborare la complessità empirica fornendo una lettura perspicua dei fenomeni. Ma la validità di un costrutto idealtipico non può essere accertata a priori. Il tipo ideale è uno strumento di lavoro e la sua validità viene accertata in base all’efficacia nella comprensione dei concreti fenomeni culturali. Cfr. M. WEBER, Gesammelte Aufsätze zur Wissenschaftlehre, Mohr, Tübingen 1922, pp.34 ss. (trad. it. Il metodo delle scienze storico-sociali, Einaudi, Torino 1958). 10

Classificazione tipologica basata soprattutto sulle fonti documentarie raccolte da Cfr. J.M.SASSON-J.BAINES-G.BECKMAN-K.S.RUBINSON,Civilizations of the Ancient Near Ea st, 4 volumi, Simon and Schuster Macmillan, New York 1995; inoltre cfr. L.R. FARNELL, Sacrifice (Greek), in J.HASTINGS ( a cura di), Encyclopedia of Religion and Ethics, XI, T.& T. Clark, Edinburgh 1921, pp. 14 ss.; J.B. PRITCHARD, a cura di, Ancient Near Eastern Texts Relating to the Old Testament, 3° edizione con supplemento, Princeton University Press, Princeton 1969; IDEM, Ancient Near East in Pictures Relating to the Old Testament, 2° edizione con supplemento, Princeton University Press, Princeton 1969. 11

Cfr. W.MC KANE, A Critical and Exegetical Commentary on Jeremiah, I:Introduction and Commentary on Jeremiah I-XXV, ICC, Edinburgh, 198 Cfr. G. BATAILLE, Eroticism, Death & Sensuality, City Lights Books, San Francisco 1986, cit. p. 92.

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portamento richiesto), i modi di tagliare la carne sacrificale (ovvero la divisione tra le diverse parti interne e quelle che costituiscono in qualche modo l’esterno dell’animale), i tipi di cottura (il valore rispettivo del non-cotto, dell’arrostito e del bollito), il significato di ciò che è de stinato a diventare fumo (le ossa, il grasso, gli aromi) e infine le mo dalità di distribuzione e della ripartizione delle carni della vittima (parte di prima scelta, pezzi riservati ai sacerdoti, funzione rituale della pelle, della testa, delle zampe)10. Questa seconda parte si concluderà con un’appendice sulla riflessione geremiana (Ger 7,1-28) sul tema del sacrificio usufruendo degli studi di scuola edimburghese di W.Mc Kane11. Questa appendice risulterà estremamente importante per comprendere l’atteggiamento anti-cultuale e anti-sacrificale di una parte del profetismo biblico. Tante saranno le difficoltà che incontreremo in questo itinerario poiché dinanzi allo scacco matto del sacrificio come atto spirituale, che galleggia sul mare magnum della scansione rituale e fondativa del sacrificio come atto cruento, verrà da chiedersi se veramente non sia possibile interpretare il sacrificio come Grund ovvero come un profondo insondabile e inarrivabile fondamento inconsciamento radicato nella vita umana. Se partiamo dalla necessità e dalla intenzione di dominare il tema del sacrificio attraverso una definizione, ci troveremo quasi inevitabilmente in difficoltà proprio perché tale dimensione si presenta in ultima analisi come inoggetivabile. Tutte le volte che tentiamo di determinare la definizione attraverso un’area di concetti definiti il fenomeno ricompare a livelli diversi. Questo probabilmente è l’indizio di essere in presenza, non di un oggetto naturale, ma di un atteggiamento dinamico e aggressivo che tuttavia delinea proprio i caratteri delle culture poiché, come vedremo nella conclusione della tesi, sarà proprio il mondo sacrificale uno degli elementi importanti in cui potremo notare diacronicamente il passaggio da apparati statali che hanno come vettori o indicatori strutturali i sacrifici cruenti, a communitas marginali ellenistiche delineanti i parametri del sacrificio spirituale fino ad arrivare alla edificazione di una Civitas che trova uno dei suoi maggiori indicatori

11

Cfr. G. BATAILLE, Eroticism, Death & Sensuality, City Lights Books, San Francisco 1986, cit. p. 92.

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strutturali proprio nell’estetica sacrificale-contemplativa agostiniana. In questa prospettiva le radici del sacrificio consistono proprio nell’oltrepassare un limite comprensivo della polis e della civitas: le stesse dimensioni etico-estetiche, civile e politica dell’uomo sono inscritte nel mondo sacrificale che, a sua volta, riconduce la strutturazione sociale alla dimensioni biologiche fondative della cultura così come afferma Bataille: “E compito comune del sacrificio porre in armonia la vita e la morte, dare alla morte l’impulso della vita, alla vita la gravità e la vertigine della morte, apertura su un mondo sconosciuto… se ora consideriamo la somiglianza tra l’atto d’amore e il sacrificio. Entrambi rivelano la carne. Il sacrificio sostituisce alla vita ordinata dell’animale una cieca convulsione dei suoi organi. Così è anche con la convulsione erotica; essa allenta le briglie ad organi estravaganti, la cui cieca attività oltrepassa la volontà deliberata degli amanti”12.

PARTE PRIMA IL PROCESSO SACRIFICALE NELLE INTERPRETAZIONI ANTROPOLOGICO-CULTURALI



13

Attraverso le pubblicazioni nel suo organo ufficiale “American anthropologist”, l’Ameri can Anthropological Association, già negli anni settanta e ottanta, si propose di dare un’interpretazione unificante di tutti i comportamenti dell’ uomo utilizzando i dati delle varie discipline che si occupano del comportamento, dalla genetica e dalla fisiologia comparata fino all’etologia. In fondo l’Associazione non fece altro che riprendere un progetto già delineato agli inizi del novecento da F. Boas. (Cfr. F.BOAS, Evolution or Diffusion, in “American anthropologist” 26 (1924), pp.340-344). Cfr. anche BARKOW J.H., Culture and Sociobio logy, in “American Anthropologist” 80(2) (1978), pp. 5-20; BOEHM CH., Rational Preselec tion from Hamadryas to Homo Sapiens: the Place of Decisions in Adaptive Process, in “American Anthropologist”, 80(2) (1978), pp.265-296; CHAPPLE E., The Science of Humanics: Multidisciplinary Renaissance of General Anthropology, in “American Anthropologist”, 80(1) (1978), pp. 42-52; DYSON H. - DYSON S., Human Territoriality: an Ecological Reassessment, in “American Anthropologist” 80(1) (1978), pp.21-41; GOULD R. A., The Anthropology of Hu man Residue, in “American Anthropologist”, 80(5) (1978), pp. 815-835; PRESS I., Urban Folk Medicine: A Functional Overview, in “American Anthropologist”, 80(1) (1978), pp.7183; SISKIND J., Kinship and Mode of Production, in “American Anthropologist”, 80(4) (1978), pp. 860-872; WHITTEN N. E., Ecological Immagery and Cultural Adaptability: The Canelos Quichas of Eastern Ecuador, in “American Anthropologist”, 80(4) (1978), pp.836-859; LASKER G. W., Surnames in the Study of Human Biology. in “American Anthropologist”, 82(3) (1980), pp. 525-537; CHAPPLE E. D., The Unbounded Reaches of Anthropology as a Re search Science, and Some Working Hypotheses, in “American Anthropologist”, 82(4) (1980), pp. 741-757.

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CAPITOLO PRIMO

La prospettiva sociobiologica e antropologica di W. Burkert: le “orme biologiche” del sacrificio cruento

AVVIO METODOLOGICO: LE “ORME BIOLOGICHE” DELLA RELIGIONE E DELLA PRASSI SACRIFICALE

Nell’ultimo trentennio, l’indirizzo di studio dell’American Anth ropological Association, finalizzato ad una maggiore articolazione fra scienze antroposociali e scienze naturali, ha posto le basi, soprattutto nell’area di ricerca anglofona, per una riorganizzazione degli studi sui fenomeni religiosi e per una ridefinizione dei comportamenti rituali legati al sacrificio13. Tale indirizzo di studio, tuttavia ha disorientato antropologi di aree geografiche differenti, che dinanzi alle sottolineature, di ricerca e di metodologia dell’American Anthropolo gical Association, di un comportamento rituale marcato e controllato dal sistema biologico, tendono di conseguenza a mettere da par-

14

Cfr. LORING B.C.- FRANK S., 1941-1999: Historian of Biological Anthropology, in “American Anthropologist” 103(1) (2001), pp.171-173; GOODENOUGH W. H., Anthropology in the 20th Century and Beyond, in “American Anthropologist” 104(2) (2002), pp. 423-440; NADER L., Missing Links: a Commentary on Ward H. Goodenough’s Moving Article “Anthropo logy in the 20th Century and Beyond”, in “American Anthropologist” 104(2) (2002), pp. 441447; TRENCHER S. R., The American Anthropological Association and the Values of Scien ce:1935-70, in “American Anthropologist” 104(2) (2002), pp. 450-460; URBAN G., Metasi gnaling and Language Origins, in “American Anthropologist” 104(1) (2002), pp. 233-243; BRIGGS CH., Linguistic Magic Bullets in the Making of a Modernist Anthropology, in “American Anthropologist” 104(2) (2002), pp. 481-498; D’ANDRADE R., Cultural Darwinism and Language, in “American Anthropologist” 104(1) (2002), pp. 223-231; ALVARD M.S.-KUZNAR L., Deferred Harvest: The Transition from Hunting to Animal Husbandry, in “American Anthropologist” 103(2) (2001), pp. 295-311. 15

cfr. W.BURKERT, La creazione del sacro. Orme biologiche nell’esperienza religiosa, Adelphi, Milano 2003 (ed. orig. Creation of the Sacred. Tracks of Biology in Early Religions, Harvard University Press, Cambridge, Massachusetts, London 1996). 16

Cfr. ivi, p. 62.

17

Cfr. W. BURKERT, Homo necans. Antropologia del sacrificio cruento nella Grecia antica, Boringhieri, Torino 1981 ( ed. orig. Homo necans: Interpretationen altgriechischer Opferriten und Mythen, W. De Gruyter, Berlino-New York 1972), p.204. Già in quest’opera Burkert pone una prima lettura del biologico mettendo in relazione il sacrificio con l’iniziazione.

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te il modello antropologico statunitense o in alternativa a dargli eccessiva importanza14. In questo quadro, il libro Creation of the Sacred. Tracks of Bio logy in Early Religions, opera di W.Burkert nata dalle Gifford Lectures tenute dallo studioso svizzero presso l’università di St. Andrews nel febbraio-marzo 1989, è sicuramente un testo che, cercando un percorso di sintesi tra le differenti impostazioni metodologiche delle associazioni antropologiche internazionali, segnerà un modello innovativo di ricerca interdisciplinare tra scienze biologiche e scienze antropologiche per lo studio delle tematiche religiose e, per quanto riguarda l’impostazione della nostra tesi, per l’analisi della prassi sacrificale15. Non potevamo trovare metodo migliore dato che per Burkert c’è una specie di simbolica primitiva e originaria iscritta nel linguaggio sacrificale: un legame simbolico con l’irreversibilità biologica della stessa natura dove il cibo genera vita e morte nello stesso tempo16. In maniera latente, il legame profondo con le scienze biologiche era già stato sottolineato da Burkert in Homo necans: Interpretationen altgriechischer Opferriten und Mythen17, ma ne La Creazione del Sacro viene alla luce in maniera evidente per affrontare la prospettiva del sacrificio che interpretato a livello biologico, culturale e sociale, risulta, per Burkert, uno dei nodi più complessi del mondo religioso ed evidenzia, a sua volta, il problema di ristabilire la relazione individuo/società/specie come permanente e simultanea18. Appunto per la costruzione di un modello metodologico, nella prefazione de La creazione del Sacro, Burkert auspica la necessità di una interdisciplinarietà tra le differenti scienze che studiano il sacrificio, affermando:

18

Cfr. W.BURKERT, La creazione del sacro, pp. 17-42.

19

Cfr. ivi, cit. p.13.

20

Cfr. D. SPERBER, Le savoir des anthropologues, Hermann, Paris 1982 (trad. it., Il sape re degli antropologi, Feltrinelli, Milano 1984), pp. 41-52.

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“Il tentativo di collegare la ricerca storica e filologica all’antropologia biologica richiede l’esplorazione di campi diversissimi, ognuno gremito di innumerevoli pubblicazioni, condotte con metodi sempre più raffinati e specialistici benché spesso contrastanti e dai risultati controversi.[….]Ma gli storici, proprio perché sono divenuti consapevoli di quanta parte del loro lavoro, al di là del mero recupero e accumulo dei dati sia condizionata dai particolari modelli, principi e tendenze 21 Si veda a questo proposito la sintesi magistrale in chiave critica proposta da C. Grottanelli in C. GROTTANELLI- N.F. PARISE (a cura di), Sacrificio e società nel mondo antico, Laterza, Bari 1993, pp. 3-53. 22 Cfr. E.O. WILSON, Sociobiology: The New Synthesis, Harvard University Press, Cambridge 1975 (trad.it. Sociobiologia. La nuova sintesi, Zanichelli, Bologna 1979); IDEM, On Human Nature, Harvard University Press, Cambridge 1978 (trad. it. Sulla natura umana, Zanichelli, Bologna 1980); IDEM,Genes, Mind and Culture, Harvard University Press, Cambridge 1981; LUMSDEN CH.- WILSON E.O., Promethean Fire. Reflections on the Origin of Mind, Harvard University Press, Cambridge ( trad.it. Il fuoco di Prometeo. L’origine e lo sviluppo della mente umana, Mondadori, Milano 1984); IDEM, Biophilia, Harvard University Press, Cambridge 1984 (trad.it. Biofilia, Mondadori, Milano 1985 ); IDEM, The Diversity of Life, Norton, New York 1993.(trad.it. Diversità della vita, Rizzoli, 1993); IDEM, Naturalist, Island, Washington 1994; IDEM, Consilience. The Unity of Knowledge, Alfred Knopf, New York 1998 (trad.it. L’armonia meravigliosa, Mondadori, Milano 1999). 23

J.P. Vernant critica la tendenza a porre il problema del simbolismo nei termini del linguaggio e ad affrontarlo secondo i modelli linguistici. Nell’ambito dell’applicazione di rigidi schematismi sintattici, una volta entrata in crisi la validità degli schemi della linguistica strutturale nello spiegare i processi e gli effetti simbolici, si è tentato di indagare ciò che la sintassi e la semantica non sembrava potessero fornire quali strumenti interpretativi. Il problema, sottolinea Vernant, consiste nella specificità dei diversi linguaggi. Cfr. M. DETIENNE, J.P. VERNANT, La cuisine du sacrifice en pays grec, Gallimard, Paris 1979 (trad. it. La cucina del sacrificio in terra greca, Boringhieri, Torino 1982) . Vedi anche l’importante articolo di J. P. VERNANT, Théorie générale du sacrifice et mise à mort dans la thusia grecque, in AA.VV., Le sacrifice dans l’antiquité, a cura J. RUDHARDT-O. REVERDIN, Fondation Hardt, Vandoeuvres-Genève 1981, pp. 1-39 ; M. DETIENNE, Dionysos mis à mort, Gallimard, Paris 1977 (trad. it. Dioniso e la pantera profumata, Laterza, Roma-Bari 1981). 24

Cfr. E.O.WILSON, Genes, Mind and Culture, pp.14-19. Secondo Wilson l’esistenza di certi comportamenti come il conformismo, l’aggressività o l’altruismo sarebbero l’espressione di singoli geni che entrerebbero in azione in funzione della sopravvivenza. Strategie “utili” di cui il DNA si servirebbe per una sua maggior diffusione. Gli individui, in quest’ottica, non svolgono alcuna funzione esistenziale se non quella di garantire la riproduzione dei geni. Differente è la posizione di Burkert: per lo studioso svizzero è vero che in alcune specie di animali sociali esistono dei comportamenti di massa stereotipati, ma questi sono modulati da rigidi e immutabili schemi istintuali ereditati legati al mantenimento della specie. L’uomo preistorico si è “sollevato” anche fisicamente mettendosi in piedi; ha potuto pensare e volgere lo sguardo verso l’alto, nonostante una realtà quotidiana tanto dura e concreta, solo attraverso il simbolo. L’uomo moderno non dovrebbe dimenticare che il fatto di essersi costituito come dinamica pensante deriva proprio da tale funzione. Il Pensiero simbolico risulta così essere il vero promotore dell’azione umana e non è escluso che, come ipotizzano alcuni studiosi delle discipline più varie: zoologi, biologi, antropologi ed etologi, ciascun passaggio evolutivo sia avvenuto (e avvenga) nella coscienza prima ancora di avvenire nella forma (Cfr. W. BURKERT, La creazione del Sacro, pp. 39-42).

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della loro civiltà, devono guardare oltre le strette prospettive storiche del passato e prendere in considerazione gli orizzonti scientifici sempre più ampi del nostro mondo. L’antropologia generale dovrà alla fine fondersi con la biologia.[...] Se per esempio, il linguaggio e il simbolismo del sacrificio in un determinato contesto culturale suscitano una varietà d’interpretazioni, nel sito rimangono ossa reali a dimostrare che avvenne un’uccisione reale. La religione è fondamentalmente realistica; e questa la mantiene vicina alla natura”19.

Burkert, con queste esplicite affermazioni, pone le basi per una decostruzione vera e propria della categoria sacrificale non solo da un punto di vista contenutistico ma soprattutto metodologico, ponendosi sul crinale dell’antropologia di D. Sperber20, che affermava che in chiave antropologica ogni generalizzazione del concetto di sacrificio comportava immediatamente una manipolazione indebita dell’idea stessa di sacrificio21, della sociobiologia di Wilson e Lumsden22 e della storia comparata di Vernant e Detienne23. Ne scaturisce, che per lo studio di quel tipico comportamento rituale dell’uomo definibile col termine sacrificio, le influenze dell’ambiente risultano essere indistricabili da quelle biologiche e genetiche24. Per Burkert, come per Wilson, diventa allora un nodo insolubile stabilire se, in questo comportamento rituale, esista un primato dell’ambiente sui geni o se siano piuttosto i geni a predisporre l’attivazione delle influenze che l’ambiente può esercitare sull’individuo e sui geni stessi25. Dai biologi, presi in esame da Burkert, la soluzione a questa impasse viene fornita dai modelli della complessità, che sottraggono l’individuo sia al determinismo dei geni sia a quello ambientale26. L’individuo, per questi modelli, è portatore di un repertorio di potenzialità che in modo attivo tende ad attuare nell’ambiente in cui vive e nei suoi comportamenti rituali legati al cibo27. Tuttavia stabilire in che misura la plasticità del comportamento umano sia condiziona25

26

Cfr.ivi, pp. 40ss. Cfr. per una sinossi E.O.WILSON, Genes, Mind and Culture, p.15. Cfr. ivi, p. 18.

27

Cfr. ivi, p. 22.

28

Cfr. ivi, pp. 24-26.

29

Cfr. W. BURKERT, La creazione del sacro, p. 31.

30

Cfr. ivi, p. 33.

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ta dai geni o dall’ambiente è impossibile. I modelli della complessità tendono a concepire l’essere umano come il risultato di una interazione tra natura e cultura anche se non è riducibile a nessuno di questi due poli concettuali. Siamo quindi in presenza di una coazione tra predisposizioni genetiche e opportunità ambientali28. Burkert, all’interno di questa impostazione, enuclea, nella Creazione del Sa cro, tre diversi modelli esplicativi: 1) il primo modello prevede un’ipotesi genetica secondo la quale l’espressione rituale e comportamentale legata al cibo è geneticamente determinata (Hamilton, 1964)29; 2) il secondo modello prevede un’ipotesi extra-genetica ed extra-biologica per cui l’ espressione rituale e comportamentale legata al cibo è acquisita e non è geneticamente controllata. Secondo questa ipotesi sono i processi di apprendimento e l’ambiente a determinare il comportamento ( Rappaport, 1971)30; 3) il terzo modello prevede, a livello rituale-comportamentale, un’ipotesi integrata, che comprende un rapporto di complementarità fra gene e cultura; per questo modello assume grande importanza la funzione dell’encefalo (Wilson-Lumsden, 1978)31. Se i primi due modelli, per Burkert, vivono ancora nella tensione dicotomica delineata dai termini natura e cultura, il terzo modello wilsoniano, sempre per lo studioso svizzero, potrebbe delineare un nuovo campo d’indagine per lo studio del comportamento sacrificale. È proprio sulla strutturazione di questo terzo modello che 31

Cfr. ivi, p. 36, passim.

32 Cfr. ivi, p 36. In questa pagina, Burkert riporta fedelmente la tesi di Lumsden e Wilson: cfr. LUMSDEN CH.- WILSON E.O., Promethean Fire. Reflections on the Origin of Mind, p. 20. 33

Il riferimento burkertiano è alla tesi di Liebermann: cfr. P. LIEBERMANN, On the Evolu tion of Human Language, in “Proc. of the 7th International Congress of Phonetic Science”, Sert, Leiden 1972, pp.258-272. 34

Cfr. LUMSDEN CH.- WILSON E.O., Promethean Fire. Reflections on the Origin of Mind, p.32.

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Burkert tesse la trama testuale e contenutistica de La Creazione del Sacro. I comportamenti rituali legati al nutrimento e la prassi sacrificale possono essere spiegati attraverso l’immagine del circuito, che comprende vari elementi e si chiude su se stesso. Si tratta del circuito coevolutivo geno-culturale e comprende vari livelli di osservazione: molecolare, cellulare, organica e popolazionale, dove il concetto di comportamento religioso o rituale comprende anche lo studio della cultura e delle dinamiche bio-sociali che vi sono alla base32. Infatti una corretta spiegazione del terzo modello dipende da una teoria coevolutiva, in cui la relazione gene-cultura permette di comprendere in termini scientifici il circuito di causa-effetto33. Tale circuito procede dai geni alla struttura del cervello fino alle leggi epigenetiche di sviluppo mentale, quindi presiede alla formazione della cultura per poi ritornare all’evoluzione dei geni attraverso l’azione della selezione naturale e di altri agenti evolutivi34. Pertanto per Burkert, una storia naturale del comportamento rituale della ricerca del cibo e quindi della prassi sacrificale ad essa interconnessa in base ad una metodologia sociobiologia, è legata all’ipotesi di modelli biologici compatibili con il passaggio dall’innato all’acquisito e quindi capaci di ristrutturazioni cui corrispondono funzioni nuove, non codificate dal gene. Ciò implica che ogni disposizione ad un determinato comportamento sacrificale non possa non essere compatibile con il codice genetico ma, a sua volta, non può essere contenuto come un datum35. Al contrario un vero è proprio datum, per Burkert, è l’evoluzione encefalica che, secondo il modello di Lumsden e Wilson, si presenterebbe come un mediatore bio-culturale per la comprensione di ogni comportamento. In altre parole, per Burkert, è necessario un’ipotesi integrata per lo studio del comportamento sacrificale, centrata sull’importanza dell’encefalo, ipotesi che permette di sottrarsi ad 35

Cfr. P. LIEBERMANN, On the Evolution of Human Language, p. 260.

36

Cfr. LUMSDEN CH.- WILSON E.O., Promethean Fire. Reflections on the Origin of Mind, p. 34. 37

Cfr. ivi, pp. 36-39.

38

Cfr. P. LIEBERMANN, On the Evolution of Human Language, pp. 262-263.

39

Cfr.LUMSDEN CH.- WILSON E.O., Promethean Fire. Reflections on the Origin of Mind, p. 38.

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una rigida visione deterministica del comportamento alimentare, sia di tipo genetico che culturale. Secondo questa ipotesi, la strutturazione dell’encefalo dipende dal codice genetico; l’organizzazione idonea alle funzioni innate rende possibile, attraverso la plasticità encefalica, il passaggio da comportamento rituale legato alla sfera alimentare al comportamento sacrificale36. Di riflesso in contrapposizione alla separazione natura-cultura, delineate dalle scienze antropologiche, si farebbe strada per l’analisi del comportamento sacrificale, l’ipotesi di una complementarità tra patrimonio genetico e plasticità dell’encefalo37. In questa ipotesi di lavoro è particolarmente importante, per lo studioso svizzero, il concetto di programma ge netico, la cui complessità pone le basi di un possibile grado di plasticità capace di garantire all’individuo un comportamento rituale relativamente “libero”38. Il modello integrato, infatti, implica il rifiuto di qualsivoglia concezione, che postuli l’esistenza nell’uomo di istinti innati, dal momento che il comportamento sacrificale dipende da un programma aperto che si manifesta in un’ interazione costante con l’ambiente39. Caratteristica di tale programma è proprio la non separazione tra “interno” ed “esterno”, cioè tra organismo ed ambiente. L’idea dell’ uomo religioso che ne deriva è quella di un essere plasticamente disposto in rapporto con l’ambiente extrasomatico, che include anche la storia compresa come un circuito feedback plastico, dalle multiple possibilità nei confronti dell’ambiente40. La presenza di un encefalo plastico e di circuiti encefalici plastici non pos-

40

Cfr. P. LIEBERMANN, On the Evolution of Human Language, pp. 264-266.

41

Cfr. ivi, p. 266.

42

Cfr. W. BURKERT,La creazione del sacro, cit. p. 42.

43

Cfr. ivi, p. 48. Necessariamente dobbiamo spiegare in sintesi questi due termini biologici. L’autonomia del vivente comporta due livelli inseparabili ma distinguibili: il livello fenotipico, che consiste nell’esistenza individuale inserita in un ambiente e il livello genotipico, che esprime un processo trans-individuale generante individui. Questi due livelli sono due livelli di organizzazione e ciò implica che l’autonomia del vivente sia un’autonomia di organizzazione a due livelli. Il genotipo è il patrimonio ereditario inserito nei geni che un individuo riceve dai suoi genitori, mentre il fenotipo corrisponde all’espressione dei tratti ereditari di un individuo, in funzione delle condizioni e delle circostanze della sua ontogenesi in un ambiente dato. Il fenotipo è, quindi, un’entità complessa, risultato delle interazioni tra eredità ed ambiente e perciò non può essere considerato una rappresentazione esatta

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sono prescindere da questo rapporto con l’ambiente-storico, le cui stimolazioni per l’encefalo cambiano da momento a momento41. Tuttavia lo stesso Burkert si rende conto della delicatezza metodologica di questa ipotesi integrata tanto da affermare: “La tesi della sociobiologia nel senso forte di “coevoluzione di geni e cultura” non può essere verificata nel caso della religione, in quanto tale evoluzione è antecedente a periodi osservabili e rimane troppo complessa per stabilire chiari rapporti tra i due elementi. La mancanza di prove non autorizza tuttavia a separare la cultura dalla biologia o la religione da sottostrutture formatesi nel corso dell’evoluzione della vita. Il carattere ibrido della religione- tra biologia e cultura- richiede un incontro interdisciplinare di metodi: la derivazione dovrebbe accompagnarsi all’interpretazione. In questo senso, si può tentare un’analisi di mondi religiosi in relazione al paesaggio di fondo”42.

Con queste affermazione, Burkert conduce ad un livello superiore di analisi la tesi sopra esposta. Infatti in questa affermazione burkertiana possiamo comprendere che i codici bio-genetici e codici religiosi, apparentemente inconciliabili, possono trovare una sintesi di lavoro nelle teorie coevolutive che rappresentano il tentativo di legare due poli concettuali (genotipo-fenotipo)43 altrimenti destinati alla separazione. Tale separazione, nel corso della storia, ha dato spesso vita ad un singolare duello tra ciò che si può definire un determinismo biologico ed un determinismo culturale-ambientale44. Il vivente viene interpretato come risultato di un processo auto-organizzatore la cui unità è costituita dall’unione geno-fenomenica.

del genotipo. Fanno parte del genotipo la memoria informazionale inserita nel DNA, il mantenimento delle invarianze ereditarie, la duplicazione riproduttrice, il dispositivo che genera le decisioni e le istruzioni per il macchinario cellulare. Sul versante fenotipico si hanno le attività con l’ambiente, gli scambi, il metabolismo, l’omeostasi, la reazione, il comportamento. Genotipo e fenotipo, non rappresentano due entità con esistenza autonoma e definita, ma vengono assunti come due poli concettuali, i quali presiedono alle attività del vivente (Cfr. E.O.WILSON, Genes, Mind and Culture, pp. 44 ss. ). 44

Cfr. LUMSDEN CH.- WILSON E.O., Promethean Fire. Reflections on the Origin of Mind, p. 44. 45

Cfr. ivi, p. 45.

46

Cfr. ivi, pp. 46-52.

53


L’inseparabilità di genotipo e fenotipo va concepita non soltanto nell’interpretazione e nell’interdipendenza, ma anche nella totalità dinamica di un processo ricorsivo in cui i prodotti organizzati sono necessari alla ricostruzione e alle operazioni di questa stessa organizzazione e quindi organizzanti. In questo processo l’organizzato (fenotipo) contribuisce necessariamente all’organizzazione del suo organizzatore (genotipo). L’insieme costituisce ciò che Wilson-Lumsden definiscono Auto-Geno-Feno-Organizzazione, nella quale il generato è necessario alla rigenerazione del generante45. Non si dovrà quindi concepire uno schema lineare del tipo Genotipo-Fenotipo, ma uno schema in cui il fenotipo nel corso del tempo e delle generazioni retroagisca sul genotipo. Per Burkert, inoltre, è necessario per lo studio dei codici bioreligiosi, ampliare tale schema includendovi il concetto di ambiente e costituendo una relazione Genotipo-Fenotipo-Ambiente, in cui ciascuno dei termini partecipi alla rigenerazione degli altri46. Il codice religioso quindi è interpretato come il prodotto di questa doppia dipendenza del genotipo nei confronti del fenotipo e del fenotipo nei confronti del genotipo. La dialettica di questo doppio sviluppo ne comporta un terzo, quello della società/ambiente47. Il modello coevolutivo rovescia da un punto di vista concettuale il rapporto innato/acquisito, dal momento che lo sviluppo di una disposizione ad acquisire è inseparabile dallo sviluppo di una organizzazione cerebrale innata. Geni e cultura per i modelli coevolutivi sono indisso47

Cfr. ivi, p. 52. I concetti di “adattamento all’ambiente”, di vantaggio “selettivo” o “riproduttivo” sono centrali nella Sociobiologia, che ha radici nella teoria dell’evoluzione per selezione naturale e nella moderna genetica evoluzionistica e di popolazione. Il concetto chiave è quello di “fitness” (idoneità )riproduttiva: la teoria darwiniana prevede che in una popolazione divengano più frequenti i caratteri che incrementano la fitness degli individui che li presentano: se un carattere conferisce un vantaggio all’individuo che lo porta, questo sarà avvantaggiato rispetto agli individui che ne sono privi ; tale vantaggio determinerà un aumento della probabilità di riprodursi e quindi di trasmettere alla generazione seguente un maggior numero di copie del proprio corredo genetico, tra cui anche i geni che sono alla base del carattere in questione. Il concetto di fitness si riferisce sempre a uno specifico ambiente: un carattere adattativo in una data situazione ecologica può essere disadattativo in una situazione differente . Il vantaggio derivante da un incremento della fitness può essere concettualizzato sia in termini di sopravvivenza dell’individuo sia, meglio, in termini riproduttivi. L’evoluzione di qualsiasi caratteristica di un organismo deve dunque essere considerata in termini del contributo che essa dà al pool genetico delle generazioni successive (Cfr. E.O.WILSON, Genes, Mind and Culture, pp. 46-48 ). 48

Cfr. W.BURKERT, La creazione del Sacro, pp. 36-42.

49

Cfr. ivi, p. 41.

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lubilmente connessi, perciò questo passaggio ci permette di sfuggire alle mutilazioni e agli equivoci che derivano dal ritenerli disgiunti. Per Burkert, lo schema proposto da J.Lumsden e E.O.Wilson (1984) ne Il Fuoco di Prometeo48 è esplicativo: 1) i geni impongono le leggi di sviluppo (leggi epigenetiche) mediante le quali viene costruita la mente; 2) la mente cresce assorbendo parte della cultura già esistente; 3) la cultura è ricreata di nuovo ad ogni generazione mediante la somma delle innovazioni e delle decisioni di tutti i membri della società; 4) alcuni individui possiedono leggi epigenetiche che li rendono in grado di sopravvivere e di riprodursi meglio di altri individui nella cultura contemporanea; 5) le leggi epigenetiche più competitive si diffondono nella popolazione, insieme ai geni che le codificano. In altre parole la popolazione si evolve geneticamente. La cultura è creata e modellata da processi biologici, mentre, contemporaneamente, i processi biologici sono alterati in risposta al mutamento culturale49. 50

Cfr. ivi, pp. 48-49.

51

Cfr. ivi, pp. 52-54. Per la sociobiologia, l’essenza di tutti i processi evolutivi spesso risiede nel fatto che quando una certa tipologia di informazione viene copiata vengono spesso introdotti degli errori su cui poi agisce un processo di tipo selettivo. Come Darwin fece notare per primo, se esistono delle creature che variano e si verifica una selezione tale per cui solo alcune di esse sopravvivono, e se questi sopravvissuti sono in grado di trasmettere questo quid che permette loro di sopravvivere alla discendenza, allora questa discedenza sarà maggiormente adattata a questo particolare ambiente in cui la selezione ha avuto luogo più di quanto non lo fossero i suoi progenitori. È l’inevitabilità di questo processo che lo rende uno strumento così potentemente esplicativo. In presenza dei tre requisiti - variazione, selezione, ereditarietà - si ha ipoteticamente l’evoluzione. (Cfr. R.DAWKINS, Il gene egoista, Zanichelli, Bologna 1979, pp. 15-18). 52

Cfr. W.BURKERT, La creazione del Sacro, nota p. 48. Il replicatore più familiare è il gene. Nei sistemi biologici, i geni sono “impacchettati” con modalità complesse all’interno di strutture più grandi quali gli organismi. Dawkins mette in contrasto i geni in quanto replicatori con i veicoli che li portano in giro e che incidono sulla loro sopravvivenza. La sele-

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Secondo le teorie coevolutive, la cultura diventa il modo primario dell’uomo per raggiungere il successo riproduttivo e i particolari sistemi socioculturali rappresentano il perfezionamento di un comportamento, di un pensiero e di un modo di sentire che contribuiscono alla sopravvivenza e alla riproduzione dei gruppi sociali50. Queste ipotesi ci mostrano come, per gran parte dei sociobiologi, le leggi epigenetiche selezionino comportamenti, che a loro volta retroagiscono sulle medesime rafforzandole, oppure eliminandole51. Siamo in presenza di un sistema di pensiero che prevede un processo ricorsivo che procede dal gene alla struttura encefalica, alla cultura e, quindi, la retroazione di questa sul primo. La cultura assume il potere di incidere sulla eredità genetica fino a trasformarla. Il maggior successo di certe modalità comportamentali rende possibile che le leggi epigenetiche sottostanti e i geni che le determinano si diffondano nella popolazione52. Secondo queste teorie, l’evoluzione genetica procede in modo tale che le future generazioni siano pronte a sviluppare quelle forme di pensiero e di comportamento che hanno assicurato il loro successo nel corso dell’ evoluzione. La culzione può avvenire sia a livello dell’organismo che presumibilmente anche ad altri livelli, ma il replicatore rappresenta l’informazione che viene copiata ragionevolmente intatta attraverso una serie di replicazioni successive, il beneficiario ultimo del processo evolutivo. Si noti che il concetto di replicatore non è limitato alla biologia. Ovunque ci sia un processo evolutivo allora ci sarà un replicatore. Questo è il principio di base di ciò che viene conosciuto come “darwinismo universale” cui i principi darwiniani vengono applicati a tutti i sistemi in grado di evolversi. Alcuni candidati al ruolo di sistemi evolutivi con i loro propri replicatori sono il sistema immunitario, lo sviluppo del sistema nervoso, l’apprendimento per tentativi ed errori. Il nuovo replicatore a cui si riferisce Burkert è il “meme”, termine coniato da Dawkins nel 1976. L’ intenzione di Dawkins era quella di illustrare i principi del darwinismo universale grazie alla proposta di un nuovo esempio di replicatore diverso dal gene. Egli dimostrò che ogni volta che delle capacità, delle abitudini o dei comportamenti vengono copiati da una persona all’altra per imitazione, è all’opera un nuovo replicatore. Afferma Dawkins: “Abbiamo bisogno di un nome per un nuovo replicatore, un sostantivo che comunichi l’idea di ‘unità di trasmissione culturale’, o di unità di imitazione. ‘Mimeme’ viene da un’appropriata radice greca, ma ciò che voglio è un monosillabo che suoni un po’ come ‘gene’. Spero che i miei amici classicisti mi perdoneranno se abbrevio mimeme con meme. ... Esempi di memi sono le melodie, le idee, le frasi, le mode nel vestire, i modi di modellare vasi o costruire archi. Come i geni si propagano nel pool genetico balzando di corpo in corpo attraverso spermatozoi o cellule uovo, così i memi si propagano nel pool memetico saltando di cervello in cervello attraverso un processo che, in senso lato, può essere chiamato imitazione” (Cfr. R.DAWKINS, Il gene egoista, pp. 15 ss ). 53

Cfr. W.BURKERT, La creazione del Sacro, pp. 47-48.

54

Cfr. ivi, p. 209. Le prime teorie che hanno spiegato le dimensioni del cervello hanno attribuito molta importanza alle pratiche della caccia e della ricerca del cibo, ma i tentativi di interpretazione non si sono fermati e teorie più recenti hanno enfatizzato la complessità e le esigenze dell’ambiente sociale. Gli scimpanzé vivono in complessi gruppi sociali ed è probabile che anche per i nostri antenati fosse così. La creazione e la rottura di alleanze, la

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tura, in questo modo, agirebbe come un rapido fattore di mutazione modificando nel corso delle generazioni le leggi epigenetiche53. Il superamento di uno schema determinista del tipo Gene-Comportamento e l’introduzione di un termine medio come l’encefalo fa sì che venga proposta una nozione di cultura descritta come aggregato di molecole “colonizzatrici” della mente, i cultur-geni capaci di colonizzare le menti, sia pure in modo non permanente (sono infatti soggetti all’estinzione per disuso o per il deteriorarsi della memoria)54. Nel circuito coevolutivo così attivato fra geni, mente e cultura, la diffusione di nuovi modelli culturali induce mutamenti nella distribuzione di frequenza dei geni nella popolazione e di conseguenza mutamenti nelle regole epigenetiche (comunque dotate di una componente genetica) che formano la mente degli organismi individuali55. Come si può osservare si passa dal livello cellulare al livello organico e dal livello dei processi epigenetici a quello popolazionale, il che significa che i processi epigenetici possono produrre un’acquisizione differenziale di tratti culturali. In altri termini: in una stessa popolazione, secondo le generazioni, si diffondono differenti tratti di cultura perché i processi epigenetici rendono più probabile che si trattengano certi tratti culturali e meno probabile che se ne fissino altri56. La trasmissione culturale copia quella genetica ed ha nel cultur-gene l’unità di memoria o imitazione dell’evoluzione culturale.

memorizzazione di “chi è chi” per conservare l’altruismo reciproco, e per la vittoria sugli altri, richiedono una buona memoria e una complessa e veloce capacità di prendere decisioni. L’“ipotesi machiavelliana” ritiene che l’inganno e l’intrigo nella vita sociale siano molto importanti e suggerisce che molto dell’intelligenza umana abbia un’origine sociale. Ci sono tre grosse differenze tra questa teoria e le precedenti. In primo luogo, questa teoria comporta un punto di svolta ben definito, l’avvento di una vera e propria imitazione che ha creato un nuovo replicatore. Da un lato ciò la distingue dalle altre teorie del cambiamento continuo come quelle fondate sul miglioramento delle tecniche di caccia e della raccolta del cibo o sull’importanza delle capacità sociali e dell’intelligenza. Dall’altro lato, essa è distinta da quelle che propongono un differente punto di svolta, come il modello dei tre stadi coevolutivi secondo cui il punto di svolta avvenne con il superamento da parte dei nostri antenati della “soglia simbolica”. L’enfasi sul simbolismo e sulla rappresentazione è necessaria nella teoria burkertiana. Che i comportamenti acquisiti attraverso l’imitazione - i memi - rappresentino o simbolizzino qualcosa è assolutamente importante per il loro ruolo di replicatori (Cfr. E.O.WILSON, Genes, Mind and Culture, pp. 54ss; Cfr. anche Cfr. R.DAWKINS, Il gene egoista, pp. 22 ss. ). 55

Cfr. W.BURKERT, La creazione del Sacro, p. 48.

56

Cfr. ivi, p. 48.

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I cultur-geni rappresentano una nuova classe di replicatori: i replicatori culturali, micro-tratti di cultura, che passano da una mente all’altra, riproducendosi uguali in ciascuna e dando origine a combinazioni infinitamente variabili. Essi, secondo queste teorie, si evolvono per sopravvivenza differenziale e al pari dei geni motivano i loro portatori a comportarsi in modo tale da accrescere le loro probabilità di sopravvivenza. La tesi di Burkert formulata in ne La creazione del Sacro è davvero complessa e articolata. Proprio per questo motivo, in base ai dati acquisiti dalle impostazioni di lavoro di Wilson, Lumsden, Dawkins e Liebermann, ipotesi integrate a loro volta da Burkert nelle coordinate antropologiche di Sperber, dobbiamo delineare, per una corret-

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Cfr. ivi, p. 49. In tal senso la funzione simbolica è parte integrante del corredo genetico umano. Altro fattore fondamentale nell’evoluzione è quello che riguarda la diminuzione dei comportamenti istintivi e la disgiunzione tra comportamento sessuale e funzione riproduttiva, con la conseguente nascita del nucleo familiare ed il rafforzamento delle attività di gruppo. A questa importante fase di transizione segue un’evoluzione verso attività psichiche e sociali più elevate cui corrisponde una modifica strutturale a livello cerebrale. Il cambiamento più rilevante è a carico della neocorteccia, sede della rappresentazione somatica, dell’area associativa e della funzione linguistica. Aumentano di volume tutte quelle regioni, concentrate nel telencefalo, le cui funzioni, mediate da una accresciuta possibilità di rapporto tra il “dentro” e il “fuori” (aumento fibre sensitive e motorie) , sono alla base del complesso repertorio comportamentale e dell’evoluzione coscienziale (Cfr. E.O.WILSON, Ge nes, Mind and Culture, pp. 54 ss. ). 58

Cfr. W. BURKERT, La creazione del Sacro, p. 27; cfr. anche E.O.WILSON, Genes, Mind and Culture, pp. 63 ss. Burkert riprende, nel suo bagaglio lessicale, un altro termine assai caro al modello sociobiologico: il termine fitness. La fitness globale è la somma della fitness personale di un individuo e di tutti gli effetti che essa provoca sulla fitness di tutti i suoi parenti: se un individuo esegue un’azione altruistica verso un fratello, la fitness globale sarà pari alla fitness dell’ individuo stesso (che viene ridotta dal comportamento altruistico) più l’incremento della fitness di quella parte della costituzione ereditaria che il fratello condivide con lui. Un individuo può quindi accrescere la propria fitness genetica non solo riproducendosi, ma anche favorendo il successo riproduttivo degli individui con cui condivide parte del patrimonio genetico. È possibile che il vantaggio genetico finale sia maggiore se l’individuo, anziché riprodursi, contribuisce alla sopravvivenza e alla riproduzione di molti parenti stretti: statisticamente, salvando tre fratelli o tre figli, favorirebbe infatti la trasmissione alla generazione seguente di un numero più elevato di copie identiche dei propri geni che riproducendosi; è dunque possibile accrescere la propria fitness indirettamente, favorendo la fitness dei parenti: questo meccanismo è definito “selezione di parentela” (“kin selection”). I concetti di fitness globale e di kinship selection hanno permesso di risolvere il problema della presenza di comportamenti altruistici che riducono la fitness dell’individuo che li esegue, accrescendo quella del beneficiario. I geni “altruisti” legati a questi comportamenti sono infatti sottoposti a intensa selezione negativa e dovrebbero essere eliminati dal pool genetico, mentre, in realtà, comportamenti di questo tipo sono relativamente frequenti negli animali: Gli individui che emettono segnali di allarme all’avvicinarsi di un pre-

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ta comprensione dei paragrafi seguenti, in maniera sintetica e lapidaria la tesi sacrificale di Burkert. Per lo studioso svizzero, il modulo sacrificale trova le sue radici nell’originario biologico e nel comportamento rituale-alimentare del mondo animale; l’evoluzione encefalica, che condusse alla fisionomia psico-attitudinale dell’homo sapiens, permise anche l’evoluzione del comportamento alimentare dei primati in un nuovo modello comportamentale in cui le funzioni simboliche57 posero le basi per una serie di fitness58 in cui vennero ricomprese e gestite l’ansia e l’aggressività: la prassi sacrificale. A sua volta la prassi sacrificale oltre ad interiorizzare l’istinto di sopravvivenza biologica, riorganizza le fit ness comportamentali originarie in un modello organizzativo eusosociale59 che conserva attraverso i tempi e le epoche, proprio attraverso la ritualità sacrificale, i legami profondissimi con la biologia stessa, con la vita nelle sue origini, con la dinamica “nascita-morte”, ineludibile del vivere stesso60.

datore si rendono più evidenti e corrono quindi un rischio personale. Nel comportamento parentale i genitori riducono le proprie possibilità di generare nuova prole e corrono dei rischi per accudire e proteggere i figli già nati. 59

Cfr. E.O.WILSON, Genes, Mind and Culture, pp. 64 ss. Il termine eusosocialità è fondamentale per la ricerca di Wilson. La sociobiologia ha preso le mosse dallo studio di alcune società di insetti. Vere società organizzate sono presenti in due soli ordini di insetti: Isotteri (termiti) e Imenotteri (formiche, api e vespe). Le complesse organizzazioni sociali di queste specie sono dette “eusociali”. L’eusocialità è definita come un’organizzazione sociale in cui: 1. Più individui della stessa specie cooperano nelle cure alla prole; 2. Vi è una divisione riproduttiva delle funzioni: individui sterili eseguono particolari compiti a vantaggio di altri individui fertili; 3. Le generazioni si sovrappongono almeno parzialmente e cooperano tra loro. 60

Cfr. W.BURKERT, La creazione del Sacro, p.54.

61

Cfr. W.BURKERT, Homo necans, pp. 39-42; Cfr anche IDEM, Ritual and Myth, University of California Press, Berkeley 1983, pp.12ss. 62

Cfr. ivi, cit. p.13.

59


1 L’HOMO

NECANS E L’ATTO DI UCCIDERE COME ORGANIZZAZIONE SOCIALE E

CULTUALE

In Homo necans: Interpretationen altgriechischer Opferriten und Mythen, Walter Burkert esplicita in maniera diretta il punto di partenza della sua riflessione: l’uomo si è evoluto fino a divenire un “cacciatore”, e un cacciatore di caccia grossa61. Questa affermazione, apparentemente semplice, tuttavia ricomprende in termini evoluzionistici non solo l’importante attitudine umana dell’uso di strumenti e di armi ma anche lo specifico comportamento della collaborazione sociale. Burkert afferma che al centro della prima società umana, della prima associazione di uomini, c’è l’uccisione compiuta insieme, l’uccisione della preda di caccia e con molta probabilità anche dell’uccisione di altri uomini; lo stesso Burkert evidenzia come non ci sia da meravigliarsi se il cannibalismo sembra fare la sua comparsa negli strati più antichi della civiltà umana poiché da sempre l’uomo ha continuato ad uccidere l’uomo nella stessa tipologia di caccia che utilizza per un’animale da preda62. Per Burkert d’altra parte, e con questa constatazione porta in avanti la sua tesi, si sono contemporaneamente sviluppate nell’anima umana anche le forze della “simpatia”. Il cacciatore può sentire, come “fratello”, l’animale che ucciderà, riconosce la morte in tutte le sue manifestazioni. I sentimenti di colpa e di rimorso si cristallizzano così in atti simbolici mediante i quali l’uomo cerca di ricostituire l’equilibrio distrutto, ponendo l’accento sulla continuità della vita attraverso la morte. In maniera analoga, egli restituisce ad un ordine soprannaturale almeno i resti dell’animale che ha dovuto uccidere. Da questo dipende la continuità della sua stessa cultura poiché per Burkert “tutti gli ordinamenti e le forme di potere della società umana si fondano su una violenza istituzionalizzata”63 e questo vale anche per la religione in cui incombe, affascinante, la violenza sangui-

63 Cfr. ivi, cit. p. 42. 64 Cfr. ivi, cit. p. 19. 65 Cfr. ivi, pp. 73 ss.

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naria in cui l’atto di devozione consiste essenzialmente nel versare sangue. Afferma in tal senso Burkert: “Non è nella pia condotta di vita, o nella preghiera, o nel canto o nella danza che il dio viene vissuto con la massima intensità bensì nel colpo d’ascia mortale, nel sangue che scorre, nelle cosce che arrostiscono’’64.

Non soprende riascoltare, in questa prima parte della tesi burkertiana, gli echi freudiani della scena delle origini. Infatti nel Burkert di Homo necans, fondamentalmente, la matrice è proprio quella del padre della psicanalisi. Accettando, come fa lo stesso Freud, una visione evoluzionistica dell’antropologia, Burkert necessariamente allarga la prospettiva spiegando il ruolo dell’Homo necans sia nella società sia nella struttura psichica risalendo a stadi anteriori dell’evoluzione della vita65. Il richiamo burkertiano è al famoso quarto saggio di Totem e Tabù (Il ritorno del totemismo nell’infanzia) dove 66

Cfr. S. FREUD, Totem e Tabù, in S. FREUD, Opere, Vol. VII, Boringhieri, Torino 1967-1980. Freud, nella sessualità e nella famiglia ha catalizzato il centro dei conflitti, a partire dai quali l’Io si costituisce; ma famiglia e sessualità sono anche il principio della formazione della civiltà e della sua storia. La civiltà non potrebbe infatti sussistere senza una costante sottrazione di energie sessuali e una loro canalizzazione verso mete che esulano dalla sessualità, a vantaggio della comunità. In questo consiste il processo definito da Freud sublimazione , da cui sono dipendenti il lavoro in generale e, in particolare, la creazione artistica e l’attività intellettuale; questa deviazione di corso dell’energia sessuale implica al tempo stesso sacrifici pulsionali, che possono dar luogo a situazioni di frustrazione , in cui un individuo avverte come precluso a se stesso l’appagamento delle proprie pulsioni. Freud perviene a queste conclusioni a partire dal 1908, convinto anche di un’analogia di sviluppo tra l’individuo e la specie umana. Questo tema egli lo affrontava in Totem e tabù (1912-1913), in cui provava a collegare i risultati dell’antropologia evoluzionistica con la psicoanalisi. Freud muoveva dalla nozione antropologica di totem, l’oggetto sacro, per lo più un animale, che viene considerato simbolo della tribù e contraddistingue l’appartenenza alla tribù stessa e una specie di legame di parentela fra tutti i membri di essa. Nel gruppo totemico vigono due tabù , cioè due divieti: non uccidere l’animale totemico, nè mangiarne la carne, e non contrarre matrimonio se non all’esterno del gruppo, ossia non con membri dello stesso totem (questa é detta regola dell’ esogamia ). Freud interpretava queste caratteristiche delle tribù primitive con mezzi psicoanalitici e, più precisamente, era del parere che l’animale totemico simbolizzasse la figura del padre e che i due tabù corrispondessero ai divieti derivati dal complesso di Edipo, il divieto di parricidio e il divieto di incesto. Questo avrebbe dato conferma del carattere universale del complesso di Edipo, che sarebbe stato tipico non solo di una determinata epoca o cultura, ma dell’umanità in toto . 67

Burkert sottolinea maggiormente queste ipotesi ne La creazione del Sacro, p. 112. Il carattere ripetitivo del sacrificio come pasto totemico, al quale corrispondono per Freud le pratiche ossessive dei nevrotici moderni, era diretto a controllare il senso di colpa. Da allora si era costituito un sistema di divieti, a partire dal divieto di incesto, per regolare i rapporti sociali: il complesso di Edipo sembrava così il fondamento della cultura sacrificale. In seguito, gli antropologi avrebbero però argomentato contro il carattere universale del complesso di Edipo ed in particolare B. Malinowski avrebbe mostrato che esso era assente in società melanesiane, caratterizzate da una discendenza matrilineare anzichè patrilineare e dal conferimento di autorità al fratello della madre, e non al padre.

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Freud tenta la ricostruzione storica del “crimine delle origini”66. Per Freud, il primo nucleo di convivenza umana sarebbe stato costituito da un’orda primitiva dominata da un padre dispotico e assolutista che teneva per sé tutte le donne. Un giorno i fratelli scacciati si riunirono, uccisero il padre e lo divorarono: uniti essi osarono compiere ciò che sarebbe stato impossibile al singolo. Il violento progenitore era stato contemporaneamente oggetto di odio in quanto controllava dispoticamente i loro istinti e oggetto di amore e ammirazione in quanto realizzava il modello cui essi stessi aspiravano. Divorandolo essi realizzarono l’identificazione con il padre: soddisfatto l’odio con l’uccisione del padre, l’ammirazione si fa sentire sotto forma di senso di colpa che coincide con il rimorso collettivo. Il pasto totemico sarebbe la ripetizione e la commemorazione di questa azione criminale che segnò l’inizio delle organizzazioni sociali ( ciò

68 Cfr. W. BURKERT, Homo necans, pp. 18-23. Per Burkert, il problema dell’origine della società non è solo il problema della creazione delle due proibizioni freudiane ma è il problema della creazione di istituzioni positive: la creazione del linguaggio, di norme del comportamento, delle religioni, dei significati. Freud, secondo la critica di Burkert, illustra la creazione delle due proibizioni maggiori - incesto e omicidio all’interno del clan o della tribù – solo attraverso la famosa storia dell’orda primitiva. Per Burkert questa scena delle origini, dal punto di vista etnologico, non regge perché postula proprio quello che deve spiegare: per esempio, la capacità di socializzazione dei fratelli che si coalizzano per uccidere il padre. Questo non è un atto biologico, ma è già un atto sociale, un atto che presuppone il linguaggio. Dunque la società, e la sua origine, sono già presupposte in quel che deve spiegare questa origine. 69

Cfr. ivi, cit. p. 21.

70

Cfr. ivi, cit. p. 64. Già Freud aveva tentato di avvalersi degli strumenti e dell’armamentario di concetti psicoanalitici per individuare le radici psicologiche della tendenza delle masse a subordinarsi in modo passivo ad un capo. I legami di un individuo con la massa e di questa con il capo venivano interpretati da Freud, come la regressione ad un’attività psichica primitiva, analoga a quella che egli era propensa ad attribuire all’orda primordiale, di cui aveva parlato in Totem e tabù . Nella massa, infatti, tutti sono uguali, ma questo dipende dal fatto che in essa si dilegua la personalità singola cosciente e non esistono volontà singole, ma si cerca di tradurre in atto soltanto una volontà collettiva. Questo rappresenta una regressione rispetto rispetto all’ Io autonomo, che é l’ultimo prodotto dello sviluppo psichico dell’individuo; nell’orda primordiale l’unico libero era il padre. Alla figura del padre corrisponde la figura del capo, a cui la massa avida di autorità si sottomette: esso é l’ideale della massa che domina l’Io, anzichè l’ideale dell’Io. Il capo non ha bisogno di amare nessuno, mentre la massa é tenuta unita dall’illusione che il capo ami in uguale e giusta misura tutti i singoli; a questo si aggiungono poi gli effetti portati dalla suggestione, che si accompagna all’idea del possesso di un potere misterioso. (Cfr. FREUD S., Totem und Ta bu, pp. 95-160).

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che il padre aveva proibito con la sua esistenza i figli se lo proibirono ora spontaneamente), delle restrizioni morali (morto il padre ognuno è rivale dell’altro e per convivere divenne necessario porre restrizioni alla sessualità erigendo il tabù dell’incesto) e della religione (per ridurre il senso di colpa i figli cominciarono ad offrire al morto, o meglio alla sua immagine “sacralizzata” nel totem, sacrifici e riti, da cui nascono i primi sistemi religiosi)67. Ogni religione nasce dunque dal complesso di Edipo come rimorso di una colpa e come volontà di espiare. L’opinione di Burkert è che Freud abbia descritto in maniera fondamentalmente corretta gli impulsi psichici che sono alla base del sacrificio, anche se rivela delle lacune di metodo quando suppone che questo delitto debba essersi storicamente verificato68. Di norma l’uomo si è nutrito di animali e fondamentalmente dietro ogni sacrificio sta - come possibilità, come terribile minaccia - il sacrificio umano poiché il cacciatore è pur sempre anche un guerriero guidato da impulsi di aggressione. Per questa ragione, per Burkert, il rito del sacrificio ha la sua forma complessa e la sua “commedia dell’innocenza”69. In tale showing e soprattutto nel “Partecipare alle cose sacre”, 71 Cfr. W.BURKERT, Homo necans, pp. 65 ss. L’influenza della cultura greca sul pensiero romano fu molto tarda e pertanto non si può pensare che il primo narratore della vicenda di Romolo e Remo si sia ispirato alla fonte greca. Si pensa così che gli autori latini e greci si siano ispirati ad un medesimo, molto più antico, complesso mitico e che lo stesso materiale sia stato rimescolato producendo numerose e diverse combinazioni. Infatti si può ritrovare lo stesso materiale mitico in mitologie molto più antiche e diffuso in un’area geografica e culturale ben più vasta. Plutarco, citato da Burkert, nelle sue “Vite parallele” descrive in tal modo la fondazione di Roma: “Romolo attaccò all’aratro il vomere di rame, accoppiando al giogo il toro e la vacca e tracciò un solco profondo a base delle mura. Questo solco costituì il circuito che doveva percorrere la muraglia chiamata poi dai latini Pomerio, cioè, post murum. Che questa cerimonia di fondazione avvenisse il 21 aprile è da tutti creduto ed i Romani festeggiano quel giorno con il nome di natività della patria”(Cfr. IDEM, Ritual and Mith, pp.42ss.). Burkert, per spiegare la fondazione di Roma, afferma che è proprio in Grecia che il rapporto mitico fra la presenza di un animale e la fondazione di una città appare del tutto dispiegato ed in forma più complessa di quanto non appaia nella leggenda romana. Quando Cadmo si recò dall’ oracolo di Delfi per sapere dove avrebbe dovuto fondare la città di Tebe, questi gli vatinò: “Scegli fra le vacche muggenti quella che ha su tutte e due i fianchi un disegno bianco di luna piena. Prendila per tua guida sulla strada che dovrai percorrere. Dove la vacca si inginocchierà e poserà per la prima volta la testa cornuta sul terreno, in quel punto dovrai sacrificarla alla terra immersa nell’oscurità. Dopo averla sacrificata fonda su una collina, la più alta, una città dalle larghe vie. Il paese dove la vacca guidò Cadmo fu chiamato allora “paese delle vacche”, la Beozia. La vacca si inginocchiò nei pressi di una sorgente e qui Cadmo fondò Tebe”. In questo mito, per Burkert, l’animale guida assume un ruolo assai importante, che non è solamente quello di guidare l’aratro che traccia il solco della futura città, ma indica il luogo dove sorgerà la città, vi conduce l’eroe fondatore e si inginocchia sul luogo destinato. La differenza con il mito romano consiste anche nel fatto che, in questo caso, Cadmo, dopo essere giunto sul luogo dove fonderà la città, sacrifica la vacca che ve l’ha condotto. Un altro rito, presentato da

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hierôn metèchein, la comunità è tenuta insieme dall’esperienza comune dell’emozione violenta e della colpa70. Tutti partecipano ma uno è alla testa di tutti, il sacrificante, thytèr, il pater familias o il re. A lui spetta la vitae necisque potestas ed egli dimostra questo potere nel sacrificio. In realtà si tratta soltanto di una necis potestas, ma mentre il sacerdote la esercita sembra affermare anche il suo potere sulla vita. Un’ambivalenza degna di nota si trova nella forma medio-passiva, già indoeuropea, thyesthai, “sacrificare per proprio interesse” o anche “essere sacrificato”: sacrificante e vittima sono in rapporto l’uno con l’altro, fino a divenire quasi una cosa sola. Nella misura in cui la vita si afferma, essa presuppone la morte. Così le feste sacrificali sono il mezzo tradizionale per superare tutti i tipi di crisi sociale. Pertanto, situazioni straordinarie di emergenza, fame, epidemie possono sempre di nuovo condurre al sacrificio umano. Più saldamente stabilite sono le usanze che hanno a che fare con le crisi cicliche della società, con la successione della nuova alla vecchia Burkert, che si celebrava in Grecia, ad Atene è quello che racconta lo scrittore greco Porfirio: “Mentre ad Atene si celebrava un sacrificio pubblico, un bue che tornava dai campi si avvicinò all’altare e prese a mangiare e a calpestare le libagioni che erano state preparate per il sacrificio. Immediatamente uno straniero di nome Diamo si scagliò contro il bue uccidendolo e vantandosi per averlo fatto. Ma gli dei punirono quel gesto mandando su Atene terribili carestie che decimarono la popolazione. Gli Ateniesi allora si rivolsero ad un oracolo che disse loro: “Le calamità finiranno se il bue ucciso risorgerà e il suo uccisore sarà punito”. Allora gli Ateniesi pensarono di ricostruire la scena per far finta che il bue non fosse morto. Andarono a cercare Diamo che, udite le parole della Pizia, si era allontanato da Atene spaventato e lo convinsero a ripetere la scena. Diomo accettò ma a patto di essere eletto cittadino di Atene, in modo che tutta la città fosse responsabile del suo gesto. Nel giorno stabilito, mentre si stava sacrificando agli dei, un bue perfettamente uguale al primo arrivò dalla campagna e iniziò a mangiare le libagioni e allora, Diomo, gli si scagliò contro e lo uccise. Il dio, quando vide il bue ancora vivo, si rallegrò molto, ma quando vide Diomo ucciderlo nuovamete si crucciò. Ma ormai gli Ateniesi avevano capito come ingannare il dio e, dopo un po’ di tempo, ripeterono la scena. E così, ogni anno, celebrarono questo rito e lo chiamarono bufonia che vuol dire uccisione del bue”. Questi due miti greci sembrano a prima vista molto diversi fra loro e soprattutto molto diversi dal motivo mitico del bue aratore, pur avendo dei motivi in comune per Burkert. Infatti in ambedue i casi l’animale viene sacrificato e ucciso, l’uccisione non è gradita agli dei e dovrà essere espiata. Fra i due miti vi è tuttavia una grande differenza: nel primo caso si tratta di una città da fondare, nell’altro caso si tratta di una città già florida e nobile per storia e potenza. 72 Cfr. IDEM, Structure and History in Greek Mythology and Ritual , University of California Press, Berkeley 1979, pp. 95 e ss (trad. it., Mito e rituale in Grecia. Struttura e storia, Mondadori, Milano 1992). Nella mitologia indo-europea si ritrovano sia l’animale che guida l’eroe fondatore nel luogo dove sorgerà la città, sia il rito del sacrificio periodico in città da tempo fondate. Risulta evidente che il motivo mitico dell’ animale guida è molto antico e diffuso in tutta l’ area indo-europea. Plutarco riferisce che Alessandro Magno incontrò più volte sulla sua strada un animale guida che lo salvò da una difficile situazione e del resto egli sapeva, come gli aveva vaticinato la Pizia, che un lupo lo avrebbe guidato verso la Persia.

