dissensus_teoria della pratica

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teoria della pratica.

Serena Girani Demetrio Scopelliti


Estratto. Denunciando le generiche e deliranti teorizzazioni di Koolhaas sulla via intrapresa da architettura e pianificazione contemporanea, verso uno sviluppo frenetico quanto disperso della città come sintomo di una crisi percettiva tipica della post-modernità, la tesi è un tentativo di ricomposizione della struttura fondante la disciplina attraverso l'analisi della città globale, oggetto della recente esposizione della Biennale di Venezia con come tema Città, architettura e società. A tal scopo risulta necessario reindirizzare l'operato dell'architetto contemporaneo, per un rifiuto della diffusa pratica di star-operatore di mercato e studio-impresa vincolata al sistema economico del capitalismo avanzato, verso una nuova dimensione intellettuale strategica, riconsiderante l'identità urbana e la sua naturale necessità di spazio pubblico, che sappia rivoluzionare la disciplina attraverso una reinterpretazione dell'evoluzione attuale, evidentemente distorta. L'utopia cerca la sua dimensione pratica, la critica assume i caratteri di un progetto: oggetto di studio è Milano, che, con le grandi trasformazioni in atto in vista dell'Expo del 2015, rischia oggi di vedere alterata la propria identità a favore degli speculativi interessi di mercato dell'operatore privato. Reinterpretando le tesi dei Social Forum e le pratiche dei movimenti partecipativi diffusi in tutto il mondo, l'obiettivo è la formazione di una coscienza sociale per una riconsiderazione di una città inscritta nel suolo, mediante la possibile creazione di un gruppo di ricerca interno alla struttura universitaria che sappia restituire consapevolezza alla gente e responsabilità etica alle istituzioni, a partire proprio dal dialogo e la partecipazione con la sua struttura morfologica urbana più importante eppure spesso dimenticata: il cittadino.

Indice. A cura di Demetrio Scopelliti - Crisi. - Delirio di una città generica. - Città, architettura e società. - Per chi suona la campana. - Rievoluzione. - Note. A cura di Serena Girani - Per una critica operativa. - Milano 2015. - Opera aperta. - Riferimenti. - Un progetto partecipativo per Milano. - Appendice. - Note.


“Los intelectuales aspiramos a ser agentes morales y no meros servidores del poder” Oriol Bohigas Crisi. Una città convulsa in una congestione perpetua, priva della riconoscibilità caratterizzante del sistema di permanenze a favore di uno episodico fatto di isole, fondato su un concetto lobotomizzante di involucri autodimostrativi, autocitazionali, automonumentali. Il suo unico intento è stimolare lo stupore emotivo, il perturbante, un incontrollato desiderio emozionale procurato attraverso una sistematica dimostrazione puramente edonistica della tecnologia. L'apparente dichiarazione di una multifunzionalità verticale, l'apoteosi del grattacielo, che occulta una speculazione selvaggia, che sancisce la morte del disegno urbano, l'arresa dell'architettura. “L'architettura è diventata l'arte di progettare travestimenti che non rivelano la vera natura degli interni ripetitivi ma che scivolano subdolamente nel subconscio per svolgere il loro ruolo di simboli”. 1 Passano vent'anni e la città si spoglia della sua identità, protratta verso un'omogeneizzazione intenzionale in cui arriva ad annullare la sua stessa storia in nome di una superficialità fondante la sua stessa assenza di principi. Una massa generica, frutto del ciberspazio urbano, la cui maggior attrazione è l'anonimia residuale in cui scorre incontrollata l'insostanzialità liquida del suo flusso. Rappresentazione ideologica della mediocrità, esaltazione della ridondanza, la morte definitiva della pianificazione. “Es fàcil. No necesita mantenimiento. Si se queda demasiado pequena, simplemente se expande. Si se queda vieja, simplemente se autodestruye y se renueva”. 2 Per quanto destabilizzante, il delirio diventa ogni giorno più reale, frutto di una sempre più decadente crisi percettiva dovuta ad un totale smarrimento della “visione poetica” necessaria alla ricostruzione di un possibile benessere naturale ormai perduto.3 La frammentazione del nostro vivere in un allarmante schizofrenico ideale di una necessaria continua, egoistica, e superficiale mutazione va di pari passo al concetto occidentale di sviluppo frenetico e insostenibile. Lo stretto legame con il contingente assume dimensioni sempre più gravi. Crisi di percezione significa aver perso di vista l'obiettivo, la visione poetica di un'utopica speranza di costruire qualcosa che tenda all'ansioso raggiungimento futuro di un'ideale perfezione. L'unica ansia oggi è quella del continuo stravolgimento di ogni valore a favore di una proliferazione massiva di derive sociali, politiche, culturali, artistiche, di cui la città, manufatto umano per eccellenza, rappresenta l'espressione fisica e più intellegibile. “Nella nostra attuale barbarie è operante una teologia estinta, un sistema di riferimento trascendente la cui morte lenta e imperfetta ha prodotto forme surrogate, parodistiche. Le strutture del decadimento sono tossiche. Viviamo attualmente in una post-cultura”. 4 Delirio di una città generica. Proprio in Delirious New York, Rem Koolhaas interpreta questa crisi chiamandola penuria di realtà, ovvero determinando una realtà carente causata dalla densità metropolitana, un sempre più rapido processo di consunzione della realtà naturale e artificiale tale per cui tutto sarebbe già noto, categorizzato e catalogato. Ciò che però risulta assolutamente sorprendente è l'incredibile esasperazione data dall'individuazione di un unico possibile rimedio: un continuo riciclaggio concettuale interpretativo di falsi eventi, di realtà artefatte.