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generazione: non c’è iniziazione senza sacrificio. Anche il ritorno dell’anno nuovo riceve il suo accento drammatico da sacrifici che celebrano la distruzione del vecchio a vantaggio del nuovo. Come esempio Burkert riporta la sua interpretazione della tradizione romana dell’uccisione di Romolo da parte dei primi senatori come un mito di fondazione della società romana, nel quale trova conservati importanti elementi mitici greci e proto-indoeuropei della creazione71. Infatti in questa presentazione Burkert si ispira al mito protoindoeuropeo della creazione che racconta come il primo sacerdote officiò il primo sacrificio nel quale le vittime erano il primo re, suo fra73

Cfr. ivi, cit. p. 100-112; cfr anche IDEM, The Orientalizing Revolution: Near Eastern Influence on Greek Culture in the Early Archaic Age, Harvard University Press, Cambridge 1992, pp. 27 ss. Nella mitologia greca troviamo almeno due storie molto simili a quella della fondazione di Roma. La prima riguarda la fondazione di Tebe. Euripide narra che Antiope, figlia del re di Tebe Nitteo, ebbe da Zeus due figli, due gemelli, Anfione e Zeto. Per paura dell’ira paterna Antiope dovette abbandonare i figli in una caverna del monte Citerone. Davanti alla caverna sgorgò miracolosamente una sorgente di limpida acqua e ben presto un pastore venne ad abbeverare il suo gregge. Accortosi dei due fanciulli il pastore li prese con sé e li educò come suoi figli. Intanto il padre di Antiope era morto e del regno si era impossessato suo fratello Lico, “il lupo”. Lico temeva naturalmente che i due figli di Antiope potessero rivendicare il trono di Tebe. Infatti quando i due fratelli divennero adulti il pastore raccontò loro la vera storia della loro nascita e i due non ebbero altra idea che quella di riconquistare il regno di Tebe. Erano però molto diversi nel carattere e spesso litigavano. Anfione amava la musica e le arti, Zeto la caccia e l’avventura. Dopo varie vicende riuscirono, con l’aiuto del padre Zeus a cacciare Lico dal trono e a rendere la città di Tebe, che era allora un misero villaggio, la città più potente della Grecia. Zeto, per la sua abilità nel combattere, divenne il condottiero della città, Anfione, con la sua musica divina, riuscì a smuovere le pietre che servirono per fortificare la città. La leggenda della fondazione di Tebe è molto simile alla leggenda della fondazione di Roma ma mentre nel racconto greco Lico, il lupo, è il principale avversario dei due gemelli, nella leggenda romana la lupa costituisce la loro salvezza.Molto più complessa è un’altra leggenda della mitologia greca in cui si narra della fondazione di Micene. È la storia di due gemelli Acrisio e Preto, così diversi tra di loro che cominciarono a litigare già nel ventre materno. Appena furono adulti lottarono per stabilire chi dei due dovesse regnare sulla loro città, Argo. Vinse Acrisio e Preto dovette emigrare in Licia, nella terra dei Lupi. La leggenda continua narrando che la figlia di Acrisio, Danae, fu sedotta da Zeus e concepì un figlio a cui fu dato nome Perseo. Quando Acrisio scoprì il nipote Perseo ebbe timore per il suo regno e lo fece rinchiudere in una piccola arca che abbandonò ai flutti del mare. Un pescatore di nome Dictis raccolse il bimbo e lo allevò come fosse suo figlio. Divenuto adulto Perseo venne a conoscenza della sua origine e decise di riconquistare il trono di Argo. Giunto nella città, dopo aver superato molti ostacoli, trovò che Arcisio era ben disposto nei suoi confronti ed anzi era pronto a consegnargli pacificamente il trono. Si organizzò dunque una grande festa della pace, ma durante la festa, giocando insieme ad altri giovani, Perseo scagliò con grande forza un disco verso il luogo dove si trovava Acrisio. Il disco roteò nell’aria, colpì e uccise il vecchio re. Pentito, Perseo si allontanò da Argo e fondò la città di Micene. Anche in questo racconto si ritrovano gli elementi della leggenda di Romolo e Remo, anche se, apparentemente, non compare la figura del lupo, ma Preto, cacciato da Acrisio, emigra in Licia nella terra dei lupi e la madre di Perseo si chiama Danae e “daos” era il nome frigio del lupo.

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tello e il primo bovino. Si noti che mentre il sacrificio perfetto comprende sia una vittima animale sia una vittima umana come nel primo sacrificio, l’offerta animale sarà poi per lo più considerata sufficiente. Il fatto del primo re comunque ci interessa in particolare perché, secondo il mito, dal suo corpo fu creato il mondo: non solo il mondo naturale (dagli occhi il sole, dal sangue il mare, dalla carne la terra) ma anche il mondo sociale (dalla testa la classe dei sacerdoti e dei regnanti, dal torace e dalle braccia quella dei guerrieri, dalle parti inferiori del suo corpo quella della gente comune). Secondo tale interpretazione Burkert mostra, quindi, come il sacrificio protoindoeuropeo dovesse essere inteso come una ripetizione rituale della creazione e pertanto sociogonia e cosmogonia insieme72. Durante tali riti le vittime, umane o animali, venivano uccise e smembrate e i loro corpi venivano poi suddivisi con la più grande cura e parti delle membra venivano distribuite agli uomini e mangiate; era il diverso valore e prestigio dei vari tagli di carne a rappresentare la posizione gerarchica dell’individuo o del gruppo. Tralasciando gli altri possibili significati Burkert si interessa solo del fatto che ad ogni sa74

Cfr. IDEM, Ritual and Mith, pp.46 ss. Come per il caso della fondazione di Roma da parte dei figli della lupa, Burkert distingue tre casi in cui ad un popolo poteva essere attribuita una parentela con il lupo: 1. gruppi di immigranti che combattevano per la conquista di nuove terre (lupi-guerrieri); 2. fuorilegge e profughi in cerca di asilo (lupi-fuggiaschi); 3. gli adolescenti durante il periodo di iniziazione e di preparazione, per diventare guerrieri (lupigiovani iniziati). Costoro dovevano lottare per vivere, dimorare lontano dagli altri uomini, spesso nascosti nelle selve o sui monti, dovevano, cioè, vivere “come lupi” e potevano contare sulla protezione di Zeus e di Apollo, ma di Zeus Lucoreio e di Apollo Liceo, protettore dei lupi. Frequente il caso appartenente alla terza categoria che attribuiva il nome di lupi ai giovani che iniziavano la guerra. Durante questo periodo i giovani dovevano dimostrare di essere degni di diventare guerrieri, superando le prove di coraggio, vivere lontano dalle comunità e aggirarsi da soli o in gruppi nelle selve, finché non erano giudicati degni di entrare a far parte della classe dei guerrieri. Presso gli antichi germani i guerrieri erano chiamati “ulfhednar”, uomini con la pelle di lupo. A Sparta il “couros”, il giovane nobile, votato al mestiere delle armi, doveva condurre per un anno una vita da lupo, si nascondeva sulle montagne e doveva evitare ogni contatto umano. Solo chi riusciva a sopravvivere era degno di diventare guerriero. L’origine della leggenda di Romolo e Remo appartiene alla seconda categoria indicata da Burkert, infatti, venivano chiamati fuorilegge i profughi in cerca di un asilo. In questo caso l’essere chiamati lupi non era un titolo di merito perché l’attributo non si riferiva alla forza del lupo o al suo coraggio, ma al suo essere bandito da ogni comunità e al doversi aggirare da solo fra i monti, da tutti scacciato e odiato. Romolo e Remo erano in questo caso i figli di una lupa perché come i lupi si aggiravano nelle selve, cacciati dagli uomini. In una prima fase della loro religione, i Romani consideravano sacro il bosco, il lu cos, la dimora del lupo e a metà febbraio festeggiavano i Lupercali, la festa di Fauno, il dio delle selve. 75

Cfr. ivi, pp. 100-112; cfr. anche IDEM, The Orientalizing Revolution, pp. 27 ss.

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crificio l’ordine sociale viene riconfermato, essendo il sacrificio così come altri rituali un meccanismo potentissimo volto alla conservazione della società: in questo caso ogni sacrificio proto-indoeuropeo viene dunque interpretato come la ripetizione della creazione ed il rinnovamento della società e del cosmo. Burkert inserisce questa tematica esaminando certe tradizioni romane73: nella citata uccisione di Romolo ha richiamato in particolare l’attenzione sulla distribuzione delle parti del corpo a ogni senatore, sottolineando che le famiglie patrizie fondate dai primi senatori avrebbero da allora in poi costituito il nerbo della società romana. Così finché Romolo, presentato secondo i caratteri dei personaggi mitici legati ai miti indoeuropeo74, visse, incarnò da solo la totalità romana, ma grazie alla sua morte, una morte quasi sacrificale caratterizzata dallo spargimento di sangue e dallo smembramento avvenuto in un tempio, quella totalità fu infranta e le varie famiglie assunsero i diversi ruoli come diverse membra dello stato75.

76

Cfr. K. LORENZ, L’aggressività. Edizione ampliata de Il cosiddetto male, Milano, Il saggiatore, 1979 (3ed.). Konrad Lorenz richiama due principi del darwinismo: il principio della mutazione dei geni, che poi determinano un comportamento diverso nell’animale, il principio del meccanismo di selezione, che è un risultato della concorrenza tra i vari organismi, con i loro vari organi e i loro vari comportamenti, che, come gli organi stessi, sono determinati dai geni. Per Burkert la differenza essenziale tra Lorenz e l’impostazione sociobiologia consiste nella risposta alla domanda: “che cosa viene selezionato?” (cfr. W.BURKERT, La creazione del Sacro, pp. 26-28). Lorenz, per esempio argomenta in questa maniera: se in una popolazione di animali ci sono degli animali con comportamento altruista che, per esempio, sono disposti a sacrificarsi per il loro gruppo, questa popolazione trae dei vantaggi rispetto ad altre popolazioni dove questo comportamento non esiste. Dunque questa popolazione è avvantaggiata; si può parlare di selezione di gruppo: l’entità della selezione è il gruppo, la popolazione. Lorenz afferma che se una popolazione ha un vantaggio nel riprodursi proprio perché conosce il comportamento altruistico, sarà avvantaggiata nel corso dell’evoluzione rispetto alla popolazione che non conosce questo comportamento. La sociobiologia dice che così non si può argomentare, perché la entità che è la base della selezione non è la popolazione, non è nemmeno, in un certo senso, il singolo organismo, ma è il gene. Se in una popolazione, argomenta la sociobiologia, accadono, attraverso delle mutazioni, dei cambiamenti nel comportamento di alcuni animali che, mettiamo, si sacrificano per la comunità, ed in questa popolazione ci sono altri animali che non si sacrificano per la comunità, succederà qualcosa di molto semplice: gli animali che si sacrificano spariranno, e gli animali che non si sacrificano rimarranno. E il fatto che la popolazione come tale avrebbe un vantaggio se ci fossero alcuni che si comportassero in maniera altruistica, non è rilevante, perché l’entità sulla quale avviene la selezione non è la popolazione, ma è il singolo individuo e cioè, in verità, i geni che determinano il comportamento. Per Richard Dawkins, nella sua opera “Il gene egoista”, gli organismi non sono nient’altro che estensioni del gene; il gene è, praticamente, l’atomo della biologia, è una entità che vuole replicarsi. Infatti i principi del darwinismo possono essere applicati già all’evoluzione prebiotica (Cfr. R. DAWKINS, Il gene egoista, pp. 24 ss).

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È lecito, tuttavia, affermare che la pre-comprensione da cui parte Burkert nell’analisi dei miti sia pur sempre la tesi di fondo di Homo Necans, dove Burkert individua implicitamente nel passaggio alla caccia il mutamento e l’organizzazione sociale delle culture. La distruttività umana non è un fenomeno accidentale e l’uomo, per non rimanerne vittima, non può che accettarla socializzandola tramite la sua ritualizzazione. Richiamandosi ad alcune osservazioni dell’etologia, Burkert constata che nelle popolazioni di cacciatori accessibili all’osservazione etnologica spicca chiaramente il senso di colpa nei confronti della vittima uccisa; tentativi di scusa e riparazione sono contenuti nel rituale. Già in Homo Necans, Burkert sentiva la necessità di dover creare un legame profondo con le scienze della natura e in particolar modo con gli studi etologici di Konrad Lorenz76 che aveva dimostrato che la società può edificarsi su impulsi di aggressione controllati dal rito. Così, proprio nelle società che conoscevano l’agricoltura e in cui la carne è una fonte di nutrimento secondaria, i riti cruenti sono divenuti il centro della religione. Se dalla presentazione della tesi burkertiana delineata nell’opera Homo necans e dall’analisi dei miti indoeuropei possiamo comprendere che l’esperienza fondamentale del sacro è individuabile nell’uccisione di vittime per cui l’homo religiosus agisce e prende consapevolezza di sè in quanto homo necans, ne La creazione del Sacro Burkert, sviluppando questa tesi, afferma che l’“azione” dell’uccidere e la prassi sacrificale sono comportamenti regolatori biologici dell’aggressività del gruppo: per questo il sacrificio è indubbiamente la forma più antica dell’azione religiosa come atto sociale. Afferma l’autore: “Un modo drastico di creare vincoli indimenticabili e infrangibili è commettere un crimine in comune, usando l’aggressività per vincere l’ansia. Una cosa speciale da fare nel manipolare l’ansia è versare sangue, come si richiede in molte forme di sacrificio e di purificazione. Il terrore non sviluppa capacità razionali, ma lascia i suoi segni. Così ci accostiamo alla “serietà” della religione dall’esperienza della paura. È innegabile che l’ansia è spesso evocata a convalida dei messaggi religiosi, e che essa ha le sue ripercussioni sulla sostanza della religione. Trasmettere la religione è trasmettere timore. “Primo il timore produsse nel mondo gli dei” scrive Stazio, pri -

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Cfr. W. BURKERT, La creazione del sacro, cit. p. 51.

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mis in orbe deos fecit timor”77.

Tuttavia, rispetto a Homo necans, l’atto dell’uccisione è inteso da Burkert sia come difesa alla minaccia di predatori sia come elemento nutrizionale. Infatti Burkert constata la stretta analogia tra certe cerimonie sacrificali e gli usi dei popoli cacciatori: la continuità tra caccia e rito sacrificale si manifesta con particolare insistenza negli elementi del rituale tanto da portare l’autore ad affermare: “La realtà biologica della minaccia di predatori si inserisce facilmente nella tradizione religiosa. Una preghiera greca chiede “che sia sviato il piede dell’inseguitore”. In India il mito brahmanico racconta l’origine della normale e più comune forma di sacrificio, la libagione di burro: Agni, il fuoco,una volta creato, si rivelò un mangiatore, e vagava per la terra divorando tutto ciò che incontrava. Allora Praj¯apati, il Signore della Prima creazione, produsse il burro per nutrire Agni, che così fu placato. Da allora, versare burro sulle fiamme all’altare divenne un rito sacro. Culto, in questo senso, significa evitare il pericolo consentendo a una perdita tollerabile, raggirando il tal modo il divoratore. “Libare il sacrificio fa tornare alla vita”, insegna la sapienza babilonese. Nel rituale greco c’è una categoria di sacrifici detti riti di stordimento (apotropaia). Jane Harrison vede nel rito apotropaico uno strato particolarmente antico e fondamentale della religione greca. Il rito consiste nel gettare o versare ad arcani inseguitori ciò che è loro dovuto; spesso la persona è ammonita di non voltarsi indietro nel lasciare il luogo del sacrificio. I demoni maligni, si dice, richiedono questi riti, per i quali, il termine latino corrispondente è averruncare. […] Stornare un danno inviando o meglio gettando (proesthai) o abbandonando le vittime a questi demoni: ecco uno schema che non potrebbe essere più esplicito”78

Dalla lettura diretta dei testi di Burkert possiamo affermare che il primo tentativo di spiegazione dei comportamenti rituali e sociali dell’homo necans, per Burkert, è in termini di altruismo nei casi di minaccia da parte di elementi estranei al gruppo e di selezione di gruppo: l’altruismo nei comportamenti legati alla ricerca di cibo porterebbe vantaggio al gruppo a cui esso appartiene. Tuttavia i concetti di fitness globale e di kinship selection permettono a Burkert di concludere che, in questi casi, l’altruismo è so-

78

Cfr. ivi, cit. pp. 66-67.

79

Cfr. ivi, cit. p. 191.

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lo apparente, fenotipico: a livello genotipico vi è un sostanziale “egoismo”. Proprio alla fine del capitolo intitolato Life for Life (Vita per Vita) sulla tematica del sacrificio e delle offerte, Burkert afferma: “Nella situazione del branco di fronte al carnivoro-le zebre assalite dai leoni-, quando un individuo viene ucciso, gli altri si sentono per qualche tempo al sicuro. Il programma istintivo sembra dire: prendi un altro, non me. L’antico programma è ancora operante negli esseri umani, che ancora fuggono da pericoli divoranti e ancora fanno sacrifici per placare e vincere l’ansia. In questa prospettiva il sacrificio è una struttura di senso che si è dimostrata quasi universalmente efficace nella storia della civiltà”79

Ovvero l’ azione è altruistica solo in apparenza se l’individuo che la emette aumenta la probabilità di incrementare la propria fitness globale: a livello genotipico i comportamenti altruistici accrescono dunque la fitness di chi li esegue, sono quindi “egoistici” e rappresentano un primo livello di comprensione del sacrificio. Perché compaia un comportamento altruistico è sufficiente un coefficiente di parentela minimo, purché superiore a quello medio della popolazione. Questa ipotesi spiega l’altruismo reciproco, (scambio di comportamenti altruistici da parte di individui non imparentati), che è comunque limitato ai casi in cui il costo per chi esegue l’atto altruistico è modesto mentre il vantaggio per chi ne beneficia è più sensibile. L’altruismo reciproco in senso stretto è il motore propulsivo del sacrificio come “offerta o scambio di doni” che a livello filogenetico è un coefficiente di alta integrazione sociale. “I rituali seguiti -afferma l’autore- per preparare e accompagnare l’immolazione e il banchetto-purificazione,offerte, pacificazione e riparazione- accrescono e insieme aiutano a vincere forme speciali di ansia [..]. L’integrazione degli dei nel pasto comune ha lo scopo di consolidare il gruppo stabilendo un’autorità superiore, e di assicurare continuità nella precaria trasmissione della vita. Due costruzioni caratterizzano i più antichi insediamenti neolitici e gli albori delle città, le prime forme di vita comunitaria che riuscirono a essere e a rimanere stabili per molte generazioni: il granaio e il luogo del sacrificio. Accumulazione e consumo devono bilanciarsi a vicenda. In certo modo ciò attua pur sempre la legge della reciprocità”80.

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Cfr. ivi, cit. p. 191.

70


Questa seconda tipologia sacrificale presuppone l’esistenza di una struttura sociale altamente organizzata in cui i singoli membri si riconoscano individualmente. Ma Burkert, sempre nel contesto sacrificale legato al fenomeno dello scambio dei doni, presenta una terza tipologia sacrificale legata al mondo sessuale e all’investimento parentale. Nel capitolo terzo, parlando dei racconti d’iniziazione, Burkert arriva ad asserire: “Riguardo ai miti, è interessante che lo stesso mito possa riferirsi sia all’iniziazione sia al sacrificio, a una maturazione naturale come alla più innaturale violenza. Nella Bibbia, Iefte, giudice d’Israele, è costretto a sacrificare sua figlia a causa di un voto fatto per ottenere vittoria in guerra. La figlia acconsente di buon grado, ma chiede come favore che le sia consentito, prima di morire, di errare per i monti insieme alla sue amiche per piangere la verginità che non perderà mai; e questa dice la Bibbia, è diventata in Israele una consuetudine. Ogni anno, per quattro giorni, le ragazze vanno per i monti a danzare e cantare in onore della figlia di Iefte, che non conobbe uomo. L’usanza ha chiaramente motivi e funzioni iniziatorie. Le ragazze lasciano la famiglia e passano qualche tempo en marge in un ambiente insolito e forse idilliaco, suonando tamburelli, danzando e facendo lamentazioni. Il rito è rispecchiato nel racconto di una morte sacrificale; quindi l’eroina mitica è presente in netto contrasto con quella che sarà l’esperienza normale della fanciulla. Come ulteriore esempio d’inversione possiamo indicare il lamento rituale delle famiglie a Trezene descritto da Euripide nell’Ippolito. Le fanciulle piangono e donano una ciocca di capelli in onore di Ippolito, il bellissimo giovane morto a causa dell’Ira di Afrodite senza aver conosciuto mai una donna. Morte, sessualità e nascita sono vicine l’una all’altra nel mondo della natura; il rito sacrificale e il mito fanno della morte una barriera, come per impedire quella transizione”81.

La teoria dell’investimento parentale è proposta da Burkert per ampliare le tematiche dei riti d’iniziazione e dei riti sacrificali. Ma seguiamo con attenzione i passaggi di Burkert per una presentazione attenta di questa terza tipologia legata al mondo sacrificale. Se l’investimento parentale può essere definito come un qualsiasi investimento effettuato da un genitore nei confronti di un determinato fi81

Cfr. ivi, cit. p. 191.

82

Cfr. ivi, p. 190.

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glio che ha l’effetto di accrescere la fitness di quest’ultimo (come sopravvivenza e come capacità riproduttiva), al prezzo della possibilità di investire in ulteriore prole, il sacrificio verrebbe a spezzare questa logica. Infatti c’è quasi un conflitto tra impostazione dell’investimento parentale e il mondo cultuale. Se in tutte le società note, tranne quelle rigidamente monogamiche, gli investimenti relativi del maschio e della femmina sono il fondamento della struttura sociale, il mondo rituale spezza questo investimento per l’individuo e per e gli individui appartenenti al gruppo82. Paradossalmente da questa, rilettura Burkert risale ad una comprensione sociobiologica di fondo dell’organizzazione sociale stabilita dai comportamenti rituali legati al cibo: al filtro di norme biologiche, che nell’uomo costituisce un programma riproduttivo, viene sovrapposto un filtro di norme cultuali, che impone di uccidere. Tale paradosso tuttavia è dato soprattutto da tre fattori che ci fanno comprendere come il mondo cultuale sacrificale sia proprio il regolatore delle norme biologiche iscritte nell’investimento parentale: lo spacing o mantenimento delle distanze tra gruppi culturali, il reperimento delle risorse necessarie alla sopravvivenza, il rafforzamento dell’identità tribale. Questi regolatori, iscritti nel modulo sacrificale, sono proprio le strutture funzionali per la conservazione,la riproduzione e l’investimento parentale. Partendo da questa intenzione, diventa possibile cogliere l’effettiva struttura della dialettica socio-cultuale. Contrariamente ai luoghi comuni, il comportamento rituale sacrificale è legato al comportamento aggressivo perché è indispensabile alla sopravvivenza (aggressività difensiva), all’evoluzione (aggressività adattativa), alla maturazione del singolo (aggressività esplorativa). Sottolineando la culturalità del modulo sacrificale, Burkert sfata semplicistiche dicotomie e mostra il sacrificio per quello che è: un comportamento innato ma funzionale e orientabile verso l’evoluzione e il mantenimento della specie.

83

Cfr. ivi, p. 112.

84

Cfr. ivi, p. 110.

85

Cfr. ivi, cit. p. 110.

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2 L’AGGRESSIVITÀ

E LA VIOLENZA COME ORDINAMENTO E FORMA DI POTERE

Proprio nel quarto capitolo de “ La Creazione del Sacro”, Walter Burkert tenta di associare la teoria del modulo cultuale sacrificale, con cui abbiamo concluso il paragrafo precedente, con l’evoluzione delle prime culture che istituirono la regalità al centro dell’organizzazione sociale83. Per Burkert, citando Schleiermacher, la consapevolezza del rango e della dipendenza sono elementi da sottolineare in tutte le religioni84. In tal senso afferma l’autore: “Dio significa potenza, dominio, e onori dovuti. Già in sumero un dio può essere invocato come “mio re”. In accadico, una parola usata comunemente per dire “signore” è belu: in particolare, questo è il titolo di Marduk, la massima divinità babilonese; il suo equivalente nel semitico occidentale è baal, titolo degli dèi locali in Siria e Palestina. Un dio può essere chiamato anche Signore dei Signori e Re dei Re, come il monarca stesso. In ebraico, Yahweh è re, naturalmente; il suo nome, connesso con la radice della parola “vita”, fu sostituito da adon, tradotto in greco con Kyrios, che divenne dominus in latino.[..] Una parola indoeuropea per indicare un signore potente, potis, appare nel miceneo-greco Poseidone.[..] Le parole greche posteriori per signore e sovrano furono accolte anche in contesti religiosi: despotes e despoina, basileus, persino tyrannos”85.

Burkert, ponendo questa analisi filologica, vuole dimostrare che le forme tradizionali di aggressività e dominio sono presenti nelle espressioni linguistiche del mondo religioso e nondimeno indicano sempre un qualche obbligo reciproco tra orante e divinità. Il Signore, onorato con la sottomissione, concede protezione e garantisce sicurezza. A sua volta, l’esistenza di un’autorità suprema limita i contrasti tra gli inferiori ed elimina gli antagonismi scaturiti dai

86

Cfr. K. LORENZ, Il cosiddetto male, pp. 314-315. Lorenz riporta nel suo testo un’ affermazione darwiniana: “Nessuna pressione selettiva si formò nella preistoria dell’umanità per generare meccanismi inibitori che evitassero l’uccisione di conspecifici finché, tutto d’un tratto, l’invenzione di armi artificiali portò lo squilibrio fra la capacità omicidiale e le inibizioni sociali”(cit. p. 314). 87 Cfr. D.G. FREEDMAN, Human Infancy: An Evolutionary Perspective, NewPress, Hillsdale 1974; IDEM, Human Sociobioloy: A holistic Approach, Mc Press, New York 1979; M.R.A. CHANCE-C.JOLLY, La vita sociale delle scimmie, Garzanti, Milano 1972; IDEM, Far la pace tra le scimmie, Rizzoli, Milano 1990); G.J.BAUDY, Exkommunication und Reintegration. Zur Genese und Kulturfunktion frühgriechischer Einstellung zum Tod, RecVerlag, Frankfurt 1980.

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comportamenti aggressivi. Affermiamo subito che per Burkert con il termine aggressività si intende il conflitto intra-specifico, diretto contro membri della stessa specie e non quello delle varie specie fra di loro (inter-specifico). La lotta per la sopravvivenza, e in questo Burkert cita Darwin, è appunto questa ed è la sola che faccia progredire l’evoluzione86. Tutti i grandi predatori hanno dovuto sviluppare, nel corso della filogenesi, una radicale inibizione a usare le loro potenti armi naturali contro membri della stessa specie, pena l’inevitabile estinzione. Un lupo, ad esempio, non ucciderà mai un altro lupo che gli offre la gola in segno di sottomissione, e basterebbe un semplice morso. Qui l’inibizione è fortissima e agisce sistematicamente. Nell’uomo invece essa è assente in quanto egli è privo di armi naturali con le quali possa, in un sol colpo, uccidere una grossa preda. Da qui il proliferare patologico di una violenza senza freni, esercitata mediante armi che colpiscono da lontano e in modo anonimo, rafforzata dall’evidente contrasto fra la nobiltà dei valori etici -come la tolleranza e il cosmopolitismo- e il permanere di istinti fondamentali e atavici come la difesa del proprio gruppo e del proprio territorio contro qualunque invasore ed ogni possibile minaccia. Da questa impostazione, l’analisi di Burkert si fa più interessante poiché lo studioso svizzero può affermare che una forte consapevolezza dell’autorità, entro un complesso sistema gerarchico, esiste già nelle società dei primati. Per la sua analisi, Burkert, si appoggia alla ricerca di Freedman, Chance-Jolly, De Wall e Baudy87 e dopo aver rielaborato le loro teorie afferma: “Gli esperimenti hanno dimostrato nelle scimmie capacità intellettuali più elevate del previsto, ma sembra che queste capacità siano investite per lo più nei continui giochi sociali di inferiorità e superiorità che si svolgono all’interno del gruppo. Nella “struttura dell’attenzione” esistente nei gruppi di primati, “l’attenzione dei subalterni è sempre rivolta a chi sta sopra di loro nella gerarchia”. Il libro Chimpanzee politics di Frans de Wall, basato su lunghi periodi di osservazione nello zoo di Amsterdam, contiene rivelazioni molto interessanti. Gli scimpanzé non solo si conoscono l’un l’altro personalmente, non solo capiscono chi è inferiore

88

Cfr. W. BURKERT, La creazione del sacro, cit. p. 113.

89

Cfr. ivi, p. 26.

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e chi superiore, ma usano strategie di lungo periodo imperniate sullo scambio di favori sociali e sulla formazione di alleanze per ottenere alla fine qualche vantaggio o promozione di status, o anche per abbattere l’individuo dominante”88.

In base a questi studi, la problematica del modello scientifico aggressività-dominio è incentrata, per Burkert, sulla questione ereditàambiente infatti affermare l’unica possibilità di un controllo da parte dei geni del comportamento umano poteva presupporre la riproposizione di un vecchio modello di darwinismo-sociale che considerava la continuità comportamentale intesa essenzialmente come continuità di meccanismi istintivi89. Invece, per Burkert, il carattere biogrammatico delle leggi eredità-ambiente reggono il funzionamento dei sistemi politici, i quali a suo parere traggono origine dal desiderio di ogni individuo di far sopravvivere il proprio patrimonio genetico e di assicurarsi così l’immortalità biologica. Per Burkert il potere e la dominanza sono mezzi per raggiungere questa immortalità, che passa attraverso il sesso e la procreazione. Sesso e potere sembrano così avere una comune origine bio-programmatica, che ci fa comprendere come la concorrenza sociale per l’auto-affermazione, il successo, il potere, il prestigio, siano la traduzione e l’organizzazione in modelli socio-culturali di bisogni genetici. L’ Aggressività e l’eliminazione dell’antagonismo sono le due costanti orizzontali comportamentali che vengono superate unicamente dalla designazione da parte del gruppo dei primati di un essere di “alto rango”, più aggressivo e violento degli altri, che crea una situazione di equilibrio nei giochi di gruppo, poiché viene riconosciuto per prestanza fisica o altro come leader, e che viene visualizzato in una dimensione verticale. Questo comportamento è attualmente osservabile negli scimpanzé e nei gorilla. Nel film Gorilla nella nebbia, sul lavoro di Dian Fossey tra i gorilla dell’Africa centrale, il modo di evitare danni da parte di un aggressivo gorilla dalla schiena argentata era 90

Cfr. ivi, p. 117.

91 Cfr. ivi, pp. 114-115; cfr. anche W.BURKERT, Literarische Texte und funtionaler Mythos Istar und Athrahasis, in AA.VV., Funktionen und Leistungen des Mythos: Drei Altorientali sche Beispiele, a cura di J. ASSMANN, Orbis Biblicus et Orientalis 48, Vandenhoeck & Rupprecht, Göttingen 1982, pp.63-82; IDEM, Glaube und Verhalten: Zeichengehalt und Wirkung smacht von Opferritualen, in AA.VV., Le Sacrifice dans l’Antiquité, a cura di J. RUDHARDT - O. REVERDIN, Entretiens sur l’Antiquite Classique 27, Vandoeuvres Geneve 1981, pp. 91-125. 92

Cfr. ivi, cit. p. 114-115.

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accovacciarsi a terra, toccare il suolo con la testa e soprattutto dal fissare l’animale90. Ma Burkert fa un ulteriore passo avanti nella presentazione della sua tesi. Seguendo Gerhard Baudy che evidenzia che l’habitat preumano ovvero gli alberi su cui vivevano i primati era il luogo di vita poiché gli alberi fornivano cibo e sicurezza, scampo dai predatori e anche luogo dove condurre i giochi di rango da un ramo all’altro, Burkert afferma come proprio dall’albero come habitat deriva l’immagine verti cale del mondo religioso91. Nel culto religioso l’immagine dell’albero è una costante fondamentale. Il sumero Gudea ha nel suo Tempio un “albero della vita” che tocca il cielo, nel poema accadico di Erra c’è un albero mesu con le radici fino agli inferi e la vetta in cielo e nella mitologia nordica il frassino Yggdrasil. La consapevolezza e i sentimenti di inferiorità e superiorità sull’asse verticale del mondo religioso fanno parte del nostro bagaglio biologico. Afferma l’autore: “Supremazia e sottomissione nella sfera religiosa esigono che la struttura dell’attenzione sia ridiretta verso un orientamento non evidente ma finale e assoluto. Caratteristica di un mondo mentale, codificata nel linguaggio, è che esso diventa indipendente dal tempo e dal luogo. Nel caso dei primati il sistema sociale rimane normalmente legato alla vicinanza fisica ed è visibile nello spazio: i membri di un insieme rimangono insieme, in famiglie e in gruppi. Per l’uomo i vincoli e rapporti di rango personali possono persistere lungamente, a distanza, senza questo stare insieme fisicamente. L’ordine si stabilizza senza un’interazione continua; riconosciamo non solo il “mio” e il “tuo”, ma anche la proprietà e gli interessi di terze persone non presenti al momento. Questa stabilità è garantita in definitiva dall’autorità invisibile del potere supremo. Possiamo descriverla come l’estrema conseguenza di tendenze ereditarie”92.

L’alleanza di religione e potere civile nel mondo antico è dichiarato apertamente. Il rilievo della famosa stele di Hammurabi mostra Shamash, il Dio del Sole, che dà le insegne regali ad Hammura bi, e nell’introduzione del codice stesso Hammurabi proclama che gli

93

Cfr. J.B. PRITCHARD, a cura di, Ancient Near Eastern Texts Relating to the Old Testa ment, 3° edizione con supplemento, Princeton University Press, Princeton 1969, pp. 164 ss; IDEM, Ancient Near East in Pictures Relating to the Old Testament, 2° edizione con supplemento, Princeton University Press, Princeton 1969, p. 246. 94

Cfr. W.BURKERT, La creazione del sacro, p. 121.

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dèi supremi Anu e Enlil, quando decretarono la supremazia di Mar duk e della sua Città Babilonia, “designarono me a promuovere il bene del popolo, me, Hammurabi, principe devoto e timorato di dio, a far trionfare la giustizia nella terra, ad annientare i malvagi e cattivi e a illuminare la terra (I,1-41)93. Per Burkert sottomissione e sovranità abitano la stessa struttura gerarchica: ma mentre nei gruppi pre-umani questo binomio si svolgeva in una continua dialettica di aggressione e ansia, nelle stabilizzate civiltà questo dualismo si è dissociato, producendo timore della divinità insieme a una costante attitudine ad attaccare e distruggere gli inferiori umani col consenso delle Forze Superiori e con una coscienza fornita dalla pietà religiosa. Che gli dèi debbano essere temuti è un presupposto indiscusso per la maggior parte delle religioni antiche. In accadico il concetto associato alla divinità è pu luhtu, timore e per Eschilo il timore di Zeus è il “timore supremo”94. Risposta funzionale a tale timore ovviamente non poteva che essere la sottomissione al fine di evitare o arrestare l’aggressione da parte della divinità e susseguentemente del sovrano: e questo sentimento di sottomissione non poteva non avere caratteri prettamente corporei e rituali. Afferma l’autore: “Per creare questa impressione, bisogna inchinarsi, inginocchiarsi, acquattarsi a terra, tutt’altro che gonfiarsi. Gli uomini hanno inventato cappelli e indumenti di vario genere per esaltare il pro-

95

Cfr. ivi, cit. p. 117.

96

Cfr. ivi, pp. 121-122.

97

Cfr. ivi,p. 122.

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prio aspetto; la sottomissione comporta lo spogliarsi di questi accessori. […] I segnali di piccolezza usati per frenare l’aggressione sono rafforzati da un comportamento infantile; gli animali sono normalmente programmati in modo da non attaccare i loro piccoli. Gli adulti umani ricorrono comunemente al pianto, ma una possibilità è anche tentare di sorridere. Un altro modo di stornare l’aggressione è stabilire un contatto personale: toccare l’individuo più forte se egli lo permette, accarezzargli il mento senza essere morsi, tendere almeno la mano aperta: tutti segni di dipendenza”95.

In sintesi, seguendo l’impostazione burkertiana e raccogliendo i dati di analisi, possiamo affermare che la sottomissione, di cui Burkert parla, può assumere forme drastiche e alcuni riti hanno assunto una forma drammatica, per contrastare l’azione aggressiva e violenta, proprio per il mantenimento dell’ordinamento sociale. Come esempi di una tale ipotesi di lavoro, Burkert presenta proprio alcuni riti sacrificali. In antichi riti, i sacerdoti castrati di dee semitiche e anatoliche, nel compiere i loro sacrifici, davano pubblico spettacolo con autoferimenti e autoflagellazioni. Plutarco narra di eunuchi travestiti che si offrivano, in scenari simili ai riti di sopra, per incontro omosessuali96. Burkert ammette che proprio il vestimento o il travestimento erano costanti nei rituali di sottomissione. Inoltre sottolinea come lo status fortemente ambivalente del sesso in tutte le società umane, con dinieghi, segretezze e repressioni di ogni sorta era una delle funzioni basilari della comunicazione del potere97; poiché il rito spinge all’imitazione, inducendo altri a sentire la necessità di un tale gioco, il fine fondamentale è quello di riportare l’uomo al binomio aggressione-violenza in cui è nata ogni società come bisogno e al contempo minaccia in cui l’individualità e la socialità si sono organizzate. 3 IL

SACRIFICIO NEL QUADRO DELLA TEORIA DEL DONO E DELLA SPARTIZIONE

DEL PASTO RITUALE

Come abbiamo visto nei paragrafi precedenti, la costituzione umana include programmi biologici riguardanti l’ansia, la fuga, l’aggressività più antichi della specie umana, ed essi contengono o generano almeno i rudimenti dello schema rituale, correlando minaccia, al98

Cfr. C. J. LUMSDEN- E.O. WILSON, Promethean Fire, p.20.

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larme, inseguimento, fuga, e l’espediente di abbandonare ciò di cui si può fare a meno. Lumsden e Wilson hanno fatto del trovare “ricordi che più facilmente tornano alla mente, emozioni che essi tendono ad evocare”, un criterio della “coevoluzione di geni e cultura”98. Possiamo affermare in maniera esplicita che tutte le tipologie sacrificali che abbiamo esposto nei paragrafi precedenti vengono catalizzate e sintetizzate da Burkert, nel capitolo sesto de La Creazione del Sacro, in un paradigma fondante e fondamentale: il paradigma della spartizione del cibo. Infatti per Burkert il sacrificio non solo comprende, ma consiste in larga misura nel banchetto sacrificale e per lo studioso svizzero è legittimo far derivare questa cerimonia dalla pratica della caccia, che rappresenta l’interesse per la vita e l’ansia di uccidere. Afferma l’autore: “Il banchetto costituisce il paradigma della spartizione del cibo, che

99

Cfr. W.BURKERT, La creazione del sacro, cit. p. 190; cfr. anche J.-P. VERNANT, Théorie générale du sacrifice et mise à mort dans la thusia grecque, pp. 1-39. Sulla stessa indagine cfr. W.BURKERT, Oriental and Greek Mythology. The Meeting of Parallels, in AA.VV., Inter pretations of Greek Mythology, a cura di J. BREMMER, Croom Helm, London 1987, pp. 1040; IDEM, Krieg, Sieg und die Olimpischen Götter der Griechen, in AA.VV., Religion zu Krieg und Frieden, a cura di F. STOLZ, Theologischer Verlag, Zurich 1986, pp.67-87 ; IDEM, Grie chische Religio, in AA.VV., Theologische Realenzyklopädie 14, a cura di G. MÜLLER, de Gruyter, Berlin 1985, pp.235-253; IDEM, Itinerant Diviners and Magicians: A Neglected Ele ment in Cultural Contacts, in AA.VV., The Greek Renaissance of the Eighth Century B.C.: Tra dition and Innovation, a cura di R. HÄGG, Aströms, Stockholm 1983, pp.115-119; IDEM, Craft versus Sect: The Problem of the Orphics and Pythagoreans, in AA.VV., Jewish and Ch ristian Self-Definition. Vol 3: Self-Definition in the Graeco-Roman World, a cura di B. F. MEYERE. P. SANDERS, Fortress, Philadelphia 1983, pp.183-189; IDEM, Seven Against Thebes: An Oral Tradition between Babylonian Magic and Greek Literature, in AA.VV., I poemi epici ra psodici non omerici e la tradizione orale. a cura di C. BRILLANTE, Antenore, Padova 1981, pp.29-48; IDEM, Neue Funde zur Orphik, in AA.VV.,Informationen zum altsprachlichen Un terricht, in “Arbeitsgemeinschaft Klassischer Philologen beim Landesschulrat für Steiermark” 2 (1980), pp.27-42; IDEM, Kynaithos, Polycrates, and the Homeric Hymn to Apollo, in AA.VV., Arktouros: Hellenic Studies Presented to Bernard M. W. Knox on the Occasion of His 65th Birthday, a cura di G. BOWERSOCK, de Gruyter, Berlin 1979, pp.53-62 ; IDEM ,Le Mythe de Geryon: Perspectives Préhistoriques et tradition rituelle, in AA.VV., Il Mito Gre co: Atti del Convegno Internazionale, a cura di B. GENTILI-G. PAIONI, Quaderni Urbinati di Cultura Classica, Rome 1977, pp. 273-283;IDEM, Opfertypen und Antike Gesellschafts struktur, in AA.VV., Der Religionswandel unserer Zeit im Spiegel der Religionswissenschaft, a cura di G. STEPHENSON, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1976, pp.168187; IDEM, Le laminette auree: da Orfeo a Lampone, in AA.VV., Orfismo in Magna Grecia, Atti del Quattordicesimo Convegno di Studi sulla Magna Grecia, Arte Tipografica, Napoli 1975, pp. 81-104.

100

Cfr. W. BURKERT, Homo necans, p. 91.

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a sua volta è una forma basilare di collaborazione fra gli esseri umani. Le scimmie normalmente non spartiscono il cibo, anche se esempi embrionali di spartizione sono stati osservati nelle rare occasioni di caccia degli scimpanzé. Per gli umani, invece, la spartizione del cibo diventò fondamentale proprio per l’importanza assunta dalla caccia nell’era paleolitica. La caccia era un’occupazione esclusivamente maschile, mentre gran parte del cibo era raccolto dalle donne. Entrambi i sessi facevano assegnamento su uno scambio reciproco, il che spiega anche la struttura della famiglia umana. Quindi abbiamo ancora a che fare con gli universalia delle civiltà umane. Sono in molti a partecipare dei risultati di una caccia fortunata, con scambio di doni sia all’interno della famiglia sia tra i membri di una tribù. Il riconoscimento dell’eguaglianza e del rango entra in gioco fin dall’inizio, in quanto le parti vengono distribuite nel debito ordine; questa è una caratteristica del banchetto sacrificale così nella società primitive come in quelle antiche. Alla spartizione della carne sono stati fatti risalire i concetti greci di moira e aisa, costitutivi dell’immagine greca del mondo. Queste parole significano semplicemente “parte, porzione, quota”, ma finirono per designare l’ordine appropriato in generale, l’ordine del mondo e il fato”99.

Già in Home Necans, Burkert aveva delineato il paradigma della spartizione del cibo portando, come esempio, miti che hanno a che fare con il rito sacrificale per sottolineare sia la reciproca sostituibilità di uomo e animale (l’animale muore in luogo di un essere umano), sia per sottolineare l’equivalenza di uomo e animale nella tipologia dello “scambi delle parti”. Tanti sono gli esempi riportati da Burkert: la leggenda cultuale dell’Artemide di Munichia, la leggenda di Neottolemo al focolare di Delfi, i resoconti di Fania di Efeso100. La vocazione fondamentale di studioso della cultura classica resta anche ne La Creazione del Sacro ma a sua volta le narrazioni dei miti hanno per Burkert una loro validità stabilendo omologie tra comportamento umano e comportamento di specie differenti e decifrando la funzione dei loro segnali all’interno del paradigma della spartizione rituale. Burkert, per la spiegazione del paradigma, insiste sul ruolo dell’aggressività per la preservazione dell’equilibrio vitale101,tanto che rivela somiglianze, analogie e anche continuità tra la sparti-

101

Cfr. K. LORENZ, Il cosiddetto male, pp. 56 ss.

102

Cfr. W. BURKERT, La creazione del sacro, p. 26

103

Cfr. W. BURKERT, La creazione del sacro p. 38.

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zione alimentare degli animali e dell’uomo. Egli descrive come l’aggressione praticata in comune e simboleggiata nello sfoggio aggressivo crei vincoli di amicizia e solidarietà e per ipotesi integrata spiega il fiorire della solidarietà religiosa proprio sulla base degli atti aggressivi della caccia102: il modello naturale, ovvero la spartizione degli elementi nutrizionali dopo una caccia, incomincia il suo percorso culturale proprio nella prassi di spartizione che diviene in questo ultimo caso mythos, ovvero realtà immemorabile non connessa più e unicamente alla narrazione della caccia. Proprio in questo processo e in questa evoluzione -a mio avviso- in Burkert vi è un passaggio metodologico fondamentale: dal mondo naturale e dal discorso sacrificale come linguaggio oggetto della simbolica primitiva al discorso rituale come meta-discorso, dove la prassi di spartizione stessa, e non più la caccia, diviene il luogo di catalizzazione della solidarietà del clan. E’ un momento metodologico importantissimo poiché Burkert, sottolineando e considerando unicamente le azioni del sacrificio pone l’accento sulla priorità del rito inteso come fitness preverbale. Ma seguiamo proprio le affermazioni dell’autore: “E’ probabile che la religione sia più antica del tipo di linguaggio che conosciamo, in quanto essa è legata al rituale, che implica schemi comportamentali fissi contrassegnati dall’esagerazione e dalla ripetizione e spesso caratterizzata da un’ossessiva serietà: schemi cospicuamente presenti anche nella maggior parte delle moderne varietà di comunicazione religiosa. In massima, il rituale rispecchia uno stadio pre-verbale di comunicazione, che va imparato con l’imitazione e compreso mediante la sua funzione. Esso sembra più primitivo e forse più antico del linguaggio parlato; ha chiaramente analogie nel comportamento degli animali. I riti non lasciano necessariamente tracce archeologiche, ma riti funebri sono bene at-

104

Cfr. ivi, pp. 36-38

105

Cfr. W. BURKERT, Homo necans, p.76; Cfr anche IDEM, Greek Tragedy and Sacrificial Ritual, in “Greek, Roman, and Byzantine Studies” 7 (1966), pp. 87-121; IDEM, Killing in Sa crifice. A Reply to Bruno Dumbrowski, in “Numen” 25 (1978), pp.77-79; IDEM, Von Ame nophis II zur Bogenprobe des Odysseus, in“Graz Beiträge” 1 (1973), pp. 69-78; IDEM, Buzy ge und Palladion: Gewalt und Gericht in altgriechischem Ritual, in “ Zeitschrift für Religions und Geistesgeschichte” 22 (1972), pp. 356-368. 106

Lo stesso Burkert ha lavorato molto sulla struttura dei miti e delle leggende seguendo la metodologia sequenziale di Vladimir Propp. La tesi dello strutturalista russo è che in ogni racconto ci sono funzioni o motifemos come elementi constanti; il numero delle funzioni è limitato, e la loro sequenza è fissa. Cfr. W. BURKERT, La Creazione del Sacro, pp. 83-88.

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A) Il canto corale comincia con il presagio delle due aquile che sbranano, o più precisamente letteralmente “sacrificano” (thyòmenoi, v. 137) una lepre pregna. B) A ciò corrisponde la richiesta della divinità che esige un “altro sacrifi- t ecio” (speudomena thysian heteran, v. 151). Agamennone diviene perciò “sacrificatore della propria figlia” (v. 224, cfr. v. 215). A1) Quando arriva la notizia della vittoria di Agamennone e del suo imminente ritorno Clitennestra prepara grandi sacrifici (vv. 83 sg., 261 sgg., 587 sgg.); brucia il fuoco sull’altare nell’orchestra. Nel palazzo greggi di pecore sono pronte “per l’uccisione”, pròs sphagàs (vv. 1056 sg.). B1) Tuttavia invece dell’odore del sacrificio Cassandra fiuta assassinio (vv. 1309 sg.), e invita al grido dell’ololygè (v. 1118) per l’inaudito thyma che avverrà qui: thyma lèusimon, il sacrificante merita la lapidazione. Un’altra vittima è Cassandra. Con piena consapevolezza ella va incontro al proprio annientamento: “come una vacca spinta dal dio tu avanzi con coraggio verso l’altare” (vv. 1297 sg.). A+B) Agamennone muore “come si uccide un bue alla mangiatoia” (Od. 4,535; 11,411); più esattamente: Clitennestra gli getta sopra una rete e lo abbatte con un’ascia, pèlekys, bouplèx (così infatti si ammazzava il toro). stati per l’uomo di Neanderthal, la cui capacità di parlare è invece dubbia”103.

Per Burkert la dimensione pre-verbale del rito è espressione della dimensione pre-verbale del sacro. Gli operatori semantici corrispondenti a certi atti fondamentali, come cacciare, uccidere, mangiare, sono messi in relazione gli uni con gli altri come atti pre-verbali che si coagulano per formare, nelle sue varie concretizzazioni i differenti comportamenti sacrificali, che sono visti da Burkert come atti religiosi per eccellenza104. Inoltre per Burkert, la religione, in quanto mantiene il suo aspetto costante di tradizione che si modifica ma che mai viene sostituita completamente dal nuovo, sembra uno straordinario fattore di stabilizzazione sociale nella realtà storica. In questo rapporto con la realtà sociale, tuttavia, la religione non assolve solo una semplice funzione di specchio riflettente: sembra piuttosto correlata a strati più profondi della convivenza umana e ai suoi pre-

107

Sull’argomento cfr. ivi, pp. 89-93.

82


supposti psichici. I modelli coevolutivi proposti da Burkert, offrono la possibilità di acquisire un metodo di indagine più adeguato per lo studio del comportamento sacrificale che proprio attraverso i modelli coevolutivi può essere interpretata come una storia di adattamento filogenetico all’ambiente, di rapporto dialettico tra sistemi biologici ed ambiente extrasomatico-storico. In maniera esemplificativa Burkert analizza questa sua tesi presentando in uno schema retroattivo che isola il Mito e sottolinea gli elementi prassici del sacrificio, il rito che sottende la narrazione dell’Agamennone di Eschilo105 che presentiamo, mantenendo le indicazioni di Burkert, nella seguente struttura106:

Questa strutturazione della sequenza è utile, a Burkert stesso, per porsi diversi interrogativi sul rapporto tra programmi biologici e catene semantiche107. Come spiegare l’interazione di natura e cultura in questo tipo di racconto? Come avviene che il programma biologico penetri il linguaggio e venga trasformato nella catena narrativa? Per Burkert il programma biologico funziona senza parole e senza molta riflessione cosciente: è qui che entra in scena il rito. L’azione rituale segue i cenni della natura, ma opera su di essi con la forza di una tradizione cosciente elaborata grazie a scelte non- naturali ma culturali. Per Burkert, abbiamo pochissime testimonianze sui riti di Argo, ma non è mera fantasia supporre che il mito della morte di Aga108

Cfr. W. BURKERT, Homer’s Anthropomorphism: Narrative and Ritual, in AA.VV., New Per spectives in Early Greek Art, a cura di D. BUITRON-OLIVER, National Gallery of Art, Washington 1991, pp. 81-91; IDEM, Homerstudien und Orient, in AA.VV., Zweihundert Jahre Homer-Forschung: Rückblick und Ausblick, a cura di J. LATACZ, Colloquia Raurica 2, Stuttgart 1991, pp. 155-181; IDEM, The Meaning and Function of the Temple in Classical Gree ce,in AA.VV., Temple in Society, a cura di M. V. FOX, Eisenbrauns, Winona Lake 1988, pp.27-47; IDEM, Sacrificio-sacrilegio: il Trickster fondatore, in AA.VV., Sacrificio e societa’ nel mondo antico, a cura di C. GROTTANELLI, Laterza, Bari 1988, pp.163-175; IDEM, Of ferings in Perspective: Surrender, Distribution, Exchange, in AA.VV., Gifts to the Gods: Pro ceedings of the Uppsala Symposium, 1985, a cura di T. LINDERS- G. NORDQUIST, Acta Universitatis Upsaliensis: Boreas 15, Uppsala Universitet, Uppsala 1987, pp.43-50.

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mennone fosse connesso con un rito sacrificale, con il sacrificio di un toro, bouphònia, così come la morte dei figli di Medea era collegata al sacrificio di una capra in occasione della festa di Akraia a Corinto108. Il toro come simbolo del re dovette avere un ruolo importante nel mondo minoico-miceneo come del resto in tutto il mondo antico. Fino ad epoca preistorica risalgono le testimonianze di tori e giovenche simboli di fecondità sia cosmica che terrena. L’idea del cielo che feconda la terra si incontra nel dio della pioggia indiano Indra, il “toro della terra”; ma tutto ciò che è sulla terra è nato dalla giovenca Prishni. Il dio sumerico delle tempeste, Enlil, aveva l’appellativo di “dio del corno”; la sua sposa era Gingilla “la grande giovenca”. Nella valle del Nilo la dea del cielo Hator era venerata sotto forma di mucca. Questo animale, in quanto rivolto sia al cielo che agli inferi, è divenuto simbolo della speranza in una sopravvivenza dopo la morte; i letti su cui si poggiava la bara durante le esequie erano sgominati come un corpo di mucca. Nel nuovo regno i re egiziani avevano spesso l’epiteto di “forte toro”, e nel bue Api si venerava la “grande anima” del dio Ptah. In tutta l’area del mediterraneo orientale i templi e gli altari venivano adornati con i teschi di buoi immolati e anche nella cultura minoico-micenea il simbolismo legato al toro si concentra nel santuario più importante della pianura argiva, l’He raion. Qui troviamo mandrie di vacche sacre. Nella presentazione dei miti minoico-micenei, inoltre, sia Zeus si presenta in forma di toro, sia Io in forma di vacca, sia il loro figlio Epafo ancora in forma di to ro-Apis, e inoltre Cleobi e Bitone in luogo dei buoi che tiravano il carro sacro. Più notevole di tutte è la figura di Argo Panoptes, che fu abbattuto da Hermes: si tratta evidentemente dell’eponimo della regio-

109

Cfr. W. BURKERT, Homo necans, p. 68; cfr. anche IDEM, Lydia Between East and We st or How to Date the Trojan War: A Study in Herodotus, in AA.VV., The Ages of Homer: A Tribute to Emily Townsend Vermeule, a cura di J. CARTER, University of Texas Press, Austin 1995, pp. 139-148; IDEM, Griechische Hymnoi, in AA.VV., Hymnen der Alten Welt im Kulturvergleich, a cura di W. BURKERT-F. STOLZ, Vandenhoeck & Rupprecht, Göttingen 1994, pp. 9-17; IDEM, Bacchic Teletai in the Hellenistic Age, in AA.VV., Masks of Dionysus. a cura di T. H. CARPENTER -C. A. FARAONE, Cornell University Press, Ithaca 1993, pp.259275; IDEM, Lescha-liskah: Sakrale Gastlichkeit zwischen Palästina und Griechenland, in AA.VV., Religionsgeschichtliche Beziehungen zwischen Kleinasien, Nordsyrien und dem Al ten Testament: Internationale Symposion Hamburg, 17-21 Marz 1990, a cura di B. JANOWSKI, Vandenhoeck & Rupprecht, Göttingen 1993, pp.19-38; IDEM, Athenian Cults and Fe stivals, in AA.VV., Cambridge Ancient History Vol. 5, Cambridge University Press, Cambridge 1992, pp. 245-267.

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ne e della città. Da quando aveva ucciso il toro, Argo si avvolgeva in una pelle bovina, e fu a sua volta abbattuto da Hermes, “l’uccisore di buoi”. Come si è compreso da tempo, l’epiteto Panoptes ne fa in realtà un “doppio” di Zeus. E si potrebbe comunque capire come la comunità di Argo possa essere sorta ed aver derivato il nome dal delitto originario dell’uccisione di Argo. Fu un “sacrificio meritevole di lapidazione”109. Pausania menziona “sacrifici segreti” presso l’Heraion (2,17,1): è possibile che questi precedessero la festa principale, gli Heraia, così come ad Atene le Bufonie cadevano nell’ultimo mese dell’anno, seguite dalla festa dell’anno nuovo, le Panatenee. Nella ripartizione “prometeica” e nel fascino della spartizione del cielo e della terra simbolizzata dalla carne del toro e nella prassi rituale si manifesta qualcosa di fondamentale dal momento che siamo chiaramente ricondotti all’origine del sacrificio come banchetto di spartizione delle carni. Non potremmo mai disporre di testimonianze dirette sulle credenze religiose di questa epoca. Su questa base per Burkert resterebbe pur sempre la questione dell’impossibilità per l’uomo di fornire sui suoi riti informazioni più illuminanti . Come sintesi del paragrafo possiamo affermare che Burkert non solo si domanda quale caso possa aver prodotto la particolare forma di sacrificio come spartizione rituale, ma si è chiesto anche perché questa ebbe successo e fu conservata. La risposta, per Burkert, va cercata nella sua funzione all’interno del sacrificio stesso. Possiamo sempre parlare di “idee” contenute nei riti, ma dobbiamo rinunciare al pregiudizio razionalistico secondo cui vi sarebbe stato in primo luogo un concetto o credenza, che con un passo ulteriore avrebbe portato ad un’azione. Il comportamento è primario, ma la forma che esso assume è in relazione con situazioni umane tipiche, e in quanto tale comprensibile; in questo modo i riti hanno senso proprio perché si ricollegano al mondo pre-verbale delle fitnesses biologiche. E in tal senso afferma l’autore:

110

Cfr. W. BURKERT, La creazione del sacro, cit. p. 25.

85


“Le religioni, passate e presenti, appaiono in speciali ambienti culturali, sociali e storici; possono essere elaborate come sistemi simbolici e interpretate in modi affascinanti. Ma questo fenomeno universale e preistorico non può essere spiegato con, né derivata da, un singolo sistema culturale. La ricerca delle origini della religione richiede una prospettiva più generale, travalicante le singole civiltà, che deve tener conto del vasto processo dell’evoluzione umana entro il più generale processo evolutivo della vita. Questo processo era ipostatizzato un tempo come Natura; possiamo continuare a usarla come metafora. In questo senso la storia delle religioni implica il problema della religione “naturale”. Gli studi culturali devono fondersi con l’antropologia generale, che si integra in definitiva nella biologia”110.

SINTESI DEI RISULTATI

Rielaborando le analisi e i notevoli contributi di repertorio documentale di Burkert e facendoli gravitare intorno al nucleo tematico di questa tesi, possiamo individuare due correnti di ricerca e di analisi significative per la nostra indagine. Nella prima tesi sacrificale, elaborata in Homo necans, Burkert inquadra la propria analisi in una prospettiva storico-antropologica secondo la quale la religione 86


conserva il “ricordo” del passato. All’origine, frutto dell’aggressività innata dell’uomo, si colloca un atto fondamentale: uccidere per mangiare, per cui l’uomo si definisce come homo necans. Ma a questo atto del primo cacciatore si accompagna immediatamente un senso di colpa: di qui nasce il valore sacro dell’atto di uccisione, che diventa rito e prende così la forma di un sacrificio con la precisa funzione di riparazione e di discolpa. Orientando questo primo contributo alla domanda di fondo della nostra tesi, espressa dal titolo stesso “Dal sacrificio come rito cruento al sacrificio come atto spirituale”, dobbiamo affermare, raccogliendo i dati di Burkert, che la prassi rituale sacrificale può essere considerata unicamente ed esclusivamente come una prassi cruenta di mediazione tra comportamento aggressivo legato all’evoluzione delle attitudini e dei comportamenti di mutamento tra i restanti primati e l’uomo e il comportamento sociale compensativo legato alla riparazione della colpa. Per questo motivo il sacrificio è un fondamentale mediatore comportamentale che riflette e a sua volta riorganizza i modelli culturali e sociali dell’uomo all’interno di una logica che, per praticità terminologica, definiamo “logica della violenza”. La seconda parte della tesi di Burkert è strettamente legata alla prima impostazione sacrificale anche se, da un punto di vista metodologico, l’ambito antropologico trova il suo immediato partner nelle scienze biologiche. Infatti l’esistenza di schemi biologici di azione, di reazione e comportamenti aggressivi attivati dalla pratica della caccia, sono inscritti profondamente nelle pratiche rituali sacrificali che offrono soluzione alle diverse situazioni di crisi nella vita dei primati, nelle strutture organizzate delle civiltà antiche ma anche ai nostri modelli comportamentali che abitano implicitamente ancora le valli profonde del paesaggio della vita. Il sacrificio segue a tal punto le orme biologiche, divenendone interprete, che rivela non tanto una interconnessione con la primordiale invenzione del linguaggio, portatore della grande possibilità di un mondo sacrificale condiviso nel pasto, ma soprattutto una peculiare dimensione pre-linguistica che permette a Burkert di evidenziare una priorità dell’azione rituale sacrificale sulla narrazione e sul mito. Per questo il sacrificio sussiste

111

Cfr. W. BURKERT, La creazione del sacro, cit. p. 194.

112

Cfr. ivi, cit. p. 79.

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a livello sub-culturale anche se nel corso dei tempi ha avuto codificazioni linguistiche orali o scritturistiche. È proprio questo livello fenotipico sub-culturale, espressione autonoma di un imprinting diretto di atteggiamenti parentali e di fit ness rivelanti un’eredità genetica consolidante, che permette al sacrificio di restare celato nella preistoria, e porta l’autore ad affermare: “ In conclusione dare agli dei o ai defunti può anche voler dire cedere a potenze minacciose. Questo ci riporta alla reazione premurosa di ansia, al gettar via cose di valore in una situazione di pericolo. Tale reazione deve essere più antica della spartizione del cibo, e precedere qualsiasi calcolo di eguaglianza o reciprocità. Tuttavia col dare si ottiene qualcosa: il panico può mutarsi in comportamento controllato e anche in una forma di manipolazione, con il calcolo del vantaggio previsto di contro a perdite evidenti ma limitate, specie quando una sostituzione diventa possibile. Se si può ottenere che il dio “ ti corra dietro come una cane”, il risultato è davvero notevole. In certo modo, le offerte religiose hanno questo intento. Una perdita calcolabile si muta in qualcosa di simile ad un’esca. L’ansia è mascherata da un sorriso esitante, e la speranza di futura stabilità permane”111.

Orientando questa seconda tesi sacrificale alla nostra indagine possiamo affermare che il sacrificio potrebbe essere considerato una struttura di senso che si è dimostrata e ancora si rivela efficace nella storia di quel cruento gioco, tra la vita e la morte, che segue l’evoluzione biologica e culturale di ogni civiltà. Questo antico programma per Burkert è ancora operante negli esseri umani che ancora “fuggono pericoli divoranti facendo sacrifici per placare e vincere l’ansia”112. Proprio da quest’ultima affermazione di Burkert nasce la nostra consapevolezza che la prassi sacrificale, sia da un punto di vista sociobiologico e sia antropologico, non possa svincolarsi 113

Cfr. ivi, p.27.

114

Cfr. ivi, p.28.

115

Cfr. ivi, p.54.

116

Cfr. W.BURKERT, La creazione del Sacro, p. 76.

117

Cfr. ivi, p. 41.

118

Cfr. W.BURKERT, La creazione del sacro, cit. pp. 8 ss.

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dai suoi elementi cruenti. Restando legati alle sue tesi e all’esegesi dei suoi testi, sarebbe impossibile constatare in Burkert una forma sacrificale che non sia cruenta e che non rimanga all’interno dell’orbita della relazione, antica ma sempre attuale, tra natura e cultu ra113. Le esperienze rituali sacrificali vivono nel tempo in questa continua e alterna dinamica. In qualunque modo si presenti, il riferimento agli eventi naturali, cui la società ricorre per comprendere la manifestazione della divinità e il mondo, costituisce una rete in cui viene gestito il mondo dei significanti, e grazie a cui la cultura del popolo non viene smarrita. Da questo punto di vista non si ha sacrificio senza cultura e non si ha cultura senza ricorrere sempre e inevitabilmente all’origine della vita: alla natura114. Tuttavia è vero anche l’inverso: la natura mantiene la sua forza semantica, la sua capacità di esprimere la realtà, perché è sedimentata nella cultura. Da questo punto di vista non si ha natura senza cultura. Il legame tra natura e cultura è così stretto tanto da essere l’elemento fondamentale della prassi sacrificale115. Fondamentalmente è proprio que-

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sta tesi che riecheggia nell’affermazione burkertiana di ”life for life”116. Bukert, costruendo la sua tesi sul sacrificio sul modello di Wilson-Lumsden, afferma che il modello bio-sociale consente di superare la disputa tra innatisti e acquisizionisti, proponendo una soluzione che è comune anche agli ultimi sviluppi del pensiero sociobiologico117. Burkert stesso insiste molto su questo legame, tanto che riportando le parole di Wilson, afferma che “la religione costituisce la più grande sfida alla sociobiologia umana”118. Senza una tale operazione metodologica il sacrificio resterebbe uno dei nodi incompleti per l’antropologia culturale e problematici per la storia comparata delle religioni. I due ambiti di ricerca, presi isolatamente, non sono in grado di definire la classe di fenomeni omogenei e distinti legati al termine sacrificio e le loro interpretazioni intorno al fenomeno “sacrificio” sono così varie da non permettere alcuna conclusione certa e da non concedere alcuna possibilità di raggiungimento di risultati condivisibili. In questa lettura del sacrificio, l’istinto della sopravvivenza biologica appare interiorizzato nei codici della religione che mantengono le culture e le mediazioni comportamentali all’interno di una tensione dove rituale e linguaggio, natura e cultura, si uniscono rafforzandosi a vicenda e formando le strutture mentali che determinano le nostre categorie e i nostri stili di vita.

119

Cfr. La letteratura sul sacrificio è enorme ed è stata già presentata nella introduzione Cfr. R. D. HECHT, Studies on Sacrifice: 1970-1980, pp. 253-258; e ancora I. STRENSKI, Between Theory and Speciality: Sacrifice in the 90s, pp.10-20. 120 R.GIRARD, Il sacrificio, Raffaello Cortina Editore, Milano 2004. 121

Cfr. ivi, cit. p. 11.

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CAPITOLO SECONDO

La genesi del sacrificio come rito cruento nella prospettiva antropologica di René Girard

AVVIO

METODOLOGICO: GLI ANTROPOLOGI CLASSICI E L’IDEA DI SACRIFICIO

A differenza dell’impostazione di studio di Walter Burkert, una rilettura dell’ipotesi sacrificale di René Girard impone, per il profondo legame metodologico dell’antropologo francese con le metodologie dell’antropologia culturale, un doveroso richiamo agli studi classici dei padri dell’antropologia che, con un’attenzione particolare nello studio del rituale o rituali sacrificali, sono il fondamento d’ogni ricerca, d’ogni repertorio bibliografico e d’ogni studio sul tema del sacrificio affrontato sul versante prettamente antropologico119. Lo stesso Girard nella premessa del suo ultimo libro dal titolo “il Sacrifi cio”120, afferma in tal senso: “Dopo qualche esitazione, tra la fine dello XIX e l’inizio dello XX secolo, l’antropologia si è certamente orientata verso lo studio delle singole culture. I ricercatori hanno cominciato a prendere molto sul serio le differenze culturali senza rinunciare, d’altro canto, alle grandi questioni teoriche che presuppongono l’unità dell’uomo. Si supponeva che nei culti arcaici, tutti apparentemente diversi gli uni dagli altri, si nascondesse un enigma del religioso in quanto tale, la cui soluzione non sarebbe tardata ad arrivare. Tutti si sono trovati più o meno d’accordo nel riconoscere nei sacrifici cruenti il cuore di quest’enigma”121.

Queste affermazioni di Girard ci permettono d’ intravedere la prospettiva prettamente antropologica in cui il ricercatore francese si muove e orienta il suo pensiero a differenze della metodologia in-

122

Cfr. D. SPERBER, Le savoir des anthropologues, Hermann, Paris 1982 (trad. it., Il sa pere degli antropologi, Feltrinelli, Milano 1984). Nell’edizione italiana si veda in particolare pp. 41-52, dove entra in crisi la categoria stessa di sacrificio. Queste tesi erano state anticipate peraltro da T. P. VAN BAAREN, Theological Speculations on Sacrifice, in ‘Numen’ 11(1964), pp. 1-12.

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terdisciplinare bio-antropologica burkertiana. Infatti Girard, vivendo in maniera esplicita e inscrivendo la propria indagine nell’ambito dell’antropologia funzionale si ricollega nelle sue ipotesi sacrificali proprio ai criteri guida originali dell’antropologia che, ai suoi inizi, assunse un’enorme importanza per lo studio del sacrificio sia per alcune determinate istanze di ricerca sui fenomeni religiosi sia per il consistente numero di studi di sociologi e storici delle religioni che più o meno legittimamente furono ascritti agli indirizzi antropologici122. Di riflesso e necessariamente, per analizzare e comprendere pienamente la tesi sacrificale di Girard, dobbiamo enucleare e specificare le ricerche fondamentali degli antropologi che non solo fondarono come scienza l’antropologia culturale ma dettarono anche i contenuti e i metodi per un’attenta ricerca sul sacrificio. A proposito del contributo dei cosiddetti padri dell’antropologia culturale sul tema sacrificale si deve subito affermare che, pur nella diversità e spesso inconciliabilità delle prospettive, l’approccio antropologico suggerì un’interessante metodologia d’indagine che si volse ai fenomeni religiosi sacrificali studiandoli nel loro diretto e costante rapporto vitale con tutti gli altri elementi che formano un organismo culturale o sociale. Emerse, cioè, in modo indubbiamente positivo la consapevolezza che l’indagine sul “sacrificio” non poteva rinunciare all’esigenza d’analisi nel quadro umano più vasto e com123

Oggi l’antropologia si muove prevalentemente nelle fasi funzionale, strutturale, simbolica, spesso con rapporti fra le diverse dimensioni. I tre indirizzi, pur partendo dalla precomprensione comune che la religione vada studiata in rapporto alla cultura, si differenziano poi notevolmente: l’ipotesi funzionale, per la quale la religione serve alla società; l’ipotesi strutturale, per la quale la religione va decodificata, in quanto è un tipo di codificazione inconscia; l’ipotesi simbolica, che tiene conto di un minimum religioso. Chiaramente non è qui possibile elencare nelle loro peculiarità le differenti interpretazioni antropologiche del religioso: basti dire che fra loro il funzionalismo antropologico, che si presenta con una grande varietà di differenziazioni, è la corrente che oggi meglio rappresenta l’antropologia ed è la più disposta a studiare il rituale come un’azione simbolica di estrema importanza all’interno della società. Il suo campo di ricerca preferenziale è dato quindi dalla religione nella sua globalità di manifestazioni, organizzazioni, simboli a livello sociale, ma in cui particolare rilievo assumono i riti come azioni simboliche con rilevanza sociale. 124

Cfr. W. ROBERTSON SMITH, Lectures on the Religion of the Semites: the Fundamental Institutions, Black, Edinburgh 18942, soprattutto alle pp. 269 e ss. , dove, l’autore, legandosi all’idea del sacrificio totemico, individuava nel sacrificio l’idea di “comunione” come compartecipazione del dio e degli offerenti allo stesso pasto in ordine a un incremento di forza e di potenza. 125

Cfr. ivi, cit.,p. 240.

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pleto che costantemente esprimono il rito e il mito. Inoltre fu positiva la specializzazione dell’antropologia nello studio dei rituali sacrificali in relazione al loro valore per l’individuo e la società in quanto l’antropologia culturale, ponendosi come studio dei costumi ed in generale dell’ethos dei popoli, ebbe una sua concretezza che altre scienze umane non possedevano ed inoltre pose in sinossi il rituale sacrificale con il comportamento rituale, che appare anzitutto un’azione o un complesso d’azioni di carattere simbolico che - almeno ad una prima indagine - non è dissociabile dal contesto socio-culturale in cui si manifesta. E’ evidente che la polivalenza semantica dei rituali sacrificali fu la causa di molte difficoltà sia per una definizione e classificazione del sacrificio in antropologia culturale sia perché accadde che interpretazioni a volte contrastanti, o comunque diverse, apparissero tutte plausibili123. Nell’analisi del fenomeno religioso del sacrificio, i padri dell’antropologia culturale s’imbatterono continuamente in due fondamentali componenti, il mito e il rito, delle quali era importante riuscire a conoscere il rapporto che le legava. Due erano le tesi che gli studiosi classici contrapponevano: una riconduce il rituale al mito, l’altra riconduce il mito al rituale. L’ipotesi storico-genetica, secondo cui “il mito dipende dal rito” o, più ampiamente, i miti sono intimamente associati ai rituali, ove si tende chiaramente a privilegiare il rito nei confronti del mito, ha come esponente Robertson Smith124 che con uno stile minuziosamente descrittivo e servendosi delle fonti monumentarie cuneiformi dei popoli degli assiri e babilonesi, delle fonti bibliche e delle fonti letterarie greche, affermò che presso i popoli semiti il legame di sangue era l’elemento costitutivo della creazione del clan, del sistema politico e del sistema cultuale: la stessa concezione di legame di sangue univa la divinità con il popolo per cui il sacrificio era necessariamente un at to di comunione con gli dei125. L’autore prova ciò ponendo in sinossi i

126

Cfr. ivi, cit. pp. 269-289.

127

Cfr. ivi, cit. pp. 318-319 (nota 2)

128

Cfr. J.G. FRAZER, Il ramo d’oro, Boringhieri, Torino 19882, pp. 344 e ss.

129 Cfr. A.N.TERRIN, Il pasto sacrificale nella storia comparata delle religioni, in S.UBBIALI (ed.), Il sacrificio evento e rito, Edizioni Messaggero, Padova 1998, cit. p. 298.

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costumi degli arabi con il costume sacrificale semitico: sia l’uccisione del cammello presso gli arabi di cui parla Nilus, sia l’uccisione di un membro del clan, erano atti del clan, ossia richiedevano il consenso di tutto il clan. Questi atti “scrupolosi”-secondo la definizione dell’autore- sono evidenti anche nei popoli semiti per i quali ogni uccisione avveniva solo per i riti sacrificali che erano una prassi che creava un “legame” di parentela sacrale con la vittima126. Gli ebrei tuttavia si differenziavano dagli altri popoli semiti poiché la loro re˘ elamim era la malazione con JHWH era di tipo etico127. Lo zebah S teria del sacrificio pubblico del clan e il valore profondo del sacrificio non consisteva nella morte della vittima ma nella comunione con la sua vita attraverso il pasto. Questa prassi delinea, per Robertson Smith, la comprensione del sacrificio come atto di comunione tra la comunità e il dio. All’interno di questa tesi, Robertson Smith distingue (in un primo momento marginalmente e in seguito sistematicamente) tra il mangiare davanti a Dio e insieme al dio che implica una comunione non mistica o “convivio”, e un mangiare dio stesso che implica una comunione a livello mistico (communio). Già Frazer128 aveva avuto un’intuizione simile nel Ramo d’oro: infatti in Svezia la contadina impastava con il grano dell’ultimo covone un pane a forma di bambina. Tutti i membri della famiglia si cibavano poi di questo pane considerato lo spirito, il “dio del grano”. Presso gli Ainu del Giappone - ancora per testimonianza di Frazer - era “scelto del miglio che poi era trasformato in pane”129. Quel pane era pregato, adorato e alla fine era consumato come vera divinità. In base al repertorio di Frazer, Robertson Smith individua, pertanto, l’evoluzione del rituale del sacri ficio di comunione in tre momenti: L’Istituzione dell’olocausto: il sacrificio in cui il sangue non era bevuto ma versato sull’altare, è l’indicatore di una frattura parenterale della dimensione conviviale 130

Cfr. J. ROBERTSON SMITH, The religion of the Semites,pp. 372-390.409.

131

Cfr. ivi, cit. pp. 397-398.

132

Cfr. ivi, cit. pp. 318-319.

133

Cfr. E. B. TYLOR, The Primitive Culture, 2 voll. London University Press, London 19135. L’autore proponeva una teoria del sacrificio sulla scorta di un “dono interessato” del tipo do ut des.

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tra animali-uomini-dei130. Il sacrificio come dono fatto al dio: questo implica il concetto di proprietà e quindi lo stato post-nomadico e la fase di sedentarizzazione.131 La fase di spiritualizzazione del culto israelita: questa pone la dimensione simbolica del sacrificio per cui il vero valore dell’offerta non consisteva nella prassi ma nell’omaggio del fedele132. Dalla sistematizzazione di Robertson-Smith riusciamo a capire il suo notevole sforzo e la portata del suo pensiero rispetto alla tesi di Tylor133, che sullo sfondo della concezione animistica delle culture primitive, diede la definizione di gift-sacrifice, ovvero del sacrificio come dono agli spiriti. Il sacrificio aveva lo scopo di catturare il favore degli spiriti e di allontanare la loro ostilità. Tuttavia il contributo di Tylor spostò notevolmente l’impostazione metodologica con cui la precedente antropologia sociale studiava la ritualità delle società cosiddette tradizionali che vivevano in quei territori che l’uomo occidentale cominciava a scoprire grazie ai resoconti dei viaggiatori prima e all’impresa coloniale in seguito. L’antropologia sociale pensava che queste società fossero il passato vivente delle fasi evolutive che la società occidentale europea aveva percorso prima di giungere al picco più alto dell’evoluzione culturale. La ritualità in generale era considerata un “oggetto” complesso e multiforme e gli antropologi sociali, con metodo analitico, avevano individuato alcune componenti costitutive che sembravano esistere in ogni gruppo umano tradizionale, seppur con diversi gradi di rilevanza all’interno del tutto sociale. Si scoprì così che l’uomo, attraverso l’oggetto “rituale”, soddisfa i suoi bisogni trasformando l’ambiente, si associa e si gerarchizza instaurando relazioni per la riproduzione e per il controllo sociale, si costruisce delle regole di comportamento e dei sistemi di credenze per giustificare la sua esistenza al mondo, si costruisce dei si-

134 Cfr. H. HUBERT, M. MAUSS, Essays sur la nature et la fonction du sacrifice, in ‘L’année Sociologique’ 2 (1898), pp.29-138 (trad. it. Saggio sulla natura e la funzione del sacrificio, Morcelliana, Brescia 1981). 135

Cfr. A. E. JENSEN, Mythos und Kult bei Naturvölker, Steiner, Wiesbaden 1951. Jensen propone l’idea che il sacrificio sia derivato dalla ripetizione mitica autosacrificale di un dio o di un dema.

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stemi esplicativi per affrontare le situazioni che provocano sofferenza. La preoccupazione fondamentale dell’antropologia culturale di Tylor fu invece quella di capire come si trasmisero l’insieme delle ritualità nella cultura, attraverso le generazioni. La differenza è quindi di punto di vista e non di “oggetto” e per questo resta basilare l’analisi del sacrificio di Tylor che sfocerà direttamente nel lavoro di ricerca di Robertson-Smith. Anche nella tesi di Hubert e Mauss che riconduce al rituale non solo i miti e gli dèi ma, in Grecia, anche la tragedia e le altre forme culturali134, in cui il sacrificio appare come l’origine di tutto il religioso, riecheggia la teoria di Robertson Smith anche se i due sociologi della religione non ritengono necessario interessarsi né dell’origine né della funzione del sacrificio. Si dedicano invece alla descrizione sistematica dei sacrifici dalla quale emerge che la somiglianza dei riti, nelle diverse culture che praticano il sacrificio, è stupefacente e che le variazioni da cultura a cultura non sono mai sufficienti per compromettere la specificità del fenomeno. Rispetto a questa tesi, Jensen ricorda la stranezza di un’istituzione quale il sacrificio, affermando: “Ci saranno volute esperienze particolarmente sconvolgenti per portare l’uomo ad introdurre nella sua vita atti tanto crudeli. Quali ne furono i motivi? Il pensiero mitico ritorna sempre a ciò che è accaduto la prima volta, all’atto creatore, ritenendo a giusto titolo che è quello a fornire su un dato fatto la testimonianza più viva’’135.

Allontanandosi dalla ‘rinuncia’ di Mauss, Jensen ritiene importante stabilire ciò che è accaduto la prima volta, e implicitamente si domanda se la prima volta non sia realmente accaduto qualcosa di decisivo. In fondo Jensen pone domande tradizionali in un quadro rinnovato dal rigore metodologico. Se esiste un’origine reale che i miti non smettono di rammentare e che i rituali non smettono di commemorare, deve trattarsi di un evento che ha fatto sugli uomini

136

Cfr. M. DOUGLAS, Il cibo come sistema di comunicazione, in IDEM, Antropologia e sim bolismo, Il Mulino, Bologna 1985, pp. 193-229. 137

Cfr. C. LEVI-STRAUSS, Il crudo e il cotto, Il Saggiatore, Milano 1966, 19803.

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un’impressione che, sebbene sia cancellabile dal momento che essi finiscono per dimenticarla, è tuttavia molto forte. La molteplicità delle commemorazioni rituali che consiste in una condanna a morte fa pensare che l’evento originario sia di norma un’uccisione. Un pò ovunque, nell’opera di Jensen, si ritrovano tracce di una tesi di fondo che presenta il rituale sacrificale come un’imitazione e ripetizione di una violenza unanime. In realtà, lo stesso Jensen osserva che nelle forme rituali e mitiche ci sono analogie con atti di violenza che passano spesso inosservate: spicca, ad esempio, che in uno straordinario numero di sacrifici deve essere soddisfatta l’esigenza di partecipazione collettiva, perlomeno sotto forma simbolica. Un altro contributo alla tematica, anche se in linea trasversale e che in maniera evidente trova i suoi prodromi nella ricerca di Robertson-Smith, verrà dall’antropologa inglese M. Douglas136 che afferma che soltanto il “mangiare insieme” conserva ancora un certo valore e dà soddisfazione in quanto un pranzo in comune è in grado di farci sentire più vicini gli uni agli altri e serve molto a stringere un vincolo d’amicizia. In questo caso, si tratta di una forma antica e nuova di ritualità che andrebbe studiata con più attenzione. Questa tesi, per quanto aliena dagli studi sul sacrificio, ci permette di comprendere e di approfondire la ricerca di Robertson Smith: l’arte culinaria e l’uccisione degli animali avevano significati simbolici altamente espressivi e onnicomprensivi della vita naturale e sociale, oltre che della vita in rapporto agli dèi. Questo tema ‘trasversale’ del pasto, implicitamente o esplicitamente, influenzerà l’antropologia strutturalista francese con uno dei suoi maggiori interpreti: C.Lévi-Strauss137. L’antropologo francese considererà il fatto fondamentale della cottura del cibo e l’idea del-

138

Cfr. ivi, cit. p. 175.

139

Cfr. L.HOLY, Comparative Anthropology, Basic Blackwell, Oxford 1987, pp. 8-19.

140

La cosiddetta Myth and Ritual School, che ha come suo maggiore esponente Robertson Smith, si era formata all’inizio del secolo studiando le religioni antiche, in particolare la religione mesopotamica, egiziana ed ebraica. Ora tale scuola affermava sulla base di una buona documentazione storica che il rito aveva preceduto il mito nelle religioni antiche e che dunque si doveva pensare che all’origine vi fosse una pratica rituale previa, dalla quale poi si sarebbe andato strutturando il mito relativo. Per noi abituati ad attribuire al codice verbale un primato indiscusso, per la nostra particolare “forma mentale”, questo modo di concepire il rapporto rito/mito appare un non senso.

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la cultura in rapporto alla pura natura del cibo crudo. Ed è in questo crinale metodologico che la tesi della Douglas e la metodologia di Lévi Strauss permettono una nuova chiave d’indagine sul sacrificio che possiamo in maniera esemplificativa ricomprendere nella testimonianza dell’antropologo francese sul mito di Prometeo e i ‘miti culinari’ conservati dal ‘pensiero selvaggio’ o nei miti di preparazione del cibo degli indios del Sud America specialmente dei Gé e dei Bororo: qui è presente il giaguaro come amico dell’uomo a cui egli ha portato il fuoco138, come Prometeo secondo la versione di Eschilo. Il giaguaro-Prometeo è colui che “dona le arti della civiltà” e il fuoco con cui si compie il sacrificio delinea simbolicamente il passaggio dalla natura alla cultura. Preparare i piatti con il fuoco significa compiere un’attività di mediazione tra cielo e terra, vita e morte, natura e società. Inoltre la dinamica del fuoco ha un’altra simbologia: si muove dal basso all’alto, dagli uomini verso gli dei. Giunti alla fine del paragrafo dobbiamo affermare che le ipotesi di lavoro analizzate, da un punto di vista prettamente metodologico, puntano l’indice sull’importanza del metodo comparativo in antropologia che non solo ha la funzione di dare un senso alla storia complessiva della cultura umana, ma anche definisce il processo evolutivo che scaturisce dalla matrice sacrificale del religioso139. La comparazione è al centro del sistema di comprensione e di lettura del Rito e del Mito secondo il grande modello dei grandi antropologi britannici di inizio secolo, che sentono la necessità di un’analisi integrata di Riti e Miti come processo ermeneutico reciprocamente esplicativo visto che il rito compie ciò che il mito racconta, non essendo altro che mito in azione e, sua volta, tenendo sempre in considerazione, che il Mito rinasce in ciò che il Rito pone in atto, non essendo altro che rito in azione nel presente140.

141

Cfr. la trattazione di T. SIEBERS, Violence, Difference, Sacrifice: A Conversation with René Girard, in “Religion and Literature” 25.2 (1993), p.23. 142

Cfr.E. DURKHEIM, Le forme elementari della vita religiosa, Newton Compton, Milano 1963. Sarà Radcliffe-Brown a sviluppare nel modo più conseguente questa prospettiva funzionale: una società può sussistere solo in virtù di un sistema di concetti e sentimenti collettivi che vengono sviluppati proprio grazie all’influenza della società sull’individuo: Cfr. A.R.RADCLIFFE-BROWN, Struttura e funzione nella società primitiva, Jaca Book, Milano 1967.

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1 LE

FONTI DEL PENSIERO DI

GIRARD

René Girard si interroga sull’uomo, in rapporto alla sua ritualità, dal versante dell’antropologia socio-culturale. Analizzando il suo pensiero è emersa una posizione che si può definire d’integrazione delle linee sociologico-funzionalista e psicologica141. Senza dubbio la prima grande fonte girardiana è da individuare nell’impostazione sociologica di Durkheim che ha dedicato la propria attenzione al ruolo dei riti, e in particolare del rito religioso nella società, nella convinzione che la società diventa consapevole di se stessa attraverso un’azione comune e che pertanto, ad intervalli regolari, deve confermare i sentimenti e le idee collettive che costituiscono la sua unità142. Girard conosce molto bene Durkheim tanto che, proprio nei punti nodali dell’esposizione della sua tesi sul sacrificio, è possibile individuare una sistematizzazione che attraverso diverse tappe conduce alla formulazione definitiva contenuta ne Le forme elementari della vita religiosa nella quale Durkheim inquadra, con una sostituzione progressiva, il concetto di sacro a quello di “religioso”. In un articolo del 1899, l’obbligante carattere delle credenze religiose e delle prassi rituali che da esse derivano portano Durkheim a dover individuare nettamente la definizione: “ I fenomeni religiosi consistono in credenze […]. Infatti, ciò che caratterizza le credenze e le pratiche religiose sono la loro obbligatorietà. Ora tutto ciò che riveste un carattere obbligante è d’o-

143

Cfr. E. DURKHEIM, De la définition des phénomènes religieux, in “L’Année Sociologique” 2 (1899), pp. 1-28. Mi riferisco alla traduzione italiana di E. PACE ( cura di), Per una definizio ne dei fenomeni religiosi, Armando, Roma 1996, pp. 68-69. 144 Cfr.FREUD S., Totem e Tabù, in S.FREUD, Opere, VII, Boringhieri, Torino 1967-1980, pp. 37 ss. 145

I1 dinamismo di Totem e Tabù si orienta verso una teoria generale del sacrificio: tuttavia il sacrificio si presenta come un atto che si compie al posto di un altro che nelle normali condizioni culturali nessuno né osa né desidera commettere ed è proprio questo che Freud, imprigionato nel problema dell’origine, cessa paradossalmente di vedere. Egli vede che bisogna far risalire il sacrificio a un evento ben più vasto ma poi l’intuizione dell’origine, poiché non si sviluppa completamente, è incapace di concludersi e gli fa perdere ogni senso della funzione. Girard ritiene che “per conciliare la funzione con la genesi, per svelarle completamente l’una per mezzo dell’altra, occorre impadronirsi della chiave universale che Freud elude sempre: solo la vittima espiatoria può soddisfare tutte le esigenze a un tempo.

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rigine sociale. Un’obbligazione presuppone un comando e, di conseguenza, un’autorità che comanda. L’individuo si conforma alle regole solo se egli avverte che queste regole sono imposte da un’autorità morale […]. Il solo essere pensante più grande dell’essere umano è la società. Essa è infinitamente superiore ad ogni forza di tipo individuale, perché è una sintesi delle forze individuali. Poiché ci sentiamo sempre dipendenti da essa noi nutriamo nei suoi confronti un sentimento di rispetto religioso. E’ essa insomma che prescrive ai fedeli i dogmi nei quali credere e i riti che dobbiamo osservare; i riti e i dogmi sono opera sua”143.

Tale impostazione socio-metodologica emerge nel pensiero girardiano tanto che il fenomeno religioso costituisce sia il punto di partenza sia il punto d’arrivo della sua ricerca: di partenza, perché l’oggetto sacralizzato è il prodotto della soluzione collettiva che gli uomini danno alla loro conflittualità mimetica, quindi costituisce la genesi d’ogni fondazione e d’arrivo, perché nel corso della storia evolutiva del sacro il suo significato è stato nascosto e quindi le sue tracce vanno reperite risalendo le varie tappe dell’attività mitopoietica delle civiltà umane. La storia delle religioni interessa Girard per questo motivo: è la storia del ‘misconoscimento’ dei meccanismi costitutivi del sacro, sommersi dalla testualità mitica e dai comportamenti sacralizzati.Tuttavia Girard deve necessariamente integrare l’impostazione di Durkheim con l’impostazione freudiana. Com’è noto, in Totem e Tabù144 Freud applica alla psicologia collettiva, o Volkerpsychologie, i risultati della psicoanalisi, presupponendo la validità anche nel campo socio-psicologico del principio di Haeckel, per cui l’ontogenesi ricapitola la filogenesi: trasferisce cioè la scoperta del complesso edipico dal campo individuale a quello collettivo. Nel quarto saggio di Totem e Tabù (I1 ritorno del totemismo nel l’infanzia) Freud tenta anche la ricostruzione storica del grande crimine appoggiandosi alla tesi dell’orda primitiva e del rito totemico145. L’ipotesi del parricidio, commesso dagli uomini in età arcaica e nella quale la civiltà avrebbe trovato la propria origine, è celebre: in essa

146

Su questo punto è interessantissima la propsettiva di T..SIEBERS, Language, Violence, and the Sacred: A Polemical Survey of Critical Theories, Stanford University, Saratoga 1986, p. 217. Vedi anche T. SIEBERS, The Ethics of Criticism, Cornell University, Ithaka 1988, p. 155. 147

Cfr. P.LIVINGSTON, Models of Desire. René Girard and the Psychology of Mimesis , The Johns Hopkins University, Baltimore 1992, p.24 e p.103.

101


traspare la stretta relazione di corrispondenza istaurata da Freud nei due sensi, ovvero tra ontogenesi e filogenesi. Infatti, secondo l’ordine della ratio cognoscendi il complesso edipico, individuato nei singoli nevrotici contemporanei, precede e guida la scoperta della sua origine storica e secondo l’ordine della ratio essendi è l’origine storica del complesso che ne spiega il persistere nei contemporanei. Tale continuità è, secondo Freud, resa possibile dall’ipotesi della trasmissibilità di generazione in generazione di una specie di “psi che collettiva”, qualcosa in più della “coscienza collettiva’” di Durkheim, poiché implica una trasmissione ereditaria d’alcune esperienze storicamente acquisite146. Ereditarietà ed esperienza individuale in Freud si corrispondono e s’integrano reciprocamente in modo che nell’individuo, l’educazione ovvero l’esperienza del proprio ambiente sociale, nega la libertà pulsionale e si limita a rafforzare uno sviluppo già ereditariamente segnato: l’opera della civiltà, anziché contrastare e reprimere l’opera della natura, ne è il risultato. Se nell’uomo è presente un conflitto, come testimonia la psicoanalisi, esso non è dovuto per Freud al contrasto fra natura e civiltà, fra libertà interiore e coercizione esterna, ma è dovuto all’insopprimibile dualismo delle pulsioni umane naturali, cioè ad una scissione che è originaria della stessa natura umana. Comprendiamo l’apporto freudiano, come matrice di studio e d’approfondimento del concetto di sacro in Durkheim, nella definizione del sacro di Girard147. Per lo studioso francese, il sacro si articola nei due momenti del divieto e del rituale: il divieto si applica agli oggetti del desiderio che possono scatenare i comportamenti mimetici e il rituale si presenta come ripetizione simulata del meccanismo di regolazione della crisi ottenuta con l’omicidio collettivo. In base alle matrici di Durkheim e di Freud, Girard sviluppa una nuova e “rivelatrice” teoria sulla religione essenzialmente in quattro opere legate da un rapporto molto stretto. Nel 1961 pubblica un 148

Cfr. R. GIRARD, Mensonge romantique et vérité romanesque, Grasset, Paris 1961 (trad. it. Menzogna romantica e verità romanzesca, Bompiani, Milano 1965). 149 Cfr. IDEM, La violence et le sacré, Grasset, Paris 1972 (trad. it. La violenza e il sacro, Adelphi, Milano 1980). 150

Cfr. IDEM, Des choses cachées depuis la fondation du monde, Grasset, Paris 1978 (trad. it. Delle cose nascoste fin dalla fondazione del mondo, Adelphi, Milano 1983).

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primo volume di saggi letterari, Menzogna romantica e verità roman zesca148, ove le sue tesi non rivelano ancora tutto il loro aspetto innovativo in quanto circoscritte allo studio del romanzo moderno. Nel libro è fondamentale l’intuizione, antropologica e psicologica interindividuale, che il desiderio umano è sempre mimesis (imitazione): il desiderio è “triangolare”, per cui tra il soggetto desiderante e l’oggetto desiderato esiste un mediatore che indica gli oggetti da desiderare. Tutti i comportamenti, quelli individuali, quelli sociali e quelli dell’intera cultura umana, possono essere ricondotti al triangolo del desiderio. Lo stesso desiderio diventa poi principio di critica letteraria che consente di delineare una storia della letteratura: quest’ultima consente di leggere le grandi tappe della storia moderna, e della storia alla metafisica che vi sta dietro, e rivela che le assolutizzazioni dei desideri degli uomini sono diventate dèi. Solo dieci anni dopo, quando nel 1972 esce La violenza e il sa cro149, il mondo intellettuale s’interessa di Girard, sia perché osa criticare pensatori come Freud e Lévi-Strauss, sia perché getta le basi di una nuova teoria del religioso. Girard, che aveva già teorizzato che il desiderio fa nascere un altro desiderio e una violenza fa nascere

151

Cfr. IDEM, Le Bouc émissaire, Paris, Grasset 1982 (trad.it. Il capro espiatorio, Adelphi, Milano 1987). 152

Cfr. IDEM, Menzogna romantica e verità romanzesca, pp. 45-98. Cfr. anche G.W.F. HEGEL, Die Phänomelogie des Geistes, Würzburg, Goebhardt, 1933; ( trad.it., Fenomenologia dello Spirito, I, La Nuova Italia, Firenze 1970). Le citazioni riportate e inumeri di pagina si riferiscono alla traduzione italiana. A pag. 150 del vol. I della Fenomenologia dello spirito Hegel afferma: “E l’autocoscienza quindi e’ certa di se stessa soltanto perche’ toglie questa alterita’ che le si presenta come vita indipendente: essa e’ concupiscenza o appetito. Certa della nullita’ di questo altro essa pone per se’ questa nullita’ come verita’ propria, annienta l’oggetto indipendente e si da’ con cio’ la certezza di se stessa come certezza vera, come tale certezza che le e’ divenuta in guisa oggettiva.Ma in questo appagamento l’autocoscienza fa esperienza dell’indipendenza del suo oggetto. L’appetito e la certezza di se stesso, raggiunta nell’appagamento dell’appetito stesso, sono condizionati dall’oggetto; infatti l’appagamento sussiste mediante il togliere questo Altro, e affinche’ il togliere ci sia, ci deve essere anche questo Altro. L’autocoscienza, dunque, mediante il suo rapporto negativo, non e’ in grado di toglier l’oggetto; anzi non fa che riprodurre l’oggetto nonche’ l’appetito. In effetto, qualcos’altro dall’autocoscienza e’ l’essenza dell’appetito”. 153

I riferimenti hegeliani sono riportati in R.GIRARD, Menzogna romantica e verità roman zesca, pp.45-98. Cfr. anche T.SIEBERS,”Violence, Difference, Sacrifice: A Conversation with René Girard, in “Religion and Literature” 25.2 (1993), p.23; P.LIVINGSTON, Models of De sire. René Girard and the Psychology of Mimesis, p.103.

103


un’altra violenza, ora mostra come, per liberarsi da questo circolo vizioso, siano nate le istituzioni religiose tradizionali e soprattutto il sacrificio. E’ in questa seconda importante opera, che contiene il nucleo fondamentale del suo pensiero, che egli descrive il meccanismo della vittima espiatoria per mezzo del quale, potendo la violenza cambiare direzione e sfogarsi su un oggetto di ricambio, la società si libera dalla violenza. In Francia il pensiero girardiano diventa oggetto di discussione vivace e contraddittoria solo nel 1978, quando viene pubblicato Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo. Ricerche con J.M. Oughourlian e G. Lefort150, un grosso volume d’interviste rilasciate a discepoli ed amici, in cui Girard riprende tutta la sua precedente teoria e dimostra che solo la rivelazione cristiana permette di svelare la natura del sociale, del religioso, della violenza primitiva. Nel suo libro del 1982, Il capro espiatorio,151 non aggiunge nuovi elementi sostanziali alla sua teoria: la verità del mito è confermata con la verità dei testi di persecuzione, i quali iniziano a demistificare gli schemi sacrificali in quanto la storia dell’Occidente si è sviluppata da un testo (il testo della rivelazione giudeo-cristiana) che contiene le verità decisive sui desideri dell’uomo e sui meccanismi della violenza.

2 LA

RIVALITÀ MIMETICA E LA VIOLENZA INDIVIDUALE COLLETTIVA

Nella sua opera iniziale “ Menzogna romantica, verità roman zesca”, Girard accetta le idee hegeliane di base sul desiderio152 e tende a definire la violenza in termini di competizione per l’Essere153.

154

Cfr. G.W.F. HEGEL, Fenomenologia dello Spirito,p. 81.

155

Cfr. ivi, p. 82.

156

Cfr. ivi, p. 153.

157

Cfr. ivi, p. 159.

158

Cfr. R.GIRARD, Violenza e Sacro, pp. 193. 364.

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L’analisi hegeliana, nella “fenomenologia dello spirito”, inizia con una riflessione sulle forme pure della conoscenza e più specificamente sulla “certezza sensibile”154. Fin dalla parte iniziale della sua opera Hegel applica la procedura dialettica155. Qui essa consiste, almeno in prima approssimazione, nel mostrare che ogni atto o stato è più complesso di quanto appaia e che la sua complessità rende contradditoria la sua apparente semplicità156. Sono tra le pagine più famose della Fenomenologia quelle che vengono dedicate a questo momento, decisivo nella costituzione dell’autocoscienza, che è la scoperta dell’altrui coscienza, e insieme, del nostro complesso rapporto con essa. Da un lato si mostra che nessuno può essere “per-sé” senza essere “per- altri”. Dall’altro, che ogni relazione intersoggetiva “non può non essere” antagonista. La socialità-questa la tesi di fondo di Hegel- è essenzialmente conflitto157. Secondo questa tesi, il modello è definito come l’individuo di cui noi tentiamo di imitare l’essere. Il modello di desiderio sembra possedere un’eccedenza d’esse re e gli individui, da quest’abbondanza, sono stimolati a desiderare il modello, imitarlo ed abbandonare il senso dell’originalità dei loro propri desideri. Fondamentalmente ri-leggiamo Hegel nella definizione girardiana del desiderio come desiderio d’essere l’altro158. L’odio di sé, dei soggetti desideranti, così come il loro odio del modello pongono tuttavia Girard di fronte alla stessa contraddizione scoperta da Hegel. Uno non può essere quello che ha ucciso. Di conseguenza Girard, ne La Violenza e il Sacro, introduce una variazione sulla mediazione hegeliana. Egli argomenta che la mediazione interna, che è imitazione di desiderio fra gli esseri umani, possa essere organizzata tramite la mediazione esterna, che è imitazione del desiderio non umano di Dio159. In breve, la violenza è contenuta da un’altra forma d’idealismo, che richiama l’idealismo di Platone, in cui una gerarchia organizza le ver-

159

Cfr. ivi, pp. 193. 223-225.

160

Cfr. ivi, pp. 411.435

161

Cfr. ivi, p. 411

162

Cfr. ivi, pp. 113-115. Con tale procedimento Girard propone una teoria delle “origini sociali” strettamente legata al “desiderio mimetico”. 163

Cfr. R.GIRARD, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, pp. 35-44.

105


sioni di comportamento imitativo. Nei suoi lavori successivi, tuttavia, Girard assume un approccio più fenomenologico160 alla violenza, e il vocabolario dell’essere cade dalla sua teoria. La mimesi stessa registra la violenza ad intensità differenti. La imitazione è una funzione del desiderio nella misura in cui essa si dà fra gli individui, e questi individui sono spinti a ripetere i gesti di altri161:ma il desiderio cessa d’essere metafisico. Girard aveva già ne “La Violenza e il Sacro” iniziato a cercare autorità nei modelli etologici del mimetismo animale e traccia un’evoluzione delle forme di rappresentazione che spazia dai modelli animali semplici di dominanza e di mimetismo ai rapporti di parentela, al rituale ed alle forme politiche162. È a questo punto che la sua comprensione fondamentale riguardo alla rappresentazione e alla violenza trova la sua articolazione più potente: le più alte forme della rappresentazione ripetono i cicli ripetitivi della violenza come mezzo del suo contenimento. Ma il successo ed il fallimento di questo contenimento dipendono dal fenomeno stesso della violenza163. Di conseguenza, si trova in Girard un più insolito, e penso, fruttuoso tentativo di afferrare la natura della violenza. La violenza, secondo Girard, diviene un’entità, un fenomeno, per gli esseri umani, ed egli spiega che è importante descriverla come tale. La violenza ha straordinari effetti mimetici, a volte diretti e positivi, altre volte indiretti e negativi. Più gli uomini si sforzano di porre freno ai loro impulsi violenti, più questi impulsi si affermano. La violenza è simile ad una fiamma che divora tutto quello che, con l’intenzione di spegnerla, le si può gettare sopra. Siamo ricorsi alla metafora del fuoco; saremmo potuti ricorrere a quella della tempesta, del diluvio, del terremoto. Il che non vuol dire che ritorniamo alla tesi che fa del sacro una semplice trasfigurazione dei fenomeni naturali. Tempeste, incendi di boschi e pestilenze, ed altri fenomeni, possono essere classificati come sacri. Ma il sacro è anche e soprattutto, pur se in maniera più velata, la violenza degli uomini stessi, la violenza posta com’esterna all’uomo e confusa ormai con tutte le altre forze che gravano sull’uomo dal di fuori. E’ la violenza che costituisce il vero cuore e l’anima segreta del sacro, anche se, per Girard, ancora non sappiamo come l’uomo riesca a trasporre fuori di se stesso la propria vio-

164

Cfr.IDEM, La violenza e il sacro, p. 50.

165

Cfr. ivi, pp. 40- 44.

106


lenza come un essere indipendente164 . È importante notare che quest’apparente personificazione della violenza non è soltanto un’altra versione dell’essere hegeliano. Dando alla violenza ciò che le spetta, Girard afferma che essa esiste fra gli individui, come funzione della mimesi, piuttosto che essere una pro prietà dell’essere metafisico. Ciò risulta più chiaramente nel modo in cui successivamente egli tratta della soggettività e dell’essere. Quasi simultaneamente al tentativo di descrivere la fenomenologia della violenza, Girard cessa semplicemente di parlare dell’essere. L’essere come tale diventa impossibile da discutere come fenomeno individuale165. Nella teoria girardiana non c’è un io autonomo. L’individualità forse meglio chiamata “interdividualità”- è una funzione dei modelli imitativi che esistono nella sfera sociale, e l’autonomia individuale è meglio riconosciuta come artificio politico generato da società particolari. Come tale essa ha molti usi politici ma separata da questi usi politici non ha esistenza alcuna. In breve, Girard abbozza la teoria più radicale dell’io decentrato, non essenzialistico, che vi sia sulla scena corrente. Per lui, il desiderio umano è soltanto relativamente distinto dal desiderio animale. Non c’è alcun inconscio freudiano con la sua autonomia persistente. L’inconscio è integralmente sociale. L’auto-aggressività, per Girard, è un sottoprodotto della violenza interpersonale e l’alienazione non è una funzione dell’essere ma è una creazione 166

Cfr. ivi, pp. 44 ss.

167

Girard stesso definisce il termine “capro espiatorio”, mutuato dalla vulgata caper emis sarius che traduce la versione greca della LXX di Lv 16,5-10 apopompaios “ colui che allontana i flagelli”. Dalla fine del medioevo in poi nelle lingue occidentali (Cfr. l’ inglese “sca pegoat” e il tedesco “Sündenbock”) il termine capro espiatorio assume il duplice senso di “meccanismo psico-sociologico inconscio e spontaneo” e di “istituzione rituale”. 168 Cfr. IDEM, La violenza e il sacro, p. 50. Come abbiamo compreso nel paragrafo precedente, Girard in primo luogo definisce la natura umana come mimetica poiché le azioni delle persone sono intraprese esclusivamente in quanto viste fare da un modello. L’uomo è l’individuo desiderante per eccellenza, ogni suo movimento si basa sull’essere secondo l’altro, sull’omologarsi ai costumi, alle mode, ai pensieri e alle azioni di chi gli sta accanto. Le cose che noi vogliamo avere non le desideriamo in sé, ma perché sono possedute dal singolo modello a cui ci omologhiamo. Per questo è legittimo introdurre il termine di schema per delineare il rapporto triangolare e per intendere quella situazione che vede un individuo desiderare di possedere un oggetto che un altro dispone. C’è quindi uno stretto rapporto tra persona desiderante-oggetto desiderato-modello imitato tale da provocare inevitabilmente uno scontro nel momento in cui l’oggetto non sia divisibile e usufruibile da entrambi. Girard parla infatti di modello-ostacolo quando esso impedisce ad un terzo il godimento di una cosa o di una persona unica.

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politica determinata dall’esclusione violenta degli individui e dalla loro interiorizzazione del linguaggio esclusorio. La violenza è ciò che la rappresentazione prende come suo oggetto, e ciò che la rappresentazione fa alla violenza è ri-presentarla sotto forma di idee differenti: queste sono evidenti negli ordinamenti politici, nei sistemi religiosi e nelle forme estetiche. Quel che è più audace nel pensiero di Girard, comunque, è il suo percepire che i discorsi di secondo livello, quali la filosofia stessa, partecipano anch’essi alla traslazione della violenza nelle idee. Secondo Girard, le formazioni culturali - e i discorsi circa di esse - ri-presenta no la violenza agganciandosi in un processo di sostituzione in cui altri nomi sostituiscono la violenza e ri-orientano i relativi effetti166. Egli si riferisce a questo processo di sostituzione, di rappresentazione, come ad un ordinamento che è sacrificale, perché esso fa del termine capro espiatorio (in nome del desiderio di sfuggire al termine ultimo), la violenza stessa. Senza dubbio questo processo di rappresentazione della violenza come qualcos’altro ha una dimensione etica nella misura in cui tenta di contenere la violenza. Ma poiché, inoltre, sacrifica questo qualcos’altro in luogo della violenza, esso possiede quel che potremmo essere tentati di denominare altrettanto appropriatamente una dimensione non etica. Qualunque cosa scelga di rappresentare la violenza, piuttosto che rivelarla, collude con la violenza stessa.

169

Cfr. IDEM, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, p. 191. Già A.E. Jensen dopo aver esaminato alcune culture agricole in cui emerge la crdenza in un passato mitico, riassume la sua posizione riguardo la natura del sacrificio affermando che esso è ripe tizione della vicenda primordiale: l’uccisione fondatrice della realtà. Tale avvenimento primordiale, che viene richiamato alla memoria dalle uccisioni rituali, fa prendere coscienza all’uomo del suo essere nel mondo (Erlebnis),che la vita è condizionata dalla morte e che il divino è all’inizio di tutte le cose. Cfr. A. E. JENSEN, Mythos und Kult bei Naturvölkern, p.188. 170

Cfr. R.GIRARD, Vedo Satana cadere come la folgore, Adelphi, Milano 2001, cit. p. 165.

171

Per Girard i conflitti sono provocati dal desiderio mimetico antagonista e di appropriazione che trova stimolo in un surplus di esseri e di oggetti che altri possiedono. Per Girard le persecuzioni sono effetti che rivelano la loro causa proprio nella crisi delle differenze, ossia in quella distruzione dell’ordine culturale che fa progredire la violenza e i conflitti. Il ritorno alla differenziazione e all’ordine è possibile addossando la causa dei conflitti a uno oppure a un gruppo di capri espiatori. Cfr. IDEM, Il capro espiatorio, p. 30.

108


3 LA

RISOLUZIONE DEL CAPRO ESPIATORIO

La delineazione del capro espiatorio167, nello schema sacrificale girardiano168, è un’ipotesi scientifica non dimostrabile veramente in base alle parole dell’autore, perché non è deducibile da un solo testo, né è direttamente leggibile, individuabile. Essa descrive, infatti, un processo di strutturazione169. I miti stessi, la storicità e l’uniformità dei sacrifici sono l’attività strutturante del processo vittimario del capro espiatorio. Girard afferma che il denominatore comune dei vari miti consiste in due transfert: il primo, detto anche transfert d’ag gressività, consiste nella lapidazione o l’espulsione della vittima da cui deriva un beneficio concreto per l’intera comunità (la ricomposizione della crisi e la seguente pace, seppur temporanea), mentre il secondo, detto transfert di divinizzazione, pone fine al processo e consiste nella venerazione della vittima immolata da parte della comunità riappacificata, venerazione giustificata dal potere conciliatorio del capro espiatorio. Afferma l’autore: “Le divinizzazioni mitiche si spiegano perfettamente per opera del ciclo mimetico, e si basano sulla capacità che hanno le vittime di polarizzare la violenza. (…) Se il transfert che demonizza la vittima è potentissimo, la riconciliazione che ne consegue è così improvvisa e perfetta da apparire miracolosa e da suscitare un secondo transfert che si sovrappone al primo, il transfert di divinizzazione della vittima”170.

Gli uomini tendono a convincersi che uno solo di loro è responsabile di tutta la mimesis violenta, che in lui si trova la macchia

172

Ovvero nella comunicazione espressa dal “mimetismo di folla”. Cfr. R.GIRARD, Delle co se nascoste fin dalla creazione del mondo, pp.41-45. 173

Cfr. R. GIRARD, La violenza e il sacro,pp. 72-73.76.

174

Cfr. ivi, pp. 223-281. Cfr. S.FREUD, Totem e Tabù,pp. 160 - 208. L’antropologo francese ritiene che il testo di Freud sulla tragedia greca è quello che più di tutti i testi moderni si avvicina alla comprensione, anche se in seguito fallisce perché non riesce nella demistificazione e nella decostruzione del mito da cui la tragedia deriva superando quella che Freud chiama deformazione della storia ovvero l’evento cardine (Cfr. R. GIRARD, La violenza e il sacro, pp. 263-265). 175

Cfr. ivi, cit. p. 71; Cfr. anche pp. 76-80.

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che li contamina tutti: distruggendo la vittima espiatoria gli uomini crederanno allora possibile sbarazzarsi del loro male ed effettivamente se ne libereranno poiché tra loro non ci sarà più la violenza fascinatrice171. Girard ritiene che noi moderni concediamo invece solo un’importanza minima al meccanismo della vittima espiatoria, poiché essa dissimula agli uomini la verità della loro violenza; egli sente la violenza come qualcosa di “comunicabile”172. Per guarire la città, bisogna identificare ed allontanare l’essere impuro la cui presenza contamina tutta la città: è necessario che tutti si mettano d’accordo sull’identità di un unico colpevole e sono il parricidio e l’incesto a procurare alla comunità ciò di cui essa ha bisogno per cancellare la crisi sacrificale173. Necessariamente Girard deve attingere alla radice e matrice freudiana per poter delineare il meccanismo del capro espiatorio e proprio il mito d’Edipo (attraverso l’analisi della tragedia Edi po re di Sofocle174) permette a Girard di porre questa affermazione: “L’imitazione tragica distrugge le differenze anche là dove le distanze gerarchiche e il rispetto sono, teoricamente, più grandi, come ad esempio tra padre e figlio”175.

Nella tragedia, l’ira è presente ovunque: non è Edipo ad avere 176 Cfr. ivi, p. 240. Sotto molti aspetti questo testo si spinge più avanti in direzione della vittima espiatoria ed intere frasi coincidono con la lettura girardiana: non bisogna tuttavia esagerare la convergenza delle due letture, quella di Freud e quella di Girard perché, superato un certo punto, la differenza ricompare. Girard ritiene che fra tutti i testi moderni sulla tragedia greca quello di Freud, sebbene sia un fallimento, sia quello che probabilmente si avvicina di più alla comprensione della verità. Girard è convinto che la sua nuova lettura può tenere conto di tutto ciò che vede Freud, ma tiene anche conto di tutto ciò che sfugge a Freud e non sfugge a Sofocle. Tiene conto infine di tutto ciò che sfugge a Sofocle, di tutto ciò che determina il mito nel suo insieme e di tutte le prospettive che si possono prendere su di esso, comprese quella psicoanalitica e quella tragica: il meccanismo della vittima espiatoria. 177

Un altro mito del capro espiatorio in cui vi è una mascheratura simile è la versione di un mito Venda su Pitone e le sue due mogli, analizzato da R. GIRARD in “A Venda Myth Analyzed,” in R. J. GOLSAN, René Girard and Myth, Garland, New York 1993, pp. 151-179. Un altro mito in cui la violenza collettiva è in qualche modo meno ovvia è quello degli esseri soprannaturali antropomorfici che sono gli antenati dei clan Ojibwa. Esso è riportato e discusso da Girard in Delle cose nascoste, p. 135 -148, e in “Generative Scapegoating”, in AA.VV. Violent Origins, a cura di R.HAMERTON KELLY, Stanford University, Stanford 1987, pp. 95-103. 178

Cfr. S.FREUD, Totem e Tabù, p. 95.

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il monopolio dell’ira, giacché non vi sarebbe disputa tragica se anche gli altri protagonisti non andassero in collera. Le loro ire seguono quelle dell’eroe solo con un certo ritardo, per cui si è tentati di riconoscere in loro giuste rappresaglie, ire seconde e perdonabili rispetto all’ira prima e imperdonabile di Edipo. Ma l’ira di Edipo è sempre preceduta e determinata da un’ira anteriore. E nemmeno questa è veramente originaria. La sola differenza tra Edipo e i suoi avversari sta nel fatto che Edipo, poiché è il primo ad entrare in gioco nella tragedia, è sempre in anticipo sugli altri. Ciascuno si crede capace di padroneggiare la violenza mentre in realtà è la violenza che trascina successivamente tutti i protagonisti inserendoli, sebbene inconsapevoli, nel gioco di quella reciprocità violenta a cui credono sempre di sfuggire176. I protagonisti della tragedia si riducono tutti all’identità di una stessa violenza e sono ugualmente responsabili poiché tutti partecipano alla distruzione dell’ordine culturale; ognuno vede nell’altro l’usurpatore di una legittimità che crede di difendere ma che in realtà non smette di indebolire177. Il mito non pone però esplicitamente il problema della differenza ma lo risolve tramite il parricidio e l’incesto178. Nel mito non si parla, infatti, d’identità e di reciprocità tra Edipo e gli altri: d’Edipo si può affermare però almeno una cosa, che non è valida per nessun altro, e cioè che egli solo è colpevole del parricidio e dell’incesto. Queste colpe si presentano come un’eccezione così mostruosa che Edipo non assomiglia a nessuno e nessuno assomiglia ad Edipo: ma la sua caduta non è una mostruosità eccezionale, bensì è il risultato della sconfitta nello scontro tragico. Sono pertanto il parricidio e l’incesto a completare il processo dell’indifferenziazione violenta. In primo luogo il parricidio è l’instaurazione della reciprocità violenta tra padre e figlio, è la trasformazione del rapporto paterno in fraternità conflittuale. Assorbendo persino il rapporto tra padre e figlio la reciprocità violenta non lascia più nulla fuori del suo raggio: assorbe quel rapporto facendone una rivalità non per un oggetto qualsiasi ma per la madre, vale a dire per l’oggetto più formalmente riservato al padre e più rigorosamente vietato al figlio. In secondo luogo anche l’incesto è una violenza estrema che distrugge la differenza principale entro la famiglia. Il parricidio e l’in179

Cfr. R. GIRARD, Delle cose nascoste fin dalla creazione del mondo, cit. p. 145.