“Riprodurre esperienze e sensazioni; sostenere illimitate rappresentazioni rituali che esorcizzano i flagelli apocalittici della condizione metropolitana”. 5 La figura dell'architetto sveste in fretta e furia il proprio ruolo sociale di trascinatore e utopista e diventa succube del potere delle masse. Denudato di ogni responsabilità, egli alleggerisce e semplifica il proprio ruolo a quello di inventore di nuove realtà eccezionali, creatore di mondi fittizi fondati su di un'urbanistica edonistica e le innovazioni della tecnologia del fantastico. Al di là di ogni esagerazione romanzesca la proposta assumerà una dimensione realistica sconcertante e quanto mai pericolosa di lì a breve. “L'architettura moderna si sta riducendo al lumicino per attrarre quanta più attenzione possibile e sforzarsi di creare divertimenti. Il fenomeno conduce alla sovrapposizione di aspetti di importanza fondamentale da un lato e di capricci architettonici dall'altro”. 6 Il Manhattanismo, di cui Koolhaas si impegna a scrivere l'interessato manifesto retroattivo, è proprio la teoria di una cultura urbana metropolitana, di un mondo creato interamente da e per la fantasia degli uomini, “la capitale dell'Ego, nella quale scienza, arte, poesia e forme di follia competono per inventare, distruggere, restaurare il mondo della realtà fenomenica”. 7 Si tratta della sublimazione di un'esigenza speculativa che diventa una poetica cultura della congestione, la cui unica regolazione, la griglia, ne promette una formazione episodica costante secondo ogni possibile variante formale fondata sull'uso della tecnologia del fantastico. L'involucro assume il peso specifico stesso dell'architettura, liberandosi attraverso la lobotomia di ogni necessità di contenuto, abbandonandosi allo stimolo dell'irresistibile artificiale delle masse che ne determinano la condizione di automonumento. Una volta destrutturata la figura dell'architetto, e insinuata la necessità di un'architettura della condizione metropolitana – OMA, Office for Metropolitan Architecture – attraverso quello che in realtà non è che il proprio personale manifesto, Koolhaas necessita di demolire persino la città semplicemente liberandola di ogni contenuto, imponendogli una condizione fondamentalmente insostanziale, immateriale, che ne permetta la massima possibile esasperazione speculativa. La Città Generica. A patto di una necessaria liberazione globale da ogni ricordo legato all'identità, vittima della crescita demografica esponenziale, la città può infatti finalmente produrre quel processo di omogeneizzazione intenzionale che sembra esserne l'unica e costante preoccupazione verso una trance di esperienze estetiche – o violenze estetiche – che induca ad un'allucinazione della normale percezione. Anonima nella sua stessa essenza, la Città Generica trova la sua rappresentazione più caratterizzante nell'aeroporto, concentrato dell'iper-locale come dell'iper-globale, idealizzazione dell'assoluta mancanza di sostanza secondo il continuo stato di transito del suo essere fluttuante. Il suo ambito pubblico è il Residuo Edenico, rifugio dell'illegale e dell'incontrollabile secondo una deterministica morte della strada; la sua tipologia architettonica finale e definitiva il grattacielo, simbolo globale la cui esistenza è possibile e riproducibile ovunque; la sua storia risulta ridotta ad un'associazione di ricordi generali, un deja vù generico. L'infinita contraddizione è ciò che ne dimostra la ricchezza. L'assunzione di una post-modernità diventa addirittura democratica, in quanto espressione totale dell'incosciente contro i fantasmi della coscienza di cui Koolhaas grottescamente cerca di liberare sé stesso e l'umanità. E' il manifesto della mediocrità, della post-cultura, sulla cui onda Koolhaas si autolegittima come surfista.