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cesto acquisiscono quindi il loro significato soltanto entro la crisi sacrificale e in relazione ad essa: entrambi mascherano più che chiarire la crisi sacrificale. I delitti d’Edipo significano la fine d’ogni differenza ma diventano, per il fatto di essere attribuiti ad un individuo particolare, una nuova differenza, la mostruosità del solo Edipo. Alla violenza reciproca, ovunque diffusa, il mito sostituisce la tremenda trasgressione di un individuo unico, Edipo, che è il responsabile per eccellenza delle sventure della città: il suo ruolo è quello di un vero e proprio capro espiatorio umano. Una sola vittima può pertanto sostituirsi a tutte le vittime potenziali: tutti i rancori sparsi su tanti individui differenti convergono così su un unico individuo, sulla vit tima espiatoria. Quanto siano sottovalutati gli effetti della violenza collettiva ci è mostrato dalla presenza del mito edipico in tempi e luoghi differenti, dal carattere imprescrittibile dei suoi temi, dal rispetto quasi religioso di cui la cultura moderna continua a circondarlo. I1 meccanismo della violenza reciproca può essere descritto come un circolo vizioso in termini di vendetta e di rappresaglia dal quale la comunità, una volta inseritasi, non è più in grado di uscire. Finché entro la comunità vi è un capitale d’odio e di diffidenza accumulati, gli uomini continuano ad attingervi: ciascuno si prepara contro l’aggressione probabile del vicino e interpreta i suoi preparativi come la conferma delle sue tendenze aggressive. Per confermare tale affermazione, Girard presenta come chiaro paradigma di capro espiatorio l’episodio della lapidazione d’Efeso narrato da Flavio Filostrato nel suo testo “Vita d’Apollonio di Tiana”179. In questo libro sono raccolte le descrizioni dei momenti più significativi della vita di questo guru dello II sec. d.C. che fu successivamente citato addirittura dai gruppi pagani come esempio inconfutabile della superiorità della loro religione rispetto al Cristianesimo. Innanzitutto la lapidazione d’Efeso è posta in essere in un periodo in cui la città è assalita da una tremenda pestilenza, tale da mietere moltissime vittime tra i cittadini. Ecco il presupposto fondamentale: una grave crisi interna irrisolvibile attraverso normali procedure che mette in pericolo la sussistenza della stessa comunità. Ma Leggiamo le righe tratte dall’opera di Filostrato: “Fatevi coraggio, perché oggi stesso metterò fine a questo flagello (la pestilenza). E con tali parole condusse (Apollonio) l’intera popolazione al teatro, dove si trovava l’immagine del dio protettore.

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Lì egli vide quello che sembrava un vecchio mendicante, il quale astutamente ammiccava gli occhi come se fosse cieco, e portava una borsa che conteneva una crosta di pane; era vestito di strac ci e il suo viso era imbrattato di sudiciume. Apollonio dispose gli Efesi attorno a sé, e disse: “-Raccogliete più pietre possibili e scagliatele contro questo nemico degli dei-”. Gli Efesi si domandarono che cosa volesse dire, ed erano sbigottiti dall’idea di uccidere uno straniero così palesemente miserabile, che li pregava e supplicava di avere pietà di lui. Ma Apollonio insistette e incitò gli Efesi a scagliarsi contro di lui e a non lasciarlo andare. Non appena alcuni di loro cominciarono a colpirlo con le pietre, il mendicante che prima sembrava cieco gettò loro uno sguardo improvviso, mostrando che i suoi occhi erano pieni di fuoco. Gli Efesi riconobbero allora che si trattava di un demone e lo lapidarono sino a formare sopra di lui un gran cumulo di pietre. Dopo qualche momento Apollonio ordinò loro di rimuovere le pietre e di rendersi conto di quale animale selvaggio avevano ucciso. Quando dunque ebbero riportato alla luce colui che pensavano di aver lapidato, trovarono che era scomparso, e che al suo posto c’era un cane simile nell’aspetto a un molosso, ma delle dimensioni di un enorme leone. Esso stava lì sotto i loro occhi, spappolato dalle loro pietre, e vomitando schiuma come fanno i cani rabbiosi. A causa di questo la statua del dio protettore, Eracle, venne posta proprio nel punto dove il demone era stato ammazzato”.

Si sono messe in evidenza graficamente alcune parole significative dalle quali si possono comprendere i meccanismi classici del sistema vittimario. Questo brano rappresenta chiaramente come in

180 Girard giunge a definire il sacrificio come “una violenza senza rischio di vendetta’’, in quanto dalla documentazione analizzata ricava che si usano sempre persone o animali ‘non vendicabili’. La vendetta costituisce una minaccia insopprimibile, è un processo infinito, interminabile. Girard classifica in tre categorie tutti i mezzi messi in atto dagli uomini per proteggersi da una vendetta interminabile: i mezzi preventivi, gli impedimenti alla vendetta, il sistema giudiziario. Tutti codesti procedimenti, che permettono agli uomini di moderare la loro violenza, presentano delle analogie: in quanto nessuno di loro è estraneo alla violenza si può riconoscere l’identità positiva della vendetta, del sacrificio e della penalità giudiziaria. Finché non si crea un organismo che possa sostituirsi alla parte lesa e riservarsi la vendetta sussiste però il pericolo di una escalation interminabile. Nei popoli primitivi, per i quali non esiste un sistema giudiziario, è il sacrificio ad aiutare a tenere a bada la vendetta: il sacrificio è perciò, nella lotta contro la violenza, uno strumento di prevenzione che polarizza le tendenze aggressive su vittime reali o ideali, animate o inanimate, mai suscettibili comunque di essere vendicate. In queste società l’accento cade sulla prevenzione poiché i mali che la violenza rischia di scatenare sono molto grandi e i rimedi aleatori: e la sfera del preventivo è anzitutto quella religiosa. Il religioso mira sempre a placare la violenza e ad impedirle di scatenarsi; e poiché la prevenzione religiosa spesso può assumere un carattere violento, Girard conclude che violenza e sacro sono inseparabili. Cfr.

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seguito ad una situazione di grave crisi intestina (pestilenza) la folla in preda al panico si fa plagiare da un individuo, Apollonio, al quale sono attribuiti strani poteri magici. Tuttavia l’elemento fondamentale è che Apollonio, conoscendo molto bene il funzionamento del sistema del capro espiatorio, si pone nei confronti della città in modo emblematico: convince la gente che uccidendo un singolo individuo i problemi sarebbero scomparsi. Infatti, una volta scelta la vittima riesce facilmente a far vedere alla folla oramai contagiata dal mimetismo quello che egli stesso vuole che sia osservato, ossia che non si tratta di un uomo, ma di un demone che, in quanto tale, è responsabile della pestilenza e dell’odio verso la comunità. Non a caso il capro espiatorio scelto è un mendicante straniero, vestito di stracci, sporco e apparentemente cieco180. Rappresenta quella tipologia di persona che sta agli antipodi della comunità sociale, è il classico emarginato mal visto in genere da tutti. Proprio per questo gli Efesi possono convincersi della colpevolezza del povero uomo, se fosse stato invece una persona di spicco non sarebbe probabilmente scattata alcuna scintilla tale da innescare l’atto violento. A riprova di ciò, in un primo momento, i cittadini non capiscono perché debbano ammazzare barbaramente, senza prove, il mendicante; rimangono sbigottiti ed increduli e sembra che Apollonio non riesca nel suo intento. Ora si presenta un altro problema: perché la folla unanime si scaglia improvvisamente contro la vittima lapidandola? Perché dopo le pressanti parole di Apollonio che tendono a distogliere l’attenzione dall’atto violento in sé, parlando del mendicante come nemico degli dei, qualcuno scaglia la prima pietra, qualcuno maggiormente contagiato e non di meno plagiato compie il gesto fondatore auspicato dal fomentatore? Successivamente tutti gli altri imitando il modello, appena creatosi, diventano talmente sicuri della colpevolezza dell’individuo che scorgono nei suoi occhi il fuoco, un segno demoniaco che accresce ancor più i sospetti: ora non resta che completare la lapidazione. Il brano si conclude con la ricomposizione del conflitto, con la conciliazione della folla ed un sentimento di giustizia che è stata fatta. R.GIRARD, La violenza e il sacro, pp. 49-50. 181

Cfr. ivi, cit. p. 121.

182

Cfr. ivi, cit. p. 139-140. Cfr. anche C. TROISFONTAINES, L’identité du social et du reli gieux selon René Girard, in « Revue philosophique de Louvain » 78 (1980), p.87.

114


Non bisogna sottovalutare la presenza nel testo della figura di Eracle: come visto sopra il meccanismo vittimario dei miti prevede un transfert di divinizzazione che permette, attraverso il riconoscimento della trascendenza della vittima, di nascondere e di far passare in secondo piano il transfert violento e barbaro cosicché la folla non comprenda il male commesso così da permettere un’ulteriore ricorso al capro espiatorio quando sarà richiesto. Tuttavia il “miracolo” di Apollonio non rientra nella tipologia dei miti classici, come ad esempio il Dionisismo, ma presenta delle differenze essenziali che lo rendono un mito incompleto e di conseguenza incapace di nascondere pienamente la violenza commessa dalla massa. Infatti, dopo la lapidazione, gli Efesi non sembrano riconoscere al mendicante ucciso, anzi all’animale che sembra aver preso il suo posto, alcuna forza divina. Ed è proprio per questo che è subito posta la statua d’Eracle sul posto. Non ci si trova di fronte ad un meccanismo completo e spontaneo, ma ad un abbozzo di mito che proprio per questa deficienza permette di rendere ancor più chiara e comprensibile a noi la barbaria e l’aggressività esperita contro il capro espiatorio. In moltissimi miti è possibile decifrare la dinamica sacrale della violenza originaria.

183

Cfr. R.GIRARD, Il capro espiatorio, p. 220.

184

Cfr. ivi, cit. p.220. Girard stesso nota come, in molti casi, l’animale-vittima viene separato dagli altri animali e costretto a vivere in modo domestico. In tal modo l’animale è simile e differente rispetto alla comunità umana, ma anche simile e differente rispetto agli altri animali dai quali è separato. 185

Cfr. R.GIRARD, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, p. 266-267.

115


Tuttavia il sacrificio, come termine in senso stretto, è un rito, per cui sorge spontaneamente la domanda sulla relazione tra il meccanismo vittimario delle origini e il sacrificio rituale successivo181. L’antropologo francese vede un legame imprescindibile che si risolve in una forte dipendenza del rito dalla violenza originaria. Girard stesso afferma: “Il sacrificio rituale è fondato su una duplice sostituzione; la prima, quella che non si scorge mai, è la sostituzione di tutti i membri della comunità ad uno solo; essa poggia sul meccanismo della vittima espiatoria. La seconda, la sola propriamente rituale, si sovrappone alla prima; sostituisce alla vittima originaria una vittima appartenente ad una categoria sacrificabile”182.

Pertanto il rito sacrificale imita l’evento originario sacrificale in quanto agisce sul medesimo meccanismo della sostituzione183. Inoltre Girard risolve anche il problema della differenza tra l’originaria vittima sacrificale ( che è un uomo che viene sostituito ad altri uomini) e la vittima dei sacrifici rituali ( che è un animale che viene sostituito all’uomo) affermando che già la vittima delle origini assomma a sé caratteri di ambiguità e ambivalenza poiché assomma in sé l’appartenenza alla comunità umana e l’alterità rispetto ad essa. Questo meccanismo di somiglianza e dissomiglianza si riproietta nella vittima rituale animale184 che è resa eccezionale dallo stesso processo rituale, a partire dal suo momento preparatorio. Tuttavia anche

186

Girard stesso attesta: “La produzione del sacro è di necessità inversamente proporzionale alla comprensione dei meccanismi che lo producono”. Cfr. R.GIRARD, Il capro espia torio, p. 177. 187

Cfr. IDEM, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, pp. 110 ss.

188

Cfr. IDEM, Il capro espiatorio, pp. 177-178. Rispetto a Freud e ad altri ricercatori della psicanalisi, la differenza sta nel fatto che Girard non sottolinea un inconscio individuale o collettivo, ma una storia “immemorabile”, di una dimensione diacronica “non accessibile” ai modi di pensiero attuale. 189

Tuttavia, per Girard, non è la vittima stessa che causa la violenza e che promuove la pace con il suo sacrificio, ma i membri della comunità sono coloro che, a causa del desiderio mimetico causano la violenza, e in virtù del meccanismo vittimario promuovono la pace. Cfr. IDEM, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, p.64. 190

Cfr. R.GIRARD, L’antica via degli empi, Adelphi, Milano 1994, pp. 176-205.

191

Cfr. ivi, p.191.

116


il sacrificio rituale proprio perché istituisce l’ambivalenza della vittima espiatoria crea una pace sociale apparente che rimane nella logica della violenza. Lo schema sacrificale rituale punta, sia sull’eccezionalità della vittima, sia sul mantenimento dei rapporti differenziali interni alla società, sia evitando la confusione disgregante ricorrendo alla violenza ed, implicitamente ed esplicitamente, identificandosi con essa nel momento in cui non ottiene lo scopo desiderato185.

4 SMASCHERAMENTO

DEL MECCANISMO VITTIMARIO

Per comprendere il successivo sviluppo dell’ipotesi girardiana sul sacrificio, occorre sottolineare che la trama mimetica che lega il sacro e la violenza, attraverso il sacrificio, “funziona” proprio perché non è conosciuta186. Per questo Girard ritiene che 1’azione sacrificale sia necessariamente “misteriosa”187, sottoposta cioè ad un misconoscimento: i fedeli non conoscono e nemmeno devono conoscere il meccanismo mimetico e il ruolo che nei sacrifici è svolto dalla vio lenza. Come in Freud, il sacro nasce da ciò che è nascosto alla co192

Il compito del Gesù storico è soprattutto quello convincere la comunità puntando sulla conoscenza. Girard stesso tuttavia è consapevole che una cosa è rettificare la conoscenza ed altro è eliminare i conflitti. Proprio per la consapevolezza di questa dicotomia, Girard insiste sul fatto che il messaggio cristiano resta fondamentalmente non violento e che le divisioni sono da attribuirsi a coloro che non si convertono. Cfr. R.GIRARD, Delle cose na scoste sin dalla fondazione del mondo, p. 264. 193

Il processo storico posto in atto dall’ebraismo e dal cristianesimo svela la causa autentica della violenza, proponendo una nuova terapia Girard presenta molti esempi dell’AT: il caso più evidente è quello dei profeti e in particolar modo dei canti del servo di JHWH. Sebbene nella figura del servo si possono scorgere le caratteristiche della vittima espiatoria, “ non si ha tuttavia a che fare con un sacrificio rituale ma con un evento storico spontaneo”( Cfr. ivi, cit. p.208): non si cerca una vittima sacrificale ma si denuncia la violenza subita nella storia da un personaggio. I vangeli portano a compimento questo nuovo atteggiamento. 194

Cfr. ivi, cit. p. 223; Cfr. anche p. 229.

195

Cfr. R.GIRARD, Vedo Satana cadere come la folgore, pp. 4-14. Già in Delle cose nasco ste sin dalla fondazione del mondo, a pag. 215 Girard aveva dato la seguente definizione: “ Satana è il nome del processo mimetico nel suo insieme; per questo motivo egli è fonte, non soltanto di rivalità e di disordine, ma di tutti gli ordini menzogneri entro i quali vivono gli uo mini”. 196

Cfr. IDEM, Vedo Satana cadere come la folgore, p. 34.

117


scienza188. Ma il problema che nasce ora per Girard è molto rilevante: infatti, com’è stato sopra sottolineato, quasi sempre le tregue conseguite con il meccanismo vittimario sono temporanee, di breve durata189. Ne consegue quindi un nuovo ricorso al capro espiatorio e così via in una serie di violenze ininterrotte. Secondo Girard è a causa di questo risvolto temibile che si rende necessario un intervento dal l’esterno di qualcuno capace di svelare il processo vittimario rendendo i membri delle folle coscienti del male che vanno a fare e dell’inutilità di simili episodi di violenza arbitraria190. Tuttavia, per svelare ciò, si deve essere immuni al contagio mimetico che colpisce gli uomini in modo da osservarne il funzionamento per poi descriverlo e rendere dotte le persone “accecate”191. E’ chiaro come una persona con tale capacità debba essere meta-umana poiché uno degli aspetti consustanziali all’individuo è quello d’essere preda del mimetismo, si prospetta perciò un intervento della trascendenza:per Girard questa persona è il Cristo192. Si può già intuire il ruolo primario e fondamentale dei Vangeli e della Sacra Scrittura all’interno della storia dell’umanità193. Ed ecco il ruolo fondamentale di Cristo che, possedendo un’essenza metafisica, è immune al contagio mimetico potendo così osservare il meccanismo vittimario dall’esterno in modo tale da svelarne la violenza. I Vangeli decostruiscono e smantellano i miti rivelandone il meccanismo, rivelando che la vittima sacrificata ingiustamente non è colpevole, non deve essere immolata poiché la violenza ri-crea violenza, contribuisce a costituire un circolo vizioso nel segno della violazione dei diritti umani, anche del capro espiatorio194. Girard analizza, nella sua opera “ Vedo Satana cadere come la folgore”195, i Van197

Cfr. ivi, cit. p. 168.

198

Tuttavia la difficoltà di cui Girard sembra non accorgersi, è che la violenza non trova il suo fondamento solo nel desiderio, ma anche e soprattutto nell’azione. Si può sospendere ogni desiderio mimetico e mettere in pratica il messaggio evangelico ma con questo non si è detto che si è usciti dal circolo dell’azione violenta. 199

Cristo si rivolge così alle genti parlando di Satana: “Perché non comprendete il mio linguaggio? Perché non potete dare ascolto alle mie parole, voi che avete per padre il diavolo, e volete compiere i desideri del padre vostro. Egli è stato omicida fin dal principio e non ha perseverato nella verità, perché non vi è verità in lui. Quando dice il falso, parla del suo, perché è menzognero e padre della menzogna” (Gv. 8, 43-44 cit. in R. GIRARD, Vedo Sata na cadere come la folgore, cit p. 168). 200

Cfr. ivi, pp. 168-170.

118


geli dal punto di vista antropologico196 sottolineando il primato dell’insegnamento Giudaico-Cristiano che si vota al rispetto della persona, alla tutela delle vittime innocenti e immolate ingiustamente: “La Resurrezione di Cristo- afferma l’autore- corona e porta a termine il sovvertimento e la rivelazione della mitologia, dei riti, di tutto ciò che assicura la fondazione e la perpetuazione delle culture umane. I Vangeli rivelano tutto quello di cui gli uomini hanno bisogno per comprender la loro responsabilità nelle infinite violenze della storia umana e nelle religioni menzognere che ne derivano. (…) L’elaborazione mitica si fonda su un’ignoranza, anzi su un’inconsapevolezza persecutoria che i miti non arrivano mai a identificare, dal momento che ne sono dominati”197.

Bisogna però specificare che Girard non è un autore metafisico, ma analizzando antropologicamente i comportamenti umani, si rende conto dell’eccezionale “scoperta”: i Vangeli e la Sacra Scrittura richiamano fortemente un piano meramente antropologico legato al desiderio198. L’autore francese identifica l’età pre-cristiana (quella dei miti) con il Regno di Satana: Satana è il portatore di violenza per eccellenza, è il padre dei miti e della menzogna, è il fondatore del meccanismo vittimario in quanto lo sostiene e ne è il fondamento199. Non bisogna però intendere Satana dal punto di vista religioso, ma da quello meramente antropologico: egli è il portatore di scandali per eccellenza dove per scandalo s’intende il meccanismo vittimario e le sue inevitabili conseguenze tragiche. Satana è, prendendo alla lettera i testi evangelici, il Re delle Tenebre: secondo Girard le tenebre non sono altro che una metafo ra per indicare la condizione d’accecamento della folla in preda a fre nesia mimetica. Ecco perché Cristo, in punto di morte, chiede perdono per i suoi aguzzini che non sanno quello che fanno: sono ancora incapaci di comprendere il male che vanno a commettere e che le folle hanno commesso in secoli di storia caratterizzata dai miti e dal processo vittimario200. Afferma l’autore: “E’ la famosa frase che Gesù pronuncia dopo essere stato crocefisso: -Padre, perdonali perché non sanno quello che fanno- (Luca, 23, 34). Come per le altre frasi di Gesù, dobbiamo guardarci

201

Cfr. ivi, cit. p. 169.

202

Cfr. ivi, pp. 172-180.

119


dallo svuotare queste parole dal loro senso fondamentale riducendole ad una formula retorica, ad un’iperbole lirica. Ancora una volta bisogna prendere Gesù alla lettera. Egli descrive l’incapacità, da parte della folla scatenata, di vedere la frenesia mimetica che la scatena. I persecutori credono di << far bene >> e sono convinti di operare per la verità e la giustizia, credono di salvare in tal modo la loro comunità”201.

Ma come riesce Gesù a svelare il meccanismo vittimario consentendo agli Apostoli di descriverlo, nella sua crudezza, nei Vangeli? Girard per rispondere a questa essenziale domanda analizza la persecuzione di Cristo da un punto di vista antropologico raffrontandola con il classico processo del capro espiatorio tipico della mitologia202. Innanzitutto sostiene che fino al momento della Resurrezione il procedimento è quasi uguale: la comunità giudaica si sente minacciata dalle predicazioni di Cristo ed individua in lui un perfetto capro espiatorio. Pilato, comprendendo la situazione critica venutasi a creare, preferisce assecondare la folla ostile a Gesù mettendo la sua sorte in mano al popolo. In preda a frenesia mimetica il popolo, unanime, lo condanna a morte. Anche i discepoli sembrano essere inglobati nel contagio mimetico: infatti Pietro rinnega il suo Maestro, non volendo contestare l’opinione comune, nel rischio di essere immolato anche lui. Tuttavia la vera unicità del messaggio cristiano sta nella Resurrezione: se il primo transfert, quello dell’aggressività è stato compiuto, quello conclusivo invece viene evitato, per la prima volta il meccanismo vittimario è sconfitto, satana è stato sconfitto. Già i fenomeni atmosferici descritti dai Vangeli al momento della morte di Cristo fanno sorgere una minoranza contestataria: alcuni persecutori si rendono conto del proprio errore, capiscono che hanno commesso un atto ingiustificato, riconoscono l’unicità di colui che hanno crocefisso. Ma questo non sarebbe sufficiente. Dopo tre giorni Gesù appare Risorto agli Apostoli, porta con sé un “dono” per l’umanità colpevole per secoli di aver messo a morte o espulso ingiustamente dei loro simili. Attraverso la “Resurrezio ne-dono” gli autori fanno conoscere il messaggio di Cristo, rendono

203

Cfr. ivi, cit. p. 184.

204

Cfr. ivi, cit. p. 187.

205

Cfr. ivi, cit. p. 189.

120


consapevoli le comunità della falsità del Regno di Satana (mitologia del processo vittimario) e del primato del Regno di Dio che è il Regno dello smascheramento del sistema vittimario stesso. Non ci devono essere più vittime espiatorie, mai più sacrifici inconsistenti e ininfluenti per il raggiungimento dell’ordine sociale. Il Cristianesimo segna il trionfo della Croce e la sconfitta di Satana che “cade come la folgore”, vede infrangere il suo principato votatosi alla violenza mimetica. Afferma Girard: “Il trionfo della Croce non è ottenuto in alcun modo con la violenza, ma al contrario è il frutto di una rinuncia così totale alla violenza che quest’ultima può scatenarsi a sazietà su Cristo, senza sospettare di rendere palese proprio con il suo comportamento ciò che le sarebbe vitale nascondere, senza sospettare che tale scatenamento le si ritorce stavolta contro, perché sarà registrato e rappresentato nella maniera più esatta nei resoconti della Passione (i Vangeli)”203.

Ed ancora in un passo successivo ma importante nella prospettiva girardiana, l’antropologo francese afferma: “La sofferenza sulla Croce è il prezzo che Gesù accetta di pagare per offrire all’umanità questa rappresentazione vera dell’origine di cui resta prigioniera, e per privare a lunga scadenza il meccanismo vittimario della sua efficacia”204.

Qualora non ci fossero stati i Vangeli l’umanità sarebbe tutt’ora sottoposta ai processi che culminano con il sacrificio del capro espiatorio, con atti di pseudo-giustizia sommaria, con atti di usurpazione del potere: “E’ proprio là, dove non è rappresentata, che la frenesia mimetica può esercitare un ruolo generatore per il fatto stesso che non è rappresentata. (…) Le società mitico-rituali sono prigioniere di una circolarità mimetica alla quale non possono sottrarsi proprio

206

Cfr. ivi, cit. pp. 189-190.

207 Il contenuto ideologico della logica della non violenza e prassi susseguente implicano per Girard sempre una modifica degli equilibri sociali, la modifica dei rapporti di potere. Cfr. ivi, p. 189. 208

K.APEL, Scientificità, ermeneutica, critica dell’ideologia. Abbozzo di una dottrina della scienza nella prospettiva di un’antropologia della conoscenza, in AA.VV., Ermeneutica e cri tica dell’ideologia, a cura di G.RIPANTI-G.TRON, Queriniana, Brescia 1979, pp. 25-59.

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perché non la identificano”205.

Il Gesù storico, con i suoi comportamenti, istituisce un contro-modello cristiano che, opponendosi a quello tipico della mitologia, fa sì che chi lo segue interrompe il ciclo di violenza satanico infrangendo la barriera della folla unanime che si scaglia contro il capro espiatorio. Per la prima volta una minoranza contestataria segue Cristo e non la folla. Oltre alle sostanziali differenze che ho fin qui menzionato Girard sostiene che se da un lato, nei miti, la narrazione vede come soggetto la folla scatenata contro una vittima colpevole, i Vangeli invece narrano le vicende di Cristo-soggetto, come vittima innocente sacrificata per il bene dell’umanità206. Si potrebbe pensare che anche la Crocifissione faccia parte del meccanismo vittimario e ciò non è sbagliato, ma se nella mitologia questo circolo è infinito, sempre necessario, con la morte di Gesù invece esso ha termine una volta per tutte: la violenza di tutti contro uno non sarà più, almeno in teoria, fondamentale, Cristo ha rivelato ed introdotto un nuovo modello di Regno e di intersoggetività207.

5 VALUTAZIONE

DEL METODO E DELLE IPOTESI GIRARDIANE

Girard s’inserisce in quella tendenza generale della posizione scientifica degli ultimi secoli descritta da Apel208. Intorno al dilemma, “spiegare o comprendere” la religione, si scontrano oggi gli studi di epistemologia: chi difende la “spiegazione” cerca quella scientificità che si basa sui concetti di regolarità universale, ripetibilità e controllo sperimentale che consentono di fare previsioni “oggettive”; chi difende la “comprensione” ha a che fare con nozioni quali controllo so-

209

Con tale procedimento Girard struttura l’intera sua ipotesi. Cfr. E.WEB, The New Social Psycology of France: The Girardian School, in “Religion” 23 (1993),pp.255-256 210

Cfr. R.GIRARD, Dostoevskij dal doppio all’unità, SE, Milano 1987,p. 24

211

Tuttavia il richiamo alla cultura classica greca deve sempre essere interpretato all’interno del rapporto tra ciò che si compie nel rito e ciò che si narra nel mito. 212

Cfr. C.TROISFONTAINES, L’identité du social et religieux selon René Girard, p.87.

213

Cfr. F.H.ISAMBERT, L’élaboration de la notion du sacré dans l’école durkhéimienne, in « Archives de sciences sociales des religions » 42 (1965), p.39.

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ciale, senso, soggettività, intenzionalità, orientamento di fini e si dichiara tributario dell’ermeneutica contemporanea impegnata a rivendicare una propria area di originalità alle scienze dello spirito. Entro tale problematica è possibile riconoscere nell’ipotesi sociologicofunzionalista girardiana una spiegazione di tipo causale, in quanto il rapporto causa-effetto è visto nella relazione inconscia del comportamento che “sacrifica” per mantenere o riportare l’ordine sociale209. Due momenti della visione girardiana si presentano come importanti nell’approccio al fenomeno religioso del sacrificio210. In primo luogo il metodo di Girard consiste in un’interessante “avventura antropologica” che sul materiale della letteratura soprattutto classica ( in particolar modo della tragedia della Grecia classica211) soddisfa l’esigenza di studio di trovare le strutture unificanti della violenza e dei suoi meccanismi. L’evidente attenzione agli aspetti formali unificanti lo porta a presentare la violenza come un “principio rivelatore”. Il pensiero girardiano si caratterizza pertanto per una tendenza alla sintesi, alla riduzione: si sforza non di sottolineare le diversità ma di ridurre la diversità e la complessità di un fenomeno all’unità. In secondo, Girard concentra ogni sforzo di “spiegazione” del fenomeno religioso sulla realtà sociale e culturale cui esso è congiunto212. Nei socio-antropologi a cui Girard si ispira vi è il grande merito di leggere la religione all’interno dell’universo simbolico- cul turale che una data società si costruisce e la propensione a considerare la religione, in questo contesto, mai come pura ma sempre applicata e cioè funzionale al mondo simbolico-culturale213. Anche per Girard la religione è interpretata dunque dal punto di vista sociologico-funzionalistico. Si tratta di un approccio che si concentra sull’aspetto socioculturale e che si risolve pertanto in uno studio simbolico-culturale del fenomeno religioso. 214

Un’obiezione al termine mimesis e all’ipotesi girardiana è stata posta dall’interpretazione psicanalitica del sacrificio elaborata da R.Money-kirle: le religioni, attraverso il mondo rituale dei sacrifici, sembrano aver intuito che è la differenza e non l’imitazione, l’origine della prassi e che non si può far dipendere tutto dalla mimesis, perché significherebbe fare dipendere tutto dal comportamento umano e dalla logica dell’avere. Cfr. R.MONEYKYRLE, Il significato del sacrificio, Bollati Boringhieri, Torino 1994, pp. 97-181. 215

Il sacrificio rituale è imitazione del linciaggio unanime originale quale modello proprio perché offre gli stessi effetti: catalizzazione dell’aggressività, riconciliazione, espulsione e sacralizzazione della vittima, mantenimento del sacro nella trascendenza deviata. Cfr. R.GIRARD, Delle cose nascoste fina dalla fondazione del mondo, pp. 25-36.46.151.

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Girard propone questa teoria antropologica analizzando i com portamenti umani durante una crisi collettiva. Infatti, come abbiamo visto, Girard afferma che in ogni occasione simile ci si trova di fronte ad una precisa tipologia di risoluzione del problema che funziona nel seguente modo: le singole rivalità tra gli uomini degenerano velocemente dando vita ad un desiderio unanime e indifferenziato di vendetta. E ci spieghiamo con esempi per comprendere il funziona mento tipologico in Girard. Il propagarsi del sentimento di vendetta è definito come con tagio mimetico214 che si spande a macchia d’olio all’interno della comunità, colpendo qualsiasi cittadino anche il meno coinvolto. Successivamente viene a costituirsi una folla contagiata pronta a scegliere una singola vittima contro cui polarizzare tutto l’odio generatosi. E’ interessante soffermarsi su questa folla: ci troviamo di fronte ad una massa d’uomini che, esasperati dalla crisi interna, si uniscono in preda a frenesia mimetica in quanto l’essere, secondo l’altro, fa in modo che da un gruppo ristretto e circoscritto di “contestatori” si passi alla formazione di una collettività pronta a lasciarsi andare ad un episodio di violenza. Una volta individuata la vittima, essa è sacrificata, linciata dalla comunità in preda a mimetismo violento e degenerato ed in seguito a quest’atto finale si verificherà la ricomposizione della situazione conflittuale215. Girard, tuttavia, approfondisce il sistema vittimario, sottolineando metodologicamente, anche i motivi che portano alla scelta dello specifico capro espiatorio e il motivo per cui la folla non si sottragga dal compiere un atto cruento contro un proprio simile. Innanzitutto Girard, analizzando sia singoli miti e soprattutto molte plici eventi storici, è giunto alla conclusione che la folla in preda a frenesia mimetica sceglie le proprie vittime non in base ad un crite rio di colpevolezza provata, ma a seconda di caratteristiche fisico-bio logiche216. Quindi non si ricorre ad un normale procedimento incriminante tipico dei processi democratici, ma ci si scaglia contro un

216

In questa prospettiva è interessantissima l’evidenziazione posta da Terrin: “La religione, in questo caso, con la sua visione primitiva rimane ancorata al suo immemorabile profilo bio logico, e sembra pertanto superare ogni fatto culturale che si lega inevitabilmente a prodotti effimeri nel tempo”. Cfr. A. N. TERRIN,Il pasto sacrificale nella storia comparata delle reli gioni, cit. p. 310.

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individuo che, da una prima analisi esteriore, è la causa potenziale della crisi che ha investito la comunità. Tuttavia non è sufficiente un mero difetto fisico per scatenare la violenza della massa accecata dal mimetismo. E’ evidente come in momenti di crisi intestina il rapporto triangolare non provochi la rivalità tra persona desiderante e mo dello invidiato perché tutti si riconoscono danneggiati allo stesso modo e in cerca di giustizia allo stesso modo: tutti sono in quest’occasione amici di tutti anche se nella quotidianità spesso non è così. Il contagio mimetico comporta questo tipo d’aggregazione apparentemente spontanea. La folla, una volta scelta la propria vittima, è unita e sicura che il sacrificio di essa sia giusto e soprattutto utile alla

217

Il privilegio dato all’etica e alla conoscenza trova la sua radice nel desiderio, come mo dalità dell’autocoscienza, che è il fondamento della violenza e dell’intero schema sacrificale. Da un punto di vista di ricerca e valorizzando il grandissimo lavoro di Girard, sarebbe interessante ipotizzare che invece sia l’azione il fondamento della violenza. Per lo spostamento metodologico dal desiderio all’azione Cfr. G.BONACCORSO, Il sacrificio come rito o come evento? Un problema aperto in René Girard, in Il sacrificio evento e rito, pp. 199-202. Come attuazione di questa possibilità all’interno dello schema sacrificale girardiano, il termine azione potrebbe riferirsi: 1)allo stato del soggetto, in quanto agenti attivi o passivi della violenza: in questo caso gli at tori del sacrificio vengono analizzati nel loro giocarsi, o meglio mimarsi, il ruolo del sacrificabile o del sacrificatore ( sacerdoti, vittime,partecipanti, spettatori, lettori). 2) alla violenza stessa per cui il soggetto agisce: in questo caso azione indica la forza o l’e nergia che presiede al processo dinamico della violenza. Può indicare un processo violento di ordine fisico o causale oppure può riferirsi al fondo ontologico di ogni dinamismo violento. [Fondamentalmente questa è la fase in cui Bonaccorso pone il termine “azione” richiamando alla memoria il faustiano “Am Anfang war die Tat-all’inizio era l’azione”. In questo caso, in una tipica rilettura filosofica blondeliana, azione è sinonimo di assoluto, cioè matrice primordiale di ogni apparire. Per Bonaccorso l’azione è il punto di partenza che porta a scoprire l’essenza della violenza: dall’analisi delle esigenze dell’azione si giunge ad affermare l’esistenza della violenza nel mondo esterno con una garanzia di oggettività derivante dal fatto che nessuno può rinunciare a vivere l’azione. Girard potrebbe obiettare che l’utilizzo del termine desiderare ( in un bagaglio lessicale proprio dell’idealismo romantico), è sinonimo di azione.] 3) alla violenza come stato agito in quanto azione violenta: in questo caso l’azione indica il termine del processo di esplicitazione della violenza e assume tanti significati quanti sono i modi di mettere in relazione l’agito con la violenza che esplicita. In questo contesto possiamo rileggere i termini di desiderio e responsabilità etica in Girard, poiché è proprio in questo terzo caso che avviene la distinzione tra actio hominis, cioè l’azione violenta proveniente materialmente dall’uomo e l’actio humana, cioè quelle azioni desiderate in modo cosciente e libero dalla volontà umana. 218

Uno dei concetti fondamentali girardiani è appunto quello della responsabilità. Cfr. R.GIRARD, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, p. 272. 219

Cfr. ivi, cit. p. 260.

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ricomposizione della crisi. Questo perché, una volta contagiati, gli uomini sono letteralmente accecati e perciò incapaci di rendersi conto del male che stanno andando a fare, dell’estrema ingiustizia ed infondatezza della violenza contro il capro espiatorio. Ma il motivo principale è che il meccanismo vittimario ha sempre funzionato da quando vi si è ricorsi. La situazione conflittuale è sempre stata ricompo sta, seppur momentaneamente, consentendo la conciliazione delle genti. Viene spontaneo chiedersi come mai il meccanismo vittimario riesca a riportare la pace tra gli uomini attraverso un omicidio o un’espulsione dalla comunità. Bisogna analizzare il modo in cui è sacrificata la vittima e la successione degli eventi dopo l’esecuzione dell’atto. Si rende però necessario, in questo momento, specificare che se da un lato la prima fase del processo vittimario sia uguale per qualsiasi singolo episodio di tale natura, dall’altro è differente invece la fase conclusiva a seconda se si prende in considerazione un episodio mitologico o un episodio avvenuto in età cristiana dove per età cristiana s’intende tutta la storia dell’umanità che inizia con la Rivelazione, con il messaggio di Cristo e dei Vangeli. Le conseguenze di questa constatazione sono rilevanti. L’ipotesi di Girard sembra, infatti, costruita su due pilastri: quello dell’etica e quello della cono scenza217. Sul pilastro dell’etica Girard stesso è esplicito: “Sono gli uomi ni, in realtà, ad essere responsabili di tutto”218 e ancora afferma: “Gli eventi successivi alla predicazione del regno di Dio dipendono interamente dall’accoglienza che le riservano gli uditori di Gesù. Se avessero accettato l’invito senza riserve mentali, non ci sarebbero mai stati annuncio apocalittico né crocifissione”219.

Il pilastro della conoscenza si evidenzia nel momento in cui Girard afferma che la civiltà umana è sotto l’illusione satanica del

220

Cfr. R.GIRARD, Il capro espiatorio, p. 174

221

Interessante il confronto con Eliade: “La creazione non può avvenire se non partendo da un essere vivente che viene immolato. Quest’unico essere si trasforma in cosmo e rinasce, moltiplicato, nelle specie vegetali e nelle diverse razze umane. Una totalità vivente esplode in frammenti e si disperde in una moltitudine di forme animate. In altre parole ritroviamo qui il ben noto schema cosmogonico della totalità primordiale, spezzata e frammentata dall’atto della creazione”. Cfr. M.ELIADE, Mythes, rêves et mystères, Gallimard, Paris 1957, p.47. 222

Cfr. R.GIRARD, Il sacrificio, cit. pp. 13-14.

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sacro e del sacrificio, cui ha messo fine solo il sapere contenuto nei Vangeli. Afferma l’autore stesso: “Se vorremo liberare definitivamente l’uomo è a questo sapere che dovremo ricorrere”220. In realtà sia l’etica, sia la conoscenza si sovrappongono in Girard creando un sovvertimento nel quadro di riferimento di tutte le prospettive antecedenti sull’interpretazione del sacrificio stesso che sembra ampliarsi in una lettura “cosmologica” della figura dell’ormai capro-espiatorio divinizzato221.

SINTESI

DEI RISULTATI

Riferendoci, come abbiamo fatto nel capitolo precedente, al tema di questa tesi che tende ad analizzare il sacrificio cruento ed a verificare gli elementi di passaggio ad un sacrificio che abbiamo definito spirituale, affrontiamo le linee conclusive di questo capitolo riportando un’ affermazione dell’ultimo Girard: “No, il sacrificio non può essere definito innanzitutto come un discorso. No, l’analisi sausseriana non può regolare i suoi conti con il religioso. E’ a suo rischio e pericolo che una scienza ai suoi primi passi si prende gioco del senso comune. Bisogna tornare ad un modesto realismo delle discipline ancora balbettanti. Occorre ridestare quella curiosità che è il vero motore dell’antropologia, sempre più intimidita dallo snobismo del nulla. Noi siamo la prima grande civiltà che si è sbarazzata completamente del sacrificio. L’intensa curiosità che c’ispira quest’istituzione è inseparabile dalla nostra unicità a riguardo. Essa pertanto non è esclusa. La vecchia antropologia poneva delle buone domande. Se le buo-

223

Cfr. E.O. WILSON , Genes, Mind and Culture, pp. 43ss. In base all’approccio sociobiologico sarebbe stato interessante analizzare l’imitazione secondo i modelli e i concetti base di una recente disciplina antropologica, la zooantropologia: per questa scuola, l’imitazione umana degli animali (zoomimesi) sarebbe il modello propulsivo dell’ominizzazione. L’uomo diventa il più grandioso progetto partecipativo che, per quanto ne sappiamo, la natura ha saputo mettere in atto, una sorta di “camaleonte culturale”. La neotenia umana, la sua prolungata immaturità infantile, sarebbe dunque fondamentale ad acquisire comportamenti, stili di vita e tecniche semplicemente imitandole dagli altri animali, superando così i confini della propria specie. Quanto sia fondamentale il concetto generale di imitazione però non è solo provato dall’antropologia: studiosi di diverse discipline (vedi economia, sociologia, pedagogia, psicologia, linguistica, letteratura etc.) si sono interessati ai processi imitativi: basti pensare a quanto sia importante per lo sviluppo infantile, per il marketing, per la moda, per tutte le trasmissioni culturali propriamente umane come per quelle di tutto il regno degli animali superiori (esempio: le strategie di caccia, le gerarchie sociali, tutto materiale che certo non è genetico e che viene trasmesso di generazione in generazione).

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ne risposte non sono venute non è perché queste non esistano, ma perché probabilmente non le si sono andate a cercare laddove esse si trovano. Lungi dall’esaurire le possibilità d’interrogazione, l’antropologia, nelle sue ricerche sul sacrificio, ha sempre nascosto il dato più evidentemente pertinente: la violenza”222.

Queste affermazioni di Girard sono la testimonianza di un progetto in fieri che s’impone subito per il suo assoluto interesse e per la sua potenziale fecondità ma che trova il suo fondamento sempre nel mimetismo come chiave di lettura del sacrificio223. Infatti per comprendere tutti gli stadi del meccanismo mimetico, Girard parte dalla distinzione fondamentale tra desiderio e appetito. Appetiti quali quello per il cibo o il sesso hanno carattere fisiologico e non sono necessariamente legati al desiderio. Però non appena appare un modello da imitare, qualsiasi appetito può venire contaminato dal desiderio mimetico. Con il termine appetito Girard, come Burkert nelle sue analisi, sottolinea l’aspetto istintivo del comportamento. Ma a differenza dell’autore di Homo necans Girard afferma che l’uomo, è prigioniero dell’apparato simbolico che costruisce, e il concetto di “desiderio” tende ad occupare ed a soppiantare quello di “appetito”. Comprendiamo chiaramente la differenza dall’impostazione burkertiana poiché il desiderio mimetico, per Girard, è l’ elemento fondamentale della cultura umana: chiave dell’ominizzazione e della libertà umana e che ci permette di sfuggire al comportamento animale. Ma Girard, come abbiamo analizzato, spiega che il desiderio mimetico crea conflitti: dunque cosa comporta in negativo? La risposta alla domanda formulata è esposta sistematicamente in Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo. Se il modello imitato è spazialmente vicino al/ai soggetto/i, finisce per creare rivalità verso l’oggetto desiderato da entrambi: si ha così la mimesi d’appropriazione. Se il comportamento di certi mammiferi superiori, in particolare delle scimmie, sembra preannunciare quello dell’uomo, lo si deve quasi esclusivamente, forse, al ruolo già importante , ma non ancora così importante come nell’uomo, svolto dal mimetismo di appropriazione224. Il mimetismo d’appropriazione è essenzialmente la

224

Cfr. R. GIRARD, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, p. 23.

225

Cfr. IDEM, La violenza e il sacro, pp. 204-205.

226

Cfr. IDEM, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, cit. p. 375.

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stessa cosa di una rivalità verso un oggetto conteso. Girard specifica che: “La rivalità non è il frutto di una convergenza accidentale dei due desideri sullo stesso oggetto. Il soggetto desidera l’oggetto perché lo desidera il rivale stesso. […] Due desideri che convergono sullo stesso oggetto si fanno scambievolmente ostacolo. Qualsiasi mimesis che verta sul desiderio va automaticamente a sfociare nel conflitto” 225.

Il modello per Girard diventa progressivamente un ostacolo, entrambi i concorrenti diventano doppi l’uno dell’altro: “All’inizio, come si è detto, i rivali mimetici si contendono un oggetto, e il valore di questo oggetto aumenta in ragione delle bramosie rivali che ispira. Più il conflitto si esaspera, e più la posta in gioco diventa importante agli occhi dei due rivali. Agli occhi degli spettatori, invece, non c’è assolutamente più una posta in gioco. Il valore conferito inizialmente dalla rivalità dall’oggetto non solo continua ad aumentare, ma si separa dall’oggetto per fissarsi sull’ostacolo che ciascuno dei due rappresenta per l’altro. […] Se si chiede agli avversari perché si battono, invocheranno nozioni quali il prestigio. Per ciascuno infatti si tratta di acquisire il prestigio che rischia di toccare all’altro, di diventare la potenza magica, l’analogo del mana polinesiano o del kydos greco che si aggira sotto forma di violenza tra i combattenti “226.

Il desiderio dunque tende a separarsi dall’oggetto conteso, diventa un desiderio senza oggetto: “Oltrepassata una certa soglia di frustrazione, gli antagonisti non si accontentano più di ciò che costituiva l’oggetto della loro contesa. Reciprocamente esasperati dallo scandalo, dall’ostacolo vivente che ciascuno rappresenta agli occhi dell’altro, i doppi mimetici dimenticano l’oggetto del loro litigio e si scagliano con rabbia l’uno contro l’altro. […] Anziché annullare la reciprocità dei rapporti umani, questo tipo di rivalità la rende più perfetta che mai, beninteso nel senso delle rappresaglie, non degli scambi pacifici. Più gli antagonisti desiderano differenziarsi e più diventano identici. É nell’odio dell’identico che l’identità raggiunge il 227

Cfr. IDEM, Vedo Satana cadere come la folgore, cit. p. 43.

228

Cfr. IDEM, La violenza e il sacro, cit. p. 76.

229

Cfr. IDEM, Origine della cultura, cit. p. 32.

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suo compimento. Nella mitologia, i gemelli o i fratelli nemici, come Romolo e Remo, incarnano questo momento parossistico, da me definito come conflitto tra doppi” 227.

Questa ultima citazione individua l’introduzione di un elemento fondamentale nella teoria girardiana: l’indifferenziazione. La rivalità mimetica è da intendersi come una crisi delle differenze, cioè dell’ordine culturale nel suo insieme. Questo ordine culturale, infatti, non è nient’altro che un sistema organizzato di differenze; sono gli scarti differenziali a dare agli individui la loro identità, che permette loro di situarsi gli uni rispetto agli altri228. I doppi si creano nel momento in cui l’oggetto scompare nella foga della rivalità: i due rivali, sempre più preoccupati di sconfiggersi l’un l’altro, non badano più a ottenere l’oggetto della contesa, che a quel punto diventa irrilevante, un puro pretesto al montare della disputa. In questo modo i due rivali diventano sempre più indifferenziati e sempre più identici: doppi, appunto. La crisi mimetica è sempre una crisi di indifferenziazione, che si crea quando i ruoli del soggetto e del modello si riducono a quelli di rivali. E tale indifferenziazione è resa possibile dalla scomparsa dell’oggetto della disputa229. Progressivamente, la crisi mimetica si diffonde, alla stessa maniera di una malattia contagiosa, fra tutti gli individui della comunità; proprio perché uguali l’uno all’altro, i contendenti, ormai dimentichi dell’oggetto per cui all’inizio si battevano, tendono a cambiare arbitrariamente il proprio antagonista ed a sostituirlo con qualsiasi altro all’interno del gruppo. La violenza patologica e parossistica dilaga, minacciando la sopravvivenza della stessa comunità, delle stesse famiglie, diventando talmente grande da fagocitare tutte le rivalità mimetiche. Tutti gli individui ne sono coinvolti: “Mentre all’inizio gli antagonisti occupano posizioni fisse all’interno di conflitti resi stabili dall’accanimento delle due parti, successivamente avviene che, a mano a mano che lo scontro si esaspera, il gioco degli scandali [i modelli-ostacolo] trasforma in misura crescente questi antagonisti in una folla di esseri intercambiabili. All’interno di questa massa omogenea gli impulsi mimetici non incontrano più alcun ostacolo e si espandono a grandissima velocità, evoluzione che favorisce i voltafaccia più strani, le 230

Cfr. IDEM, Vedo Satana cadere come la folgore, cit. p. 43.

231

Cfr. IDEM, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, cit. p. 118.

130


configurazioni più imprevedibili”

230

.

A differenza di quello che avviene negli altri animali, nell’uomo non ci sono meccanismi di difesa istintivi contro la violenza; gli animali possono duellare e combattere senza arrivar alla morte proprio perché sono forniti di inibizioni istintive che assicurano il controllo delle armi naturali, cioè gli artigli ed i denti. Ma per Girard è altamente improbabile che questo controllo si sia esteso automaticamente alle pietre e alle altre armi nel momento in cui gli ominidi cominciarono ad usarle. Al contrario degli uomini, è la stabilizzazione dei do minance patterns ad impedire i dissensi in seno ad un gruppo animale: “Gli etologi hanno ragione nell’ affermare che i dominance patterns svolgono un ruolo analogo a quello di certe differenziazioni e suddivisioni talvolta gerarchiche, anche se non sempre, nelle società umane […]. Presso certi mammiferi, l’individuo unico o i pochi individui che dominano il resto del branco occupano di frequente una posizione centrale. Sono costantemente osservati e imitati dagli altri maschi che si tengono alla periferia. É come dire che l’imitazione verte su tutti gli atteggiamenti e i comportamenti degli animali dominanti esclusi i comportamenti di appropriazione” 231.

Ma le società umane non poggiano su dei dominance patterns, e ciò si può constatare facilmente osservando che le rivalità fra gli uomini sfociano facilmente nell’assassinio di un membro della stessa specie, cosa del tutto rara nel mondo animale; la stessa sessualità, causa così frequente di violenza nel mondo animale, per l’uomo è permanente e non periodica, come avviene negli altri mammiferi. Una domanda essenziale del nostro discorso può dunque sorgere: come un ominide, un animale armato, addestrato alla caccia e alla guerra, ha potuto sopravvivere all’estinzione, alla sua stessa violen-

232

Comportamenti umani ed animali in questi stati di violenza mimetica si fanno sempre più simili. In etologia, ad esempio, il termine mobbing, indica un tipo di aggressione praticato da un branco quando circonda minacciosamente un esemplare del gruppo, che viene isolato ed espulso. Cfr. K. LORENZ, L’aggressività, pp.42ss. 233

Cfr. R.GIRARD, Il sacrificio, pp. 35-36.

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za, alla sua peculiare imitazione, alle crisi mimetiche? Girard risponde mediante il concetto di meccanismo vittimario, o del capro espiatorio. La mimesi di appropriazione, una volta distaccatasi dalla scintilla originaria dell’oggetto e propagatasi a macchia d’olio, diventa una mimesi di antagonismo. La folla in preda al parossismo mimetico può distogliere da sé la violenza rivolgendola in maniera arbitraria su un individuo del gruppo. Nella crescente indifferenziazione è possibile polarizzare tutta la comunità contro un unico avversario che appare subito il responsabile della catastrofe che incombe su di essa 232. La comunità si ritrova improvvisamente priva di nemici e la tranquillità si ristabilisce. Universalmente odiata in principio, la vittima, in ragione della sua forza riconciliatrice, assumerà presto le sembianze di un salvatore. Il miracolo del sacrificio è la formidabile “economia” della violenza che realizza. Esso polarizza contro una vittima tutta la violenza che, un istante prima, minacciava l’intera comunità. Questa liberazione sembra tanto più miracolosa quanto più interviene in extremis, nell’istante in cui tutto sembrava perduto233. Quest’ultima affermazione ci permette di affrontare il nodo fondamentale della domanda di fondo della nostra tesi. Il rito sacrificale, per Girard, rappresenta l’evoluzione e l’enfatizzazione di un unico principio fondatore. Come abbiamo visto, il ritorno all’ordine ed alla pace è attribuito, dopo il periodo di crisi mimetica, alla medesima causa dei disordini precedenti, alla vittima stessa. Per questo si dice che la vittima è sacra. Per questo motivo l’episodio persecutorio diventa un vero e proprio punto di partenza religioso e culturale. Da una parte, come abbiamo visto, servirà come modello per la mitologia, che lo trasfigura come un momento di origine dell’ordine e della civiltà, dall’altra parte, servirà come modello per il rituale, che si sforzerà di riprodurlo in virtù del principio che bisogna sempre rifare ciò che la vittima, in quanto creatura benefica, ha fatto o subito.

234

É molto difficile trattare la nascita dei tabù e dei divieti in maniera separata da quella del rituale, in quanto in tutte le culture umane il divieto o la rottura di esso è sempre estremamente legato alla pratica rituale. 235

Cfr. R.GIRARD, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, cit. p. 46.

236

Naturalmente è difficile trovare un rito nel quale siano contenuti tutti e tre i punti; il rito tende, nella sua evoluzione, a soffermarsi su alcuni e su di essi “istituzionalizzarsi” a scapito degli altri. Cfr. R.GIRARD, La violenza e il sacro, p. 172.

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Alla stessa maniera, la vittima, funge da contromodello per i divieti234, in virtù del fatto che non bisogna rifare ciò che ha fatto questa stessa vittima. Si comprende che in Girard sorgono due imperativi principali: 1. Non rifare i gesti della crisi, astenersi da ogni mimetismo, da ogni contatto con gli antagonisti di poco prima, da ogni gesto di appropriazione nei riguardi degli oggetti che sono serviti da causa o da pretesto alla rivalità [nascita dei divieti e dei tabù]. 2. Rifare invece l’evento miracoloso che ha posto fine alla crisi, immolare nuove vittime sostitutive alla vittima originaria in circostanze il più possibile simili a quelle dell’esperienza originaria. È l’imperativo del rituale 235. Ma perché si crea questa ripetizione rituale? Girard, nelle ultime opere risponde a questa domanda parlando di un principio, la paura, il timore cioè di ricadere in una crisi simile (una teoria che per certi versi lo avvicina alla paura hobbesiana). Soprattutto ne La violenza ed il sacro, Girard affronta uno studio comparato di alcuni riti in varie parti del mondo. Paragonando fra loro saturnali e baccanali, i litho bolia, il rito del pharmakos, del katharma, i bouphonia, lo sparagmos dionisiaco, la lapidazione e altre messe a morte rituali collettive, assieme a rituali del Borneo, africani (monarchie sacre), americani (in particolare la tribù dei Tupinamba ed i riti sacrificali delle popolazioni precolombiane) ed ai riti dell’Oceania, Girard arriva a riconoscere uno schema del tutto simile a quello riconosciuto nel mito: il rito ripete e rappresenta in maniera ossessiva la crisi mimetica sacrificale ed il suo epilogo. In esso, similmente al mito, ma in maniera reale, possiamo trovare236: 1.Rappresentazione della crisi mimetica indifferenziatrice. 2. Preparazione sacrificale, creazione ad hoc di una vittima (umana, animale, vegetale) 3.Immolazione cruenta (nei riti più evoluti, simbolica) della vittima. 133


Ma è proprio in quest’analisi che, individuando gli universa lia sacrificali e al contempo abbracciando morbosamente il sacrificio con le istituzioni, riusciamo a intravedere un contributo fondamentale per la nostra tesi: il sacrificio cruento è una costante fondativa insostituibile per la nascita delle istituzioni e dei modelli culturali. Per Girard nelle società esclusivamente rituali, le sequenze del rito e del sacrificio esercitano, fino ad un certo punto, il ruolo che più tardi spetterà a tutte le istituzioni che siamo abituati a definire secondo la loro funzione, concepita in termini razionali. Un esempio può essere sufficiente, ed è quello dei sistemi educativi. Nel mondo arcaico essi non esistevano, ma erano chiaramente prefigurati dai riti cosiddetti di passaggio o di iniziazione. I giovani non entravano di soppiatto nelle culture cui appartenevano, al contrario questo avveniva per mezzo di procedure “dolorose”. In una prima fase, quella che riproduceva la crisi, i giovani iniziandi in qualche modo morivano alla loro infanzia, e resuscitavano in una seconda fase, da cui uscivano ormai capaci di occupare il posto che loro spettava nel mondo degli adulti. Si vede chiaramente in questa morte una provvisoria conferma dell’aspetto sacrificale del processo iniziatico. Per Girard è evidente che le istituzioni moderne abbiano sostituito i riti dopo una lunga coesistenza. Tutto lascia pensare cioè che i riti sacrificali vengano per primi in ogni ambito della cultura e lungo l’intera storia dell’umanità e quelle che chiamiamo “istituzioni culturali”, per Girard risalgono in origine a comportamenti rituali che si sono così levigate da perdere ogni connotazione religiosa, e che un tempo corrispondevano al tipo di crisi che erano destinati a risolvere. I sacrifici non sono altro, all’inizio, che la risoluzione spontanea, per mezzo della violenza unanime, di tutte le crisi che si presentano all’improvviso nell’esistenza della collettività. In tali crisi rientravano non solo le discordie mimetiche, ma la morte e la nascita, i cambi di stagione, le carestie, che allarmavano i popoli primitivi, ed era sempre tramite i sacrifici che le comunità cercavano e cercano di mettere a tacere le loro ansie. In effetti Girard, anche se in maniera non diretta,

237

Cfr. ivi ,pp. 33-34.

238

Cfr. ivi, pp. 35-36.

239

Cfr. R. GIRARD, Vedo Satana cadere come la folgore, pp. 168-170.

134


vuole farci comprendere che ogni volta si tenti di eliminare il rapporto profondo tra ritualità e dimensioni cruente della vita, stranamente, queste riappaiono con una vis più marcata proprio nelle forme istituzionali. In riscontro di ciò l’antropologo francese deve constatare che proprio i riti istituzionalizzati oltre la sfera religiosa vivono una non improbabile sindrome di ritorno alla violenza primitiva237. La disgregazione dei miti e dei rituali è provocata da una crisi sacrificale e dietro alle apparenze gioiose e fraterne dei ritmi istituzionali, privi di qualsiasi riferimento prettamente celebrativo della vittima espiatoria e all’unità in essa rifatta, non vi è altro che il modello di crisi sacrificale mascherato238. Si comprende in tal senso che Girard evidenziando la relatività e l’evoluzione del sacrificio da rito cruento ad identificatore istituzionale, sottolinea anche il nascere di un nuovo modello culturale legato al mondo cruento del sacrificio, un modello insito nel carattere genetico delle stesse istituzioni che restano, consapevolmente o inconsapevolemente, legate ad un destino in cui Violenza e Sacro dettano ancora le loro condizioni e le scelte sociali ed individuali derivanti. Tuttavia, nell’ultimo Girard, si può notare un’impostazione metodologica particolare che tende a delineare, proprio nella dimensione del dono della morte e Risurrezione del Cristo, il passaggio e il termine da un prassi sacrificale cruenta ad una forma spirituale cristocentrica. In Vedo Satana cadere come la folgore, l’antropologo francese delinea in Satana la dimensione mitico-sacrificale legata al mondo cruento; a sua volta lo stesso actor esprime una metafora per indicare la condizione d’accecamento della folla in preda a frenesia mi metica. Ecco perché Cristo, in punto di morte, chiede perdono per i suoi aguzzini che non sanno quello che fanno: sono ancora incapaci di comprendere il male che vanno a commettere e che le folle hanno commesso in secoli di storia caratterizzata dai miti e dal processo vittimario239. In questa logica, Girard analizza la persecuzione di Cristo da un punto di vista antropologico raffrontandola con il classico pro-

240

Cfr. ivi, p. 184.

241

Cfr. ivi, cit. p. 184.

242

Cfr. ivi, cit. pp. 189-190.

135


cesso del capro espiatorio tipico della mitologia240. Innanzitutto sostiene che fino al momento della Resurrezione il procedimento è quasi uguale: la comunità giudaica si sente minacciata dalle predicazioni di Cristo ed individua in lui un perfetto capro espiatorio. Tuttavia la vera unicità del messaggio cristiano sta nella Resurrezione: se il primo transfert, quello dell’aggressività è stato compiuto, quello conclusivo invece viene evitato, per la prima volta il meccanismo vittimario è sconfitto. Ma questo non sarebbe sufficiente. Dopo tre giorni Gesù appare Risorto agli Apostoli, porta con sé un “dono” per l’umanità colpevole per secoli di aver messo a morte o espulso ingiustamente dei loro simili. Attraverso la “Resurrezione-dono” gli autori fanno conoscere il messaggio di Cristo, rendono consapevoli le comunità della falsità del Regno di Satana (mitologia del processo vittimario) e del primato del Regno di Dio che è il Regno dello smascheramento del sistema vittimario stesso241. Il Gesù storico, con i suoi comportamenti, istituisce un contro-modello cristiano che, opponendosi a quello tipico della mitologia, fa sì che chi lo segue interrompe il ciclo di violenza satanico infrangendo la barriera della folla unanime che si scaglia contro il capro espiatorio. Per la prima volta una minoranza contestataria segue Cristo e non la folla. Oltre alle sostanziali differenze che ho fin qui menzionato, Girard sostiene che se da un lato, nei miti, la narrazione vede come soggetto la folla scatenata contro una vittima colpevole, i Vangeli invece narrano le vicende di Cristo-soggetto, come vittima innocente sacrificata per il bene dell’umanità242. Si potrebbe pensare che anche la Crocifissione faccia parte del meccanismo vittimario e ciò non è sbagliato, ma se nella mitologia questo circolo è infinito, sempre necessario, con la morte di Gesù, per Girard, invece esso ha termine una volta per tutte. Sempre rimanendo all’interno dell’impostazione metodologica antropologico-funzionale e in base a questa impostazione strutturale del sacrificio cruento storico-evenemenziale di Cristo comprensibile come esperienza rituale di auto-do no sacrificale, c’è tuttavia, come abbiamo visto, nell’ultimo Girard la possibilità d’individuare gli elementi di passaggio funzionali dal sistema sacrificale cruento a quello che definiamo spirituale. Se la funzione di dono-morte è strutturalmente comprensibile all’interno del sacrificio cruento, la funzione di dono-risurrezione apre la possibilità 136


di nuovi vettori funzionali sacrificali (completamente alieni alle dinamiche funzionali del sacrificio cruento) che definiamo spirituali poichè caratterizzano come indicatori la struttura del sacrificio non più come ciclo mimetico della violenza, ma come uno spazio funzionale in cui il dono non è solo equilibrio all’interno della società ma nuova funzione della Vita che tuttavia, conserva in sé gli elementi funzionali del sacrificio cruento, quali l’azione di mimesi e di simbolizzazione-rappresentazione che stanno all’origine del primo sacrificio evenemenziale descritto da Girard ma viene spiritulizzata in una nuova origine comprensiva della vita stessa che vede, proprio nel dono della Risurrezione, il superamento della caratterizzazione girardiana stessa di sacro-violenza. La funzione dono-risurrezione eclissa completamente la dinamica del capro espiatorio e della interdipendenza sacro-violenza, richiamando in sé la dimensione sacrificale cristocentrica come luogo di una nuova imitazione-memoriale del referente e di una nuova comprensione sociale. Conseguentemente questa nuova funzione sacrificale spirituale, in virtù proprio del re-

243

Cfr. R.GIRARD, Il sacrificio, cit. p.85.

137


ferente storico-esistenziale cristocentrico, non permette la degenerazione del campo funzionale della Risurrezione- dono né in segno né in allegoria: il sacrificio spirituale contiene la realtà della Risurrezione proprio in una prospettiva prettamente antropologica come Girard stesso, invitandoci ad un congedo dalla tematica all’interno della sua impostazione metodologica, afferma nella sua ultima fatica testuale: “I moderni che vedono nei Vangeli un mito di morte e risurrezione come altri giungono a questa conclusione sulla base di analogie reali, realmente osservate, ma che sono tutt’altro che sufficienti ad abolire ogni differenza tra il mitico e il cristiano. Per cogliere davvero questo rapporto, bisogna iniziare con l’ammettere le somiglianze in questione, e comprendere che i Vangeli- proprio come i miti- ci pongono dinanzi a un fenomeno di capro espiatorio. Ma a differenza dei miti che riflettono il meccanismo d’unanimità senza mai rendersene conto, i Vangeli rivelano questo stesso meccanismo e, man mano che questa rivelazione viene assimilata, lo rendono incapace di funzionare. Ecco perché ovunque si radicano i Vangeli spariscono per sempre i sacrifici cruenti e si scatena la più grande rivoluzione culturale dell’umanità”243.

244

Cfr. E.L.GANS, The Discovery of Illusion: Flaubert’s Early Works 1835-37, University of California Press, Los Angeles 1971; IDEM, Un Pari contre l’histoire: les premières nouvelles de Mérimée (Mosaïque), Minard Archives des lettres modernes, Paris 1972 ; IDEM, Musset et le drame tragique, Librairie José Corti, Paris 1974 ; IDEM, Le Paradoxe de Phèdre suivi du Paradoxe constitutif du roman, Nizet, Paris 1975 ; IDEM, Essais d’esthétique paradoxa le, Editions Gallimard, Paris 1977 ; IDEM, The Origin of Language: A Formal Theory of Re presentation, University of California Press, Los Angeles 1981 ; IDEM, The End of Culture: Toward a Generative Anthropology, University of California Press, Los Angeles 1985; IDEM, “Madame Bovary”: The End of Romance, G. K. Hall, Boston 1989; IDEM, Science and Faith: The Anthropology of Revelation, Rowman & Littlefield, Savage-Lanham 1990; IDEM, Origi nary Thinking: Elements of Generative Anthropology, Stanford University Press, Stantford 1993; IDEM, Signs of Paradox: Irony, Resentment, and Other Mimetic Structures, Stanford University Press, Stanford 1997. 245

Sulla definizione gansiana del sacro cfr. E.L.GANS, Il sacro generativo : la riabilitazione dell’eredità di Durkheim, in “Studi Perugini” 10 (2000), pp. 93-103.

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CAPITOLO TERZO

L’estetica sacrificale:smascheramento del sacrificio cruento e origine dell’arte dei linguaggi in Eric Gans (il passaggio all’estetica)

AVVIO

METODOLOGICO

In quest’ultimo capitolo della parte antropologica, presentere246

In particolar modo Eric Gans affronta l’argomento in L’origine des structures linguisti ques élémentaires, in “Archives et documents de la société d’histoire et d’épistémologie des sciences du langage” 4 (1984), pp. 1-21. 247

Cfr. ivi, p.4, passim. Per la sua comprensione dell’origine del linguaggio E.Gans si collega alle due ipotesi sulla formazione del linguaggio: l’ipotesi “arcaica” e quella “tarda”. L’ipotesi arcaica dominante è quella secondo cui il linguaggio in qualche forma, quello che alcuni scrittori chiamano attività “simbolica” e Gans preferisce chiamare “rappresentazione”, sia apparso contemporaneamente al genere Homo, il cui emergere dall’Australopithecus circa due milioni di anni fa coincide con la prima evidenza di utensili di pietra. In questa ipotesi, l’aumento di dimensione cerebrale, dall’Homo abilis attraverso l’Homo erectus al Neanderthal e all’Homo sapiens, fu esso stesso un prodotto del linguaggio. L’ipotesi tardiva, che ha ancora oggi dei sostenitori, fu costruita per spiegare il contrasto tra quella che appariva come un’estrema stagnazione tecnologica per quasi due milioni di anni di fabbricazione di utensili e il “decollo” di circa 50.000 anni fa che produsse tecnologie più raffinate, l’arte delle caverne, evidenza di riti funerari, ed infine l’invenzione neolitica dell’agricoltura che in dieci o dodicimila brevi anni ci ha resi quel che siamo ora. Più che la tecnologia degli strumenti, è l’apparizione in quest’epoca dei primi indubitabili segni di “cultura” – ovvero di cultura rituale, religiosa – che ha conferito a quest’ipotesi la sua plausibilità. Si può constatare che rispetto alla scelta tra l’ipotesi arcaica e quella tarda Gans dimostrò un certo grado di ciò che gli psicologi chiamano “dissociazione”. Gans è più preoccupato di difendere l’origine singola dell’umanità contro l’ipotesi un tempo molto in voga dell’origine multipla che di decidere in che momento questa singola origine dovesse aver avuto luogo. Non scegliendo tra ipotesi arcaica e tarda, mantiene elementi di ciascuna senza riflettere realmente sulla loro incompatibilità. Per Gans l’ipotesi arcaica sembra dettata dalla semplice logica. Secondo l’ipotesi tarda, i primi parlanti furono i cosiddetti Cro-Magnon, appartenenti alla specie Homo sapiens identici geneticamente a noi. L’ipotesi tarda perciò può essere mantenuta solamente se si è assunto che il nostro moderno cervello e l’apparato vocale umano possano essersi evoluti indipendentemente dal linguaggio. In tal caso, il linguaggio sarebbe sorto come una exaptation, un sottoprodotto accidentale dell’interazione tra evoluzione cognitiva e sistemi di comunicazione pre-linguistici. Di contro, l’ipotesi originaria gansiana presuppone che il linguaggio come primo atto umano fosse sorto tra creature con nessun adattamento previo di cervello e tratti vocali, e che sia stato esso a dirigere la loro acquisizione di questi adattamenti. Per Gans questa è la logica di tutte le modificazioni evolutive.

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mo l’innovativa tematica sacrificale dello studioso californiano Eric Gans. Discepolo di René Girard e professore di letteratura francese alla UCLA University di Los Angeles, Eric Gans, attraverso una serie di libri editi dalle maggiori università statunitensi e importanti case editrici parigine244, ha elaborato una teoria denominata Gene rative Anthropology. Proprio per la novità della tesi antropogenetica sul sacrificio e per non creare cortocircuiti da un punto di vista metodologico e contenutistico, la finalità primaria di questa introduzione sarà quella di esporre in maniera essenziale e lucida la tesi di Gans, lasciando ai paragrafi successivi il compito di affrontare la sua ipotesi di lavoro in maniera esaustiva. Per iniziare, dobbiamo subito affermare che nel pensiero di Eric Gans il “Sacro” e il linguaggio sono le manifestazioni primordiali dell’umano245. In The Origin of Language, il suo primo libro, Eric Gans affronta la questione delle origini dell’umano, e, come si evince dal titolo, il problema dell’origine del linguaggio, ossia del mondo dei segni, che sono cosa ben diversa dai segnali di cui dispongono gli ani248

Cfr. ivi, p.6, passim

249 La scena originaria ipotizzata da Gans, come punto di partenza, è molto vicina a quella girardiana. Cfr. E.L.GANS, Form Against Content: René Girard’s Theory of Tragedy, in “Revista Portuguesa de Filosofia” 56, 1-2 (2000), pp. 53-65; IDEM, Agonie de la culture rituelle, in “Po&sie” 11 (1980), pp.117-126. E’ interessante già in prima battuta il confronto con la scena originaria girardiana. Per Girard l’umanità ha origine da uno sviluppo dei proto-umani che li porta ad un punto in cui i meccanismi naturali, che impediscono alle società animali di autodistruggersi, non funzionano più. Le specie animali dispongono infatti di un sistema di limitazione degli effetti distruttivi dell’aggressività, particolarmente sviluppato, per quanto riguarda i mammiferi, nel genere maschile: si tratta del meccanismo della dominanza, che si stabilisce attraverso confronti ritualizzati che solitamente pongono di fronte di volta in volta due contendenti. Il primum è dunque per Girard l’esperienza del linciaggio-espulsione di un membro del gruppo, evento che impedisce il collasso del gruppo stesso e, ripetuto un’infinità di volte, finisce per portare alla nascita dell’umano, cioè contemporaneamente del sacro. 250

Cfr. E.L.GANS, Sacred Text in Secular Culture. In To Honor René Girard, in “Stanford French & Italian Studies” 34 (1986), pp.51-64. 251

Per Gans, tutta la cultura è scenica, nel senso che evoca la tensione tra la periferia desiderante e il centro desiderato di una scena collettiva. Un individuo isolato può evocare la scena nella sua immaginazione solo perché essa è già esistita nella realtà collettiva. Anche il linguaggio, come nucleo di quel sistema di rappresentazioni che è la cultura umana, evoca una simile scena collettiva. Dal primo momento questa scena fu per definizione memorabile, l’intuizione della memorabilità ereditata da questa scena ci consente di offrire un’ipotesi della sua costituzione conforme alla nostra conoscenza empirica da un lato e al principio di parsimonia del rasoio di Occam dall’altro. Cfr. E.L.GANS, Flaubert’s Scenes of Origin, in “Romanic Review” 81/2 (1990), pp.189-202 .

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mali246. Questi possono disporre di un vocabolario complesso, come i delfini, ma non parlano, bensì attuano forme di comunicazione facendo corrispondere un determinato suono ad una determinata situazione247. Il segno, invece, per Gans è un segnale che si è reso temporalmente autonomo, separandosi dal contesto vitale in cui è emerso ed acquistando la capacità di essere riprodotto in una serie infinita. Il segno linguistico costituisce un suo proprio mondo, definito da Gans, il mondo trascendentale dei segni, un mondo verticale che emerge dall’orizzontalità del mondo del vissuto animale248. In base a questa asserzione gansiana scaturisce la domanda metodologica di partenza dello studioso californiano: come nasce il linguaggio? In quali circostanze può essere emerso il primo segno? Gans sviluppa la sua tesi sull’origine del linguaggio e sulla scena originaria nel suo libro “Originary Thinking”, in cui dà fondamento alla sua antropologia generativa, e nell’ opera “Signs of Paradox”. In base a questi due testi la scena originaria è un’ipotesi249, che per essere scientifica deve essere il più possibile economica, cioè spiegare

252

Cfr. IDEM, L’origine des structures linguistiques élémentaires, pp. 14-16. In queste pagine Gans analizza in maniera chiara ciò che linguisticamente definisce con la terminologia « differimento della violenza ». 253

Cfr. D.BICKERTON, Language and Species, University of Chicago Press, Chicago 1990, pp.14-56. Gans parlando di forma primordiale del significante svela il suo legame con l’opera di Bickerton. In Language and Species per analogia con la distinzione tra il non grammaticale pidgin e il grammaticale creolo, Bickerton propone per il linguaggio sia un’origine arcaica sia una tarda. L’origine precoce, al tempo dell’ Homo habilis, avrebbe implicato l’emergere del “riferimento simbolico”, il segno linguistico, ma non della struttura sintattica. Nella visione di Bickerton, la sintassi non si sarebbe potuta evolvere gradualmente, dal momento che non vi è alcun esempio di un linguaggio intermedio quanto a complessità sintattica tra i pidgin, che egli trova paragonabili sia alle espressioni dei bambini che a quelle delle scimmie istruite nel linguaggio umano, e le lingue naturali odierne. (E’ un cardine della linguistica moderna che tutte le lingue conosciute, da quella degli Aborigeni australiani all’Inglese contemporaneo, siano ugualmente “avanzate” e ammettano in linea di principio la reciproca traduzione.) Così, l’emergere di un linguaggio sintatticamente maturo come noi lo conosciamo, che Bickerton situa al tempo dell’origine tarda intorno a 50.000 anni fa, sarebbe stato un riflesso di sviluppi evolutivi nel cervello, che si realizzarono d’un colpo nel linguaggio e in una qualche mutazione finale inesplicabile. Per Bickerton proprio l’attitudine del bambino all’apprendimento del linguaggio dimostra l’esistenza di “qualcosa di simile” al modulo grammaticale di Chomsky senza tuttavia rispondere alla domanda chiave di come esattamente il suo cervello sia idoneo a questo processo di apprendimento. Inoltre il contrasto tra il linguaggio di creature il cui cervello non era ancora specificamente adatto al linguaggio, le cui culture materiali furono in apparenza stabili per centinaia di migliaia di anni, e che non hanno mostrato alcuna evidenza di attività simbolica, e, dall’altro lato,

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il maggior numero di fenomeni col minimo dispendio di concetti. Gans dà prova di una notevole capacità inventiva, nel senso migliore del termine, nella delineazione di un evento che è stato definito Little Bang, per analogia col Big Bang della fisica: è l’evento dell’esplosio ne antropica. Il salto dall’animale all’umano deve essere avvenuto in un modo definito, e ciò può essere pensato solo scenicamente250. Per l’ipotesi gansiana un gruppo di predatori proto-umani maschi circonda un grosso animale appena ucciso251. Tutti provano una fortissima attrazione per le sue carni. Nel caso di altri predatori non si porrebbe alcun problema, mangerebbero secondo la scala gerarchica della dominanza. Ma nei proto-umani i tipici meccanismi di controllo dell’aggressività sono collassati, sicché la presenza di un corpo attraente dal punto di vista alimentare sta per scatenare un’aggressione indifferenziata che porterebbe alla distruzione del gruppo. Ma ecco che in quella situazione avviene qualcosa di inaspettato: quando la tensione ha raggiunto il parossismo, non si ha la vittima ma l’emissione, da parte di un membro del gruppo, di un segnale di rinuncia alla competizione per il cibo. Questo segnale viene recepito dagli altri, che contemporaneamente si ritraggono, fanno, per così dire, un passo indietro. Quel segnale è il primo segno linguistico, che si stacca dall’immediata presenza dell’oggetto a cui si riferisce, ed è ciò che Gans chiama deferral of violence through the sign252. Dunque, il linguaggio emerge nella forma primordiale del si gnificante come rinuncia alla violenza (rinuncia momentanea, diffeil linguaggio di individui anatomicamente identici a noi, (relativamente) innovativi nella loro strumentazione, e che seppellivano i loro morti e tracciavano disegni su pareti di caverne, dimostra, per Gans, che “qualcosa di simile” alla dicotomia di Bickerton deve essere vero. Per Gans il fatto che oggi non esista alcuna forma di linguaggio intermedia non costituisce prova che la sintassi moderna sia comparsa d’un tratto più di quanto l’assenza di forme intermedie tra lucertole e serpenti provi che questi ultimi abbiano perso le loro zampe d’un tratto. Anche se tutte le lingue moderne derivano da un’antenata comune parlata circa 50.000 anni fa, non vi è alcun bisogno di assumere che quest’ Ursprache sia comparsa a sua volta in un singolo salto mutazionale al di là dei primitivi linguaggi del tipo “pidgin” perché il legame potrebbe essere fornito dal gesto. 254

Dio e l’uomo nascono insieme, secondo Gans, nel Little Bang della scena originaria. Cfr. E.L.GANS, Sacred Text in Secular Culture, pp. 60 -64. 255

Cfr. E.L.GANS, The Culture of Resentment, in “Philosophy and Literature” 8/1 (1984), pp. 55-66. 256

Cfr. ivi, p.5, passim.

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rimento)253. Ma i proto-umani all’interno dello stesso evento, che nella sua datità nucleare contiene tutto l’umano, fanno altresì esperienza dell’indisponibilità dell’oggetto del desiderio, della sua non con trollabilità, e quindi il primo segno linguistico può essere definito il name-of-God, ovvero l’indisponibilità e la non controllabilità del sacro254. Ma in quanto tutti si ritirano insieme dalla competizione, emerge anche il senso della fondamentale uguaglianza di tutti i membri del gruppo, e nella successiva spartizione ha le radici il diritto ma anche l’arte, in quanto ciascuno esperisce l’oscillazione tra il segno linguistico che lo indica e la disponibilità dell’oggetto centrale, e quindi tra il segno stesso che dice la presenza e l’assenza reale dell’oggetto. La periferia degli esseri che circondano il cadavere-centro fa dunque un’esperienza che in sé contiene il germe di tutte le altre. Inoltre è da sottolineare come in questa scena abbia la propria radice il risentimento255: anzitutto contro lo stesso oggetto centrale-dio che si sottrae a ciascuno fino al momento in cui non è tra tutti spartito. Occupare il centro, in tutti i vari modi in cui ciò sarà attuato nel corso di migliaia e migliaia di anni, sarà sempre fonte di risentimento. Nella prospettiva gansiana, ogni fenomeno umano può essere riportato alla scena originaria, e la procedura con cui ciò avviene è definita originary analysis. Gans la applica, soprattutto nelle sue pubblicazioni su Internet (Anthropoetics e Chronicles of Love and Re sentment)256 a tutti i momenti della cultura passata e presente, e in particolare al romanzo, la cui funzione fondamentale appare quella di una negoziazione del risentimento. 1 LA MATRICE GIRARDIANA DI ERIC GANS

257

Cfr. T.SIEBERS, Violence, Difference, Sacrifice: A Conversation with René Girard, in “Religion and Literature” 25/2 (1993), p.23; IDEM, The Ethics of Criticism, Cornell University, Ithaca, 1988; P.LIVINGSTON, Models of Desire. René Girard and the Psychology of Mime sis, The Johns Hopkins University, Baltimore 1992, pp. 103-124. 258

Cfr. R.GIRARD, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, Adelphi, Milano 1983, pp. 35-44. 259

Cfr.IDEM, Violenza e Sacro, Adelphi, Milano 1980, pp. 193. 223-225.

260

Cfr. ivi, pp. 113-115. In queste pagine Girard propone una teoria delle “origini sociali” strettamente legata al “desiderio mimetico”. 261

Cfr. ivi, p.114, passim.

144


Interpreti di diversa collocazione e prospettiva nel mondo universitario statunitense257 sono d’accordo sul ritenere che la prima grande matrice girardiana in Eric Gans è la visione dell’evento origi nario (o una serie di eventi) che segna la transizione dal pre-homo sa piens all’homo sapiens ovvero la transizione che Girard, in “Delle co se nascoste sin dalla fondazione del mondo”, chiama “ominizzazio ne”258. Per Girard, questa transizione originaria è la fonte dell’incomprensione, o “misconoscimento” (méconnaissance) e menzogna, che è incorporata in ogni forma di rappresentazione259. In fondo, a dispetto di qualsiasi distinzione si possa fare tra le forme del desiderio, per Girard, tutto il desiderio è, propriamente parlando, mimesi o desiderio mimetico. Egli ha enfatizzato l’aspetto acquisitivo del desiderio nell’identificazione di crisi personali e culturali, e questo desiderio acquisitivo (la mimésis d’appropriation) nello scenario fondativo è la dinamica che fa precipitare l’evento260. Il suo funzionamento iniziale è anteriore a tutte le rappresentazioni; ma dal momento che, fin dal suo stadio embrionale, è evocato dall’altro che diviene il modello, esso diviene facilmente instabile quando delle pressioni sul raggruppamento umano, o particolari relazioni all’interno di questo, accelerano un’affannosa ricerca di certezza e di ordine. E’ in situazioni di questo genere che il desiderio acquisitivo conduce al conflitto e alla rivalità, sfociando poi nella violenza261. Il controllo dei danni ottenuto linciando una vittima e preservando l’unità dei linciatori con la ripetizione dell’evento (l’origine del rituale), col divieto del supposto crimine che l’ha precipitato (l’origine della proibizione), e col rivisitare e correggere l’evento attraverso la narrazione (l’origine del mito), è per così dire un travisamento della verità. La verità del rituale e della rappresentazione mitica, che sono le basi di ogni rappresentazione, è la crisi mimetica e la violenza collettiva che, in particolare, può essere pressoché completamente dissi-

262

Cfr. R.GIRARD, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, pp. 35 ss.

263

Cfr. R. GIRARD, Violenza e il sacro, p. 50.

264

Cfr. E.L.GANS, Science and Faith: The Anthropology of Revelation, p.14.

265

Cfr. ivi, pp.12-18.

266

Cfr. ivi, pp.19-23

145


mulata, ma di solito non lo è proprio del tutto262. Il momento del sacrificio nel rituale e il momento della violenza “buona” nel mito sono entrambi simili alle dosi di veleno che devono essere assunte (messe in atto, recitate, pensate) al fine di contrastare questo stesso veleno nelle sue forme distruttive di conflitto, violenza e disintegrazione sociale263. Eric Gans prende sul serio questa lezione girardiana e formula una teoria mimetica con la rivelazione trascendente. La scena che Gans descrive in Science and Faith è quella di un gruppo di pre-umani i cui appetiti sono eccitati dall’animale che è appena caduto sotto i loro colpi264. Ognuno di essi nota i movimenti appropriativi che tutti gli altri stanno facendo e così ciascuno interrompe il proprio gesto per timore dello scatenarsi di un conflitto generalizzato265. Questo gesto mancato è la designazione ostensiva dell’oggetto desiderato. Il gesto ostensivo è stampato nella loro memoria e pertanto costituisce l’inizio della rappresentazione tramite il linguaggio266. L’iniziale indicazione o esibizione dell’oggetto designato contiene simultaneamente, da un punto di vista linguistico e strutturale, il seme della distinzione tra “esso/quello/noi”, rappresentando il primo sta dio della comunità umana propriamente intesa. Ma esso implica le due ulteriori forme strutturali del linguaggio che si evolveranno. L’oggetto designato implica l’imperativo, ovvero la forma grammaticale del comando, dicendo effettivamente che tu devi cooperare e che non devi combattere per l’oggetto. Ma perché emergesse un essere umano come l’homo sapiens era necessario raggiungere una ulteriore forma strutturale, quella dichiarativa, la forma grammaticale dell’enunciazione, che in realtà dice che vi è qualcosa di altro dall’oggetto designato, legato a tutti quei termini che strutturano la società: gli dèi, la comunità, il prestigio, la proprietà, il potere, il rituale, la storia, ovvero tutto ciò che è associato alla rappresentazione, al linguaggio e alla cultura, con cui gli esseri umani proteggono se stessi dal pericolo originario e tentano di trovare il senso. Si tratta di un’ipotesi originaria significativa e interessante, e la sua struttura è la stessa del modello di Girard267. Naturalmente 267

Cfr. R. GIRARD, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, pp. 68-109.

268

Cfr. E.L.GANS, Science and Faith: The Anthropology of Revelation, pp. 3-4.

146


Gans non deve aver inteso circoscrivere la scena originaria ad una situazione di caccia, e qui si sottolinea una differenza da Girard. Da quello che egli scrive in Science and Faith si può ragionevolmente inferire che l’oggetto designato può essere qualunque cosa268. Sul versante girardiano la scena originaria deve avere, invece, come centro la vittima umana come oggetto designato. Per Girard, soltanto questa ipotesi è in grado di dar conto della potenza del sistema culturale basato su integrazione e sostituzione. I tabù universali ruotano attorno al crimine, in particolare al parricidio e all’incesto, i due pericoli minacciosi per l’ordine e la pace della comunità umana. Per Gans, invece, è semplicemente più ragionevole ed elegante sostenere che nel sacrificio, per esempio, un animale possa essere sostituito ad una vittima umana, o che un dono possa essere dedicato in luogo di un animale o di un uomo, mentre è difficile concepire il movimento in senso contrario. Perché mai una comunità umana avrebbe aumentato il suo proprio pericolo col sostituire uno dei suoi membri ad una vittima o ad un oggetto non-umani? Per far comprendere tale affermazione, Gans riportando alcune riflessioni su Girad, sottolinea, non solo il fallimento o il gioco mancato del sacrificio, ma anche la necessità di sottolineare il superamento del modello sacrificale girardiana che non necessariamente deve trovare la sua ultima istanza nel termine violenza. Gans, proprio perché il sacrificio girardiano esige che vi sia un’apparenza di continuità tra la vittima realmente immolata e gli altri esseri umani a cui tale vittima viene sostituita, deve notare che talvolta si assiste al rovesciamento catastrofico del sacrificio: ad esempio, il vero tema della Follia di Era cle di Euripide, dove Eracle in un momento di follia (mentre offre un sacrificio) uccide la sua prima moglie Megara ed i figli, è il fallimento di un sacrificio, è la violenza sacrificale che prende una brutta piega269. Il sacrificio attira la violenza sulla vittima e poi la lascia spandersi tutt’attorno e, in tal modo,il sacrificio non è più atto a svolgere il proprio compito, ma ingrossa il torrente della violenza impura senza riuscire nemmeno più a canalizzarla. Anche nelle Trachinie di Sofocle, nell’episodio della tunica di Nesso inviata alla giovane Iole da Deianira per riconquistare l’amore del marito Eracle, la violenza si scatena contro quegli stessi esse-

269

La narrazione del mito è in R. GIRARD, La violenza e il sacro, pp.230-262.

270

Cfr. ivi, p.240, passim.

147


ri che il sacrificio avrebbe dovuto proteggere. In entrambe le opere, un’impurità particolare è legata al guerriero che rientra nella città, ebbro ancora delle carneficine alle quali ha da poco partecipato270: i1 guerriero che torna a casa rischia di portare la violenza di cui è impregnato all’interno della comunità. Se si esamina attentamente il meccanismo della violenza nelle due tragedie ci si accorge che il sacrificio quando “prende una brutta piega” provoca una reazione a catena. Il ritorno del guerriero si lascia interpretare in termini sociologici o psicologici: le due tragedie ci presentano così in forma quasi aneddotica fenomeni che non hanno senso se non a livello dell’intera comunità. Gans, pertanto, sottolinea la necessità di individuare il vero punto di passaggio della teoria girardiana nella nozione di crisi sacrificale che diviene il punto iniziale della sua teoria mimetica. Nella religione primitiva e nella tragedia opera lo stesso principio, sempre implicito ma fondamentale, che l’ordine e la pace riposano sulle differenze culturali. Non sono le differenze, ma è la loro perdita a provocare una rivalità e una lotta incontrollabili tra gli uomini di una stessa società. La crisi sacrificale, ossia la perdita del sacrificio, si definisce come crisi delle differenze, cioè dell’ordine culturale (che non è che un sistema organizzato di differenze) nel suo insieme. Una volta perduta tale differenza si perde pure quella fra violenza impura e violenza purificatrice e allora non esiste più purificazione possibile e la violenza impura, che è contagiosa, si diffonde nella comunità. Anche la trage-

271

Cfr. E.L.GANS, Form Against Content: René Girard’s Theory of Tragedy, pp. 56 ss.

148


dia, che si radica in una crisi del rituale e di tutte le differenze, parla quindi della distruzione dell’ordine culturale. Essa può aiutarci nella comprensione di tale crisi e di tutti i problemi, da essa inseparabili, della religione primitiva che ha sempre l’unico scopo di impedire il ritorno della violenza reciproca: la tragedia fornisce dunque una via di accesso privilegiata ai grandi problemi sul tema sacrificale. Tanto è vera questa constatazione che Gans, considerando i miti come delle riletture a ritroso fatte a partire dall’ordine culturale nato dalla crisi, ritiene che nei miti le tracce della crisi sacrificale siano però più difficilmente decifrabili che nella tragedia. In essa, spiegazione sempre parziale dei motivi mitici, il poeta fa invece rinascere la reciprocità violenta: tutto diventa antagonismo nel tentativo di riequilibrare ciò che il mito rende squilibrato. La tragedia, diffondendo e moltiplicando la violenza all’infinito, riconduce tutti i rapporti umani all’unità di uno stesso antagonismo tragico, tendendo così a dissolvere i temi del mito nella loro violenza originaria: la tragedia è strettamente legata alla violenza, è “figlia della crisi sacrificale”271. Ma come è possibile, all’interno della tragedia, questa soluzione completamente differente dalla soluzione sacrificale? Qual è il potenziale dell’arte che permette tale differimento della violenza? Sono proprie queste domande che porteranno Gans alla sua tesi sacrificale che trova proprio nel linguaggio, ovvero nei linguaggi, il punto nodale e di superamento della tesi girardiana.

2 RIVALITÀ

MIMETICA GIRARDIANA E L’ ORIGINE MIMETICA DEL MONDO DEI SE-

GNI

272

Tali affermazioni sono presenti nella rivista in rete Anthropoetics: Cfr. E.GANS, Plato and the Birth of Conceptual Thought, in “Anthropoetics” II/2 (1997), s.n.p.; IDEM, Narra zione originaria, Anthropoetics III/2 (1998), s.n.p. 273

Le citazioni in inglese sono tratte dalla rivista in rete Anthropoetics. Cfr. E.L.GANS, A Brief Introduction to Generative Anthropology: http://www.anthropoetics.ucla.edu/gaintro.htm. 274

Cfr. E.L.GANS, Le Logos de René Girard. in AA.VV., René Girard et le problème du mal, a cura di J.P. DUPUY- M. DEGUY-, M. SERRES, Grasset, Paris 1982, pp.179-214 .

149


In base al paragrafo precedente, abbiamo compreso che Eric Gans inizia la sua ricerca sul tema sacrificale partendo dal come la teoria dell’Antropologia Generativa (Generative Anthropology) tragga le proprie origini dal pensiero girardiano272: il principio mimetico sta alla base di ogni comportamento umano definendo i desideri come desideri mimetici (voglio qualcosa perché lo vuole l’altro) e provocando così un potenziale pericolo di sopravvivenza per la stessa umanità che si trova minacciata da una possibile rivalità violenta in cui ognuno è schierato contro ogni altro. Afferma l’autore sulla rivista in rete “Anthropoetics”: “The human may most simply be defined by the mimetic principle: that in human beings, as opposed to all other creatures, mimetic rivalry within the species poses a greater danger to its survival than the external forces of nature”273.

In piena linea con l’aspetto girardiano, Gans prende in considerazione i vari risvolti cui una crisi mimetica potrebbe dare origine: l’espulsione dell’elemento pericoloso per la coesione della comunità e il meccanismo del capro espiatorio su cui vengono a convergere tutte le singole violenze del gruppo sociale con lo scopo di ricomporre

275

Cfr. IDEM, The Body Sacrificial, in AA.VV, The Body Aesthetic: From Fine Art to Body Mo dification, a cura di T. SIEBERS, University of Michigan Press, Ann Arbor 2000, pp.159178. 276

Cfr. ivi, pp. 170-176.

277

Cfr. ivi, pp. 159-161. Per Gans, questo non significa che tutti gli altri gruppi di ominidi che non crearono il linguaggio né lo adottarono dai loro creatori siano stati distrutti dal conflitto intestino. Per l’autore californiano dal momento che coloro che usavano il linguaggio, e che usavano anche la cultura, avevano a propria disposizione un più stabile baluardo contro la violenza intestina. Tuttavia essi erano in grado anche di acquisire mezzi di violenza più potenti e potenzialmente pericolosi: tali mezzi comprendevano non solo armi più efficaci, ma anche strutture etiche più elaborate implicanti ruoli differenziati protetti da leggi, comprese quelle regolanti il matrimonio che caratterizzano tutte le società umane e alle quali spesso ci si riferisce, in termini alquanto fuorvianti, o come a “interdizione dell’incesto” o a regole per lo “scambio delle donne”. Le società umane governate da proibizioni sacre potevano fronteggiare pressioni mimetiche tali da condurre in società non-umane o ad un’esplosione violenta o all’abbandono dell’unità comunitaria. Per Gans nel corso delle generazioni i neo-umani inevitabilmente hanno finito per assorbire, sterminare o scacciare i loro rivali preumani. 278

Cfr. ivi, pp.159 ss.

150


la situazione critica274.E’ facilmente comprensibile come il vero problema consista nella violenza, in atti fuori dal comune che rischiano di provocare gravi conseguenze all’interno della società civile. A differenza di Girard, Gans propone un campo d’indagine dove studia e descrive il rimedio al contagio mimetico e alle sue inevitabili conseguenze violente “adottato” dai proto-uomini (ipotesi originaria)275. Ora per meglio comprendere il ruolo che avrà la riflessione all’interno del pensiero di Gans è necessario un excursus per delineare brevemente i punti salienti di questa ipotesi. Si può dire che quella che noi definiamo società civile (hu man community) e le sue componenti principali quali linguaggio, sacro ed estetica vengano a nascere in un preciso momento: ossia quando viene emesso il primo segno di differimento della violenza276. Gans parla di una scena originaria (Little Bang) in cui dei proto uomini (privi del linguaggio ovvero del sistema comunicativo ti-

279

Cfr. E.L.GANS, Originary Democracy and the Critique of Pure Fairness, in AA.VV, The De mocratic Experience and Political Violence, a cura di D. RAPOPORT- L. WEINBERG, Frank Cass edition, London 2001, pp.308-324. 280

Cfr. IDEM, The Victim as Subject: The Esthetico-Ethical System of Rousseau’s Rêveries, in “Studies in Romanticism” 21/ 1 (1982), pp.3-32. 281

Cfr. IDEM, Originary Democracy and the Critique of Pure Fairness, pp. 308-315.

282

Cfr. IDEM, Science and Faith, pp. 3-6. Quel che dà sostanza a questa conclusione è la conseguenza più profondamente paradossale del paradosso della mimesi. Ciò che Gans chiama pensiero “umanistico” è in ultima analisi indistinguibile, non dal pensiero scientifico intorno all’umano, ma da un modo di pensare che non appare affatto concentrato sull’umano: quello della religione. Per questo Gans ha intitolato uno dei suoi libri Science and Faith nello sforzo di mettere in rilievo come la religione e la scienza non siano condannate ad un dialogo tra sordi ma costituiscano modi complementari ed interagenti di comprensione dell’umano. Il pensiero scientifico può essere portato avanti solo in una condizione di pace metafisica; nella realtà etica della vita sociale umana, la fede è ciò che mantiene le precondizioni di questa pace. Sebbene noi abbiamo imparato sin dal Rinascimento che la religione non serve molto allo studio dell’interazione gravitazionale dei corpi celesti, essa rimane indispensabile al pensiero che si occupa dell’interazione etica tra gli esseri umani. Il fatto che noi comunemente diciamo che la religione “riguarda Dio” più che l’umanità riflette la struttura della scena originaria, nella quale ciò che noi chiamiamo umanità fu costituita, letteralmente, “intorno a Dio” come centro del cerchio umano. Una volta che si sia ammesso, come richiede la logica della teoria mimetica, che il segno originario è equivalente al nome-di-Dio, la scienza dell’origine umana è obbligata a sussumere come ipotesi – ovvero come versione scientifica della fede – il co-emergere e il co-esistere dell’umano con ciò che può essere compreso soltanto come sussistente in un “altro mondo” perché esso è inaccessibile a noi, ovvero il sacro, che noi possiamo afferrare senza violenza solo tramite quel medium che è il segno.

151


pico di ogni società civile) si trovano tutti attorno al loro unico e comune oggetto del desiderio277. Notiamo come ci si trovi di fronte ad una situazione puramente ipotetica la cui storicità è impossibile da dimostrare. Tuttavia per Gans questa ipotesi di lavoro è convalidata dal fatto che, nel linguaggio, gli uomini da un lato “imparano” a mediare i propri interessi per una causa comune, dall’altro si uniscono in società278. Bisogna sottolineare come si tratti di un’analisi antropologica per cui Gans si limita a descrivere i comportamenti che gli uomini avrebbero tenuto in questa specifica situazione mettendo in evidenza come un singolo gesto dia origine ad una molteplicità di fenomeni. Possiamo oltre modo vedere, come a differenza di Girard, Gans sia vicino, più di quanto possa sembrare, alle teorie del giusnaturalismo moderno che distinguono stato di natura da società civile279. Infatti i proto uomini gansiani non sembrano essere altro che i buoni selvaggi di Rousseau280: essi vivono senza un’organizzazione stabile, codificata e con il rischio di veder minacciata la propria esistenza da conflitti intestini causati dalla violenza. L’elemento innovativo e caratteristico dell’ipotesi di Gans, alla luce della lezione girardiana, è l’analisi antropologica dei motivi che conducono alla violenza: l’uomo è un individuo mimetico i cui desideri prima o poi andranno a costituire una rivalità con l’altro281. Ne consegue che tale teoria è mimetica e che da tale mimetismo scaturisca, inconsapevolmente, una crisi che prima o poi avrà come risvolto la violenza282. E’ da specificare come l’autore californiano non parli di proto uomini in uno stato di natura come la tradizione c’insegna, ma in una società generica intesa semplicemente come ag gregazione di persone senza l’individuazione di scopi e finalità comuni283. Prima della società civile esiste la mera società: luogo in cui non è presente né un legislatore, né un diritto positivo, ma solamente delle tradizioni primitive che uniscono le genti284. Completando ora il quadro del little bang, Gans afferma che a tale situazione, tutti attorno all’unico oggetto del desiderio, si è giun-

283

Cfr. E.L.GANS, Originary Democracy and the Critique of Pure Fairness, pp. 312-319.

284

Cfr. ivi, pp. 312 ss.

285

Cit. in http://www.anthropoetics.ucla.edu/gaintro.htm.

152


ti (sempre ipoteticamente) in seguito ad un lungo periodo che ha visto l’uno comportarsi come l’altro senza però mai determinare una rivalità d’oggetto diretta per l’appropriazione della cosa. Tuttavia prima o poi sarebbe capitato che i proto uomini volessero impossessarsi di unico oggetto del desiderio comune e che si trovassero in una situazione di conflitto generale potenzialmente distruttivo. In tal senso afferma ancora l’autore sulla rivista in rete “Anthropoetics”: “ Normally we imitate each other’s appetitive acts by performing the same actions, but on a different object; you pick an apple, I see you, and pick my own apple. But as a result of the intensification of mimetic tension, there comes a time when your gesture and mine converge on the same object. At this point, mimesis is blocked; the appropriative gesture is blocked”285.

In questo momento l’oggetto non può essere riprodotto (perché uno solo, unico), ma il desiderio di appropriazione di ognuno ancora sussiste. Ci si trova dunque davanti ad un bivio: da una parte la via verso l’autodistruzione (conflitto violento tutti contro tutti), dall’altra la via che conduce alla salvezza. Stando così le cose, i proto uomini non dispongono di alcun mezzo contingente per evitare la crisi mimetica. Gans quindi ipotizza che nel momento in cui la tensione mimetica ha raggiunto il suo massimo stadio venga emesso un segno che rappresenta la nascita del linguaggio e riconosce la situazione di crisi. Gans parla di segno originario ostensivo dove per ostensive si intendono quelle affermazioni che denotano uno stato di crisi come ad esempio “Fire!” o “Man overboard!”. A proposito afferma nuovamente Gans: “Although this now unique object of desire cannot itself be re286

Cfr. ivi.

287

Cfr. E.L.GANS, The Victim as Subject: The Esthetico-Ethical System of Rousseau’s Rêve ries, pp 13-22. In questa prospettiva, la rappresentazione che il segno fa dell’oggetto potrebbe essere assimilata direttamente alla designazione della vittima in Girard, semioticamente indefinita. Ma questa designazione non è il prodotto psicologico di un desiderio mimetico quantitativamente intensificato. La rappresentazione è precisamente ciò che separa l’oggetto in quanto referente mondano dall’oggetto in quanto significato/Idea, così che noi giungiamo al risentimento per l’occupazione, da parte dell’oggetto materiale, del luogo dell’Essere permanente che spetta al referente- in generale- ideale del segno. L’associazione The Origin of Language non rende giustizia alla complessità della rappresentazione ostensiva. Designare è rappresentare, ma rappresentare è trasferire l’essere o essenza dell’oggetto fisico al designatum della rappresentazione, di cui già possiamo parlare come del suo significato. Il segno fin dall’inizio anticipa l’oblio metafisico della sua violenta origine ostensiva che la filosofia di Platone articolerà.

153


produced, it may be represented by an easily reproducible sign of human language. The aborted gesture of appropriation becomes the originary ostensive sign”286.

Nella nostra specifica situazione notiamo come sia stato emesso un segno, mediante linguaggio, che permetta di differire la violenza, di fermare la tensione mimetica rappresentando l’oggetto del desiderio che altrimenti non avrebbe potuto essere condiviso da tutti. Con l’emissione del primo segno è stata introdotta tra gli uomini la trascendenza che ha fondato il linguaggio. Il segno contiene in sé un principio metafisico che prima d’ora non fu mai presente: i singoli segni emessi dai pre-umani precedentemente alla crisi mimetica non sono né trascendenti, né espressioni religiose, ma semplici segni generici287. Il segno trascendente è solamente quello che differisce la violenza nell’attimo critico, è metafisico perché estraneo al mondo fenomenico degli uomini, è espressione del religioso perché impedisce la distruzione della specie umana. Ciò è dimostrata dal fatto che il linguaggio nasce in un momento di crisi come unico possibile rimedio alla situazione conflittuale, linguaggio che prima non esisteva e che ora è venuto ad essere non da un piano empirico, ma grazie alla trascendenza che lo determina, lo costituisce e lo “applica” al mondo fenomenico. Mondo fenomenico che ora non è più popolato da proto uomini, ma da una vera e propria società civile costituita in seguito all’emissione del segno, società “votatasi” così al linguaggio e al conseguente differimento della violenza: “Language- afferma Gans- as the foundation of human community can only have arisen in a collective event where the multiplicity of the participants multiplies mimetic tension”288. Ed ancora: “The aborted gesture of appropriation occurs as the solution to an originary mimetic crisis in which the group’s existence is menaced by the potential violence of mimetic rivalry over the object. The emission of the first sign is the originary event that founds the human community”289.

Notiamo come adesso affiori un distacco da Girard: infatti Gans sottolinea come gli uomini siano riusciti a differire la violenza tramite 288

Cit. in http://www.anthropoetics.ucla.edu/gaintro.htm.

289

Cfr. ivi.

290

Cfr. ivi..

154


la rappresentazione e senza ricorrere al meccanismo del capro espiatorio: “In contrast with Girard’s model,-afferma nuovamente Gans- which makes violence the primary element of human mimesis, for GA the human begins with the renunciation, or more precisely, the deferral of violence through representation”290.

Tuttavia è necessario specificare un’altra nozione relativa al Little Bang che darà la possibilità di sostenere nuovamente l’ipotesi di un fondamento antropologico-originario. Gans sostiene che non solo il linguaggio, ma anche altre componenti della società civile nascano con la scena originaria. In particolar modo individua la nascita del sacro (religione) e dell’estetica (arte) come immediatamente posteriore all’emissione del primo segno. Tuttavia tali ambiti sono conseguenze implicite del differimento della violenza, che se da un lato attingono alla trascendenza, dall’altro non sono da essa immediatamente fondate come invece lo è stato il linguaggio. Per quanto riguarda il sacro lo studioso americano ne propone una nascita che non segue né le posizione atee, né quelle dei credenti. Infatti sostiene che l’oggetto centrale del desiderio è la prima espressione di qualcosa di sacro in quanto ha la capacità di blocca-

291

Cfr. ivi.

292

Cfr. ivi.

155


re, per un attimo, il ciclo di mimetismo violento fino all’emissione del primo segno che può essere chiamato anche Nome di Dio in quanto permette di differire la violenza salvando l’umanità. Esso è Nome di Dio perché fondato dalla trascendenza che per la prima volta si manifesta tra gli uomini esplicandosi concretamente sotto forma di linguaggio del quale è l’essenza. Ne consegue che uomo e Dio nascono insieme come afferma l’autore: “For believers, God preexisted and created man; for nonbelievers, the relationship is exactly the reverse. But since the inaccessibile central object is the first instance of the sacred – so that the first linguistic sign may be called the name-of-God – humanity and God may be said to have come into existence at the same moment”291.

Per quanto riguarda l’arte, tema che affronteremo più avanti nel paragrafo sull’estetica, essa nasce nel momento in cui il linguaggio, rappresentando l’oggetto desiderato, permette agli uomini di contemplare il segno stesso che descrive l’oggetto e di conseguenza l’oggetto medesimo rappresentato dal segno. Di conseguenza l’effetto estetico permette ai singoli individui di credere l’oggetto desiderato come potenzialmente accessibile e quindi di differire la violenza: “The subject- dice Gans- oscillates between the contemplation of the sign as designating the object and the contemplation of the object designed by the sign; we call this oscillation the esthetic effect”292.

3 IL CAPRO

293

ESPIATORIO E L’ORIGINE DEL LINGUAGGIO

Cfr. E.L.GANS, Le Logos de René Girard, pp.179-214.

294

Cfr. IDEM, Originary thinking, p.78; Cfr. anche IDEM, La constitution du discours litté raire, Revue d’Esthétique XXVII/1 (1974), pp.17-24. 295

Cfr. ivi, p.18.

296

Cfr.IDEM, Le Logos de René Girard,pp.179-214.

297

Cfr.IDEM, La constitution du discours littéraire, pp. 17-24.

156


L’analisi gansiana dell’origine del linguaggio come atto di differimento dal capro espiatorio è fondata su un’intuizione fondamentale: la scoperta che il pericolo posto dal capro espiatorio può essere differito dall’emissione del segno è anche la scoperta che la causa prima di questo pericolo non è l’oggetto in sé293. A Gans non interessa la validità ipotetica del capro espiatorio ma la “narratività ori ginaria”. Non concepisce la vicenda del capro espiatorio ma gli interessa la narrazione del “Mito del Capro” e allo stesso tempo include la narratività nella scena originaria, nell’emissione del segno originario294. L’inscrizione della storia del capro espiatorio è molto più importante dell’ipotetica vicenda della violenza sul capro. Il capro-narrato può essere attinto nel tempo295e non può essere trascurato come fosse un epifenomeno296. Infatti, la temporalità del segno non è quella dell’azione appetitiva del gustare il capro, ma quella della sua chiusura nella narrazione: in tal modo il segno esiste nel tempo (in quanto significante) poiché non può sfuggire alla temporalità di un testo narrato297. Il segno materiale differito dall’evento del capro e trainato verso la narrazione dell’evento del capro, diviene la base delle arti per cui l’evento del capro è musicale poiché narrato come suono, danzato e figurativo poiché narrato come gesto, e così via inserendosi come potenzialità in ogni uso reale del segno. In tal senso, le narrazioni delle rappresentazioni che conseguono il differimento della violenza mediante la rappresentazione del capro espiatorio, il sempre rinnovato processo della generazione del-

298

Cfr.E. L.GANS, Originary thinking, p.23.

299

Cfr. IDEM, L’origine des structures linguistiques élémentaires, pp.13-19.

300

Cfr. Ivi, pp.19-21.

301

Cfr.T.W. DEACON, The Symbolic Species: The Co-evolution of Language and the Brain, Norton, New York, 1997 ; (trad.it. La specie simbolica: coevoluzione di linguaggio e cervello, edizioni Fioriti, Roma 2001). 302

Cfr. ivi, p. 14, passim.

303

Cfr. ivi, p. 19, passim.

304

Cfr. ivi, p. 26, passim.

157


la trascendenza dall’immanenza, sono ciò che Gans chiama cultu ra298. La base della dicotomia tra il trascendente e l’immanente è la relazione linguistica tra il segno (individuato dal gruppo) e la cosa (il capro espiatorio), che si raddoppia in quella tra significante e significato299. Ma è anche vero il contrario e cioè che è proprio con il capro espiatorio che il segno è stato introdotto nella natura300. Ed appunto per consolidare questo passaggio della sua tesi, Eric Gans si confronta con la tesi centrale di Terrence Deacon, che affermava che il cervello umano con la sua corteccia pre-frontale straordinariamente vasta si sia evoluto come risultato del linguaggio piuttosto che essere la causa della sua comparsa301. In Colloquium on Violence and Religion, la conoscenza di Deacon della struttura interna “darwiniana” del cervello – determinata non da una mappa genetica ma dalla “sopravvivenza delle più adatte” sinapsi – lo libera dai tradizionali scenari “pragmatici” per l’origine del linguaggio e si avvicina molto all’ ipotesi originaria gansiana. Deacon spiega l’origine della rappresentazione simbolica a partire dalla dipendenza delle società proto-umane dalla carne, procurata da gruppi di cacciatori e cercatori di carogne composti di soli maschi, gruppi le cui attività dovevano rendere necessaria un’assenza dai luoghi di residenza protratta per lunghi periodi302. Sotto la pressione di queste circostanze, queste società dovevano essere altamente motivate al mantenimento della fedeltà femminile tramite la creazione di un vincolo simbolico di matrimonio, in contrasto col legame meramente “associativo” della monogamia animale303. Un tale rinforzo simbolico doveva avere chiaramente degli effetti vantaggiosi sulla capacità riproduttiva, la forza motrice dell’evoluzione304. Il ragionamento di Deacon, straordinariamente audace e sottile per gli standard delle scienze sociali, non lo conduce alla proposta di un evento originario come tale305. Ma la sua elaborazione include molte componenti chiave di un evento del genere:

305

Cfr. ivi, p. 32, passim.

306

Cfr. E.L.GANS, Pour une esthétique triangulaire, in « Esprit» 429 (1973), pp. 564-581.

307

Cfr. IDEM, Originary thinking, pp.80-82.

308

Cfr. IDEM, Pour une esthétique triangulaire, pp.564-568.

309

Cfr. ivi, pp.568-581.

158


A) la carne come nutrimento condiviso dal gruppo come essenziale alla sopravvivenza proto-umana B) la difficile necessità di mantenere la pace tra i membri della banda maschile di caccia C) la necessità che i cacciatori si trattengano dal mangiare la loro preda sul posto per portarla alle compagne e alla prole D) il primo segno come ciò che serve a stabilire un’istituzione etica E) la natura collettiva dei significati del linguaggio. F) il rinforzo del riferimento simbolico tramite il rituale. Se combiniamo questi sei punti in una scena di rinuncia/divisione ritualmente ripetuta (mediata dal segno) della carne sacrale dell’animale, abbiamo, a tutti gli effetti, l’ipotesi generativa dell’origine del linguaggio gansiano306. Ma in base a queste ipotesi deaconiane, Gans porta in avanti la tesi iniziale. Infatti alla tesi dell’origine del linguaggio come atto di differimento dal capro espiatorio ne consegue che la storia raccontata dal segno originario è in primo luogo non tanto la narrazione del capro espiatorio quanto più la narrazione della stessa emissione del segno, vale a dire la storia della conversione del gesto di appropriazione del capro in un gesto di significazione307. Il segno inizia come movimento per appropriarsi dell’oggetto e finisce come gesto che imita l’oggetto308. E’ questo stato finale che costituisce il segno come forma proprement dit; ma nella scena originaria questo stato marca la conclusione di un processo309. Giungiamo così alla conclusione inaspettata che, sebbene nei termini del già-umano la testualità preceda la narratività, nei termini del divenire-umano, che la scena realizza, è la narratività a co-

310

Cfr. ivi, pp.568-569.

311

Cfr. ivi, pp.580-581.

312

Cfr. ivi, p.568, passim.

313

Cfr. E.GANS, Originary thinking, pp. 84-86.

314

Cfr. R.GIRARD, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, pp. 134 ss.

315

Cfr. E.L.GANS, Le Logos de René Girard, p.179.

159


stituire la testualità. Il segno deve raccontare la sua storia prima di poter acquisire una significanza formale310. Nel conseguente modello di narrazione come costituzione del segno, la storia è la generazione della trascendenza dall’immanenza. Il segno formale come significante che significa un significato è il destino finale di un gesto che è cominciato come tentativo di appropriazione di un oggetto reale311. Il differimento dell’appropriazione conferisce senso all’oggetto, e questo a sua volta conferisce senso al gesto originale, che ha ricercato l’assimilazione dell’oggetto e, con essa, l’abolizione della sua identità significativa312. Ciò che è significativo è ciò che resiste all’assimilazione e ne causa il differimento. Il segno è la storia di questa resistenza313 e per far comprendere questa seconda parte della sua tesi, Gans presenta l’esempio girardiano classico del mito tikopia314. Il dio straniero Tikarau è invitato ad una festa. Egli inciampa e abbandona una gara di corsa, dichiarando di essersi ferito, ma ruba invece il cibo della festa. Mentre scappa per non essere linciato, 316

Cfr. ivi, p.214.

317

Cfr.IDEM, Sacred Text in Secular Culture, pp.59-63. Per Gans, poiché il rituale non è storia, fin dall’origine è integrato dal mito. Tuttavia neppure il mito è storia, perché fin dall’origine è integrato dal rituale. L’avventura mitica non è una finzione autosufficiente; essa deriva la sua autorità dalla rappresentazione sacra. Il mito narra di dèi, esseri insieme mondani e trascendenti che agiscono nel mondo ma che sussistono a-temporalmente come segni piuttosto che come cose corruttibili. Il paradosso della divinità è quello dell’Essere indipendente del desiderio mimetico. Se il linguaggio è in primo luogo intorno agli dèi, e solo in seguito intorno agli umani, è perché la significanza inerisce all’Essere a-temporale del significato. Anche quando hanno forme animali o comunque non umane, gli dèi sono antropomorfi: il criterio reale dell’antropomorfismo è l’uso del linguaggio. E tuttavia poiché essi sono immortali, la significanza che fonda il loro sistema di significazione è lontana dall’esperienza temporale umana. La morte cui gli dèi non sono soggetti non è in primo luogo la morte come fine inevitabile della vita, ma quella morte che il segno è stato creato per stornare: la morte per mano dei propri simili. Quel che separa Dio dall’uomo non è l’esistenza senza fine, la vita eterna, ma l’invulnerabilità al pericolo del desiderio mimetico. I miti sono storie con le quali l’uditore non si può identificare pienamente. Siamo nell’ambito della storia autentica quando i compagni umani degli dèi cominciano ad occupare il centro della scena e l’esperienza dell’umanità mortale diviene la base della significanza. Le storie riguardano essenzialmente mortali che non condividono l’Essere che trascende il desiderio mimetico. Così Gans suggerisce che la perdita dell’erba dell’immortalità da parte di Gilgamesh può servire da linea divisoria esemplare tra il mito e la narrazione letteraria (Cfr. E.L.GANS, Originary thinking,p.102). Sia che noi accettiamo sia che rifiutiamo il concetto antropomorfico popolare di Dio, il suo infantilismo dovrebbe farci esitare a dichiararci liberati dai lacci della superstizione. Dicendo che Dio è come noi tranne per il fatto che è immortale non si rende facile la spiegazione dell’origine o della funzione culturale della sua immortalità. L’immortalità è in primo luogo una qualità dell’Idea, di ciò che è significato dal segno. L’idea del dio immortale deriva dall’uso del segno per designare l’oggetto centrale originario: un dio è un essere mondano che allo stesso tempo partecipa dell’essere trascendente del segno.

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cade, lasciando dietro di sé diversi alimenti, e salendo le colline ritorna in cielo. Per Gans, l’ascensione, che definisce la separazione del dio dalla comunità umana, è atto di differimento del linciaggio collettivo315. Il punto importante di questo mito, per lo studioso californiano, è che il mito fornisce un modello per la generazione della trascendenza dall’immanenza, del mondo superumano della significazione dal mondo subumano che la ignora. La narrazione di Tikarau non è meramente la genesi della cultura materiale che egli si lascia dietro, ma è quella della distinzione tra segni e cose che è la caratteristica minimale dell’umano316. Pertanto il mito è generativo e narra della nascita dell’umano mediante l’azione di differimento dell’oggetto del desiderio mimetico collettivo; inoltre con quello che Gans, nella spiegazione di questo mito, definisce racconto della storia del suo stesso sorgere, il segno originario deflette l’imperativo della presenza fisica. La presenza del segno è in verità coniugata con la presenza di ciò cui si riferisce, ma esso non si riferisce ad un referente fisico - né ancora ad un significato o Idea - ma all’Essere che sta dietro la sua manifestazione fisica. Il referente mondano ascende al reame trascendente dei segni immortali; la narrazione rifiuta l’appropriazione mondana con il situare i suoi oggetti in un universo di rappresentazioni tanto che per Gans la lettura girardiana della narrazione come occultamento di un assassinio reale pone, indipendentemente da questa analisi, un dubbio davanti all’analisi della narrazione in generale317. Questo ammonimento gansiano non sancisce il ritorno ad uno stadio di innocenza pre-girardiana che ignora la violenza. Ma l’analisi originaria sposta l’accento dalla violenza alla trascendenza. Il mi-

318

Cfr. E.L.GANS, Sacred Text in Secular Culture, pp.53-56

319

Cfr. ivi,pp.56-58.

320

Cfr. ivi, pp.58-64.

321

Cfr. IDEM, Christian Morality and the Pauline Revelation, in “Semeia” 33 (1985), p. 97 (trad. di Davide Polovineo). 322

Cfr. ivi, pp. 100-108.

161


to occulta l’assassinio al fine di dare figura alla generazione del trascendente318. Come per Girard anche per Gans, affinché un linciaggio non travisato possa fornire questa figura, dobbiamo aspettare la storia della Passione319. Non possiamo generalizzare la formula per la trascendenza né nel mito né nella narrazione: nel primo dipende dalle specifiche circostanze storiche cristallizzate nel rituale, e nella seconda dall’imprevedibilità della sua rivelazione etica320. All’interno del cristianesimo, la storia della passione e della resurrezione rappresenta un chiaro progresso rispetto al racconto di Tikarau. Per Gans, il Cristo risorto è apertamente paradossale, dal momento che egli insieme rivela e trascende la violenza: “Sebbene credo quia absurdum fosse la parola d’ordine dei primi cristiani-afferma l’autore- il cristianesimo odierno si è prefisso lo scopo di narrare la sua storia senza il paradosso”321. Ma nel suo intento di eliminare il sacrificale, il cristianesimo ha perso di vista l’intuizione culturale più profonda: che essere l’oggetto di una qualsiasi storia, e a fortiori di una narrazione religiosa, significa ipso facto incarnare una significanza immortale che non può mai essere sufficientemente spiegata col riferimento ad eventi mondani”322.

Gans afferma che, per quanti fatti si possono portare alla lu323

Per Gans quel che chiamiamo mistero è la relazione paradossale tra il mondo delle cose e il mondo dei segni, tra l’immanenza e la trascendenza. Vi è un solo mistero: quello di come la seconda possa essere generata dalla prima (Cfr.IDEM, Originary thinking pp.84-86). Noi non possiamo risolvere il mistero, ma possiamo ridurlo a termini minimi. Non possiamo conoscere esattamente quale configurazione di soggetti e oggetti abbia fatto sorgere l’evento originario, né esattamente quale configurazione consenta all’effetto generativo dell’evento di essere riprodotto. La riproduzione rituale è sempre meccanica, poiché essa feticizza elementi riproducibili della scena a spese della configurazione complessiva inconoscibile. Il rituale tenta soltanto di riprodurre il mistero, non di penetrarlo, e proprio per questa ragione non può mai riprodurlo pienamente (Cfr.IDEM, Originary thinking,p.102). 324

Cfr.IDEM, Scandal to the Jews, Folly to the Pagans, in “Diacritics” 9/3, (1979),pp.43-53; Cfr anche IDEM, End of an Illusion, in “The Harvard Annual Film Review” 2 (2004), pp. 29-31. 325

Cfr. IDEM, Il sacro generativo, pp. 87-94.

326

Cfr. ivi, p.98.

327

Cfr. ivi, p.101.

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ce riguardo al Gesù storico, la comprensione della significanza della sua storia per l’umanità è comprensibile unicamente dal para dosso narrativo non spiegato né spiegabile323. Ovvero la narrazione soprannaturale può essere sostituita solo da una che non spieghi ma ri-narri la generazione della trascendenza dall’immanenza. Questo non è in grado di farlo una “spiegazione” della resurrezione, ma unicamente una narrazione ritualizzata324.

4 L’ESTETICA SACRIFICALE: IL SACRIFICIO COME LUOGO IN CUI L’UOMO RICONOSCE IL LINGUAGGIO

Come possiamo constatare la narrazione originaria gansiana è fortemente sacrificale e, a sua volta, dischiude le dinamiche di una nuova cultura per il genere umano: la cultura sacrificale325. Il vantaggio di questa cultura, che modellò i nostri antenati in una nuova specie, era, per citare l’espressione formulare dell’ipotesi originaria, che la cultura effettua “il differimento della violenza tramite la rappresentazione”326. Ma, per Gans, vi sono nell’ipotesi due elementi complementari che la ricerca sul sacrificio non ha ancora assimilato: l’origine del segno umano in un evento, e la funzione del segno come rappresentazione del sacro, che è, come Girard ci ha insegnato, l’e-

328

In tale ipotesi gansiana, in modo esplicito, ritroviamo il contributo di PH.LIEBERMAN, Eve Spoke: Human Language and Human Evolution, W.W.Norton & Company, New YorkLondon 1998, pp.14-25; Cfr. ancora IDEM, Human Language and Our Reptilian Brain, Harvard University Press, Cambridge-Massachusetts-London 2000, pp.26-94. Cfr. inoltre sulla stessa tematica M.A.ARBIB, Co-Evolution of Human Consciousness and Language, in “Annales of the New York Academy of Sciences” 929 (2001),pp.195-220; J.AITCHISON, The Seeds of Speech: Language Origin and Evolution, Cambridge University Press, Cambridge 2000; J.R.HURFORD- M. STUDDERT- C.K.KENNEDY, Approaches to the evolution of lan guage, Cambridge University Press, Cambridge 1998. 329

Cfr. E.L.GANS, L’origine des structures linguistiques élémentaires, pp.14-21

330

Cfr. ivi, p.16.

331

Cfr. T.W. DEACON, The Symbolic Species, p.46; Cfr. sulla tematica, il testo citato da Deacon di D.C.DENNET, Darwin’s Dangerous Idea: Evolution and the Meanings of Life, Simon & Schuster, London 1995 ( trad. It. L’idea pericolosa di Darwin: evoluzione e significati della vita, Bollati Boringhieri, Torino 1997).

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steriorizzazione del potenziale umano di violenza mimetica autodistruttiva327. Per Gans non possiamo comprendere un elemento senza l’altro. Perché il segno commemori un evento come origine della comunità umana, questo evento deve essere memorabile ritualmente. Ma la sua memorabilità implica l’assoluta necessità dell’evento per la sopravvivenza del gruppo, ovvero il differimento della sua autodistruzione mimetica e il suo costituirsi in comunità umana328. Per Gans l’attività rituale, come quella artistica, contiene sempre informazione circa il mondo, ma questa informazione è subordinata all’ordine umano che supporta. Man mano che il cervello divenne sempre più adatto al linguaggio, il linguaggio a sua volta poté diventare sempre più complesso sia nel vocabolario che nella sintassi329. La complessità della società non poteva oltrepassare i limiti della cultura simbolica di cui il linguaggio era il sostegno formale, ma l’esistenza di una simile cultura deve aver continuamente spinto la selezione naturale nella direzione dell’adattamento del tipo cultura-linguaggio, con gli ordinamenti sociali più complessi ed efficienti che continuamente emarginavano, eliminavano o assorbivano i loro rivali330.

332

Cfr. E.L.GANS, L’origine des structures linguistiques élémentaires, pp.4 -9.

333

Ovvero quelli appresi tramite l’associazione con il loro oggetto, come nel famoso esperimento di Pavlov in cui ad un cane viene insegnato a far squillare un campanello come un index della presenza di cibo: Cfr. E.L.GANS, L’origine des structures linguistiques élémen taires, p.8. 334

Cfr. ivi, p.20.

335

Cfr. ivi, p.4.

336

Cfr. T.W. DEACON, The Symbolic Species, p.14.

337

Cfr. E.L.GANS, Il sacro generativo, pp. 93-103.

338

Anche qui con le sue citazioni Gans si appoggia alla ricerca di PH. LIEBERMAN, On the Origins of Language: An Introduction to the Evolution of Human Speech, Macmillan Publication, New York 1975 (trad.it., L’origine delle parole, Boringhieri, Torino 1980); IDEM, Bio logy and Evolution of Language, Harvard University Press, Cambridge- Massachusetts-London 1984; IDEM, Speech Physiology, Speech Perception, and Acoustic Phonetics, Cambridge Studies in Speech Science and Communication, Cambridge 1987; IDEM, Uniquely Hu man: The Evolution of Speech, Thought, and Selfless Behavior, Harvard University Press, Cambridge-Massachusetts- London 1991; IDEM, Human language and Human uniqueness, in “Language & Communication: an interdisciplinary journal”, 14 (1994), pp.87-95.

164


Gans, anche qui, per confermare la prima parte sulla tesi sacrificale, cita pagine di The Symbolic Species del neuroscienziato Terrence Deacon che afferma che la presentazione della comparsa del linguaggio umano si fonda sulle correnti ricerche sulla struttura e l’evoluzione del cervello331. Deacon è consapevole della differenza qualitativa tra linguaggio umano e sistemi animali, una differenza che egli esprime nei termini di Charles S. Peirce332 come quella tra segni indexical333 e i segni simbolici del linguaggio, che sono, come li ha chiamati De Saussure334, “arbitrari”, perché il loro riferirsi ad un oggetto mondano è mediato tramite un sistema di segni in cui i segni sono tutti interrelati tra loro. Laddove Bickerton335 vede il linguaggio e il pensiero strettamente dalla prospettiva del parlante individuale, persino rifiutando chomskianamente di definire il linguaggio come un modo di comunicazione, Deacon è sensibile alla natura collettiva del linguaggio336. Ma a questo punto Gans porta la sua tesi sacrificale ad un secondo livello. Considerando che, secondo l’ipotesi originaria, l’evento sacrificale deriva la sua forma dall’evento originario, il contenuto fondamentale del sacrificio, come di tutti i meccanismi culturali, è fornito dagli oggetti di appetito preculturale337. Il sacrificio rituale coinvolge principalmente i grandi animali commestibili perché questi sono le forme di nutrimento più concentrate; l’energia motrice predominante nelle narrazioni è il desiderio sessuale, la cui importanza biologica non ha bisogno di dimostrazione338. Per Gans, invece, è meno ovvio; per questo è necessariamente da mettere in rilievo, ciò che è importante per comprendere la cultura sacrificale, ovvero il paesaggio sacrificale. Su questo punto Gans si sofferma e si appoggia agli psicologi evolutivi Gordon Orians e Judith Heerwagen che suppongono un estetico dei paesaggi poiché l’attrattiva per l’habitat è fondamentale per la nostra specie nella sua fase formativa nel

339

Cfr. G.ORIANS-J.HEERWAGEN, Evolved Responses to Landscapes, in BARKOW-COSMIDES-TOOBY, The Adapted Mind, Oxford University Press, Oxford 1992, pp. 555-579. 340

Cfr. E.L.GANS, The Necessity of Fiction, in “Sub-Stance” 50 (1986), pp.36-47.

341

Cfr. ivi, p.38.

342

Cfr. ivi, pp.39-40.

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Pleistocene339. E’ proprio la figuralità dell’habitat che crea un modello evolutivo plausibile e plasma il nostro gusto topografico: tendiamo a trovare attraenti scenari, simili alla savana, che offrono potenzialità di alimento ma specialmente “prospettiva” e “rifugio”, permettendoci la capacità di vedere senza essere visti. Per Gans, il figurale è fondamentale per comprendere non solo il sacrificio ma l’intera comprensione della scene delle origini340. Infatti il figurale funziona come una risposta di differimento ad una domanda imperativa riguardante l’oggetto centrale. Se l’oggetto non è qui in questa stanza ma qui in questa frase, la figura ci consente di passare da una sfera all’altra nella nostra immaginazione: qui in questa frase diventa qui nella mia scena immaginaria della rappresentazione. Al fine di presentare questa formulazione dichiarativa come narrativa, dobbiamo pensare che l’assenza dell’oggetto sia il risultato del suo allontanamento intenzionale, e pertanto non irrevocabile341. Il segno figura o rende immaginabile questo allontanamento col convertire in una sequenza intenzionale la nostra esperienza paradossale di oscillazione tra (1) il suo riferimento a questo essere mondano specifico e (2) la sua rappresentazione dell’Essere che questo essere particolare incarna342. Poiché il centro del desiderio mimetico che il segno rappresenta non è disponibile a noi che lo richiediamo, noi figuriamo il suo referente mortale come immortale. Noi vediamo l’oggetto come un oggetto dell’esperienza fisica, e tuttavia il segno che lo rappresenta si riferisce ad un significato al di là della temporalità dell’esperienza fisica. Ciò che è figurato da segni specifici di immortalità, quali l’es-

343

Cfr. ivi, pp.36-47.

344

Cfr. E.GANS, The End of Culture, pp 4-9. Gans fonda la sua teoria dell’antropologia generativa su questo snodo della teoria girardiana, allontanandosi, tuttavia, dall’idea di Girard secondo cui il corpo della vittima è il primo segno e ipotizzando che un gesto di appropriazione abortito, che simultaneamente rinuncia e si riferisce sia alla vittima che al gruppo circostante, sia il primo atto di rappresentazione. La prospettiva di Gans consente una descrizione dell’epistemologia come un tentativo di contenere la violenza, e mediante ciò riporta l’idealizzazione della violenza operata dai circoli filosofici alla sua scena originale. 345

Cfr.E.L.GANS,The Victim as Subject: The Esthetico-Ethical System of Rousseau’s Rêve ries, p.3. 346

Cfr. ivi, pp.5ss.

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ser libero dalla gravità o invulnerabile alle offese, è il semplice fatto della designazione da parte del segno343. L’essere rappresentato dal segno è in se stesso la figura primaria dell’immortalità, che a sua volta è la base di ogni figuralità. Pertanto la narrazione è inseparabile dalla figuralità. Per Gans già la concezione del mito di Girard ci presenta un modello del figurale come trasferimento metaforico di un fatto mondano violento in un fatto trascendente344. La non-violenza del volare del mito di Tikarau attraverso l’aria, contrasta con la violenza dello sparagmos principalmente nella preservazione dell’integrità della figura centrale. Non è tanto la direzione verso l’alto del volo che è essenziale, quanto il fatto che il corpo è preservato da ogni offesa. Il corpo che vola è soprannaturale: la liberazione dalla gravità raffigura la liberazione dalla mortalità e quest’ esempio indica a Gans che la figuralità è in primo luogo soprannaturalità in contrasto con la comprensione comune del soprannaturale come pura varietà del figurale e che non può essere spiegato come estensione iperbolica di 347

Cfr. ivi, pp.19ss.

348

Cfr. IDEM, The Necessity of Fiction, p.38.

349

Cfr. IDEM, La chouette de Minerve; essai sur la fin de la littérature,in « Nouvelle Revue Française » 236 (1972), pp.88-93. 350

Cfr. ivi, p. 90.

351

Cfr. E.L.GANS, Originary and/or Kantian Aesthetic, in “Poetica” 35/3-4 (2003), pp. 335353. E’ interessante l’attenta analisi gansiana della Critica del giudizio di Kant nelle sue diverse redazioni. Necessariamente dobbiamo seguire l’analisi di Gans sulla metodologia filosofica kantiana. Nel capitolo X della cosiddetta Prima introduzione alla Critica del Giudi zio, non pubblicata da Kant, si affronta il problema della ricerca d’un principio del Giudizio tecnico, e si cerca di stabilire, sebbene il termine “deduzione” non compaia, un principio del Giudizio capace di giustificare la pretesa alla validità necessaria del giudizio di gusto. Ora, è proprio l’assenza di una simile “deduzione” che per Kant contraddistingue tutta una schiera di “pretesi psicologi”. “Così”, scrive Kant, “esiste una schiera di pretesi psi cologi che dicono di saper precisare le cause d’ogni modificazione o moto dell’animo suscita to da tragedie, rappresentazioni poetiche ed oggetti naturali, e danno perfino il nome di filo sofia a questa loro ingegnosità, mentre sembra che manchi loro non solo la conoscenza suf ficiente a spiegare scientificamente i più comuni eventi naturali del mondo corporeo, ma for s’anche, addiritttura completamente, la capacità di avere tale conoscenza” (I. Kant, Prima In troduzione alla Critica del Giudizio, Laterza, Roma-Bari 1969, p. 100.). Mentre per il bello è possibile indicare una facoltà in grado di coglierlo e che si può anche connotare con un nome preciso, “gusto”, per il sublime, nota Kant, non disponiamo di una analoga denominazione atta a caratterizzarlo. Esso indica una comparazione, che ci conduce ben al di là della misura abituale delle grandezze e l’immaginazione subisce alla vista di esso un’estensione tale che la misura abituale non è più sufficiente a comprendere l’oggetto. Centrale è anche qui il concetto di immaginazione e la sua netta differenza rispetto alla misura abituale delle grandezze. Ed è proprio alla luce di questa definizione del sublime che Kant valuta l’identificazione fra sublime e terrore. Dapprima egli così ne parafrasa il pensiero: “Burg,

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attributi naturali. Per Gans quel che dice Rousseau nel Discorso sul l’origine dell’ineguaglianza345, circa gli uomini primitivi che essendo impauriti parlavano degli stranieri come “giganti” esprime la superiore intuizione che il soprannaturale realizza il differimento della violenza mediante la rappresentazione, tramite la trasfigurazione del nostro potenziale di violenza mimetica346. Se l’altro è un gigante, egli non solo è un uomo più grande di me ma anche è dotato di poteri sacri che io farei meglio a non contrastare. Compresa come incarnazione immaginaria del soprannaturale, la figura funziona come ponte tra il mondano e il trascendente-significante. In ogni caso la sua motivazione concreta è l’attribuzione ad un essere mondano di un potere (volo, gigantismo) che preserva la comunità dal conflitto nelle condizioni di indifferenziazione che caratterizzano la crisi mimetica347. La figura originaria rappresenta l’invulnerabilità della vittima entro il mondo dell’esperienza umana come indicazione dell’immortalità della sfera trascendente della significanza348. Il passaggio paradossale dal mondano al trascendente può essere soltanto fi-

una mente illuminata, ha scritto sul bello ed il sublime, e dice: sublime è ciò la cui rappresentazione ci incute terrore e timore, ad esempio, altezze solitudini profonde, ed in esse il luogo di soggiorno terrificante e solo degli eremiti, ed infine la notte è sublime, ma il giorno è bello”. E soggiunge immediatamente con atteggiamento critico: “Ma Burg non ha del tutto ragione; poiché ciò che suscita in noi terrore, non sempre lo troviamo sublime, ed al contrario mostriamo avversione di fronte a ciò che ci riempie di timore”. L’esperienza, infatti, mostra come non sempre vi sia una coincidenza fra il terrore e il sorgere in noi dell’idea di sublime e testimonia, anzi, che spesso, nei confronti di ciò che suscita terrore, assumiamo un atteggiamento di ripulsa. “Migliore” - afferma Kant - “sarebbe la seguente definizione: sublime è ciò in cui l’immaginazione viene a tal punto estesa dall’oggetto, che la misura usuale non è più sufficiente a comprenderlo. Con questo non vogliamo negare che alcune cose sublimi possano suscitare in noi un sacro terrore, ad esempio un mostruoso castello le cui rovine in parte crollate ci mostrano la triste antichità”.(Cit. in Kant’s gesam melte Schriften, a cura della Accademia delle Scienze di Berlino, Berlino 1900, vol. XXV, pp. 192 ss.). 352

Cfr. E.L.GANS, Originary and/or Kantian Aesthetic, pp.350- 353. Anche in queste pagine le sottolineature gansiane sono di notevole rilievo. Nel corso di antropologia che svolse a partire dal 1772-73 sulla base della terza parte della Metaphysica di Baumgarten, la Psychologia empirica, Kant riserva un interesse del tutto particolare ai problemi estetici. La fase immediatamente successiva alla dissertazione del 1770 sulla Forma e i princìpi del mondo sensibile ed intelligibile ruota intorno al problema della validità del giudizio. È il giudizio sul bello destinato a valere solo per il singolo soggetto che lo enuncia, in un determinato luogo ed in un determinato momento temporale, oppure può aspirare ad essere considerato valido da tutti gli esseri umani? E quale status si deve assegnare alla valutazione del sublime? Gli appunti dalle lezioni di logica e di antropologia del semestre invernale 17721773 rispondono a questi interrogativi cruciali per l’estetica avvalendosi di una distinzione: il concetto di “rapporto” [Verhältnis] viene delimitato e separato da quello di “impressione” [Eindruck]. Il sublime, considerato quale impressione isolata, singola sensazione avul-

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gurato: non vi è alcun modo di descrivere la sfera trascendente ostensiva, eccetto che in termini dichiarativi inadeguati349. Di qui, per Gans, il senso di una significanza ineffabile che è proprio dei mistici: prima dell’antropologia generativa soltanto mistici ed umoristi hanno praticato il pensiero paradossale350. L’ipotesi del paesaggio sacrificale in senso figurale offre una base evolutiva per il “giudizio senza concetto” dell’estetica kantiana351. Per Gans il nostro giudizio sarà chiaramente più rapido e più decisivo se non ci richiede di ragionare, cioè di confrontare nelle nostre menti un dato paesaggio con una serie di immagini di paesaggio con diversi gradi di idoneità all’abitazione o all’esplorazione da parte degli umani. Fra i cacciatori del Pleistocene che si muovono sul terreno, la capacità di decidere correttamente, senza riflessione, sulla disa da rapporti formali, non implica universalità; la bellezza, rappresentando l’oggetto di un giudizio che prescinde dal mutevole della sensazione empirica, si offre quale realtà formale che non colpisce il soggetto dall’esterno rendendolo passivo. Laddove il bello presuppone forma, proporzione, e misura, il sublime è riconducibile alla grandezza senza limiti e colpisce direttamente i sensi. All’origine del piacere per il bello si situa così una qualità oggettiva, fondata sulle leggi della sensibilità; leggi che Kant, intorno al 1770, ravvisa nello spazio e nel tempo in quanto intuizioni pure; alle sorgenti del sublime non vi sono invece dati oggettivi. “Il sublime”, si legge nelle Lezioni di antropologia, “non ha un nesso con la proporzione. Rocce audacemente sporgenti, nelle quali non si trova alcuna misura, ma solo grandezza, sono sublimi. Qui non è importante tanto il piacere”, conclude Kant, “quanto piuttosto la grandezza dell’affetto” (citazioni in : Kant’s gesammelte Schriften, a cura della Accademia delle Scienze di Berlino, Berlino 1900, vol. XXV, p. 198). 353

Cfr. E.L.GANS, Originary and/or Kantian Aesthetic, pp.340 ss. Questa descrizione del sublime conferma, agli occhi di Kant, che esso concerne unicamente la singola impressione [Eindruck], la materia della conoscenza, producendo “commozione” [Rührung] e non vertendo su rapporti formali riconducibili alle intuizioni pure di spazio e tempo. In questa fase egli non tenta un’elaborazione positiva ed autonoma, ma accetta la caratterizzazione dell’”autore inglese”. Nella traduzione di Gans i termini Eindruck e Rührung vengono utilizzati ad indicare il particolare “effetto” [Wirkung] del sublime. Per Kant come per Burke il sublime si identifica infatti con tutto ciò che suscita terrore [Schrecken] nel soggetto che lo osserva. Ma proprio in ciò risiede al tempo stesso il suo limite per Kant. Mentre per il Verhältnis (rapporto), per la bellezza, si può parlare di un elemento formale, per lo Eindruck si è invece di fronte ad una singola sensazione, e all’effetto che essa produce sui sensi. Nel primo caso è possibile fondare un giudizio universale, nel secondo ci si trova in presenza di giudizi che possono al più esprimersi su ciò che è piacevole. 354

Cfr. E.L.GANS, Prose poétique, in “Romanic Review” LXVI/3 (1975), pp.187-198. Necessariamente Gans deve ricollegarsi alla matrice estetica aristotelica. Gans sottolinea come per Aristotele l’arte sia mimesi, cioè imitazione della natura, e che il bello sia la pura forma. Anche secondo Platone, per Gans, l’arte era imitazione della natura, mentre il bello era l’idea priva di materia ma a differenza di Platone, Aristotele osserva che nell’attività artistica l’artista tende a ricavare dalle cose la Forma e non semplicemente ad imitarle, degradandosi, perciò l’arte è in genere mimesi che innalza lo spirito. La tragedia e la comme-

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rezione da seguire ha sicuramente la stessa probabilità di interessare la selezione evolutiva che ha la capacità di scegliere correttamente, con una semplice annusata o un morsetto, quale cibo è da mangiare. Non è affatto una coincidenza che la nozione di gusto sin dall’inizio sia stata connessa con l’estetico. Se il nostro gusto per quanto riguarda il cibo ha un uso pratico, allo stesso modo lo ha, o lo aveva, il nostro gusto per quanto riguarda il paesaggio. Gans, spingendo l’ipotesi un passo avanti, afferma che la distinzione kantiana fra il “bello” e il “sublime” sembrerebbe distinguere le scene in cui vogliamo entrare dalle scene che desideriamo soltanto contemplare352. Per Gans il fatto che noi usiamo lo stesso linguaggio per parlare di bei paesaggi e belle pitture suggerisce con forza che il nostro gusto per quest’ultime in un certo senso derivi dal gusto per i primi. Così la psicologia evolutiva fornisce questa consistente giustificazione per l’attenzione primaria dell’estetica di Kant alla bellezza naturale, ma sembra ancor meno pronta di Kant ad affrontare la questione cruciale dell’articolazione dell’estetico naturale con quello culturale353. Uno dei clichés più vetusti dell’estetica offre un modo sempli-

dia sono imitazioni libere da contingenza (quindi spirituali) di sentimenti elevati nel caso della tragedia e di sentimenti più “bassi” nel caso della commedia. L’importanza spirituale di queste due attività, specialmente della tragedia, consiste nell’elevazione dello spirito verso livelli nobili; la tragedia conduce direttamente all’eroico, quasi al divino; la commedia vi conduce indirettamente per reazione. Questa elevazione dello spirito era chiamata da Aristotele, catarsi o purificazione. Gans ipotizza che la catarsi aristotelica consiste nell’eliminazione del dubbio, in quanto attraverso l’azione drammatica (tutto ciò che è rappresentato) si passa da uno stato di incertezza o da possibile pericolo ad uno stato di certezza del pericolo o della liberazione dal pericolo stesso. Occupandosi di arte rappresentativa Aristotele annuncia tre unità, cioè tre regole a cui l’opera drammatica deve attenersi per avere valore artistico: esse sono unità di tempo, luogo e azione. In sostanza l’opera drammatica, cioè la rappresentazione teatrale, deve svolgersi in modo che il tempo utilizzato nella narrazione corrisponda al tempo reale dell’azione stessa; il luogo in cui si svolge la rappresentazione deve essere tale da consentire che gli spostamenti siano gli stessi possibili nella realtà; l’azione rappresentata deve essere possibile nella realtà sia come tempo che come spazio. Queste tre unità aristoteliche, come sottolinea Gans stesso, hanno caratterizzato la sua concezione di Rappresentazione e l’utilizzo della terminonologia estetica. 355

Cfr. E.L.GANS, The Beginning and End of Esthetic Form, pp.19ss.

356

Cfr. ivi, p.14.

170


ce di distinzione fra la bellezza della natura e quella dell’arte: l’idea, che risale almeno alla Poetica di Aristotele, è che gli oggetti che ci impauriscono o ci respingono nel mondo reale (Aristotele accenna a “gli animali vili e i cadaveri”) ottengono la nostra lode quando sono soggetti di un’opera d’arte354. L’arte contemporanea più radicale, a prescindere da quelle che possono essere le sue altre virtù, permette a Gans di affinare questa asserzione. Laddove gli esempi classici (tipicamente immagini delle bestie selvagge) erano più spaventosi che ripugnanti, una tendenza importante nelle arti plastiche, invece, esprime un culto della bruttezza e della repulsione, usando escrementi, sangue mestruale e altre escrezioni allo scopo apparente di dimostrare che l’estetico può essere definito soltanto nell’opposizione ai nostri gusti biologici355. Sin da quando i romantici hanno deciso di épater le bourgeois, l’arte sempre più è stata opposta non, come spesso è stato affermato, all’ “utile”, ma al naturalmente o semplicemente bello, al genere di oggetti che la selezione naturale apparentemente ci spingerebbe a scegliere.

357

Cfr. ivi, p.16.

358

Cfr. ivi, pp. 18ss.

171


Comprendiamo l’importanza di questa riflessione per la comprensione di cultura sacrificale in Gans. Infatti l’oscillazione fra il segno estetico ed il suo referente immaginario è mediatrice fra cultura umana ed estetico naturale. Gans suppone che in prassi sacrificale un oggetto potenzialmente significativo sarà stato rilevato come tale dal nostro sistema preculturale di percezione, e perfino che avrà ricevuto una valenza estetica, proprio come il paesaggio valutato tramite il nostro giudizio estetico naturale356. Pertanto l’effetto strutturante del segno risulta, secondo l’ipotesi originaria, dalla sacralizzazione dell’oggetto tramite la convergenza dei desideri della comunità; esso è necessario non alla percezione in sé ma alla focalizzazione esclusiva dell’attenzione che è caratteristica della contemplazione estetica. Così il segno fornisce un “supplemento” all’interesse estetico naturale destato dall’oggetto, con la conseguenza che il campo visivo, invece di comporsi di un insieme di oggetti variamente interessanti, è ristrutturato nei termini di un oggetto centrale su cui tutta l’attenzione è concentrata e uno sfondo da cui tutto l’interesse è stato distolto. Ma l’interesse concentrato su questo oggetto non è più semplicemente preliminare ad un’azione appropriativa o esplorativa. La mediazione del segno è equivalente ad un ritiro dal mondo dell’appetito, verso una contemplazione “disinteressata”357. In tal modo la cultura, rinforzando le disposizioni relative dell’estetico naturale con la significatività assoluta generata dal segno, diviene in ultima istanza il luogo in cui l’estetica sacrificale interpreta e conosce il mondo358. 5 LA

RILETTURA GANSIANA DEL SACRIFICIO

359 Afferma Girard: “Non c’è nulla o quasi, nei comportamenti umani, che non sia appreso, e ogni apprendimento si riduce all’imitazione. Se gli uomini, a un tratto, cessassero di imitare, tutte le forme culturali svanirebbero.” (cit. in R. GIRARD “Delle cose nascoste sin dal la fondazione del mondo”, p.22; cfr. anche pp. 358 ss). 360 La concezione girardiana dell’amore comunque è stata solo accennata nei suoi testi. Tuttavia risulta utile considerare la divergenza tra i due tipi di mimesi: la più comune imitazione, quella che sfocia nella rivalità e nella violenza, corrisponde all’eros, e l’imitazione non violenta corrisponde all’agape. In entrambi i casi si tratta di amore, ma l’eros è il desiderio deformato dalla mimesis acquisitiva e conflittuale, l’agape è il desiderio riformato dalla mimesis generosa e consensuale. Anche la struttura triangolare non varia, se non per uno dei “tre angoli”: rimanendo identici il soggetto e l’oggetto del desiderio, ciò che cambia è il mediatore, che è modello/ostacolo nell’eros e modello/non violento nell’agape.

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L’istituzione del sacrificio, per Gans, costituisce un grande salto in avanti della cultura. Il sacrificio infatti “ricicla”, entro l’ordine sociale, non soltanto l’energia mimetica positiva del processo di apprendimento ma anche l’energia negativa della rivalità mimetica che non poteva più essere dispersa in scontri individuali359. L’istituzione umana centrale della scena ovvero l’oggetto centrale del sacrificio, sulla quale le energie della comunità sono polarizzate, sorse quando divenne necessario differire la violenza. Il focalizzare sia le energie positive sia quelle negative della mimesi su un mediatore centrale, universale e sacro è la base su cui si fonda la rappresentazione, attività propria dei soli umani, la quale fonda un ordine sociale che contemporaneamente esiste ed è rappresentato dai suoi membri: l’energia della mimesi negativa viene spesa nel sacrificio che rinforza la sacralità di questa divinità centrale. Ma, per Gans, il sacrificio è anche il luogo in cui il residuo di tristezza che segue una tragedia riflette l’eccedenza dell’ amore sul risentimento360. Per comprendere attentamente come Gans pone questo scambio di passaggio dal risentimento all’amore dobbiamo seguire proprio le dinamiche originarie che conducono all’azione sacrificale. Tutto ha inizio dal risentimento che il gruppo prova nei confronti dei propri simili: tale risentimento è mediato verso un unico oggetto centrale ovvero attraverso il centro; il trasferimento dell’aggressività verso il centro, il risultato dell’abdicazione dell’animale alfa sotto la pressione collettiva del gruppo è il meccanismo girardiano del capro espiatorio, che susseguentemente provoca lo sparagmos o distruzione/divisione collettiva dell’oggetto/vittima centrale. Nella scena originaria, l’unica figura marcata è quella centrale, ma alla conclusione della scena, la vittima non esiste più. La tensione tra il luogo vuoto e la vittima ricordata è ciò che nella scena originaria corrisponde al nostro concetto di senso di colpa361. Risentimento e senso di colpa sono inseparabili, dal momento che l’espulsione immaginaria della figura centrale che riempie la fan361

Cfr. E.L.GANS, Le Logos de René Girard, pp.179-200.

362

Cfr. ivi, p. 202 ss.

363

Cfr. ivi, pp. 204 ss.

364

Cfr. E.L.GANS, The Victim as Subject: The Esthetico-Ethical System of Rousseau’s Rêveries, p.32.

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tasia del risentimento è ciò che lascia il luogo (immaginariamente) vuoto. In questo contesto nasce il segno che non ha nulla da indicare se non il luogo vuoto che era occupato dalla vittima. Il momento originario del senso di colpa si colloca dopo lo sparagmòs, una volta che la vittima è stata divisa tra i partecipanti. Lo scenario dell’origine di Freud come quello di Girard situano in questo punto una forma di senso di colpa. In Totem e Tabù, i figli si sentono colpevoli per aver ucciso il loro padre, e di conseguenza rinunciano alle donne per le quali l’assassinio originale è stato compiuto362. Ne La vio lenza e il sacro di Girard, il sollievo avvertito dagli uccisori della “vit365

Cfr. IDEM, The Market and Resentment, in AAVV, Passions in Economy, Politics, and the Me dia, a cura di W. PALAVER-P. STEINMAR-PÖSEL, Lit. Verlag, Vienna 2005, pp. 85-102. Qui Gans rilegge e decostruisce il maussiano Saggio sul dono ( Cfr. M.MAUSS, Saggio sul dono, Einaudi, Torino 2002). Il dono di cui parla Mauss non è assimilabile alla moneta, l’equivalente universale di scambio della moderna economia di cui rappresenterebbe l’origine, in quanto le cose scambiate negli esempi addotti da Mauss sono oggetti di natura problematica perché composita, circolano e non circolano, sono contemporaneamente valori e talismani, condensano il tempo e le virtù dei loro possessori. Neppure è assimilabile al contratto, che non è equivalente allo scambio, ma deriva semmai dalla necessità di alienare un diritto per instaurare simultaneamente le convenzioni che fondano il diritto e la nuova libertà che esso consente. Il dono di cui parla Mauss è invece il “prestito usuraio”. L’errore di Mauss, per Gans, comincia quando, per ragioni che difficilmente si comprendono, egli vuole che un prestito sia un dono, e che la reale positività di quest’ultimo sia omologata con l’obbligo terribile che l’usura impone a colui che vi ricorre, a rischio della propria libertà, per avere ciò che non ha. L’usura prende vita quando il desiderio, il bisogno di avere, è tanto forte che per soddisfarlo mettiamo in pericolo anche la nostra anima. Rilevando come essa sia il calco della teoria della magia di Mauss, interamente basata sulla nozione di mana, Gans in The Market and Resentment afferma che il mana piuttosto è il vero della cosa: essere, stato, esperienza, accessibili ed esprimibili. La categoria è un attributo di sostanza, in certi casi equivalente all’attributo di “iesistenza” che concettualmente fissa il manifestarsi dell’authentikòn (inteso etimologicamente come ‘ciò che produce da sé) che la vista, l’intendimento conoscono. 366 Cfr. anche. J.P. DUPUY- P. DUMOUCHEL, L’enfer des choses. René Girard et la logique de l’economie, le Seuil, Paris 1979, pp. 8ss. 367 Cfr. E.L.GANS, The Market and Resentment, p. 86. La posizione di Mauss mostra, per Gans, di presupporre un’antropologia, nel senso di una concezione dell’uomo, nella quale il dono si rivela come una forma di competizione fra gli individui. In questa lotta per il riconoscimento, secondo il modello individuato da Hegel, l’uomo del desiderio, impegnato nella dialettica servo-padrone, cerca di essere riconosciuto dagli altri. Nel dare e rendere differiti nel tempo dello scambio -prosegue la critica di Gans- si mette in moto una prestazione che impegna, un atto che vincola, instaurando una dialettica in cui l’idea stessa di un ‘dono libero’ diventa un non senso e proprio perché nella relazione non c’è libertà, si instaura la ‘reciprocità’ e si intrecciano legami positivi e necessari. Nessun dono risulta pertanto realmente disinteressato e costringe all’interno di quel “lavoro dell’usura” che intesse quella singolare rete, allo stesso tempo astratta e coercitiva, in cui il prestito diventa malefico, e il bisogno resta cronicamente inappagato. D’altra parte la partecipazione tra cosa che circola e agente è, nell’analisi di Mauss, debitrice del pre-logico di Lévy-Bruhl, che parlano invece di cose che in effetti non tornano, di un’equivalenza tra una cosa che dò e una cosa che ricevo possibile solo come”transustanziazione” che rende somiglianti due cose in realtà differenti.

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tima emissaria” è la fonte della sua divinizzazione. Per Gans, l’idea di Girard corre il rischio di anacronismo meno di quella di Freud, dal momento che essa non richiede un senso di colpa soggettivo363, ma nella prospettiva originaria dello studioso californiano il punto importante è che i partecipanti sentono di dovere alla vittima, o più precisamente all’essere sacro che la vittima incarna, onore e sacrificio. Questo movimento ha la stessa struttura di quello dell’esperienza estetica, in cui la coscienza dello spettatore oscilla tra il segno e il suo referente immaginario: lo spettatore è risentito verso la sua dipendenza dal segno estetico, sentendosi colpevole per il suo cortocircuito immaginario. Di fronte allo sparagmos, la reazione dei partecipanti non è la naturale pietà per la vittima di cui parla Rousseau364, ma un senso di sacrilegio per la violazione del referente sacro. Poiché questa violazione è stata realizzata come atto collettivo, il senso di colpa originario implica la possibilità di ricattare gli altri partecipanti, una possibilità che rimane latente nelle società premoderne, nelle quali la responsabilità per il sacrilegio è rimessa in scena e purgata attraverso il sacrificio. Questa comprensione prettamente antropologica del sacrificio in Eric Gans ha come base di pensiero il modello fornito dal Saggio sul do no di Mauss365. Per Eric Gans la riflessione di Mauss è importante per la sua significanza antropologica poiché si basa sul concetto di “scambio”366. Il sacrificio vive le sue dinamiche nella logica dello scambio367 e affinchè questa dinamica abbia luogo, l’oggetto sacrificale, che si trova nel luogo sacro e appartiene all’essere sacro, deve venire diviso tra i partecipanti del rito che ottengono delle porzioni non dell’indivisibile sacro/divinità,

368

Cfr. E.L.GANS, The Market and Resentment, pp. 86 ss.

369

Cfr. ivi, pp. 89 ss.

370

Lo stesso Girard ammette che “si l’on me demande si tout désir est mimétique, j’ai tendance à répondre oui. Simultanément il me faut répondre non. Si on considère qu’il existe un désir de la mère pour l’enfant et un désir de l’enfant pour la mère, je ne pense pas que l’affection maternelle soit mimétique, ni que l’affection de l’enfant pour sa mère soit mimétique.” Citazione in P. DUMOUCHEL, Violence et vérité autour de René Girard. Colloque de Cerisy, Grasset, Paris 1985, p.379. 371

Cfr. E.L.GANS, The Market and Resentment, pp.90ss.

372

Cfr. ivi,, p. 96.

373

Cfr. ivi, pp. 98ss.

175


ma della creatura referenziale che esemplifica l’eterno significato368. Il fatto che le porzioni “eguali” del banchetto che segue siano virtualmente scambiabili è, per Gans, una conseguenza necessaria dell’originario mutuo scambio di segni369. Nell’origine, questo garantisce lo spostarsi del risentimento dal gruppo al centro e il suo scaricarsi nel pasto comune. Il valore adattivo del segno è reso possibile dalla combinazione di rendimento in termini di soddisfazione degli appetiti e riduzione di tensione mimetica che esso consente: lo scambio di segni identici è garantito dallo scambio di cose “eguali”370. Una volta che questa uguaglianza è realizzata nella distribuzione rituale, essa implica l’eguaglianza di tutti i possessi divisibili “fuori” del rituale371. Tuttavia dobbiamo considerare che noi non siamo mai realmente al di fuori del rituale, ma solo al di fuori del contesto scenico rituale. Di conseguenza un modello di sistema di scambio originario richiede che alla reciprocità dello scambio periferico si aggiunga un fattore supplementare o supplément, che riflette l’onere o “tassa” sul processo di scambio, imposto dal centro rituale372. Tale onere o tassa si esprime nella forma del sacrificio o dei suoi derivati secolari. Già in Girard, nella Violenza e il Sacro, l’atto sacrificale scarica l’eccesso di energia investita nell’oggetto appetitivo come risultato dell’intensificazione mimetica del desiderio373. Tuttavia per Gans un’analisi più specificamente an-

374

Cfr. ivi, pp. 100-102.

375

Cfr. ivi, p. 97.

376

Cfr. ivi, p. 102.

377

I concetti di dono e di gratuità, nella terminologia gansiana, non costituiscono tanto la negazione paradigmatica o la contraddizione dialettica del calcolo e dell’accumulazione, quanto la loro sfida simbolica, la loro “parte maledetta”, incessantemente soffocata, incessantemente rinascente. Richiamando l’antica presenza della generosità e della prodigalità, questa critica dei fondamenti dell’economico del sacrificio dimostra come la maggior parte delle società umane abbiano accordato un posto secondario all’utilitarismo suggerendoci il carattere “eccezionale” del mercato moderno. Cfr anche C. CHAMPETIER, Homo consumans : morte e rinascita del dono, Arianna, Casalecchio 1999. 378

Cfr. E.L.GANS, The Market and Resentment, pp. 85-102.

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tropologica dovrebbe misurare la violenza della rivalità mimetica in base all’energia simbolica impiegata per differirla. La mediazione del centro è anzitutto un’operazione di interdizione: l’essere sacro che garantisce il processo di scambio è ciò che è proibito, non scambiabile almeno per un certo tempo, e l’investimento energetico di desiderio mimetico trasferito al centro sacro non viene “scaricato”, ma al contrario viene consacrato all’oggetto di devozione comunitaria374. In tal modo il sacro, nel senso più generale del termine, è il processo mediante il quale il desiderio mimetico è trasceso nella rappresentazione. Il sacro può essere insito in vari oggetti o pratiche, ma non lo si può comprendere se lo si concepisce come una qualità: come il bello, il sacro si realizza soltanto nell’esperienza interattiva, con la differenza che l’estetico trova la propria garanzia sulla scena individuale della rappresentazione, laddove il sacro è collegato almeno virtualmente alla scena comunitaria375. Il sacro è la dinamica di uguaglianza materiale approssimativa che segue la divisione dell’oggetto centrale, ma non è l’inizio ma la conclusione del processo originario di distribuzione376. Per Gans pertanto il sacro è la vera attività economica che dipende dal differimento della centralità rituale, nella sua duplice dinamica di attività che è stata svolta fuori dal centro sacrificale e che viene al centro sacrificale per la valutazione377. Molto prima che si trasformi in una forza dominante, e per quanto fortemente un ordine sociale dato tenti di resistere alla sua influenza, il Sacro è, per Gans, sempre un “mercato”: un luogo dove il valore è determinato attraverso lo scambio ma che a sua volta eccede lo scambio378. CONCLUSIONE GENERALE DELLA PARTE ANTROPOLOGICA

Le linee conclusive di questo capitolo su Eric Gans, invitabilemente, mi conducono a rispondere alla domanda di fondo della tesi: è possibile individuare un passaggio e un superamento, della comprensione e del vissuto sacrificale da rito cruento ad una forma sacrificale come atto “estetico” che coinvolga tutte le componenti di ciò che il paradigma culturale occidentale definisce con il termine “spirituale”? E’ una domanda che pone il ricercatore dinanzi ad una sfida metodologica e contenutistica particolare ovvero dinanzi al grande bivio indicato dai termini natura e cultura. Questo “tremor” che fago-

379

Cfr. W. BURKERT, La creazione del Sacro. Orme biologiche nell’esperienza religiosa, Adelphi, Milano 2003, cit. p. 25.

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cita ogni ricercatore può trovare un piccolo momento di calma e di conforto in una pacata, ma al contempo equilibrata, affermazione di Walter Burkert: “Le religioni, passate e presenti, appaiono in speciali ambienti culturali, sociali e storici; possono essere elaborate come sistemi simbolici e interpretate in modo affascinanti. Ma questo fenomeno universale e preistorico non può essere spiegato con, né derivato da, un singolo sistema culturale. La ricerca delle origini delle religioni richiede una prospettiva più generale, travalicante le singole civiltà, che tenere conto del vasto processo dell’evoluzione umana entro il più generale processo evolutivo della vita. Questo processo era ipostatizzato un tempo come Natura; possiamo continuare a usarlo come metafora. In questo senso la storia delle religioni implica il problema della religione “naturale”. Gli studi culturali devono fondersi con l’antropologia generale, che si integra in definitiva nella biologia”.379

Sia la ricerca biologica e sia l’impostazione antropologica di Burkert, come abbiamo visto nel capitolo sullo studioso svizzero, nutrono un certo amore per il mondo sacrificale e sono tanto implicate in questo legame da non rendersi conto che, pur non mantenendo le stesse coordinate di studio, svolgono il compito implicito od esplicito di d’un programma di contenimento il cui l’ oggetto del sacrificio è la violenza, e il cui alter nome del sacrificio è “cultura di violenza”. Che questa cultura abbia come “celebre ospite” anche ciò che identifichiamo con il termine sacrificio è la comprensione fondamentale con cui abbiamo iniziato questa parte della tesi. Per questo non possiamo non ri-sottolienare il fatto che per Burkert l’aggressività è la componente biologica maggiormente sottolineata nel suo ultimo studio380.La sociobiologia, come sottolinea Burkert, ha avuto già qualche successo nel delineare questa “ cultura della violenza” interpretando le regole matrimoniali e i tabù sessuali in relazione alla probabilità di parentela genetica e quindi alla trasmissione genetica. Questi studi si concentrano su istituzioni o modelli culturali direttamente connessi alla procreazione fisica. Uno studio di Chagnon indica che l’aggressività maschile viene deliberatamente coltivata in una primitiva società tribale, sicché gli uccisori hanno maggiori pro380

Cfr. ivi, pp. 26,27,36,41,116-117,129,153-155,161,162,170.

381

Cfr. N.A. CHAGNON, Life Histories, Blood Revenge, and Warfare in a Tribal Population, in “Science” 239 (1988), pp. 985-992.

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babilità di generare figli che non i loro parenti più pacifici381. Oltre l’aggressività, altre due componenti biologiche, la ricerca di cibo e il timore, vengono sottolineate con estrema incisività ne “La creazione del Sacro”. Attingendo da questo grande contenitore di pulsioni bioetologiche, Burkert, giunge ad affermare che l’organizzazione biologica del cervello e di altri sistemi cibernetici degli esseri viventi esisteva molto prima della cultura verbalizzata; che essa continui a influire sul nostro comportamento e sulla nostra comunicazione è innegabile. Ma leggiamo direttamente dal suo testo per comprendere cosa vuole affermare: “Primordiali programmi di azione, sequenze, sentimenti, aspettative, nozioni, valori, sono ereditati da un remotissimo passato. Alcuni dei più ovvi sono la ricerca del cibo, il timore, la fuga e l’aggressione, e naturalmente il sesso. Anche i significati hanno la loro preistoria. È notoriamente difficile dedurre una semantica dalla logica pura, ma è assai facile riconoscere certe reazioni che hanno funzioni adattative o comunicative[…]Il pulcino conosce il falco in volo prima di averne esperienza; il gallo conosce la donnola; certe scimmie hanno segni diversi per indicare il leopardo, l’aquila, il serpente. Il processo della semeiosis, l’uso di segni e simboli, opera in tutta la sfera degli organismi viventi e fu certamente ideato molto prima della comparsa dell’uomo. Ciò non significa che i geni prescrivano la cultura; è chiaro che no. Ma si potrebbe dire che i geni danno consigli manifestatisi nella ripetizione di modelli simili, “le memorie che più facilmente tornano alla mente, le emozioni che esse tendono ad evocare”. La costituzione biologica forma precondizioni o “attrattori” per produrre fenomeni in modo coerente, anche se questi modelli vengono creati o ricreati daccapo in ciascun caso”382.

Quest’affermazione di Burkert lo porterà ad asserire che dettagli ri-

382

Cfr. W.BURKERT, La creazione del Sacro, p.41.

383

Tuttavia Burkert, mitiga già all’interno de “La creazione del Sacro” questa sua ipotesi affermando:“Con ciò non si vuole postulare un preciso programma ereditario di comportamento, codificato geneticamente e trasmesso con una evoluzione continua dagli esseri viventi primitivi ai superiori e culminante nell’uomo. Gli esempi offerti da specie differenti non sono collegati da una catena evolutiva continua”. Cfr. ivi, cit. p. 62. 384

Cfr. ivi, cit. p. 63.

385

Cfr. K. LORENZ, Il cosiddetto male, Il saggiatore, Milano, 1969.

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tuali del mondo sacrificale rimandono a processi più originari nell’evoluzione della vita. Da ciò scaturirebbe l’ipotesi che il sacrificio come schema rituale millenario ha analogie in un programma biologico operante in vari stadi dell’evoluzione umana e in varie specie animali383. Se si volesse confutare questa ipotesi prendendo l’argomento dal verso opposto, sarebbe altrettanto difficile sostenere che il rituale sacrificale nasca interamente da qualche forma di apprendimento interculturale, dall’osservazione e dall’empatia, o dalla pura fantasia creativa. Il ricorrere dello schema nel tempo e nello spazio, la nostra prontezza di reazione e l’interpretazione comune indicano che alla base dell’esperienza c’è un “paesaggio biologico”384. La costituzione umana include programmi biologici riguardanti l’ansia e la fuga, più antichi della specie umana, ed essi contengono o generano almeno i rudimenti dello schema rituale, correlando minaccia, allarme, inseguimento, fuga, e l’espediente di abbandonare ciò di cui si può fare a meno. In effetti, come abbiamo visto, Burkert risente enormemente degli studi di Lorenz che stabilendo omologie nel comportamento di specie differenti e decifrando la funzione dei loro segnali, insiste sul ruolo dell’aggresività all’interno di una specie, per la preservazione dell’equilibrio vitale385. Egli rivela somiglianze, analogie e anche continuità tra gli animali e l’uomo nel campo dell’ira, del combattimento e della guerra, ma in particolare descrive come l’aggressione praticata in comune e simboleggiata nello sfoggio aggressivo crei vincoli di amicizia e solidarietà386. Per estrapolazione, sembrerebbe possibile spiegare il fiorire della solidarietà religiosa sulla base degli atti aggressivi della caccia e del sacrificio387. Da questa presentazione dell’ultimo Burkert, nasce la nostra consapevolezza che il mondo sacrificale, sia da un punto di vista so-

386

Cfr. ivi, p. 14, passim.

387

Cfr. W.BURKERT, La creazione del sacro, pp. 26

388

Cfr. R. GIRARD, La violenza e il sacro,pp. 33.

389

Cfr. H. HUBERT, M. MAUSS, Essays sur la nature et la fonction du sacrifice, in ‘L’année Sociologique’ 2 (1898), pp. 29-138 (trad. it. Saggio sulla natura e la funzione del sacrificio, Morcelliana, Brescia 1981).

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ciobiologico e sia antropologico, non possa svincolarsi dai suoi elementi cruenti. Sarebbe impossibile, restando legato ai suoi testi, vedere in Burkert una forma sacrificale che non sia cruenta e che non rimanga all’interno dell’orbita della “cultura della violenza”. Inoltre questo grande sfondo naturale e culturale s’insinua profondamente anche nella tesi sacrificale di Girard che, come abbiamo visto, si articola partendo da due presupposti di carattere genetico: primo, che i riti sono nati tutti come riti di sacrificio; secondo, che all’inizio vi sarebbe stata una violenza sociale che avrebbe dato avvio ad un accumulo di differenze e di conseguenza ad una catena di vendette. Il sacrificio e il rito avrebbero il compito di porre termine alla situazione originaria di tensione riportando l’armonia nella comunità388. Ma è proprio in quest’ultima asserzione girardiana che nasce un cortocircuito. Girard infatti si pone una domanda: in che modo il sacrificio e il rito sarebbero in grado di far compiere all’umanità questo passaggio dalla violenza all’armonia? Per l’antropologo francese, la soluzione avverrebbe in quanto ci si accorderebbe sulla vittima espiatoria, atta ad interrompere la catena delle vendette. Girard, riferendosi allo studio sul sacrificio di Hubert e Mauss in cui si descrive l’atteggiamento di fronte alla vittima sacrificale, dice che il sacrificio sarebbe una violenza senza rischio di ulteriore vendetta389. Il sacrificio interrompe la violenza grazie ad un capro espiatorio e questo rituale, una volta compiuto, non deve poi ripetersi per un numero infinito di volte. Quando il sacrificio, infatti, non svolge la sua funzione catartica finisce per prendere una “brutta piega” ed invece che liberare dalla violenza la incentiva e la aumenta. Tuttavia, rimanendo all’interno di queste coordinate, anche l’antropologo francese deve constatare che nei riti dell’odierna società (“riti” considerati nella loro globalità come componente che scandisce i ritmi sociali) una “non improbabile sindrome di ritorno alla violenza primitiva”390: la cecità moderna a proposito del rito in genere, non fa che prolungare una

390

Cfr. R. GIRARD, La violenza e il sacro,pp. 33-34.

391

Cfr. ivi, p. 35-36.

392

Cfr. G. BATAILLE, Eroticism, Death & Sensuality, City Lights Books, San Francisco 1986, p. 92.

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certa evoluzione che è quella poi del momento religioso stesso. In tal senso il rito si limiterebbe sempre più a quella grassa licenza di svago che tanti osservatori moderni hanno deciso di vedere in essa. La disgregazione dei miti e dei rituali è provocata da una crisi sacrificale e dietro alle apparenze gioiose e fraterne della festa, priva di qualsiasi riferimento alla vittima espiatoria e all’unità in essa rifatta, non vi è più che il modello della crisi sacrificale e della violenza reciproca391. In effetti Girard ha compreso che ogni volta si tenti di eliminare il rapporto profondo tra ritualità e dimensioni cruente della vita, stranamente, queste riappaiono con una vis più marcata proprio nei tempi e negli spazi rituali. In tal senso, forse, è legittima l’affermazioni di Battaille, che abbiamo citato anche nell’introduzione, che rilegge la dimensione sacrificale come una tipologia della nostra stessa carnalità: “E compito comune del sacrificio porre in armonia la vita e la morte, dare alla morte l’impulso della vita, alla vita la gravità e la vertigine della morte, apertura su un mondo sconosciuto… se ora consideriamo la somiglianza tra l’atto d’amore e il sacrificio. Entrambi rivelano la carne. Il sacrificio sostituisce alla vita ordinata dell’animale una cieca convulsione dei suoi organi. Così è anche con la convulsione erotica; essa allenta le briglie ad organi estravaganti, la cui cieca attività oltrepassa la volontà deliberata degli amanti”392.

Sembrerebbe proprio che sono la violenza, il sangue, la carne l’altro volto del sacrificio. Questo Altro tuttavia specifica ciò che è l’ambito sacrificale proprio perché è Altro da sé e perché delinea implicitamente gli sforzi del mondo culturale di soffocare la sua origine vergognosa e fondamentale cioè quella di essere una performance violenta, “un’arte della disturbazione” e questa espressione la riprendiamo da un saggio intitolato Art and Disturbation, in cui il filo393

A. C. DANTO, The Philosophical Disenfranchisement of Art , Columbia University Press, New York 1986. 394

Cfr ivi, p.121.

395

Cfr ivi, pp. 117, 123.

396

Cfr ivi, pp. 131, 126.

182


sofo Arthur Danto ha rivolto la sua attenzione all’argomento della performance violenta, per la quale ha coniato la definizione di “arti della disturbazione”393. Il sacrificio è in qualche modo una componente effettiva dell’arte disturbazionale, e di solito si tratta di una realtà già di per sé disturbante: sangue, carne, pericolo reale, dolore effettivo, morte possibile . Si dà disturbazione allorquando i confini che separano l’arte dalla vita sono sfondati394 e questo avviene nell’ambito sacrificale. Secondo Danto, l’arte disturbazionale è un movimento regressivo; invece di procedere verso la propria trasfigurazione nella filosofia, essa retrocede verso gli inizi della performance, e il coinvolgimento in quest’arte pone chi guarda in uno spazio interamente differente da tutto ciò per cui la filosofia dell’arte ci ha preparato395. Danto sostiene che “ciò cui mira l’artista disturbativo” è di sacrificare se stesso così che attraverso di lui un pubblico di spettatori possa essere trasformato, è un impegno a recuperare uno stadio dell’arte in cui l’arte stessa era quasi come la magia – come la magia seria; in breve, si tratta del tentativo di recuperare all’arte qualcosa di quella magia che fu eliminata quando l’arte divenne arte”396. E’ piuttosto interessante il fatto che la visione di Danto circa l’arte disturbativa in campo estetico e la teoria del sacrificio di Girard in quello religioso presentino la stessa posizione riguardo al significato della partecipazione degli spettatori. Secondo Danto, è la scelta dello spettatore se partecipare o meno ad un’azione violenta che distingue la performance art da tutto ciò che la filosofia dell’arte ci ha insegnato ad identificare come arte397. Secondo Girard, la scelta dello spettatore se partecipare o no ad un’azione violenta è ciò che distingue la performance art dal rituale accettabile. Così non è affatto una coincidenza che l’arte della performance violenta non rientri nella costruzione hegeliana della storia dell’arte operata da Danto e che senza partecipazione del pubblico rappresenti quel che Girard definisce “crisi sacrificale”, perché in ciascun caso l’arte violenta nell’arte e nella religione non è né culturalmente approvata né portatrice di beneficio. Anche con queste affermazioni tuttavia restiamo sempre nel397

Cfr ivi, p. 123.

398

Cfr.R.GIRARD, Vedo Satana cadere come la folgare, pp. 172-180.

183


l’orbita in cui il sacrificio non avrebbe altra via di espressione se non quella di essere invitabilmente un rito cruento. Pertanto sembrerebbe che anche per Girard, il sacrificio, non possa esistere al di là dell’orbita della violenza. Ma è proprio in quest’ultimo sconforto che, tuttavia, nell’antropologo francese avviene una implicita rivoluzione delineata nell’opera Vedo Satana Cadere come la folgore, dove si può notare un’impostazione metodologica particolare che tende a delineare, proprio nella dimensione del dono della morte e Risurrezione del Cristo, il passaggio e il termine da un prassi sacrificale cruentaespressa dalla simbolica legata all’actor Satana- ad una forma sacrificale spirituale cristocentrica. In questa impostazione di metodo e contenuto, Girard analizza la persecuzione di Cristo da un punto di vista antropologico raffrontandola con il classico processo del capro espiatorio tipico della mitologia398. Innanzitutto sostiene che fino al momento della Resurrezione il procedimento è quasi uguale: la comunità giudaica si sente minacciata dalle predicazioni di Cristo ed individua in lui un perfetto capro espiatorio. Tuttavia la vera unicità del messaggio cristiano sta nella Resurrezione: se il primo transfert, quello dell’aggressività è stato compiuto, quello conclusivo invece viene evitato, per la prima volta il meccanismo vittimario è sconfitto. Ma questo non sarebbe sufficiente. Dopo tre giorni Gesù appare Risorto agli Apostoli, porta con sé un “dono” per l’umanità colpevole per secoli di aver messo a morte o espulso ingiustamente dei loro simili. Dobbiamo affermare che quest’ultima sottolineatura girardiana risulta sicuramente interessante per il rapporto contenutistico dettato dai termini sacrificio nella dimensione spirituale ed eucaristia cristiana, tuttavia, da un punto di vista prettamente linguistico rituale, risulta poco rilevante a differenza dell’impostazione di un allievo californiano di Girard che apre la possibilità di comprensione del mondo sacrificale con nuove categorie che possono delineare il passaggio del modello sacrificale dal livello sociobiologico di rito cruento a quello di forma estetico-spirituale: Eric Gans. Lo studioso californiano con il concetto di “estetica sacrificale” introdotto nella rivista in rete “Chronicle” No. 184 intitolata Sa -

399

Cfr.http://www.anthropoetics.ucla.edu/views/vw205.htm

400

Cfr ivi, cit. in rete.

184


crificing Culture descrive una situazione in cui le forme estetiche, pur rimanendo sacrificali, si sono evolute da caratteristica necessaria dell’organizzazione sociale ad elemento psicologico della condizione umana399. Per Gans l’emergere dell’umanità, e quindi di tutte le componenti che la strutturano compresa quella rituale-sacrificale, non può essere riletta semplicemente in termini di teoria dell’evoluzione: l’origine dell’umano, come è definita tramite il nostro uso del linguaggio, deve essere compresa non soltanto come un processo ma come un evento400. Ed è proprio nella sfera dell’estetica che vi è il terreno più favorevole ad un dialogo fruttuoso fra il pensare in termini di evento e il pensare in termini di processo ma anche e soprattutto per individuare una possibile e innovativa lettura del sacrificio spirituale. Un’esperienza estetica può essere compresa sia come risultato d’un processo che genera un “effetto estetico” particolare, che come evento memorabile nella durata del relativo soggetto. Più specificatamente, l’esperienza dell’arte è generata e fortemente strutturata da un processo interno all’opera d’arte specifica, che può essere compresa come meccanismo destinato deliberatamente a provocare nel suo pubblico l’esperienza di un nuovo evento. Considerando che, secondo l’ipotesi originaria, questo evento deriva la sua forma dall’evento originario, il contenuto fondamentale dell’arte come di tutti i meccanismi culturali è fornito dagli oggetti di appetito preculturale. Il sacrificio rituale coinvolge principalmente i grandi animali commestibili perché questi sono le forme di nutrimento più concentrate; l’energia motrice predominante nelle narrazioni è il desiderio sessuale, la cui importanza biologica non ha bisogno di dimostrazione. Da un punto di vista della psicologia evolutiva, alcuni studiosi suppongono un estetico dei paesaggi che riflette la loro attrattiva come habitat per la nostra specie nella sua fase formativa nel Pleistocene401. Interconnessa con l’impostazione “abitativa”, Gans trae una riflessione strattamente biologico affermando: “Questo genere di senso estetico è un perfezionamento del tropismo che provoca il movimento delle amebe verso le soluzioni che possiedono il pH richiesto. L’ameba non deve esercitare il “giudizio” perché il suo tropismo è definito da una singola equazione

401

Cfr.G. ORIANS-J. HEERWAGEN, Evolved Responses to Landscapes, pp. 555-579.

402

E.L.GANS, Sacrificing Culture, in “Chronicle” 184. Rivista in rete.

185


computata dal sistema di percezione dell’ameba stessa. Per contro, denominiamo il nostro proprio giudizio “estetico” perché il campo della percezione che lo occasiona è troppo complesso e l’insieme dei criteri valutativi troppo vago per permettere una concettualizzazione semplice. L’ipotesi del paesaggio attraente offre una base evolutiva per il “giudizio senza concetto” dell’estetica kantiana. Il nostro giudizio sarà chiaramente più rapido e più decisivo se non ci richiede di ragionare, cioè di confrontare nelle nostre menti un dato paesaggio con una serie di immagini di paesaggio con diversi gradi di idoneità all’abitazione o all’esplorazione da parte degli umani. Fra i cacciatori del Pleistocene che si muovono sul terreno, la capacità di decidere correttamente, senza riflessione, che direzione seguire ha sicuramente la stessa probabilità di interessare la selezione evolutiva che ha la capacità di scegliere correttamente, con una semplice annusata o un morsetto, quale cibo è da mangiare. Non è affatto una coincidenza che la nozione di gusto sin dall’inizio sia stata connessa con l’estetico. Se il nostro gusto per quanto riguarda il cibo ha un uso pratico, allo stesso modo lo ha, o lo aveva, il nostro gusto per quanto riguarda il paesaggio”402.

Ma in che modo questa lezione biologica sull’estetico si può articolare con i fenomeni della ritualità sacrificale e soprattutto con l’individuazione di indicatori di passaggio dal sacrificio come rito cruento al sacrificio spirituale? Per Gans possiamo supporre che un oggetto potenzialmente significativo a livello sacrificale (ciò che Girard identifica con il capro espiatorio) sarà stato rilevato come tale dal nostro sistema biologico di percezione, proprio come il paesaggio valutato tramite il nostro giudizio estetico naturale403. Per Gans avviene, rispetto alla risoluzione violenta girardiana, un differimento della violenza attraverso l’emissione di un segno di rinuncia. Non è più importante, conseguentemente, per lo studioso californiano l’oggetto del sacrificio ma la nascita del segno che sposta l’attenzione dei carnefici dalla dimensione appetitiva a quella segnica. Tale operazione fa scaturire la nascita di una nuova cultura ovvero la “sacrificing Culture” e una nuova funzione 403

Cfr. ivi, cit. in rete.

404

Cfr. E.L.GANS, The Beginning and End of Esthetic Form, pp.19ss.

405

Cfr. E.GANS, The End of Culture, pp 4-9

406

Cfr. E.L.GANS, Il sacro generativo, pp. 93-103.

186


del sacrificio che supera la sua dimensione di rito cruento per divenire estetica404. Inoltre il segno di differimento della violenza fornisce un “supplemento” all’interesse estetico naturale o biologico, con la conseguenza che il campo visivo da dimensione strumentale ( poiché inzialmente rivolta in maniera cruenta verso l’oggetto) diviene dimensione “assoluta” poiché la mediazione del segno è equivalente ad un ritiro dal mondo dell’appetito in quello di una contemplazione disinteressata405 ovvero di una forma sacrificale spiritualizzata. Pertanto la cultura rinforza le disposizioni relative dell’estetico naturale con la significatività assoluta generata dal segno. L’estetico acquista la sua specificità, cioè la sua indipendenza dalla prassi appetitiva, soltanto sulla scena comune della Rappresentazione, dove il desiderio del pericolo mimetico ci porta non più ad una risoluzione violenta e alla nascita di una cultura della violenza, ma alla contemplazione del segno, del linguaggio, dell’arte406. Pertanto in questa impostazione gansiana, non solo “leggiamo” la possibilità della biologia evolutiva di migliorare la nostra comprensione degli appetiti che si trovano dietro le motivazioni umane, non solo leggiamo la possibilità dell’antropologia di offrire una spiegazione delle forme del desiderio che questa cultura costruisce, ma soprattutto comprendiamo che il mondo sacrificale offre alla nostra cultura la possibilità di risoluzione della violenza e l’apertura verso una spiritualizzazione fondamentale e appropriativa delle nostre radici biologiche e quindi del sacrificio stesso come esponente “rappresentativo” di ogni possibile “Rappresentazione” estetico-spirituale della vita. APPENDICE

Liminale e liminoide in Turner come indicatori strutturali del passaggio dal sacrificio cruento al sacrificio spirituale?

AVVIO

METODOLOGICO

407

Cit. in A.N.TERRIN, Il Rito. Antropologia e fenomenologia della ritualità, Morcelliana, Brescia 1999, pp.11-12. 408

Cfr. V.TURNER, The Forest of Symbols: Aspects of Ndembu ritual, Cornell University Press, Ithaca 1967, p.43.

187


La domanda interrogativa del titolo dell’appendice pone davvero il ricercatore in un atteggiamento di sfida, poiché lo spinge ad indicare come modello di studio il procedimento identificativo della prassi sacrificale e la delineazione degli indicatori strutturali del passaggio dal sacrificio cruento al sacrificio spirituale all’interno di quella contestualizzazione organizzativa dell’esperienza che identifichiamo, in antropologia culturale, con il campo semantico delimitato dai termini rito^rituale. Senza dubbio la prima operazione da svolgere, per strutturare l’impostazione della tematica, è quella di definire l’organizzazione endocrina di questo campo semantico all’interno del mondo lessicale delle scienze antropologiche. Il rito può trovare un suo ambito funzionale semantico nella seguente espressione: “azione simbolica che organizza l’esperienza di senso dell’uomo nel mondo”407. In base all’ambito definitorio di questa asserzione si può estrapolare che il rito non è riducibile a “segno”, poiché è un’attività simbolica connaturale all’uomo ad ogni livello comunicativo e, pertanto, con simbolo rituale si può intendere innan409

Cfr. ivi, pp. 43-44.

410 Cfr. per la presentazione bibliografica dell’autore BARNARD H.G.,Victor Witter Turner: A Bi bliography (1952-1975), in “Anthropologica” 27, (1985), pp. 207-233. Cfr. anche MCLAREN P.L., A Tribute to Victor Turner, in “Anthropologica” 27 (1985), pp. 17-22. Victor Turner (19201983) è un interprete dell’antropologia sociale britannica e della “scuola di Manchester”: la precomprensione della scuola fu quello di analizzare le realtà sociali privilegiando la componente trasformativa e conflittuale dei processi sociali, In contrapposizione alla metodologia strutturale-funzionalista. Il processo metodologico strutturale-funzionalista puntava all’individuazione normativa e istituzionale dell’assetto strutturale di una data società cercando di individuare la dinamicità delle relazioni sociali stesse, posteriori all’insorgere di principi e valori antagonistici (Cfr. GLUCKMAN M., Politics, Law and Ritual in Tribal Society, Aldine, Chicago1965; HAVILAND W.A., Anthropology , Holt, Rinehart & Winston., Fort Worth 1991; LETT J.,The Hu man Enterprise: A critical Introduction to Anthropological Theory, Westview Press, Boulder 1987; LEWIS L.M., Social Anthropology in Perspective: The Relevance of Social Anthropology, Cambridge University Press, Cambridge 1986). Victor Turner inzia la sua attività analizzando con tale metodologia la vita sociale degli Ndembu studiando comparativamente le dinamiche oppositive e processuali di quella società con le società complesse occidentali. Cfr TURNER V., Schism and Continuity in an African Society: A Study of Ndembu Village Life, Manchester University Press, Manchester 1957; IDEM, The Forest of Symbols: Aspects of Ndembu ritual, Cornell University Press, Ithaca 1967; IDEM, The Drums of affliction: a study of religious processes among the Ndembu of Zambia, Clarendon Press, Oxford 1968; IDEM, Revelation and Divination in Ndembu Ritual, Cornell University Press, Ithaca 1975. 411

MANNING F.E., Victor Turner’s Career and Publications, in K.M. ASHLEY, Victor Turner and the Construction of Cultural Criticism: Between Literature and Anthropology, Indiana University Press, Bloomington 1990, pp. 24 ss.

412 Cfr. TURNER V., The Ritual Process: Structure and Anti-structure, Aldine Publishing, Chicago 1969, pp.13ss.

188


zitutto quel linguaggio e quelle azioni proprie dell’esperienza religiosa postulanti una relazionalità con un interlocutore. Victor Turner ci permette di comprendere il confine estremo del campo semantico delineato, con la sua definizione di rituale: “ Con la parola rituale intendo un comportamento formale e prescritto per circostanze non consegnate alla routine tecnologica e facente riferimento a credenze in entità o poteri mistici” 408.

A questa definizione V.Turner aggiunge inoltre che il simbolo è la più piccola unità del rituale, che contiene le proprietà specifiche del rituale stesso409. Chi conosce il bagaglio lessicale turneriano certamente riesce a comprendere che l’approdo finale di questa indicazione terminologica confluisce nella postulazione del rito come performance, ovvero di quella pratica corporea necessaria ad una ridefinizione critica del reale. La riflessione di Victor Turner410, certamente, può aiutarci in questo percorso: l’antropologo utilizzò il concetto di perfor mance per penetrare le fenomenologie liminoidi nella struttura sociale Ndembu e in seguito l’utilizzo del termine, da parte dell’antropologo strutturalista, ha indicato l’elemento strutturale d’indagine per lo studio socio-culturale. Pertanto, possiamo proprio attraverso la metodologia di Victor Turner411, delineare i punti nodali di passaggio del sacrificio come prassi cruenta a sacrificio come prassi spi rituale all’interno della contestualizzazione rituale performativa che è strutturata da Turner stesso con un paradigma processuale rituale in tre fasi412: A)

La Destrutturazione, in cui si passa da una situazione “strutturale ad una liminale in quanto si pone fuori dalla zona di rigida struttura.

B)

La fase di liminalità, che attua una certa purezza simbolica: l’individuo uscendo dalla struttura formale acquista un carattere “universalistico” ed entra nell’ambito comunitario che si costituisce nella forma della relazione io/tu/noi.

413

Cfr. A.N.TERRIN, Il Rito. Antropologia e fenomenologia della ritualità, cit. pp.11-12.

414

Cfr. R.GIRARD, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, p.64.

415 Cfr. TURNER V., Dramas, Fields and Metaphors: Symbolic Action in Human Society, Cornell University Press, Ithaca 1974, pp. 11 ss.

189


C)

La ristrutturazione che è basata sulla riassunzione di modelli specificatamente strutturali.

1 LA

PERFORMANCE SACRIFICALE COME STRUTTURA “TRASFORMATIVA”

Ci siamo soffermati a lungo, nel capitolo su René Girard, su un aspetto che risulta fondamentale per la comprensione della dinamica sacrificale in antropologia comparata ovvero nel dato di studio che la ritualità, come sintetizza A.N.Terrin, “ è quella realtà umana e religiosa che fa da sfondo primo e pre-categoriale all’accettazione stessa della Parola”413. Il rito sacrificale, in effetti , ha la sua radice antropologica nella capacità mimetica e rappresentativa referenziale. In effetti, gli elementi rituali della prassi sacrificale entrano in gioco, come ci ha suggerito R. Girard, proprio quando una crisi, una frattura nelle relazioni fra i membri di una collettività potrebbero condurre ad un aperto conflitto degli antagonismi latenti414. In tal senso la prassi sacrificale vivrebbe delle stesse dinamiche di ciò che V.Turner ha definito nella strutturazione del social drama415 che, similmente alla prassi sacrificale, trova il suo campo funzionale proprio quando nell’ambito della vita in una società complessa si rivela un punto di svolta rispetto alla consolidata struttura socioculturale e ci si adopera per far affiorare l’ipotetica antistruttura. Nella strutturazione sacrificale e nel social drama, il gruppo, la comunità, la collettività non si limita soltanto a riequilibrare le dinamiche della violenza ma cerca, più attivamente, di comprendere se stessa416. Tuttavia nel processo strutturale sacrificale la collettività necessariamente vive in una fase “tra -

416

Cfr. IDEM, The ritual process: structure and anti-structure, pp. 42 ss.

417

Cfr. TURNER V., Dramas, Fields and Metaphors, pp. 12 ss

418

Cfr. IDEM, From Ritual to Theater: The Human Seriousness of Play, PAJ Publications,New York 1982, pp. 34 ss. 419

Cfr. IDEM, The Drums of Affliction: A Study of Religious Processes Among the Ndembu of Zambia, Clarendon Press, Oxford 1968, pp. 45-52.

190


sformativa” per non ricadere in un fase “trasportativa”, o di ritorno al punto di partenza. In questo caso, a differenza del social drama, in cui si può parlare di modificazione (temporanea) della coscienza come trasporto ( non essendo necessariamente trasformativa e riconducendo la comunità ad un ipotetico punto di partenza), la strutturazione della prassi sacrificale è necessariamente trasformativa poiché produce nei performer un riconoscimento trasformativo: contrariamente ai performer del social drama, gli actores della struttura sacrificale non sono condotti altrove per rientrare nella quotidianità da dove sono partiti ma subiscono un punto di svolta radicale417. Da una prima lettura di questi dati possiamo comprendere che la struttura sacrificale, se da un lato trova punti fondamentali nella struttura del Social drama, tuttavia da un punto di vista endocrinostrutturale trova un suo partner nei riti iniziatici: nella performance iniziatica avviene la stessa “consegna della parti” e la stessa dinamica trasformativa nei performer e nella collettività418. Anche nel rito d’iniziazione la trasformazione dell’adepto è radicale (coinvolgendo il suo status sociale: da adolescente ad adulto, da guarito a guaritore ecc.); inoltre tutto il villaggio è presente e partecipe: spesso molti spettatori sono parenti diretti dell’adepto/attore419. Questo fa sì che il coinvolgimento dello spettatore è tale che ciascuno di loro desideri la trasformazione dell’adepto durante la rappresentazione. In effetti come abbiamo analizzato nelle conclusioni sul capitolo girardiano, il sacrificio cruento è una costante fondativa insostituibile per la nascita delle istituzioni e dei modelli culturali. Nelle società esclusivamente rituali, le sequenze del rito e del sacrificio esercitano, fino ad un certo punto, il ruolo che più tardi spetterà a tutte le istituzioni che siamo abituati a definire secondo la loro funzione, concepita in termini razionali. Un esempio può essere sufficiente, ed è quello dei sistemi educativi. Nel mondo arcaico essi non esistevano, ma erano chiaramente prefigurati dai riti cosiddetti di passaggio o di iniziazio -

420

Cfr. TURNER V., The ritual Process: Structure and Anti-structure, pp.13ss.

421

Cfr. ivi ,pp.12ss.

422

Cfr. ivi ,pp. 33-34.

191


ne420. I giovani non entravano di soppiatto nelle culture cui appartenevano, al contrario questo avveniva per mezzo di procedure “dolorose”. In una prima fase, quella che riproduceva la crisi, i giovani iniziandi in qualche modo morivano alla loro infanzia, e resuscitavano in una seconda fase, da cui uscivano ormai capaci di occupare il posto che loro spettava nel mondo degli adulti. Si vede chiaramente in questa morte una provvisoria conferma dell’aspetto sacrificale del processo iniziatico. Si può ipotizzare che le istituzioni moderne abbiano sostituito i riti dopo una lunga coesistenza. Tutto lascia pensare cioè che i riti sacrificali vengano per primi in ogni ambito della cultura e lungo l’intera storia dell’umanità e quelle che chiamiamo “istituzioni culturali”, risalgono in origine a comportamenti rituali che si sono così levigate da perdere ogni connotazione religiosa, e che un tempo corrispondevano al tipo di crisi che erano destinati a risolvere421. I sacrifici non sono altro, all’inizio, che la risoluzione spontanea, per mezzo della violenza unanime, di tutte le crisi che si presentano all’improvviso nell’esistenza della collettività. In tali crisi rientravano non solo le discordie mimetiche, ma la morte e la nascita, i cambi di stagione, le carestie, che allarmavano i popoli primitivi, ed era sempre tramite i sacrifici che le comunità cercavano e cercano di mettere a tacere le loro ansie422. In tal senso la performance sacrifi cale risulterebbe non solo un potenziale luogo di margine e di passaggio da situazioni sociali e culturali definite, ma soprattutto una struttura “trasformativa” ineludibilmente legata alla struttura rituale iniziatica.

2 DAL

SACRIFICIO COME PERFORMANCE TRASFORMATIVA LIMINALE AL SACRIFI-

CIO CRISTOCENTRICO COME PERFORMANCE TRASFORMATIVA LIMINOIDE

423 Cfr. TURNER V., Variations of the Theme of Liminality, in S. MOORE- B. MYERHOFF ( a cura di), Secular ritual, Ed. Rergdorf, Assen 1977, pp. 36-52. 424

VAN GENNEP A., The Rites of Passage, Routledge, London 1960, pp. 32-55.

425

Cfr. TURNER V., The Ritual Process: Structure and Anti-structure, pp.13-55. La sintesi di queste pagine in lingua italiana è stata operata da Cfr. A.N.TERRIN, Antropologia cultu rale, in Nuovo Dizionario di Liturgia, acura di D. SARTORE E A.M.TRIACCA, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo-Milano, 1983, pp.80-81. 426

Cfr. TURNER V., Variations of the Theme of Liminality, pp. 38 ss.

192


Quando utilizziamo il termine turneriano di “trasformativo” dobbiamo comprendere le due dinamiche strutturanti enucleabili negli indicatori lessicali di “liminale” e “liminoide”423. Il concetto di limen o di “soglia”, “margine” dall’etimologia latina è ripreso da Victor Turner dalla terminologia di Arnold Van Gennep424. Con il termine li minale si indica, come abbiamo visto, la seconda tappa del paradigma processuale e strutturale dei riti di passaggio in cui l’individuo uscendo dalla struttura formale acquista un carattere “universalistico” ed entra nell’ambito comunitario che si costituisce nella forma della relazione io/tu/noi. Da un punto di vista esplicativo il concetto di liminale è esprimibile e a sua volta si auto-comprende in tutti quegli atti esemplificati da stati di umiltà, obbedienza totale, nudità, di sospensione di tutti i diritti e doveri, di separazione e abbandono in cui l’individuo, nei riti d’iniziazione e di passaggio e l’ ambito comunitario, nelle performance rituali scoprono la dimensione anti-strutturale rituale come autentica realtà425. Il termine liminoide, derivante dal termine greco eidos che è traducibile con modello o forma, è anch’esso un indicatore strutturale di una fase trasformativa, tuttavia intesa come modalità in cui è possibile “giocare” con i simboli con combinazioni inusuali e producendo nuovi modelli di contaminazione426. Ciò che differenzia, per Turner, il liminoide dal liminale è la componente “contaminativa” dei generi liminoidi nelle società complesse poiché alcune pratiche possono vivere in un ambito in cui gli elementi strutturali divergenti che le caratterizzano, possono delineare un nuovo spazio strutturale in cui possono combinarsi arbitrariamente (cfr. gli esempi sulla di-

427

Cfr. ivi, 40 ss.

428

Cfr. R.GIRARD, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, p.64.

429

Cfr. IDEM, L’antica via degli empi, pp. 176-205.

430

Cfr. ivi, p.191.

431

Cfr. IDEM, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, p. 264.

193


mensione ludica e lavorativa in Turner)427. In base a questi indicatori strutturali possiamo comprendere la performance trasformativa del sacrificio sia come performance liminale ( legata alla prassi sacrificale delle culture più antiche), sia come performance liminoide nell’aspetto contaminativo che detta le condizioni di passaggio dal sacrificio cruento al sacrificio spirituale-cristocentrico. Riguarda alla prima categorizzazione si può affermare che la performance sacri ficale, nelle culture pre-cristiane, quasi sempre, come ha indicato R. Girard, ha strutturato una fase trasformativa in cui la “tregua” conseguita dopo l’azione rituale cruenta era tuttavia temporanea e non sovvertiva la struttura basica della colletività428. In ogni caso non si ritornava ad uno status quo ante perché l’individualità e la socialità si era trasformata con la prassi sacrificale e non era più quella dell’inizio pur restando nell’orbita strutturale ( e quindi non era avvenuto un sovvertimento delle regole), però ne conseguiva la necessità di altre fasi trasformative e quindi di un nuovo ricorso al capro espia torio. Secondo Girard è a causa di questo risvolto temibile che si rende necessario un intervento dall’esterno di qualcuno capace di svelare il processo vittimario rendendo i membri delle folle coscienti del male che vanno a fare e dell’inutilità di simili episodi di violenza arbitraria429. Tuttavia per svelare ciò si deve essere immuni al contagio mimetico che colpisce gli uomini in modo da osservarne il funzionamento per poi descriverlo e rendere dotte le persone “accecate”430. E’ chiaro come una persona con tale capacità debba essere meta-umana: per Girard si comprende in tal senso l’intervento e l’azione cristocentrica431.

432

Cfr. IDEM, Vedo Satana cadere come la folgore, pp. 4-14.

433

Cfr. IDEM, Vedo Satana cadere come la folgore, p. 34.

434

Cfr. ivi, cit. p. 168.

435

Cfr. ivi, cit. pp. 189-190.

436

Cfr. ivi, p. 189.

194


Girard analizza in “ Vedo Satana cadere come la folgore”432, i Vangeli dal punto di vista antropologico433, affermando: “La Resurrezione di Cristo- afferma l’autore- corona e porta a termine il sovvertimento e la rivelazione della mitologia, dei riti, di tutto ciò che assicura la fondazione e la perpetuazione delle culture umane. I Vangeli rivelano tutto quello di cui gli uomini hanno bisogno per comprender la loro responsabilità nelle infinite violenze della storia umana e nelle religioni menzognere che ne derivano. (…) L’elaborazione mitica si fonda su un’ignoranza, anzi su un’inconsapevolezza persecutoria che i miti non arrivano mai a identificare, dal momento che ne sono dominati”434.

Possiamo affermare che la prassi sacrificale pre-cristiana era strutturata come performance trasformativa liminale. La figura cristocentrica istituisce e detta le condizioni proprio del passaggio da sacrificio come atto cruento a sacrificio come atto spirituale nell’ambito strutturale del liminoide come processo di contaminazione degli elementi rituali. Le vicende del Cristo-soggetto, come vittima li bera e al suo tempo destrutturate il sistema sociale435 ci permette di ricomprendere il mondo sacrificale come una performance trasformativa ma che ha come indicatore strutturale il liminoide che sradica nelle fondamenta la struttura sistematica della collettività436 offrendo la possibilità di una sperimentazione libera all’interno del sistema stesso e permettendo di rimescolare i tasselli del puzzle che qualificavano gli immaginari collettivi e condivisi.

3 LA

PERFORMANCE SACRIFICALE CRISTOCENTRICA COME COMMENTO METASO-

CIALE

La performance trasformativa cristocentrica nella vettorialità liminoide mette in gioco, come possiamo apprendere dalle fonti evan437

Cfr. TURNER V., On the Edge of the Bush: Anthropology as Experience, University of Arizona Press, Tucson 1985, pp. 60ss. 438

Cfr. TURNER V., Image and Pilgrimage in Christian Culture: Anthropological Perspecti ves, Columbia University Press, New York 1978, pp. 24 ss. 439

Cfr. IDEM, From Ritual to Theater, pp. 35 ss.

195


geliche, le diverse modalità dell’esperire comunciativo: corporeo, sensoriale, cinestesico437. Innanzitutto ciò è sostenibile dalla profonda e sinergica “messa in scena” testimoniata dai vangeli: la comunità giudaica si sente minacciata dalle predicazioni di Cristo ed individua in lui un perfetto corpo sacrificale. Pilato, comprendendo la situazione critica venutasi a creare, preferisce assecondare la folla ostile mettendo in gioco la sorte di questo corpo sacrificale in mano al popolo. I fenomeni atmosferici descritti dai Vangeli al momento della morte di Cristo circondano la linguistica corporea di questa vittima fino all’immagine monumetaria del corpo crocifisso438. Inoltre è proprio la linguistica del corpo che congloba tutta la tipologia della Risurrezione come luogo di smascheramento del sistema vittimario stesso. Nei documenti, la multidimensionalità dell’esperienza è riconosciuta e resa operativa dai performer e dai partecipanti, attraverso l’uso dei linguaggi più diversi e in particolare di quello mimico-gestuale e pit torico-cromatico439. Si possono identificare le motivazioni che stanno alla base della performance corporea cristocentrica, nell’interesse per la ricerca dell’integrazione della totalità della persona, nel superamento della separazione mente/corpo. In tal senso la performance sacrificale e in particolar modo la linguistica corporea, in essa messa in evidenza può essere compresa come zona performativa di me tacommento sociale. Conseguentemente ad un mutamento sociale estremamente drammatico e attraverso la messa in scena del suo corpo e quindi attraverso la performance, la figura del Cristo opera una riflessione critica sugli aspetti standardizzati del sociale e genera un cambiamento radicale nella struttura della società stessa e inevitabilmente anche del sacrificio cruento stesso. In tal senso la performance cristocentrica è un commento al mutamento socioculturale ma allo stesso tempo è anche generativo del sacrificio spirituale, rivelando caratteri oppositivi e contaminativi all’interno del rituale stesso. Di riflesso proprio questa performance cristocentrica costituisce una forma di metacommento sociale poiché rappresenterà, dopo la Risurrezione, una storia che un gruppo narra “tradendo” se stesso e facilitando una lettura della propria esperienza vissuta attraverso il rivivere l’esperienza stessa del corpo della vittima. In tal senso possiamo comprendere come nella performance cristocentrica si con440

Cfr. TURNER V., The Forest of Symbols, pp. 10-55

441

Cfr. ivi, cit. p. 121.

196


centra ogni sforzo di “spiegazione” del fenomeno religioso sulla realtà sociale e culturale cui esso è congiunto ma anche la nascita del sacrificio spirituale.

SINTESI

DEI RISULTATI

In Turner vi è il grande merito di leggere la religione all’interno dell’universo simbolico- culturale440 che una data società si costruisce e la propensione a considerare la religione, in questo contesto, mai come pura ma sempre applicata e cioè strutturata dal mondo simbolico-culturale. Si tratta di un approccio che si concentra sull’aspetto socioculturale e che si risolve pertanto in uno studio simbolico-culturale del fenomeno religioso in cui l’efficacia del rito sacrificale è strutturante la comunità che, in maniera simile all’impostazione girardiana, mantiene il suo fondamento come performance trasformativa liminale, ma detta anche le condizioni per la nascita di una performance trasformativa liminoide in cui gli elementi strutturali vivono di una fase contaminativa spontanea. In Girard il sacrificio, come termine in senso stretto, è un rito e la componente partecipativa è fondamentalmente legata alla prassi441 come afferma lo stesso antropologo francese: “Il sacrificio rituale è fondato su una duplice sostituzione; la prima, quella che non si scorge mai, è la sostituzione di tutti i membri della comunità ad uno solo; essa poggia sul meccanismo della vittima espiatoria. La seconda, la sola propriamente rituale, si sovrappone alla prima; sostituisce alla vittima originaria una vittima appartenente ad una categoria sacrificabile”442.

Il rito sacrificale imita l’evento originario sacrificale in quanto agisce sul medesimo meccanismo della sostituzione443. Inoltre Girard, come abbiamo visto, risolve anche il problema della differenza tra l’originaria vittima sacrificale ( che è un uomo che viene sostituito ad altri uomini) e la vittima dei sacrifici rituali ( che è un animale che 442

Cfr. ivi, cit. p. 139-140. Cfr. anche C. TROISFONTAINES, L’identité du social et du reli gieux selon René Girard, p.87. 443

Cfr. R.GIRARD, Il capro espiatorio, p. 220.

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viene sostituito all’uomo) affermando che già la vittima delle origini assomma a sé caratteri di ambiguità e ambivalenza poiché assomma in sé l’appartenenza alla comunità umana e l’alterità rispetto ad essa. Questo meccanismo di somiglianza e dissomiglianza si riproietta nella vittima rituale animale444 che è resa eccezionale dallo stesso processo rituale, a partire dal suo momento preparatorio. Tuttavia anche il sacrificio rituale proprio perché istituisce l’ambivalenza della vittima espiatoria crea una pace sociale apparente che rimane nella logica della violenza. Lo schema sacrificale rituale cruento punta, sia sull’eccezionalità della vittima, sia sul mantenimento dei rapporti differenziali interni alla società, sia evitando la confusione disgregante ricorrendo alla violenza ed, implicitamente ed esplicitamente, identificandosi con essa nel momento in cui non ottiene lo scopo desiderato445. In Victor Turner, possiamo affermare che il sacrificio spirituale come performance liminoide ha un carattere “sperimentale” poiché attraverso l’agire psicofisico è possibile vivere e portare a compi mento un’esperienza e una sceno-tecnica contaminativi. Mediante il processo performativo ciò che in condizioni normali è fissato ed inaccessibile all’osservazione e al ragionamento, viene condotto alla luce ( ausdrücken, letteralmente “premere o spremere fuori”)446. Tuttavia nella performance sacrificale cristocentrico-spirituale i partecipanti ricomprendono radicalmente se stessi nel gioco destrutturante operato dalla corporeità del Risorto. Il gruppo non si limita, in queste performance, “ a ‘fluire’ all’unisono”, ma cerca, più attivamente, di comprendere se stesso per trasformarsi”447. Questa dialettica tra ‘flusso’ e riflessività caratterizza i generi propri della performance sacrificale spirituale compresa come una performance che trascende l’opposizione fra schemi di azione spontanei e autocoscienti.

444

Cfr. ivi, cit. p.220.

445

Cfr. IDEM, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, p. 266-267.

446

Cfr. TURNER V., From Ritual to Theater, pp.118

447

Cfr. ivi, pp. 119 ss.

198


PARTE SECONDA ANALISI

STORICO-TIPOLOGICA DEL SACRIFICIO COME RITO CRUENTO E

PASSAGGIO AL SACRIFICIO COME ATTO SPIRITUALE


SINTESI DEL CAPITOLO PRIMO Analisi storico-tipologica dei sacrifici nelle religioni antiche della mezzaluna fertile

Dall’ excursus sulle tipologie sacrificali del primo capitolo della parte storico-tipologica si richiamano i dati significativi emersi per delineare un progetto di sintesi. Affermiano subito che non abbiamo preso in esame tutte le grandi religioni antiche: essendo un esame tipologico delle forme sacrificali abbiamo tenuto conto soprattutto di quelle religioni che, all’interno della loro area geografica, hanno configurato un idealtypus sacrificale talmente marcato da far convergere anche le tipologie degli altri sistemi cultuali della stessa area. Si può notare che nell’area semitica occidentale e orientale abbiamo preso in esame le tipologie sacrificali della prassi rituali sumero-accadica e israelitica sedentarizzata: certamente nella stessa area geografica erano presenti anche la civiltà ugaritica, eblaitica e feniciopunica. Tuttavia le tipologie sacrificali di queste altre grandi civiltà sono talmente assimilate e testimoniate dalle fonti documentarie sia accadiche che bibliche che, a loro volta, proprio queste due grandi religioni hanno configurato, assimilando e reinterpretando le prassi mitico-rituali dei popolo limitrofi, i caratteri dell’idealtypus sacrificale. Processo simile è riscontrabile anche nell’idealtypus sacrificale indoeuropeo e camita settentrionale. Si comprende naturalmente che l’analisi tipologica, seppur di grande aiuto, non basta da sola a fornire la comprensione di una prassi talmente complessa come quella che viene definita con il termine sacrificio. L’analisi tipologica è il supporto a quella che sarà la fase di sintesi, il momento creativo vero e proprio in cui i singoli frammenti si organizzano plasmandosi e componendosi in un organismo avente senso compiuto. Le fonti che abbiamo preso in esame, per una interpretazione sistematica delle tipologie dei sacrifici di animali, possono per semplicità essere considerate di tre tipi: 1) fonti in cui si parla di sacrifici cruenti; 2) fonti in cui si parla di sacrifici tout court; 3) fonti in cui si parla di animali senza riferimenti espliciti ai sacrifici, che rimangono però sottintesi. Nelle fonti, è appena il caso di osservare che il 201


sacrificio non implica sempre l’uccisione dell’animale e viceversa. È opportuno, invece, rilevare che nel linguaggio delle fonti antiche, di varia provenienza, quando ci si riferisce al sacrificio senza ulteriori specificazioni, di norma, si intende il sacrificio cruento. A ciò può anche aggiungersi che l’affermazione può essere rovesciata, in quanto l’uccisione dell’animale ha, o quantomeno deve avere, sempre caratteri rituali. Pertanto da una nostra osservazione del panorama sacrificale, quattro sono i tasselli che dettano il quadro sacrificale ed è importante analizzarli nel dettaglio: la tipologia sacrificale di comunione, l’olocausto, i sacrifici di espiazione (in particolar modo i riti del capro espiatorio), i sacrifici imprecatori. Nelle culture semitico occidentali e orientali con il termine sacrificio s’intendeva principalmente il sacrificio nella tipologia comu nionale giornalieri. In questo sacrificio era permesso offrire bovini, ovini (comprese le capre), tortore e colombi. Tutti i sacrifici cruenti di comunione si svolgevano nella seguente prassi: la vittima era condotta davanti al santuario, dove le erano imposte le mani; poi veniva uccisa; seguiva lo spargimento del sangue e le carni della vittima erano in parte bruciate. Il confronto del patrimonio documentale sumero-accadico con quello biblico presenta tuttavia una differente distribuzione delle parti animali post-sacrificali. Nella cultura semitico accadica con le parti rimaste avevano luogo le spartizioni, compiute all’interno del Palazzo reale, per usi commerciali o artigianali (pellami e tendini animali) o presumibilmente per il banchetto sacro unicamente per i funzionari palatini e i sacerdoti, mentre per il mondo biblico la spartizione era destinata anche al popolo. Altra differenza riscontrata, riguarda la tipologia sacrificale dell’olocausto che nel mondo biblico era quotidiana mentre nel mondo accadico era legata al rituale del capodanno o Akîtu dove tutto l’animale veniva bruciato in sacrificio. Nel mondo cultuale greco, inoltre, il rituale dell’olocausto, riletto da Vernant e Detienne alla luce dei miti promeici, è compreso come un pasto comune dove tuttavia c’è implicitamente un atto di sottomissione agli dèi e il segno della condizione mortale espressa e vincolata dall’obbligo di cuocere i cibi per la sopravvivenza. Nello stesso tempo, la prassi violenta del sacrificio cruento in cui il sacrificatore versa il sangue dell’animale è il climax di una liturgia dove la spartizione egualitaria delle carni offre alla coscienza greca un motivo d’identificazione etnica. Un altro parallelismo tipologico molto forte tra cultura accadica, semitica occidentale e greca è evidenziato dai sacrifici espiatori e 202


in particolar modo dalla ritualità del capro espiatorio che, da un punto di vista eziologico, sicuramente è da considerarsi un autentico rebus poiché è presente, nonostante i diversi ceppi culturali, sia nella dimensione cultuale semitica che in quella greca-indoeuropea. La prassi è già presente in Babilonia con il rituale kûppuru celebrato nel quinto giorno dell’Akîtu. Possiamo ipotizzare che la prassi originaria sia appunto accadica e di conseguenza si sia strutturata apportando nuovi elementi nella ritualità d’Israele di azazel e nella prassi dei pharmakoi del mondo greco traducendosi, da un punto di vista di storia comparata delle religioni, in un continuo “gioco comparativo” tra passato e presente, e fornendo così la netta percezione del cambiamento subito dal concetto di espiazione. Allo stesso tempo rappresenta, tuttavia, anche uno strumento efficace di immediata lettura per supportare i vettori strutturali nell’analisi diacronica del fenomeno dell’espiazione e della colpa nel mondo delle religioni. Altro dato estremamente interessante ci proviene dalla natura della fonti proto-iraniche ed egizie del primo regno e del regno medio che consentono di rintracciare una tipologia sacrificale nella quale un toro veniva sacrificato. Tale tipologia sacrificale sembra legata ad un modello sacrificale d’imprecazione contro forse ostili (la Luna nella religione proto-iranica) o i nemici del regno (nella cultura egizia) simbolicamente raffigurati dalla testa dell’animale sacrificato. La comparazione con il culto mitraico ci permette di notare, inoltre, un’ assimiliazione del rito sacrificale del toro con una variante rituale importante legata al mondo mitico di Mithra e ad un’azione temporale legata agli equinozi e al culto del sole. Il sacrificio da notturno divine mattutino ed è inoltre legato al culto della fiamma sacra e agli aspetti soteriologici propri della prassi iniziatica di Mithra. Questo legame tra sacrificio e dimensione soteriologia era presente anche nella prassi egizia della spartizione della carne del bue grasso dedicato al dio Api destinato direttamente al Faraone, il figlio di Hor o del sole. A conclusione del lavoro di analisi e alla luce delle informazioni ricavate dallo studio, possiamo comprendere che il sacrificio cruento si colloca in modo autoreferenziale in un contesto prettamente so teriologico anzi come parte fondamentale del concetto di salvezza. Come abbiamo notato l’atto cruento sacrificale è propriamente soteriologico in quanto mira a liberare l’uomo dal male, comunque inteso, dandogli in tal modo la salvezza. Tutte le prassi sacrificali, infatti, erano orientate per creare vincoli comunionali con gli dèi, per pla203


care la loro ira, per distruggere forze ostili cosmiche o i nemici: in ultima istanza il sacrificio come atto cruento era la preservazione della vita in tutti i suoi aspetti. I sacrifici come riti cruenti sono i protagonisti di questo valore salvifico della vita intesa come Bios: investiti di una funzione di rappresentanza divengono elementi decisivi della grande dinamica salvifica. In questo, i sacrifici cruenti sono l’individuazione dei momenti e dei contesti della progressiva fissazione del valore salvifico della vita essendo atti semiofori. Pertanto, da un punto di vista prettamente storiografico non possiamo non affermare che il mondo cruento sacrificale è l’unico campo, insieme al mondo bellico, in cui la categoria salvezza trovi la sua funzione di comprensione.

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SINTESI DEL CAPITOLO SECONDO

Analisi storico tipologica del passaggio del sacrificio da rito cruento a forma spirituale La lettura stessa delle fonti consente di rintracciare variazioni strutturali importanti all’interno del quadro tipologico dei sacrifici di comunione, dell’olocausto, dei sacrifici di espiazione e dei sacrifici imprecatori delle culture analizzate. Si può notare che, nell’area semitica occidentale, le vetero tipologie sacrificali della prassi rituale sumero-accadica vengono reinterpretate all’interno del quadro performativo e globale della ritualità medio-persiana del plenilunio dello ˘sapattu o ritualità del Sabato testimoniato da innumerevoli fonti documentarie: la scuola sacerdotale mazdeico-babilonese attinge dal sacrificio cruento di comunione con oggetto- vittima la lepre, dedicato alla dea Sin, ma riordina simbolicamente l’architettura del sacrificio cruento di comunione. Il corpo sacrificale non è più object of desire ma è differito nell’azione coreutica-partecipativa rituale sia dei celebranti che degli attanti rituali. Il Rito del Sabato diviene in tal senso un’ esperienza globale del cosmo tuttavia intesa secondo la speculazione escatologica mazdea. In questa prospettiva di studio il processo di assimilazione e reinterpretazione operato è doppiamente vantaggioso per una ricostruzione del quadro storico: da un lato ci mostra che la ritualità babilonese di Sin, s’inserisce nella dimensione simbolica -Soterica del mondo medio-persiano per quel che riguarda i riti, dall’altro ci mostra la nascita di un nuovo idealtypus cultuale legato ai sacrifici di comunione estremamente importante per il mondo semitico occidentale e orientale: la ritualità del Sabato. Altro dato estremamente interessante ci proviene dalla natura della fonti proto-iraniche che consentono di rintracciare il processo di assimilazione e reintepretazione della tipologia sacrificale legata ad un modello sacrificale d’imprecazione contro forse ostili. La comparazione con il culto mitraico ci permette di notare un’ assimiliazione del rito sacrificale del toro con una variante rituale importante legata al mondo cultuale mazdeico del fuoco sacro. Le fonti zo roastriane che sono venute in aiuto, rivelano che sotto il velo di una zoroastrizzazione successiva, il culto del fuoco ha conservato questo 205


elemento rituale arcaico. La ritmica strutturale del culto del fuoco pur mantenendo l’idealtypus sacrificale proto-iranico tuttavia sopprime l’azione l’oggetto vittima sacrificale mantendo tuttavia il significato sacrificale nel simbolo del fuoco escatologico. A livello liturgico redazionale, le scuole cultuali alessandrina e tebana influenzate dagli elementi rituale del sincretismo ellenistico, operano una rilettura delle tipologie sacrificali dell’Antico e Medio Egitto legate all’inizio del mese di Gennaio. La scuola alessandrina opera un rilettura del sacrificio kneph attraverso una evidenziazione cultuale in cui l’oggetto segnico centrale è il “suono” che in qualche modo riproduce la nascita della divinità alludendo agli aspetti solari del demiurgo. Le connessioni di Osiride con il Nilo e la rilettura della prassi sacrificale cruenta imprecatoria alle divinità femminili è l’oggetto di studio della scuola tebana. In questo caso l’oggetto d’imprecazione del sacrificio cruento viene assimilato e reinterpretato in una prassi rituale in cui gli aspetti iconico-scultorei avevano un posto di rilievo, predominante da un punto di vista apotropaico. Nel mondo cultuale greco la tipologia sacrificale cruenta del pasto in comune, come atto di sottomissione agli dèi e segno della condizione mortale espressa e vincolata dall’obbligo di cuocere i cibi per la sopravvivenza, viene apertamente contestata dai gruppi orfici e pitagorici all’inizio e da varie scuole e tendenze religiose elleniste che cercarono di superare la logica di una realtà di vita determinata dalle prassi cruente che avvenivano nelle polis, compresa quella sacrificale stessa. Pneuma, Pneumatikòs, Nóos e phrên, theôría e prâxis, bíos e zôê, lógos e phonê e, di conseguenza, le nozioni di pó lis e di physis fanno parte del grande bagaglio lessicale in cui questi gruppi, scuole accademiche, e comunità giudeo-elleniste elaborarono la comprensione di un sacrificio spirituale. Se all’inizio la tensione poteva trovare come indicatori i termini «apollinei» e «dionisiaci», in seguito con un nuovo bagaglio lessicale possono essere considerati lasciti culturali o innate predisposizioni. Proprio dal termine pneu matikòs e dal suo “accorto dosaggio” semantico dipende la eudai monía della civiltà ellenistica e delle prassi religiose o misteriche. L’eudomia, a sua volta, opera come elemento di differimento, spostando la “attenzione” dal mondo cruento del sangue e dall’oggetto sacrificale verso i linguaggi giuridici, etico-morali e dell’arte. Le tipologie sacrificali cruente veterotestamentarie vengono as206


similate e reinterpretate nella teopolitica dei profetismi in un quadro etico-simbolico. I nebi’im hanno operato all’interno del culto, elementi di specificità della ritualità d’Israele ricostruendo in modo alternati vo la stessa prassi sacrificale veterotestamentaria e aprendo la possibile dimensione dicotomica tra Parola Rivelata e prassi sacrificale. Infatti individuando all’interno degli elementi strutturali della prassi sacrificale un ambiguo rapporto tra Rito ed evento ed individuando una discontinuità contenutistica tra Rito e storia salvifica di JHWH, il profetismo recupera il codice deuteronomico come elemento con valore di contrasto rispetto alla prassi sacrificale, capace di ridisegnare in forma simbolica i contorni autoritari e totalizzanti della ritualità. Questa operazione profetica troverà una sua elaborazione cultuale nella berit hadashah o culto della Nuova Alleanza dell’essenismo. Era un particolare rito in cui i neofiti accedevano a gradi alla vita comunitaria. In tale cerimonia si racchiudeva tutto l’atteggiamento problematico della comunità verso il culto ufficiale del tempio. Gli elementi rituali non erano legati ai sacrifici di comunione né ai sacrifici pasquali ma presentavano i caratteri di una prassi celebrativa in cui il pane e il vino erano gli elementi prefiguranti la dimensione pentecostale. Simili elementi rituali sono presenti nei racconti della cena di Gesù di Nazareth, tuttavia in un quadro pasquale in cui viene riletto il sacrificio di comunione. In tal senso riusciamo a comprendere quanto l’organizzazione rituale del sacrificio di Gesù di Nazareth e la prassi rituale della cena sia realmente alleanza. Il sacrificio-rito di Gesù precede la dimensione dell’evento morte e risurrezione che, straordinariamente, può essere compreso soltanto e necessariamente dando priorità al libero atto sacrificale di Gesù. A conclusione del lavoro di analisi e alla luce delle informazioni ricavate dallo studio, possiamo comprendere che il sacrificio cruento che si collocava in modo autoreferenziale in un contesto prettamente bio-soteriologico è assimilato e reinterpretato da gruppi marginali o scuole liturgiche in prassi rituali in cui viene differita l’attenzione cultuale dall’oggetto-vittima verso l’intera struttura performativa. L’Idealtypus sacrificale archetipo, tuttavia, resta schematicamente sotto la veste di queste nuove performance. Il corpo sacrificale non è oggetto di desiderio cultuale (object of desire) ma diventa il luogo di una riprogettazione cultuale (object of re-design) che determinerà la scansione ritmica e temporale della prassi del sacrificio spirituale e della liturgica del cristianesimo delle origini. 207


Pertanto da un punto di vista prettamente storiografico non possiamo non affermare che il mondo cruento sacrificale è il grande laboratorio rituale in cui la categoria salvezza, veicolata dalla prassi anti-sacrificale, trovi la sua funzione di comprensione e intepretazione per la delineazione di nuovo paradigma rituale che legittimamente si autodefinisce con la terminologia di sacrificio spirituale.

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APPENDICE: SINTESI Il passaggio dal sacrificio cruento al sacrificio spirituale in Ger 7,21-28: analisi esegetica e interpretazione Nel testo di Ger 7,21-28, l’autore negando la validità dei sacrifici ed olocausti come luogo di mediazione dell’evento, deve ricercare una nuova via di ripresentazione dell’evento. Proprio dalla stesura dell’intero capitolo settimo notiamo che il profeta cerca di creare un binomio tra Evento e modellizzazione spirituale. Del resto chiunque può rendersi conto che i libri profetici, quando denunciano le cadute e ricadute del popolo nell’idolatria e lanciano parole di fuoco contro l’abitudine degli ebrei dell’età post-davidica a mescolare il sacrificio del Tempio a JHWH con quello a Baal e Astarte, non segnalano tanto la corruzione del monoteismo mosaico, quanto la difficoltà dell’affermarsi e il persistere d’Israele nell’antico evento dell’alleanza rituale comune ai popoli della “mezzaluna fertile”. L’insegnamento del Deutero-Isaia sull’universalità di JHWH, Dio nazionale di Israele, creatore dei cieli e della terra, Signore di tutti i popoli, e sull’irrazionalità dei culti idolatrici, insegnamento che sta alla base della stesura finale del Pentateuco, nasce in Babilonia non come semplice recupero di verità antiche, ma come esplosione di una modellizzazione della fase di spiritualizzazione cultuale, frutto di una profonda e radicale rielaborazione degli insegnamenti della tradizione. Prenderne atto non è poca cosa, anche perché ci consente di chiarire, tra l’altro, il valore di modello idealtypico-spirituale della dicotomia rito-Evento presente in Ger 7,1-28. Il che ci consente alcune riflessioni. La prima è la conferma della lentezza e della difficoltà con cui il monoteismo si afferma in Israele. La seconda riguarda la possibilità che in Geremia emergano vie di pensiero e d’azione in profonda contraddizione con la sua stessa linea di fondo, vale a dire la possibilità e la validità dell’evento e della mediazione rituale. Proprio perché storicamente e culturalmente intessuta col processo umano di crescita, Geremia può imboccare strade senza uscita. Proprio per salvare la dimensione dell’Evento e nel contempo il radicamento di fede a Jhwh, Geremia trova nella fase di spiritualizzazione l’unica via di salvezza dell’evento. Scardina completamente la mediazione rituale poiché la vede strettamente implicata con il mondo 209


rituale dei culti a Baal. Dietro la formula : “ In verità io non parlai né diedi comandi sull’olocausto e sul sacrificio ai vostri padri quando li feci uscire dall’Egitto” (Ger 7,22), il profeta Geremia edifica una visione e una lettura alternativa del sacrificio, una comprensione rituale che esula dalla mondo sacrificale dell’A.T. e che sfocia in una modellizzazione idealtypica spirituale in cui il sacrificio non scaturisce più dagli elementi cruenti. In effetti, come abbiamo visto nei capitoli precedenti, è proprio questa chiave di lettura che ricostruisce in modo alter-na tivo la stessa prassi sacrificale veterotestamentaria aprendo una nuova modellizzazione spirituale tra Parola Rivelata e prassi sacrificale. Si può trovare qualche difficoltà a cogliere l’importanza di questa lettura della realtà e a darle il suo valore appassionante di testimonianza e di messaggio, ma resta il fatto che è un meccanismo spontaneo, immediato che, con un profondo sorriso interiore, permette di poter individuare l’avvincente e intrigante costruzione del sacrificio spirituale nell’Antico Testamento.

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CONCLUSIONE GENERALE

Retrospettiva analitica e sintetica e rilevanza dei contributi per il mondo cristiano

ANALISI

DELLA METODOLOGIA DI RICERCA

Siamo giunti alla fine del nostro itinerario con la necessità di rispondere alla domanda di fondo della tesi riguardante l’individuazione di elementi di passaggio e di superamento della comprensione e del vissuto sacrificale, da rito cruento ad una forma sacrificale come atto cultuale “spirituale”448. E’ una domanda che ha posto le linee architettoniche della nostra ricerca dinanzi ad una sfida metodologica, a confine tra la prospettiva delineata dalle correnti antropologico-culturali e la sistematizzazione storico-tipologica, che se ha costituito un “tremor” per l’organicità della ricerca tuttavia ha trovato un’antecedente significativo, come abbiamo visto, nell’impostazione metodologica e contenutistica di Walter Burkert e in una particolare affermazione, che necessariamente dobbiamo ripetere in questa sede, in cui lo storico e antropologo svizzero sintetizza la metodologia di lavoro de La Crea zione del Sacro: “Le religioni, passate e presenti, appaiono in speciali ambienti culturali, sociali e storici; possono essere elaborate come sistemi simbolici e interpretate in modo affascinanti. Ma questo fenomeno universale e preistorico non può essere spiegato con, né derivato da, un singolo sistema culturale. La ricerca delle origini delle religioni richiede una prospettiva più generale, travalicante le sin448

In quest’ultima parte confronteremo, in nota, gli elementi di analisi della presente ricerca con i risultati d’indagine e d’ ipotesi della miscellanea Sacrificio: evento e rito, a cura di S.UBBIALI, Edizioni Messaggero, Padova 1998. Diversi contributi della miscellanea già sono stati presentati nei capitoli della presente tesi. Soprattutto si è posta l’ attenzione all’interessantissima sezione storico-antropologica della miscellanea, visto il campo d’indagine della tesi, per gli esaurienti dati di ricerca analizzati: Cfr. A.N.TERRIN, Il pasto sacrifi cale nella storia comparata delle religioni, pp. 263-310.

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gole civiltà, che tenere conto del vasto processo dell’evoluzione umana entro il più generale processo evolutivo della vita. Questo processo era ipostatizzato un tempo come Natura; possiamo continuare a usarlo come metafora. In questo senso la storia delle religioni implica il problema della religione “naturale”. Gli studi culturali devono fondersi con l’antropologia generale, che si integra in definitiva nella biologia”449.

Partendo da questa impostazione metodologica fondamentale, struttureremo questa conclusione in base ad uno schema tripartito che tenderà a sintetizzare i nodi di passaggio che hanno portato la prassi sacrificale cruenta ad essere reinterpretata da linguistiche rituali che identifichiamo con il termine spirituale. Per questa operazione utilizziamo proprio il termine “schema”, che anticamente designava una specie di sopravveste usata dagli antichi, per ipotizzare sia i legami impliciti tra prassi sacrificale cruenta e prassi estetico spirituale, sia per evidenziare i processi di assimilazione e reinterpretazione degli elementi prassici, sia per evidenziare il profondo legame tra genesi ed evoluzione della prassi sacrificale con il background socio-culturale e politico che è delineato dal termine Civitas, poiché il sacrificio è stato ed è uno dei particolari vettori comprensivi per lo studio delle organizzazioni politico-gerarchiche del mondo antico.

1 DE CIVITATE

IN SACRIFICIO SANGUINIS

Partendo dall’impostazione metodologica burkertiana, le tipologie sacrificali cruente che abbiamo sinteticamente illustrato e presentato nel modello storico-tipologico (la tipologia sacrificale di comunione, l’olocausto, i sacrifici di espiazione e in particolar modo i riti del capro espiatorio e i sacrifici imprecatori) ci portano ad affermare che la prassi sacrificale non solo costituisce uno degli indicatori di classificazione del mondo socio-politico delle culture studiate450 ma rimanda a processi più originari nell’evoluzione della vita. Da ciò scaturirebbe l’ipotesi che il sacrificio come schema rituale mil449

Cfr. W. BURKERT, La creazione del Sacro. Orme biologiche nell’esperienza religiosa, p.

25. 450

Cfr. l’attenta analisi delle funzioni scarificali in R. MARCHISIO, Natura e funzione del sacrificio secondo Hubert e Mauss. Ri-lettura contemporanea, in S.UBBIALI (ed.), Il sacrifi cio: evento e rito, pp.155-180.

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lenario ha analogie in un programma biologico operante in vari stadi dell’evoluzione umana e in varie specie animali451. La presenza costante ed inequivocabile dell’ idealtypus del sacrificio cruento, nel tempo e nello spazio delle culture della mezzaluna fertile, indica che alla base dell’esperienza sacrificale cruenta c’è il mondo biologico,452 cui sono edificate tutte le forma religiose, e la prassi sacrificale cruenta include programmi biologici primordiali riguardanti l’aggressività, l’ansia e la fuga. In effetti, come abbiamo visto, Burkert risente enormemente degli studi di Lorenz che, stabilendo omologie nel comportamento di specie differenti e decifrando la funzione dei loro segnali, insiste sul ruolo dell’aggresività all’interno di una specie per la preservazione dell’equilibrio vitale. Egli rivela somiglianze, analogie e anche continuità tra gli animali e l’uomo nel campo dell’ira, del combattimento e della guerra, ma in particolare descrive come l’aggressione praticata in comune, simboleggiata nello sfoggio aggressivo, crei vincoli di amicizia e solidarietà453. Per estrapolazione, sembrerebbe possibile spiegare il fiorire della solidarietà religiosa sulla base degli atti aggressivi della caccia e del sacrificio. Tanto è affascinante questa tesi burkertiana che può essere il leit motiv per la comprensione delle tipologie sacrificali. Nelle culture semitico occidentali e orientali con il termine sacrificio s’intendeva principalmente il sacrificio nella tipologia comunionale giornaliero. In questo sacrificio era permesso offrire bovini, ovini (comprese le capre), tortore e colombi. Tutti i sacrifici cruenti di comunione si svolgevano nella seguente prassi: la vittima era condotta davanti al santuario, dove le erano imposte le mani; poi veniva uccisa; seguiva lo spargimento del sangue e le carni della vittima erano in parte bruciate454. Il confron-

451

Tuttavia Burkert, mitiga già all’interno de “La creazione del Sacro” questa sua ipotesi affermando:“Con ciò non si vuole postulare un preciso programma ereditario di comportamento, codificato geneticamente e trasmesso con una evoluzione continua dagli esseri viventi primitivi ai superiori e culminante nell’uomo. Gli esempi offerti da specie differenti non sono collegati da una catena evolutiva continua”. W. BURKERT, La creazione del Sa cro. Orme biologiche nell’esperienza religiosa ,cit. p. 62. 452

Cfr. ivi, cit. p. 63.

453

Cfr. ivi, p. 14, passim.

454

Cfr. l’analisi tipologica, molto affine a quella svolta nella presente ricerca, di C.MARTONE, Sacrificio e Rito sacrificale nell’Antico Testamento, in S.UBBIALI (ed.), Il sacrificio: even to e rito, pp.111-128.

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to del patrimonio documentario sumero-accadico con quello biblico presenta tuttavia una differente distribuzione delle parti animali post-sacrificali. Nella cultura semitico accadica con le parti rimaste avevano luogo le spartizioni, compiute all’interno del Palazzo reale, per usi commerciali o artigianali (pellami e tendini animali) e presumibilmente il banchetto sacro unicamente per i funzionari palatini e i sacerdoti, mentre per il mondo biblico la spartizione era destinata anche al popolo. Altra differenza riscontrata, riguarda la tipologia sa crificale dell’olocausto che nel mondo biblico era quotidiana mentre nel mondo accadico era legata principalmente al rituale del capodanno o Akîtu dove tutto l’animale veniva bruciato in sacrificio. Nel mondo cultuale greco, inoltre, il rituale dell’olocausto, riletto da Vernant e Detienne alla luce dei miti promeici, è compreso come un pasto comune dove tuttavia c’è implicitamente un atto di sottomissione agli dèi e il segno della condizione mortale espressa e vincolata dall’obbligo di cuocere i cibi per la sopravvivenza. Nello stesso tempo, la prassi violenta del sacrificio cruento in cui il sacrificatore versa il sangue dell’animale è il climax di una liturgia dove la spartizione egualitaria delle carni offre alla coscienza greca un motivo d’identificazione etnica. Un altro parallelismo tipologico molto forte tra cultura accadica, semitica occidentale e greca è evidenziato dai sacrifici espiatori e in particolar modo dalla ritualità del capro espiatorio che, da un punto di vista eziologico, sicuramente è da considerare un autentico rebus poiché è presente, nonostante i diversi ceppi culturali, sia nella dimensione cultuale semitica che in quella greca indoeuropea. La prassi è già presente in Babilonia con il rituale kˆuppuru celebrato nel quinto giorno dell’ Akîtu. Possiamo ipotizzare che la prassi originaria sia appunto accadica e di conseguenza si sia strutturata apportando nuovi elementi nella ritualità d’Israele di azazel e nella prassi dei pharmakòi del mondo greco traducendosi, da un punto di vista di storia comparata delle religioni, in un continuo “gioco comparativo” tra passato e presente, e fornendo così la netta percezione del cambiamento subito dal concetto di espiazione. Allo stesso tempo rappresenta, tuttavia, anche uno strumento efficace di immediata lettura per supportare i vettori strutturali nell’analisi diacronica del fenomeno dell’espiazione e della colpa nel mondo delle religioni. La delineazione di questo particolare modello tipologico sacrificale e del capro espiatorio è in grande considerazione, come abbiamo visto nel-

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l’analisi di Renè Girard455 che afferma che il denominatore comune delle diverse fonti storiche consiste in due transfert: il primo, detto anche transfert d’aggressività, consiste nella lapidazione o l’espulsione della vittima da cui deriva un beneficio concreto per l’intera comunità (la ricomposizione della crisi e la seguente pace, seppur temporanea), mentre il secondo, detto transfert di divinizzazione, pone fine al processo e consiste nella venerazione della vittima immolata da parte della comunità riappacificata, venerazione giustificata dal potere conciliatorio del capro espiatorio. Afferma l’autore: “Le divinizzazioni mitiche si spiegano perfettamente per opera del ciclo mimetico, e si basano sulla capacità che hanno le vittime di polarizzare la violenza. (…) Se il transfert che demonizza la vittima è potentissimo, la riconciliazione che ne consegue è così improvvisa e perfetta da apparire miracolosa e da suscitare un secondo transfert che si sovrappone al primo, il transfert di divinizzazione della vittima”456.

Gli uomini tendono a convincersi che uno solo di loro è responsabile di tutta la mimesis violenta, che in lui si trova la macchia che li contamina tutti: distruggendo la vittima espiatoria gli uomini crederanno allora possibile sbarazzarsi del loro male ed effettivamente se ne libereranno poiché tra loro non ci sarà più la violenza fascinatrice457. Tuttavia il sacrificio, come termine in senso stretto, è un rito, per cui sorge spontaneamente la domanda sulla relazione tra il meccanismo vittimario delle origini e il sacrificio rituale successivo458. L’antropologo francese vede un legame imprescindibile che si risolve in una forte dipendenza del rito dalla violenza originaria. Girard stesso afferma: “Il sacrificio rituale è fondato su una duplice sostituzione; la prima, quella che non si scorge mai, è la sostituzione di tutti i membri della comunità ad uno solo; essa poggia sul meccanismo della vittima espiatoria. La seconda, la sola propriamente rituale, si

455

Cfr. R. GIRARD, La violenza e il sacro, p. 50.

456

Cfr. R.GIRARD, Vedo Satana cadere come la folgore, cit. p. 165.

457

Cfr. G.BONACCORSO, Il sacrificio come rito o come evento? Un problema aperto in René Girard, in S.UBBIALI (ed.), Il sacrificio: evento e rito, pp. 181-202. 458

Cfr. R. GIRARD, Il capro espiatorio,p. 121.

215


sovrappone alla prima; sostituisce alla vittima originaria una vittima appartenente ad una categoria sacrificabile”459.

Pertanto il rito sacrificale imita l’evento originario sacrificale in quanto agisce sul medesimo meccanismo della sostituzione460. Inoltre Girard risolve anche il problema della differenza tra l’originaria vittima sacrificale ( che è un uomo che viene sostituito ad altri uomini) e la vittima dei sacrifici rituali ( che è un animale che viene sostituito all’uomo) affermando che già la vittima delle origini assomma a sé caratteri di ambiguità e ambivalenza poiché assomma in sé l’appartenenza alla comunità umana e l’alterità rispetto ad essa. Questo meccanismo di somiglianza e dissomiglianza si riproietta nella vittima rituale animale461 che è resa eccezionale dallo stesso processo rituale, a partire dal suo momento preparatorio. Tuttavia anche il sacrificio rituale proprio perché istituisce l’ambivalenza della vittima espiatoria crea una pace sociale apparente che rimane nella logica della violenza. Lo schema sacrificale rituale punta, sia sull’eccezionalità della vittima, sia sul mantenimento dei rapporti differenziali interni alla società, sia evitando la confusione disgregante ricorrendo alla violenza ed, implicitamente ed esplicitamente, identificandosi con essa nel momento in cui non ottiene lo scopo desiderato462. Altra tipologia sacrificale molto interessante ci proviene dalla natura della fonti proto-iraniche ed egizie del primo regno e del regno medio che consentono di rintracciare una tipologia sacrificale nella quale un toro veniva sacrificato. Tale tipologia sacrificale sembra legata ad un modello sacrificale d’imprecazione contro forse ostili (la Luna nella religione proiranica) o i nemici del regno (nella cultura egizia) simbolicamente raffigurati dalla testa dell’animale sacrificato. La comparazione con il culto mitraico ci permette di notare, inoltre, un’ assimiliazione del rito sacrificale del toro con una variante

459

Cfr. ivi, cit. p. 139-140. Cfr. anche C. TROISFONTAINES, L’identité du social et du reli gieux selon René Girard, p.87. 460

Cfr. R.GIRARD, Il capro espiatorio, p. 220.

461

Cfr. ivi, cit. p.220.

462

Cfr. R.GIRARD, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, p. 266-267.

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rituale importante legata al mondo mitico di Mithra e ad un’azione temporale legata agli equinozi e al culto del sole. Il sacrificio da notturno divine mattutino ed è inoltre legato al culto della fiamma sacra e agli aspetti soteriologici propri della prassi iniziatica di Mithra. Questo legame tra sacrificio e dimensione soteriologia era presente anche nella prassi egizia della spartizione della carne del bue grasso dedicato al dio Api destinato direttamente al Faraone, il figlio di Hor o del sole. Il lavoro di analisi delle tipologie sacrificali cruente nel mondo antico, alla luce delle informazioni ricavate dall’impostazione metodologica di W. Burkert e R. Girard, ci ha permesso di comprendere che il sacrificio cruento si colloca in modo autoreferenziale in un contesto prettamente soteriologico anzi come parte fondamentale del concetto di salvezza. Come abbiamo notato l’atto cruento sacrificale è propriamente soteriologico in quanto mira a liberare l’uomo dal male, comunque inteso, dandogli in tal modo la salvezza. Tutte le prassi sacrificali, infatti, erano orientate a creare vincoli comunionali con gli dèi, placare la loro ira e a distruggere forze ostili cosmiche o i nemici: in ultima istanza il sacrificio come atto cruento era la preservazione della vita in tutti i suoi aspetti. I sacrifici come riti cruenti sono i protagonisti di questo valore salvifico della vita intesa come Bios: investiti di una funzione di rappresentanza divengono elementi decisivi della grande dinamica salvifica. In questo, i sacrifici cruenti sono l’individuazione dei momenti e dei contesti della progressiva fissazione del valore salvifico della vita essendo atti semiofori. Pertanto da un punto di vista prettamente storiografico non possiamo non affermare che il mondo cruento sacrificale è l’unico campo, insieme al mondo bellico, in cui la categoria salvezza trovi la sua funzione di comprensione. Da questa presentazione storico tipologica, tuttavia, nasce la nostra consapevolezza che il mondo sacrificale antico non possa assolutamente svincolarsi dai suoi elementi cruenti. Sarebbe impossibile, restando legato ai suoi testi, vedere una forma sacrificale che non sia cruenta e che non rimanga all’interno dell’orbita della “cultura della violenza”. Inoltre questo grande sfondo storico s’insinua profondamente anche nella tesi sacrificale di Girard che, come abbiamo visto, si articola partendo da due presupposti di carattere genetico: primo, che i riti sono nati tutti come riti di sacrificio; secondo, che all’inizio vi sarebbe stata una violenza sociale che avrebbe dato avvio ad un accumulo di differenze e di conseguenza ad una catena di vendette. Il sacrificio e il rito 217


avrebbero il compito di porre termine alla situazione originaria di tensione riportando l’armonia nella comunità463. Girard infatti si pone una domanda: in che modo il sacrificio e il rito sarebbero in grado di far compiere all’umanità questo passaggio dalla violenza all’armonia? Per l’antropologo francese, la soluzione avverrebbe in quanto ci si accorderebbe sulla vittima espiatoria, atta ad interrompere la catena delle vendette. Girard, riferendosi allo studio sul sacrificio di Hubert e Mauss in cui si descrive l’atteggiamento di fronte alla vittima sacrificale, dice che il sacrificio sarebbe una violenza senza rischio di ulteriore vendetta464. Il sacrificio interrompe la violenza grazie ad un capro espiatorio e questo rituale, una volta compiuto, non deve poi ripetersi per un numero infinito di volte. Quando il sacrificio, infatti, non svolge la sua funzione catartica finisce per prendere una “brutta piega” ed invece che liberare dalla violenza la incentiva e la aumenta.

2 DE CIVITATE

IN SACRIFICIO SPIRITUALI

Tuttavia, proprio nel quadro delineato dalle ultime battute del paragrafo precedente, per Girard avviene la nascita di un nuovo processo culturale e sociale che l’antropologo francese analizza, nella sua opera “ Vedo Satana cadere come la folgore”465: i Vangeli dal punto di vista antropologico466 sottolineano il primato dell’insegnamento Giudaico-Cristiano che si vota al rispetto della persona, alla tutela delle vittime innocenti e immolate ingiustamente, come afferma direttamente l’autore: “La Resurrezione di Cristo- afferma l’autore- corona e porta a termine il sovvertimento e la rivelazione della mitologia, dei riti, di tutto ciò che assicura la fondazione e la perpetuazione delle culture umane. I Vangeli rivelano tutto quello di cui gli uomini han-

463

Cfr. R. GIRARD, La violenza e il sacro, pp. 33.

464

Cfr. H. HUBERT, M. MAUSS, Essays sur la nature et la fonction du sacrifice, pp. 29-138

465

Cfr. R.GIRARD, Vedo Satana cadere come la folgore, pp. 4-14.

466

Cfr. ivi, p. 34.

218


no bisogno per comprender la loro responsabilità nelle infinite violenze della storia umana e nelle religioni menzognere che ne derivano. (…) L’elaborazione mitica si fonda su un’ignoranza, anzi su un’inconsapevolezza persecutoria che i miti non arrivano mai a identificare, dal momento che ne sono dominati”467.

Bisogna però specificare che Girard pone soltanto una lettura sul piano meramente antropologico legato al desiderio e alla conclusione del modello della violenza. Tale panorama tuttavia, posto in modo sinottico con l’indagine storico-tipologica, rivela una sua profonda solidità. In base al repertorio documentario, si deve affermare che realmente il cristianesimo negli atti del suo fondatore assume un’importanza fondamentale per la delineazione del “trionfo” finale di una prassi cultuale che inizialmente si affiancava alla prassi sacrificale cruenta come culto di stato: in alcuni gruppi marginali, che si ponevano in atteggiamento politico distaccato rispetto ai poteri palatini. C’era già a partire dal VI-V sec. a.C.,una comprensione cultuale in cui non solo c’era il divieto dei sacrifici animali ma anche lo sforzo di modellizzare la prassi sacrificale attraverso la riscoperta di un mondo linguistico con caratteri estetico-spirituali. Già nello zoroastrismo tale spostamento della comprensione sacrificale risulta chiarissima nel processo di assimilazione e reinterpretazione dei sacrifici cruenti mitraici, nel culto del fuoco sacro mazdeico. L’impronta della riforma zoroastriana farà sentire la sua influenza soprattutto nell’ambiente semitico orientale e permetterà la ricomprensione in chiave rituale non cruenta degli elementi del mondo Babilonese e Persiano. Una testimonianza di questa capacità reinterpretativa la troviamo nella tipologia della ritualità del plenilunio accadico. Il giorno del plenilunio è presumibilmente il primo giorno festivo per eccellenza e in accadico è chiamato ˘sapattu. Tale ritualità se agli inizi presentava elementi cultuali legati alla tipologia sacrificale di comu˘ nione alla dea Sin, nel tardo periodo persiano viene connotato da canti e danze che assumono un ruolo importantissimo e prioritario nell’azione rituale.

467

Cfr. ivi, cit. p. 168.

219


Similmente nell’aspetto composito della prassi cultuale ad Ayon e nella festa delle acque del Nilo nel tardo periodo egizio e nell’ellenismo tolemaico non è affatto incredibile che la prassi originaria cruenta della tipologia sacrificale imprecatoria sia stata trasposta in una prassi rituale non cruenta in cui è la rappresentazioni attraverso il mondo del suono a sostituire la vittima sacrificale ma soprattutto la rinascita naturale della divinità. Inoltre è proprio il mondo del suono che in qualche modo riproduce la nascita di Ayon alludendo agli aspetti solari del demiurgo. È interessante inoltre che l’assenza del sacrificio cruento nella festa delle acque del Nilo venga colmata da una prassi rituale in cui gli aspetti iconico-scultorei avevano un posto di rilievo predominante. Nel mondo greco è soprattutto la speculazione estetico-spirituale che pone le condizione per una nuova lettura degli aspetti rituali e sacrificali. Il campo semantico Pneuma, Pneumatikòs (spiri tuale), Nóos e phrên, theôría e prâxis, bíos e zôê, lógos e phonê e, di conseguenza, le nozioni di pólis e di physis fanno parte del grande bagaglio lessicale in cui, i gruppi orfici e pitagorici all’inizio e varie scuole e tendenze religiose elleniste, compresi gli scritti paolini, hanno cercato di superare la logica di una realtà di vita determinata dalle prassi cruente che avvenivano nelle polis. Proprio dal termine pneu matikòs e dal suo “accorto dosaggio” semantico dipende la eudai monía della civiltà ellenistica e delle prassi religiose giudaico-elleniste o misteriche. L’eudomia, a sua volta, opera come elemento di differimento, spostando la “attenzione” dal mondo cruento del sangue e dall’oggetto sacrificale verso i linguaggi giuridici, estetico-spirituali e dell’arte. Ma è soprattutto dall’idea dello Saosyant o del Salvatore ovvero della concezione della venuta del Messia di origine zoroastriana e dalla cultura profetico israelita antica anticultuale, che si può elaborare il concetto girardiano dello smascheramento della violenza collettiva operata dal mondo della letteratura veterotestamentaria profetica e dai testi e dalla ritualità degli esseni e dei vangeli. In questo caso i dati storici verrebbero chiaramente ad insinuarsi nelle ipotesi di lavoro girardiano che analizza la persecuzione di Cristo da un punto di vista antropologico raffrontandola con il classico processo del capro espiatorio tipico della mitologia468. 468

Cfr. ivi, pp. 172-180.

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Innanzitutto, Girard, sostiene che fino al momento della Resurrezione il procedimento è quasi uguale: la comunità giudaica si sente minacciata dalle predicazioni di Cristo ed individua in lui un perfetto capro espiatorio da espellere e demolire. Ma è appunto in questo dato, che sorge la vera rottura dello schema attraverso il dono della Risurrezione: se il primo transfert, quello dell’aggressività è stato compiuto, quello conclusivo invece viene evitato: per la prima volta il meccanismo vittimario è sconfitto. Ma questo non sarebbe sufficiente: dopo tre giorni Gesù di Nazareth appare Risorto agli Apostoli, porta con sé un “dono” per l’umanità colpevole per secoli di aver messo a morte o espulso ingiustamente dei loro simili. Attraverso la “Resurrezione-dono” gli autori fanno conoscere il messaggio di Cristo, rendono consapevoli le comunità della falsità del Regno di Satana (mitologia del processo vittimario) e del primato del Regno di Dio che è il Regno dello smascheramento del sistema vittimario stesso. Il Cristianesimo segna il trionfo della Croce e la sconfitta di Satana che “cade come la folgore”, vede infrangere il suo principato votatosi alla violenza mimetica. Afferma Girard: “Il trionfo della Croce non è ottenuto in alcun modo con la violenza, ma al contrario è il frutto di una rinuncia così totale alla violenza che quest’ultima può scatenarsi a sazietà su Cristo, senza sospettare di rendere palese proprio con il suo comportamento ciò che le sarebbe vitale nascondere, senza sospettare che tale scatenamento le si ritorce stavolta contro, perché sarà registrato e rappresentato nella maniera più esatta nei resoconti della Passione (i Vangeli)”469.

Ed ancora in un passo successivo ma importante nella prospettiva girardiana, l’antropologo francese afferma: “La sofferenza sulla Croce è il prezzo che Gesù accetta di pagare per offrire all’umanità questa rappresentazione vera dell’origine di cui resta prigioniera, e per privare a lunga scadenza il meccanismo vittimario della sua efficacia”470.

Qualora non ci fossero stati i Vangeli l’umanità sarebbe tutt’ora sottoposta ai processi che culminano con il sacrificio del capro espiato-

469

Cfr. ivi, cit. p. 184.

470

Cfr. ivi, cit. p. 187.

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rio, con atti di pseudo-giustizia sommaria, con atti di usurpazione del potere: “E’ proprio là, dove non è rappresentata, che la frenesia mimetica può esercitare un ruolo generatore per il fatto stesso che non è rappresentata. (…) Le società mitico-rituali sono prigioniere di una circolarità mimetica alla quale non possono sottrarsi proprio perché non la identificano”471.

Ma, all’importanza del dato antropologico girardiano, dobbiamo sottolineare da un punto di vista storico-tipologico un elemento che all’antropologo francese è sfuggito: il cristianesimo è stato l’atto finale in cui la prassi non violenta dei gruppi marginali, trova il contesto prettamente soteriologico nel differimento dall’oggetto sacrificale alla modellizzazione sacrificale estetico-spirituale che, come vedremo nel prossimo paragrafo, troverà il suo climax nel sacrificium laudis agostiniano. Infatti il mondo sacrificale non cruento dei gruppi marginali accoglie l’elemento del valore salvifico del sacrificio cruento della vita intesa come Bios, ma lo contestualizza all’interno del termini pneumatikòs e teoretikòs: questi due termini investiti di una funzione di rappresentanza divengono elementi decisivi della grande dinamica salvifica poiché differiscono l’attenzione dall’oggetto centrale-animale della prassi sacrificale cruenta, individuando nel paradigma etico e nel mondo linguistico estetico iconico, musicale, coreutico, i momenti e i contesti della progressiva fissazione del valore salvifico della vita. Da un versante antropologico è proprio un allievo di R. Girard, lo studioso californiano Eric Gans che con il concetto di “estetica sacrificale” descrive una situazione in cui le forme estetiche, pur rimanendo sacrificali, si sono evolute da caratteristica necessaria dell’organizzazione sociale a modello estetico-spirituale della condizione umana472. Per Gans l’emergere dell’umanità, e quindi di tutte le componenti che la strutturano, compresa quella ritualesacrificale, non può essere riletta semplicemente in termini di teoria dell’evoluzione: l’origine dell’umano, come è definita tramite il nostro uso del linguaggio, deve essere compresa non soltanto come un pro -

471

Cfr. ivi, cit. p. 189.

472

Cfr.http://www.anthropoetics.ucla.edu/views/vw205.htm

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cesso ma come un evento473. Ed è proprio nella sfera dell’estetica che vi è il terreno più favorevole ad un dialogo fruttuoso fra il pensare in termini di evento e il pensare in termini di processo. Un’esperienza estetica può essere compresa sia come risultato d’un processo che genera un “effetto estetico” particolare, che come evento memorabile nella durata del relativo soggetto. Più specificatamente, l’esperienza dell’arte è generata e fortemente strutturata da un processo interno all’opera d’arte specifica, che può essere compresa come meccanismo destinato deliberatamente a provocare nel suo pubblico l’esperienza di un nuovo evento. Considerando che, secondo l’ipotesi originaria, questo evento deriva la sua forma dall’evento originario, il contenuto fondamentale dell’arte come di tutti i meccanismi culturali è fornito dagli oggetti di appetito preculturale. Il sacrificio rituale coinvolge principalmente i grandi animali commestibili perché questi sono le forme di nutrimento più concentrate; l’energia motrice predominante nelle narrazioni è il desiderio sessuale, la cui importanza biologica non ha bisogno di dimostrazione. Da un punto di vista della psicologia evolutiva, alcuni studiosi suppongono un estetico dei paesaggi che riflette la loro attrattiva come habitat per la nostra specie nella sua fase formativa nel Pleistocene474. Interconnessa con l’impostazione “abitativa”, Gans trae una riflessione strattamente biologico affermando: “Questo genere di senso estetico è un perfezionamento del tropismo che provoca il movimento delle amebe verso le soluzioni che possiedono il pH richiesto. L’ameba non deve esercitare il “giudizio” perché il suo tropismo è definito da una singola equazione computata dal sistema di percezione dell’ameba stessa. Per contro, denominiamo il nostro proprio giudizio “estetico” perché il campo della percezione che lo occasiona è troppo complesso e l’insieme dei criteri valutativi troppo vago per permettere una concettualizzazione semplice. L’ipotesi del paesaggio attraente offre una base evolutiva per il “giudizio senza concetto” dell’estetica kantiana. Il nostro giudizio sarà chiaramente più rapido e più decisivo se non ci richiede di ragionare, cioè di confrontare nelle nostre menti un dato paesaggio con una serie di immagini di paesaggio con diversi gradi di idoneità all’abitazione o all’esplorazione da parte degli umani. Fra i caccia-

473

Cfr ivi, cit. in rete.

474

Cfr.G. ORIANS-J. HEERWAGEN, Evolved Responses to Landscapes, pp. 555-579.

475

Cfr. E.L.GANS, Sacrificing Culture, in “Chronicle” 184. Rivista in rete.

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tori del Pleistocene che si muovono sul terreno, la capacità di decidere correttamente, senza riflessione, che direzione seguire ha sicuramente la stessa probabilità di interessare la selezione evolutiva che ha la capacità di scegliere correttamente, con una semplice annusata o un morsetto, quale cibo è da mangiare. Non è affatto una coincidenza che la nozione di gusto sin dall’inizio sia stata connessa con l’estetico. Se il nostro gusto per quanto riguarda il cibo ha un uso pratico, allo stesso modo lo ha, o lo aveva, il nostro gusto per quanto riguarda il paesaggio”475.

Ma in che modo questa lezione biologica sull’estetico si può articolare con i fenomeni della ritualità sacrificale? Per Gans possiamo supporre che un oggetto potenzialmente significativo a livello sacrificale (ciò che Girard identifica con il capro espiatorio) sarà stato rilevato come tale dal nostro sistema biologico di percezione, proprio come il paesaggio valutato tramite il nostro giudizio estetico naturale476. Per Gans avviene, rispetto alla risoluzione violenta girardiana, un differimento della violenza attraverso l’emissione di un segno di rinuncia. Non è più importante, conseguentemente, per lo studioso californiano l’oggetto del sacrificio ma la nascita del segno che sposta l’attenzione dei carnefici dalla dimensione appetitiva a quella segnica.

3 DE CIVITATE

IN SACRIFICIO LAUDIS

Per Gans proprio quest’ultimo passaggio metodologico operativo fa scaturire la nascita di una nuova cultura ovvero la Sacrificing Culture e una nuova funzione del sacrificio che supera la sua dimensione di rito cruento per divenire estetica477. Inoltre il segno di differimento della violenza fornisce un “supplemento” all’interesse estetico naturale o biologico, con la conseguenza che il campo visivo da dimensione strumentale ( poiché inzialmente rivolta in maniera cruenta verso l’oggetto) diviene dimensione “assoluta” poiché la mediazione del segno è equivalente ad un ritiro dal mondo dell’appetito in quello di una contemplazione disinteressata478. 476

Cfr. ivi, cit. in rete.

477

Cfr. E.L.GANS, The Beginning and End of Esthetic Form, pp.19ss.

478

Cfr. E.GANS, The End of Culture, pp 4-9

224


In questa prospettiva è possibile rileggere, per una nuova comprensione ermeneutica, le fonti storiche agostiniane, sul sacrificio, nella trattazione del De Civitate Dei 479. Al centro del vero culto dovuto a Dio vi è, per Agostino d’Ippona, il desiderio della beatitudine480 come atto di differimento dall’oggetto centrale dei sacrifici antichi che erano solo “figure” e che sono differite dalla dimensione estetico contemplativa e dalla dimensione etica come afferma lo stesso padre della chiesa in Civitate Dei X, 5: “Ac per hoc ubi scriptum est: Misericordiam volo quam sacrifi cium nihil aliud quam sacrificium sacrificio praelatum oportet intellegi; quoniam illud, quod ab omnibus appellatur sacrificium, signum est veri sacrificii. Porro autem misericordia verum sacrificium est; unde dictum est, quod paulo ante commemoravi: Ta libus enim sacrificiis placetur Deo”481.

Tale impostazione gli permette di interpretare le polemiche dei profeti e dei salmi (in particolar modo di Sal 50[51]) contro i sacrifici: “Quis autem ita desipiat, ut existimet aliquibus usibus Dei esse necessaria, quae in sacrificiis offeruntur? Quod cum multis locis divina Scriptura testetur, ne longum faciamus, breve illud de psalmo commemorare suffecerit: Dixi Domino, Dominus meus es tu, quoniam bonorum meorum non eges . Non solum igitur pecore vel qualibet alia re corruptibili atque terrena, sed ne ipsa quidem iustitia hominis Deus egere credendus est, totumque quod recte colitur Deus homini prodesse, non Deo. Neque enim fonti se qui-

479

Cfr. AGOSTINO D’IPPONA, La Città di Dio, trad. it. a cura di L.ALICI, Rusconi, Milano 1984; cfr. anche G.LETTIERI, Il senso della storia in Agostino d’Ippona. Il “saeculum” e la gloria nel ”De Civitate Dei”, Borla, Roma 1988; M. BORGHESI, L’ età dello Spirito e la me tamorfosi della città di Dio, in “Il Nuovo Areopago” 4(1994), pp.5-27; AA.VV., Il potere e la grazia. Attualità di Sant’Agostino, Nuova Omicron, Roma 1998. Interessantissima come panoramica generale all’argomento l’impostazione di studio di G.LAFONT, Sacrificio e Rito: Background antropologico e teologico di una rimozione, in S.UBBIALI (ed.), Sacrificio: evento e rito, Edizioni Messaggero Padova, 1998, pp.53-67; 480 Cfr. La rilettura sacrificale agostiniana di M. Neusch in A. GRILLO, Differenza e antite si tra sacrificio spirituale e sacrificio rituale. Modernità, irrilevanza del rito e incomprensione della libertà, in S.UBBIALI (ed.), Il sacrificio: evento e rito, pp.211-215. 481

Cfr. AGOSTINO, De Civitate Dei, apparato critico a cura di G. COMBES, BA 34, DDB, Paris 1959, cit. p.44.

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squam dixerit consuluisse, si biberit; aut luci, si viderit. Nec quod ab antiquis patribus alia sacrificia facta sunt in victimis pecorum , quae nunc Dei populus legit, non facit, aliud intellegendum est, nisi rebus illis eas res fuisse significatas, quae aguntur in nobis, ad hoc ut inhaereamus Deo et ad eumdem finem proximo consulamus. Sacrificium ergo visibile invisibilis sacrificii sacramentum, id est sacrum signum est. Unde ille paenitens apud Prophetam vel ipse Propheta quaerens Deum peccatis suis habere propitium: Si voluisses, inquit, sacrificium, dedissem utique; holocaustis non delectaberis. Sacrificium Deo spiritus contritus; cor contritum et humiliatum Deus non spernet 482.

Il salmo 50 (51), riletto da Agostino, afferma che Dio rifiuta il sacrificio degli animali sgozzati e vuole il sacrificio d’un cuore contrito. Così secondo la rilettura profetica di Agostino, “ciò che Dio rifiuta è la figura di ciò che vuole”: “Intueamur quem ad modum, ubi Deum dixit nolle sacrificium, ibi Deum ostendit velle sacrificium. Non vult ergo sacrificium trucidati pecoris, et vult sacrificium contriti cordis. Illo igitur quod eum nolle dixit, hoc significatur, quod eum velle subiecit. Sic itaque illa Deum nolle dixit, quo modo ab stultis ea velle creditur, velut suae gratia voluptatis. Nam si ea sacrificia quae vult (quorum hoc unum est: cor contritum et humiliatum dolore paenitendi) nollet eis sacrificiis significari, quae velut sibi delectabilia desiderare putatus est: non utique de his offerendis in Lege vetere praecepisset. Et ideo mutanda erant opportuno certoque iam tempore, ne ipsi Deo desiderabilia vel certe in nobis acceptabilia, ac non potius quae his significata sunt crederentur”483.

Da un punto di vista di fonte storica è interessante il background in cui nasce questa linguistica agostiniana: non dobbiamo dimenticare che nell’Africa settentrionale del III-IV secolo d.C., l’apologeta cristiano Arnobio, il cui settimo libro dell’Adversus nationes

482

Cfr. ivi, cit. p.45

483

Cfr. ivi, cit. p.45

484

Arnobio si sofferma in vari luoghi della sua opera sulla inutilità del sacrificio di animali: si veda, ad es., Arnobio, nat. 7,3-4; 7,27-29. Sul tema, si veda G.M. PINTUS, Sacrifici ani mali e dèi di coccio (Arn., adv. nat. VII), in L’Africa romana. Atti dell’XI convegno di studio. Cartagine, 15-18 dicembre 1994 , a cura di M. KHANOUSSI-P. RUGGERI-C. VISMARA, Ozieri 1996, pp. 1629-1636.

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è dedicato ai sacrifici, si scaglia contro l’inutilità484 e la crudeltà delle pratiche sacrificali del ‘paganesimo’485: Arnobio, nat. 7,4: “Postremo quod gaudium est innoxiorum animantium mactatione laetari, miserabilis saepe exaudire mugitus, rivos sanguinis cernere, animas cum cruore fugientes patefactisque secretis provolvier intestina cum stercore et ex residuo spiritu exultantia adhuc corda tremibundisque palpitantes in visceribus venas? Semiferi nos homines, quinimmo, apertius ut pronuntiemus quod est verius atque aptius dictu, feri, quos infelix necessitas et malus usus edocuit cibos ex his carpere, miseratione interdum commovemur illorum, arguimus nos ipsi penitusque re visa atque inspecta damnamus, quod humanitatis iure deposito naturalis initii consortia ruperimus.”

È importante osservare che, secondo Arnobio, l’uomo, quando uccide per sacrificare agli dèi, spezza, il vincolo che lo lega agli animali e, così facendo, rinuncia alla sua stessa autentica natura486. Arnobio, nonostante l’attacco alla religione precristiana, riprende il contenuto essenziale delle antiche filosofie antisacrificali, introducendo due concetti giuridici fondamentali, i quali, già in passato, avevano rappresentato modalità espressive del rifiuto dei sacrifici di animali: lo ius humanitatis e il consortium naturalis initii. Il primo concetto – lo ius humanitatis – richiama l’idea del diritto, da intendersi non come prerogativa del solo genere umano, ma come l’elemento più proprio e specialmente qualificante della natura umana. Si comprende, in tal modo, il richiamo iniziale alla natura fera, termine, questo, che nel linguaggio giuridico romano non allude alla natura selvaggia, feroce, ma a quella selvatica, vale a dire alla natura dell’animale privo di ogni rapporto con l’uomo487. 485

Cfr. ivi, p. 1630, la quale osserva che, in Arnobio, “il virulento attacco contro il sacrificio delle religioni politeiste si basa su due punti principali: la menzogna della divinità e l’i nutilità dell’offerta. Gli dei pagani sono, infatti, ‘dei di bronzo, dei di coccio, di gesso, di marmo’, e la conseguenza immediata è la stoltezza dell’uomo”. 486

Cfr. ivi, p. 1632.

487

Cfr. L. LANDUCCI, Il diritto di proprietà e il diritto di caccia presso i romani, in “Archivio Giuridico ‘Filippo Serafini” 29 (1882), pp. 307 ss.; A. ORTEGA Y CARRILLO DE ALBORNOZ, Las ‘ferae bestiae’ en el derecho romano, en el Código civil y en la ley de caza de 1970, in “Cuadernos informativos de derecho histórico público, procesal y de la navegación” 4-5 (1987), pp. 483 ss.; O. LONGO, Le regole della caccia nel mondo greco-romano, in “Aufidus”1 (1987), pp. 59 ss.

227


Il secondo concetto – il consortium naturalis initii – consente all’apologeta di inquadrare il sacrificio di animali come atto empio, praticando il quale gli uomini spezzano il vincolo naturale, l’affinità, potremmo dire, fra tutti gli esseri animati. Il ricorso, ancora una volta, a un termine – consortium –, che nel linguaggio giuridico romano identifica un preciso istituto, potrebbe non essere casuale, ma rappresentare l’espediente lessicale attraverso il quale l’autore avrebbe richiamato la tesi, variamente sostenuta nella filosofia greca e nel diritto romano, della ammissibilità di un diritto comune a uomini e ad animali488. Ed è opportuno richiamare, al di là della questione, che qui possiamo tralasciare, relativa al rapporto storico tra consortium e societas489, i testi in merito alla concezione dell’animale come so cius dell’uomo490. Testi che, unitamente alla testimonianza di Anobio confermano l’idea di una affinità fra tutti gli esseri animati, della quale idea lo ius naturale è, in definitiva, una delle più alte espressioni. Sulla base di questi due concetti, Arnobio presenta il paradosso del sacrificio, inteso come strumento di espiazione e di assoluzione del peccato, contrapponendo alla simplicitas naturae e alla innocentia dell’animale la ingiustizia dell’uomo, il quale, rinunciando alla sua vera natura, rinuncia anche a praticare la giustizia491: Arnobio, nat. 7,9: “Non homo? Ita istud non ferum, non inmane, non saevum est, non tibi, o Iuppiter, iniustum videtur et barbarum, me occidi, me caedi, ut fias tu placidus et ut sclerosis contingat impunitas?”

Agostino si pone in una fase di alterna continuità e discontinuità con la linea di pensiero di Anobio, poiché la dimensione penitenziale del sacrificio (rinuncia, privazione, sofferenza) non viene nemmeno men-

488

Cfr. Cfr. L. LANDUCCI, Il diritto di proprietà e il diritto di caccia presso i romani, pp. 310

ss 489

Sul consortium ercto non cito e i rapporti storici con la societas, si vedano, M. BRETONE, Consortium’ e ‘communio, in “Labeo” 6 (1960), pp. 163 ss.; A. TORRENT, Consortium ercto non cito, in “Anuario de historia del derecho español” 34 (1964), pp. 479 ss.; M. KASER, Neue Literatur zur societas, in “Studia et Documenta Historiae et Iuris”41 (1975), pp. 278 ss. 490

491

Cfr. M. BRETONE, Consortium’ e ‘communio, pp. 163 ss. Cfr. G.M. PINTUS, Sacrifici animali e dèi di coccio (Arn., adv. nat. VII), p. 1633.

228


zionata in De Civitate Dei X, 5 dove Agostino rinforza le disposizioni relative dell’estetico naturale dell’atto contemplativo con la significatività assoluta generata dal segno: « Hinc et alio loco psalmi alterius: Si esuriero, inquit, non dicam ti bi; meus est enim orbis terrae et plenitudo eius. Numquid manduca bo carnes taurorum aut sanguinem hircorum potabo? Tamquam diceret: utique si mihi essent necessaria, non a te peterem, quae habeo in potestate. Deinde subiungens quid illa significent: Immola, inquit, Deo sacrificium laudis et redde Altissimo vota tua et invoca me in die tribulationis, et eximam te et glorificabis me. Item apud alium Prophetam: In quo, inquit, adprehendam Dominum, assumam Deum meum excelsum? Si apprehendam illum in holocaustis, in vi tulis anniculis? Si acceptaverit Dominus in milibus arietum aut in de nis milibus hircorum pinguium? Si dedero primogenita mea impieta tis, fructum ventris mei pro peccato animae meae? Si annuntiatum est tibi, homo, bonum? Aut quid Dominus exquirat a te nisi facere iu dicium et diligere misericordiam et paratum esse ire cum Domino Deo tuo? Et in huius Prophetae verbis utrumque distinctum est satisque declaratum illa sacrificia per se ipsa non requirere Deum, quibus significantur haec sacrificia, quae requirit Deus”492.

L’estetico delineato dal mondo del sacrificium laudis acquista la sua specificità, cioè la sua indipendenza dalla prassi appetitiva, soltanto sulla scena della Immolatio, dove il desiderio del pericolo mimetico ci porta non più ad una risoluzione violenta ma alla contemplazione del segno493: “In Epistula, quae inscribitur ad Hebraeos: Bene facere, inquit, et communicatores esse nolite oblivisci; talibus enim sacrificiis placetur Deo . Ac per hoc ubi scriptum est: Misericordiam volo quam sacrifi cium nihil aliud quam sacrificium sacrificio praelatum oportet intellegi; quoniam illud, quod ab omnibus appellatur sacrificium, signum est veri sacrificii. Porro autem misericordia verum sacrificium est; unde dictum est, quod paulo ante commemoravi: Talibus enim sacrificiis placetur Deo. Quaecumque igitur in ministerio tabernaculi sive templi multis modis de sacrificiis leguntur divinitus esse praecepta, ad dilectionem Dei et proximi significando referuntur. In his enim duobus praeceptis, ut scriptum est, tota lex pen det et Prophetae494. 492

Cfr. AGOSTINO, De Civitate Dei,cit. p.445

493

Cfr. ivi, cit. p.446

494

Cfr. ivi, cit. p.446

229


Tuttavia è interessantissimo il fatto che Agostino d’Ippona pone il sacrificium laudis proprio all’origine della Civitatis Dei richiamando un principio fondamentale della giurisprudenza latina dello ius naturale che omnia animalia docuit, della cultura giuridica romana: il rifiuto dei sacrifici di animali è proprio la individuazione di un diritto (ius naturale) comune a uomini e ad animali in cui secondo Cicerone deve essere stabilito il fondamento della stessa civis romana. Per Agostino, infatti, quando tutta la città, ossia l’assemblea e la società dei santi, sarà redenta, allora “sarà offerta a Dio come un sacrificio” (Civitate Dei, x, 6)495: “Proinde verum sacrificium est omne opus, quo agitur, ut sancta societate inhaereamus Deo, relatum scilicet ad illum finem boni, quo veraciter beati esse possimus. Unde et ipsa misericordia, qua homini subvenitur, si non propter Deum fit, non est sacrificium. Etsi enim ab homine fit vel offertur, tamen sacrificium res divina est, ita ut hoc quoque vocabulo id Latini veteres appellaverint. Unde ipse homo Dei nomine consecratus et Deo votus, in quantum mundo moritur ut Deo vivat, sacrificium est. Nam et hoc ad misericordiam pertinet, quam quisque in se ipsum facit. Propterea scriptum est: Miserere animae tuae placens Deo. Corpus etiam nostrum cum temperantia castigamus, si hoc, quem ad modum debemus, propter Deum facimus, ut non exhibeamus membra nostra arma iniquitatis peccato, sed arma iustitiae Deo , sacrificium est. Ad quod exhortans Apostolus ait: Obsecro itaque vos, fratres, per miserationem Dei, ut exhibeatis corpora vestra ho stiam vivam, sanctam, Deo placentem, rationabile obsequium ve strum . Si ergo corpus, quo inferiore tamquam famulo vel tamquam instrumento utitur anima, cum eius bonus et rectus usus ad Deum refertur, sacrificium est: quanto magis anima ipsa cum se refert ad Deum, ut igne amoris eius accensa formam concupiscentiae saecularis amittat eique tamquam incommutabili formae subdita reformetur, hinc ei placens, quod ex eius pulchritudine acceperit, fit sacrificium! quod idem Apostolus consequenter adiungens: Et nolite, inquit, conformari huic saeculo; sed reformamini in novitate mentis vestrae ad probandum vos quae sit voluntas Dei, quod bonum et bene placitum et perfectum . Cum igitur vera sacrificia opera sint misericordiae sive in nos ipsos sive in proximos, quae referuntur ad Deum; opera vero misericordiae non ob aliud fiant, nisi ut a miseria liberemur ac per hoc ut beati simus (quod non fit nisi bono illo, de quo dictum est: Mihi autem adhaerere

495

Cfr. ivi, cit. p.447

230


Deo bonum est ): profecto efficitur, ut tota ipsa redempta civitas, hoc est congregatio societasque sanctorum, universale sacrificium offeratur Deo per sacerdotem magnum, qui etiam se ipsum obtulit in passione pro nobis, ut tanti capitis corpus essemus, secundum formam servi. Hanc enim obtulit, in hac oblatus est, quia secundum hanc mediator est, in hac sacerdos, in hac sacrificium est”.

Da un punto di vista esegetico la redazione del testo risente fortemente della linguistica e della tematica sul rifiuto del sacrificio di animali di Varrone e in Seneca. Arnobio attribuisce a Varrone l’opinione secondo cui gli dei non desiderano, né tantomeno reclamano sacrifici di animali496: Arnobio, nat. 7,1: “Quid ergo, dixerit quispiam, sacrificia censetis nulla esse omnino facienda? Ut vobis non nostra, sed Varronis vestri sententia respondeamus, nulla. Quid ita? quia, inquit, dii veri neque desiderant ea neque deposcunt, ex aere autem facti, testa, gypso vel marmore multo minus haec curant: carent enim sensu; neque ulla contrahitur, si ea non feceris, culpa, neque ulla, si feceris, gratia”

.

A Seneca, Lattanzio ascrive il rifiuto del sangue sacrificale497: Lattanzio, inst. 6,25,3: “Quanto melius et verius Seneca vultisne vos inquit deum cogitare magnum et placidum et maiestate leni verendum, amicum et semper in proximo, non immolationibus nec sanguine multo colendum – quae enim ex trucidatione immerentium voluptas est?”.

La costruzione di un diritto comune a uomini e ad animali come fondamento della civis è abbondantemente documentata: Cicerone498 e Seneca499, ma anche Lucrezio500 e Virgilio501, rifacendosi più o meno esplicitamente al pensiero filosofico greco, introducono di496

G.M. PINTUS, Sacrifici animali e dèi di coccio (Arn., adv. nat. VII), cit. p. 1634.

497

Cfr. ivi, cit. p.1636

498

Cfr. ivi, p. 1639.

499

Cfr. ivi, p. 1638.

500

Cfr. ivi, p 1634.

501

Cfr. ivi, cit. p. 1636

231


rettamente l’idea di un diritto comune a uomini e ad animali. Cicerone, nel De republica502, ricorda che Pitagora ed Empedocle ritenevano unica la condizione giuridica di tutti gli esseri animati: unam omnium animantium condicionem iuris esse denuntiant, e reputavano delittuosa l’azione di colui che arrecasse danno alle bestie: scelus est igitur nocere bestiae503: Cicerone, rep. 3,18-19: “Esse enim hoc boni viri et iusti, tribuere id cuique quod sit quoque dignum. Ecquid ergo primum mutis tribuemus beluis? Non enim mediocres viri sed maxumi et docti, Pythagoras et Empedocles, unam omnium animantium condicionem iuris esse denuntiant, clamantque inexpiabilis poenas impendere iis a quibus violatum sit animal. Scelus est igitur nocere bestiae, quod scelus qui velit”.

L’impiego del termine scelus, nel passo ciceroniano, per indicare l’azione di colui che procuri una offesa nei riguardi di un animale non umano, non priva il passo stesso della sua rilevanza giuridica, ma, al contrario, la rafforza, a causa del rapporto che tale termine assume con l’idea di un’unica condicio iuris fra tutti gli esseri animati, scongiurando, in tal modo, il pericolo di confinare l’idea della esistenza di un comune diritto, fra tutti gli esseri animati, in una dimensione meramente etica. Il ricorso al termine scelus, inoltre, consente di superare una logica puramente oggettivistica della condizione dell’animale, per esprimere, in modo particolarmente efficace, l’idea della tutela degli animali non umani e, dunque, la dignità di essi come esseri animati. Cicerone, nel De officiis, esprime ancora l’idea di un’unica condicio iuris fra tutti gli esseri animati504: Cicerone, off. 1,17,53-54: “Gradus autem plures sunt societatis hominum. Ut enim ab illa infinita discedatur, proprior est eiu-

502

Sulla definizione ciceroniana di res publica cfr. B. BRUGI, Cicerone giureconsulto, in “Rendiconti della R. Accademia dei Lincei” 29 (1920), pp. 117-124; U. BRASIELLO, Cicero ne avvocato, in “Rivista trimestrale di diritto e procedura civile” 13 (1959), pp. 561-575; G. CIULEI, War Cicero Jurist, in “Helikon” 29-30 (1989-1990), pp. 387-394. 503

L’importanza di Cicerone, nella diffusione delle concezioni di favore per la condizione animale, elaborate da Pitagora ed Empedocle, non può naturalmente essere messa in discussione, osservando che proprio tali concezioni erano avversate dall’autore. Si veda, a questo proposito, B BRUGI, Cicerone giureconsulto, p. 118. 504

Cfr. ivi, cit. p.119

232


sdem gentis, nationis, linguae qua maxime homines coniunguntur; interius etiam est eiusdem esse civitatis: multa enim sunt civibus inter se communia, forum, fana, porticus, viae, leges, iura, iudicia, suffragia, consuetudines praeterea et familiaritates multisque cum multis res rationesque contractae. Artior vero colligatio est societatis propinquorum; ab illa enim immensa societate humani generis in exiguum angustumque concluditur. 54 Nam cum sit hoc natura commune animantium, ut habeant libidinem procreandi, prima societas in ipso coniugio est, proxima in liberis, deinde una domus, communia omnia; id autem est principium urbis et quasi seminarium rei publicae”.

Egli, nel distinguere i vari gradi della società umana, dopo aver individuato il grado più generale in quella società caratterizzata dalla identità di gens, natio e lingua, elabora, in termini estremamente sintetici, il quadro vivo di quella particolare ipotesi di società umana che è la civitas505. Tale ipotesi si caratterizza per la coesistenza e la sintesi di elementi solo apparentemente disomogenei: essi proprio per il loro carattere differenziato (evidenziabili proprio nei quadri architettonici e giuridici: il forum, i fana, il porticus, le viae, da un lato, e le leges, i iura e i iudicia, i suffragia e le consuetudines, dall’altro), appaiono gli elementi concreti della vita giuridica e sociale della civitas stessa, la quale in quegli spazi doveva trovare, sul piano concreto della costituzione materiale, una espressione naturale. Non a caso, il quadro si chiude con un cenno alla sintesi degli interessi e delle relazioni sociali fra i cives che tali spazi architettonici e giuridici consentono e rendono vivi: familiaritates multisque cum multis res rationesque contractae. La vera e propria chiave di lettura della classificazione ciceroniana dei vari gradi della società umana risiede nella individuazione del carattere naturale delle diverse forme di società comuni agli uomini e agli altri esseri animati. Tale chiave prospettica appare in maniera evidente nel proseguo del passo del De officiis, ove è proprio la naturalità del comportamento dell’uomo a unirsi in società coi suoi simili che permette a Cicerone di individuare una prospettiva ancora più ampia di quella dalla quale egli si era mosso, spostando l’attenzione, attraverso un rilievo specifico qual è quello della parente-

505 Sulla nozione di civitas in Cicerone si vedano: P. RODRÍGUEZ, El significado de civitas en Cicerón, in “Veleia” 7 (1990), pp. 233 ss.; P. CATALANO, Una civitas communis deorum atque hominum: Cicerone tra temperatio reipublicae e rivoluzioni, in “Studia et Documenta Historiae et Iuris” 61 (1995), pp. 723 ss.

233


la, dalla societas umana a quella evidentemente più generale degli altri esseri animati: “Nam cum sit hoc natura commune animantium ut habeant libidinem procreandi prima societas in ipso coniugio est proxima in liberis deinde una domus communia omnia id autem est principium urbis et quasi seminarium rei publicae”506.

Qui il legame fra gli esseri animati si esprime nel richiamo all’istinto alla procreazione, considerato come il fattore di altre società: da quella del coniugium, a quella dei liberi, e quindi a quella della do mus e delle altre res communes. E il vincolo che contraddistingue tali società è talmente importante da costituire il principium urbis e il seminarium rei publicae. Ed è così che Cicerone può operare un salto prospettico dal piano generale, con il quale aveva esordito, della identità di gens, natio e lingua, a quello particolare della colligatio propinquorum, nel cui ambito familiare e quotidiano, e proprio per questo reale, si esprime quella che a lui stesso doveva apparire l’idea inmensa, e per questo troppo distante, della societas umana. La prospettiva della riflessione ciceroniana non è dunque dissimile da quella adottata da Ulpiano nella definizione del ius naturale come ius comune a uomini e ad altri esseri animati, ove è evidente, per quel riferimento alla coniunctio, alla procreatio e alla educatio liberorum, il parallelismo con la riflessione di Cicerone, in tema di coniugium e di societas liberorum507. Anche in un brano del De clementia di Seneca508 si parla di un commune ius animantium509 e si trae da esso argomento a difesa della stessa condizione umana: 506

Cfr. ivi, p.724.

507

Cfr. N. WOOD, Cicero’s Social and Political Thought, UCLA Press, Berkeley-Los Angeles London 1988, pp. 70 ss.; D.H. VAN ZYL, Cicero and the Law of Natural, in “South African Law Journal”, 103 (1986), pp. 55-68; F. FONTANELLA, “Ius pontificum, ius civile e ius na turae nel De legibus II, 45-53”, in “Athenaeum”, 84 (1996), p. 260. 508

Su Seneca “giureconsulto” si vedano: J. SANTA CRUZ TEIJERO, Séneca y la esclavitud, in “Anuario de historia del derecho español”, 14 (1942-1943), pp. 612 ss.; J. MURILLO RUBIERA, Las ideas juridicas de Séneca, in “Revista general de legislación y jurisprudencia”, 115 (1967), pp. 32 ss.; F. HERNANDEZ-TEJERO, El pensamiento iuridico en Seneca de be neficiis, in “Revista de la Facultad de Derecho de la Universidad de Madrid”, 12 (1968), pp. 7 ss.; R.A. TORTORA, La ‘inferiorità’ del diritto nel pensiero di Seneca, in “Jus”, 26 (1979), pp. 98 ss. 509

Cfr. A. MANTELLO, Il sogno, la parola, il diritto. Appunti sulle concezioni giuridiche di Pao lo, in “Bullettino dell’Istituto di Diritto Romano”, 33 (1991), p. 401.

234


Seneca, clem., 1,18,2: “Servis ad statuam licet confugere! Cum in servum omnia liceant, est aliquid, quod in hominem licere commune ius animantium vetet.”

La concezione filosofica pitagorica ed empedoclea è riassunta da Cicerone e da Seneca attraverso l’uso di una terminologia, la quale non lascia alcun dubbio sul fatto che, al problema della condizione animale, fosse attribuita una precisa rilevanza giuridica. L’affermazione della esistenza di un’unica condicio iuris, fra tutti gli esseri animati, o di un commune ius animantium, apre la strada al riconoscimento di una fra le più alte espressioni della affinità fra uomini e animali non umani: il dovere dell’uomo di difendere attivamente la vita animale. Idea, anche questa, che doveva essere presente, in Roma, se è espressa in termini diversi, ma speculari, sul piano delle categorie giuridiche impiegate da Virgilio nel mito di Saturno, la quale storicizzazione gli consente di rappresentare l’età aurea come caratterizzata dalla assenza, oltre che della guerra, della proprietà privata, della servitù e dei sacrifici cruenti. Virgilio, nel manifestare la sua avversità per la guerra, che egli evita accuratamente di definire come iusta, esprime l’idea della estraneità della guerra, e, più in generale, dell’uomo dalla natura. Come ha osservato Wood, il frammento dell’Eneide, nel quale sono assieme presenti i termini bellum e ius, non solo non depone a favore di un “accostamento” fra essi, ma, al contrario, chiarisce gli elementi concreti del rapporto fra il ius e “la fine degli omnia bella ventura”510, in un quadro dal quale traspare l’idea che la pace rappresenti una condizione essenziale di esplicazione del ius:

Virgilio, Aen. 9,641-644: “Macte nova virtute, puer: sic itur ad astra, dis genite et geniture deos. Iure omnia bella gente sub Assaraci fato ventura resident, nec te Troia capit”.

510

Cfr. N. WOOD, Cicero’s Social and Political Thought, UCLA Press, Berkeley-Los Angeles London 1988, pp. 70 ss

235


La riflessione filosofica pitagorico-empedoclea, per il tramite di Cicerone, Seneca, Virgilio, si trasmette, dunque, ad Agostino d’Ippona. È notevole che proprio l’introduzione del passo del De republi ca ciceroniano (3,18-19), sopra riportato, sulla comunione giuridica tra uomini e altri animali – esse enim hoc boni viri et iusti, tribuere id cuique quod sit quoque dignum – ritorni nella notissima formula con la quale Agostino indicherà i principi fondamentali del ius511 della civitas Dei. Il tribuere id cuique quod sit quoque dignum del brano ciceroniano si pone, infatti, come precedente dell’impostazione agostiniana. Ed è anche notevole che l’idea della comunione giuridica tra uomini e altri animali, riecheggiata ancora una volta nella opera di Cicerone – questa volta nel De officiis (1,17,53-54) – ritorni in Agostino, precisamente nella concezione del sacrificio, ove è evidente per quel riferimento alla coniunctio, alla procreatio e alla educatio libero rum, il legame con la impostazione ciceroniana in tema di coniugium e di societas liberorum512. L’adozione di una terminologia differente per la designazione degli istituti, riservati agli uomini, e per i corrispondenti istituti comuni ad uomini e animali, se, da un lato, consente di accomunare tutti gli esseri animati513, dall’altro, permette di distinguere il piano del ius naturale da quello del ius gentium e del ius civile, in un quadro dal quale, comunque, pare emergere l’unità del sistema giuridico514.

511

Cfr. ivi, p. 72 ss.

512

Cfr. ivi, p. 92 ss.

513

Cfr. ivi, p. 112.

514

Cfr. A. QUACQUARELLI, Reazione pagana e trasformazione della cultura (fine del IV se colo d.C), in “Quaderni di Vet. Christ.” 29 (1986), pp.180ss.

236


EPILOGO

In De Civitate Dei x Agostino d’Ippona non solo abbraccia tutto il mistero sacrificale cristiano, che parte da Cristo, coinvolge la cristianità e si attualizza nell’eucaristia ma soprattutto comprende il sacrificium laudis come attuazione della Civitas Dei515. È la nascita di una cultura in cui si catalizza la possibilità di risoluzione della violenza e l’apertura verso una contemplazione fondamentale e appropriativa delle nostre radici biologiche e quindi del sacrificio stesso compreso tuttavia nella modellizzazione tipologica dell’auto-dono sacrificale di Cristo e di riflesso del modello tipologico sacrificale come luogo anamnetico della Morte e Risurrezione. Tuttavia lo specifico cristiano non consiste nel fatto di prendere come punto di partenza il corporale e il sensibile, comprensi come tipologie religiose, dal quale possono essere tratte, in una seconda fase, le astrazioni necessarie, bensì dal fatto che in “questa carne e questo sangue”, enucleate nella tipologia sacrificale cristocentrica, permangono le linguistiche estetico-rappresentative del vedere, dell’ascoltare, del toccare e del “gusto” del mangiare come atti stop making sense che accompagnano la comparsa e la scomparsa dell’atto libero e liberante del Corpus Ch risti, raccontato, tradito, tematizzato in una narrazione, stupenda e mirabile, che porta il titolo di Vita.

515

Cfr. ivi., pp.182 ss.

237


INDICE DELL’ESTRATTO

PREMESSA ALL’ESTRATTO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .pag.

7

SCHEMA DELLA TESI

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .pag.

9

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .pag.

12

BIBLIOGRAFIA

INTRODUZIONE

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .pag.

37

PARTE PRIMA: IL PROCESSO SACRIFICALE NELLE INTERPRETAZIONI ANTROPOLOGICO-CULTURALI CAPITOLO PRIMO La prospettiva sociobiologica e antropologica di W. Burkert: le “orme biologiche” del sacrificio cruento AVVIO METODOLOGICO: LE “ORME BIOLOGICHE” DELLA RELIGIONE E DELLA PRASSI SACRIFICALE . . . . . . . . . . . .pag.

1 L’HOMO

45

NECANS E L’ATTO DI UCCIDERE

COME ORGANIZZAZIONE SOCIALE E CULTUALE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .pag.

59 2 L’AGGRESSIVITÀ E LA VIOLENZA COME ORDINAMENTO E FORMA DI POTERE . . . . . . .pag. 72 3 IL SACRIFICIO NEL QUADRO DELLA TEORIA DEL DONO E DELLA SPARTIZIONE DEL PASTO RITUALE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .pag. 78 SINTESI

DEI RISULTATI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .pag.

86

CAPITOLO SECONDO La genesi del sacrificio come rito cruento nella prospettiva antropologica di René Girard AVVIO

METODOLOGICO

GLI ANTROPOLOGI CLASSICI E L’IDEA DI SACRIFICIO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .pag.

91

1 LE FONTI DEL PENSIERO DI GIRARD . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .pag. 2 LA RIVALITÀ MIMETICA E LA VIOLENZA COLLETTIVA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .pag. 3 LA RISOLUZIONE DEL CAPRO ESPIATORIO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .pag. 4 SMASCHERAMENTO DEL MECCANISMO VITTIMARIO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .pag. 5 VALUTAZIONE DEL METODO E DELLE IPOTESI GIRARDIANE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .pag.

99 103 107 116 121

SINTESI DEI RISULTATI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .pag.

12


CAPITOLO TERZO L’estetica sacrificale: smascheramento del sacrificio cruento e origine dell’arte dei linguaggi in Eric Gans (il passaggio all’estetica) AVVIO

METODOLOGICO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .pag.

139

1 LA MATRICE GIRARDIANA DI ERIC GANS . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .pag. 2 RIVALITÀ MIMETICA GIRARDIANA E L’ORIGINE MIMETICA DEL MONDO DEI SEGNI . . .pag. 3 IL CAPRO ESPIATORIO E L’ORIGINE DEL LINGUAGGIO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .pag. 4 L’ESTETICA SACRIFICALE: IL SACRIFICIO COME LUOGO IN CUI L’UOMO RICONOSCE IL LINGUAGGIO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .pag. 5 LA RILETTURA GANSIANA DEL SACRIFICIO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .pag.

144 149 156

CONCLUSIONE GENERALE DELLA PARTE ANTROPOLOGICA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .pag.

177

162 172

APPENDICE Liminale e liminoide in Turner come indicatori strutturali del passaggio dal sacrificio cruneto al sacrificio spirituale? AVVIO 1 2

METODOLOGICO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .pag.

187

LA PERFORMANCE SACRIFICALE COME STRUTTURA “TRASFORMATIVA” . . . . . . . . . . . .pag.

189

DAL SACRIFICIO COME PERFORMANCE TRASFORMATIVA LIMINALE AL SACRIFICIO CRISTOCENTRICO COME PERFORMANCE TRASFORMATIVA LIMINOIDE . . . . . . . . . . . . . .pag. LA PERFORMANCE SACRIFICALE CRISTOCENTRICA COME COMMENTO METASOCIALE .pag.

192 195

SINTESI DEI RISULTATI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .pag.

196

3

PARTE SECONDA: ANALISI STORICO-TIPOLOGICA DEL SACRIFICIO COME RITO DRUENTO E PASSAGGIO AL SACRIFICIO COME ATTO SPIRITUALE SINTESI DEL CAPITOLO PRIMO Analisi storico-tipologica dei sacrifici nelle religioni antiche della mezzaluna fertile . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .pag. 201 SINTESI DEL CAPITOLO SECONDO Analisi storico-tipologica del passaggio del sacrifico da rito cruento a forma spirituale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .pag. 205 APPENDICE: SINTESI Il passaggio dal sacrifico cruento al sacrificio spirituale in Ger 7,2128: analisi esegetica e interpretazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .pag. 209


CONCLUSIONE GENERALE RETROSPETTIVA ANALITICA E SINTETICA E RILEVANZA DEI CONTRIBUTI PER IL MONDO CRISTIANO ANALISI 1 2 3

DELLA METODOLOGIA DI RICERCA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .pag.

211

DE CIVITATE IN SACRIFICIO SANGUINIS . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .pag.

212 218 LAUDIS . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .pag. 224

DE CIVITATE IN SACRIFICIO SPIRITUALI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .pag. DE CIVITATE IN SACRIFICIO

EPILOGO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .pag.

237


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