Città, architettura e società. “Per la prima volta nella storia dell'umanità, la maggior parte degli abitanti del pianeta conduce una vita urbana. Le proiezioni ci dicono che questa tendenza si protrarrà: secondo le previsioni nel 2050 si sarà concentrato nelle città il 75 per cento della popolazione globale, che risiederà per lo più in megalopoli di svariati milioni di abitanti e in regioni a intensa urbanizzazione che si estendono oltre i confini degli stati e dei continenti”. 8 Nel 2006, la 10a Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia, si propone un congiunto di analisi e soluzioni al fenomeno urbano a livello globale, e quindi di per sé dichiaratamente generalizzante, in risposta all'esplosione demografica e/o fisica da tempo in atto nelle maggiori megalopoli del pianeta secondo un analisi di un campione internazionale delle stesse. La ricerca, tesa all'individuazione di strategie globali in risposta alle problematiche comuni riguardo l'equità sociale e l'ecocompatibilità, si propone come una frammentaria e parziale costellazione di opinioni di economi, architetti, sociologi, artisti e urbanisti, utile però ad una semplice ed immediata deduzione della focalizzazione dei concetti chiave, del clima e delle possibili proposte su cui oggettivamente si focalizza il dibattito - più o meno accademico - contemporaneo sulla città. La questione considerata ad un tal livello globale non può estraniarsi innanzitutto da un discorso prettamente economico, riguardo la trasformazione della città da centro produttivo a centro finanziario sino alla presenza sempre più imponente e chissà necessaria di una rete geografia economica “intercittà” tanto fisica quanto eterea. Inutile esplicare come la struttura economica sociale sia da sempre non solo intrinsecamente legata, ma addirittura fondante i processi urbani stessi. Allo stesso modo, secondo la tesi dell'economa Saskia Sassen, oggi assistiamo ad un profondo cambio del fenomeno urbano come conseguenza di una proliferazione di schemi finanziari e organizzativi che incontrano nella metropoli un ruolo strategico fondamentale. Paradossalmente, quanto più le operazioni di un'azienda sono globalizzate e il suo prodotto digitalizzato, tanto più complesse diventano le funzioni di coordinamento di tali circuiti economici della sua sede centrale che necessita quindi di un'interazione di centralità e densità abitativa secondo un significato strategico del tutto nuovo: “La densità dei luoghi centrali fornisce la connettività sociale che consente a un'azienda o a un mercato di massimizzare i vantaggi derivanti dalla sua connettività tecnologica”. 9 Questo fenomeno diventa creatore di un omogeneizzazione del paesaggio urbano, di cui un sistema infrastrutturale di quartieri di uffici ultramoderni, aeroporti, alberghi, servizi e complessi residenziali in cui sia garantito il requisito di una vita di lusso, sembrano fisicamente imporsi sulle necessità di fruitori meno potenti: spazi che fanno parte della città eppure ne rimangono estranei alle logiche e agli schemi spaziali. Eppure la combinazione di una crescente disparità di guadagni e delle capacità di realizzare profitti caratterizzanti il capitalismo avanzato, apre le porte ad un sistema informale di attività economiche incorporate e complementari all'economia più avanzata. Si tratta di una sorta di deregolamentazione a basso costo, espressa sotto forma di un'emergente economia informale dovuta all'incapace sopportazione di capillarizzazione a livello globale del sistema formale. Anche a livello spaziale accade lo stesso: la presenza di una situazione urbana derivante dal conflitto tra strutture imponenti e realtà semi abbandonate, i cosiddetti terrains vagues, diventa possibilità di sviluppo di una riconsiderazione dello spazio pubblico individuata dalla Sassen come bisognoso di essere creato mediante la collaborazione tra architettura e disegno urbano e le pratiche e le soggettività degli individui, in particolare di quelle minoranze discriminate che in questo modo possono arrivare a conquistare una presenza all'interno della città, da sempre luogo di rivendicazione delle politiche informali stesse, le cui lotte per i diritti risultano tanto


quotidiane e visibili nella dimensione urbana quanto distanti ad un sistema burocratico nazionale o sovranazionale. La città sta cambiando, ma questa trasformazione va colta come un arricchimento, come una nuova possibilità, quanto più possibile distante dalla concezione nichilistica di un tutt'uno generico e informe. Una dimensione alternativa, ma non meno essenziale, di un sistema di riappropriazione della città è possibile proprio grazie alle carenze della sua macrostruttura economica e conseguentemente sociale, così globale da non saper arrivare nel particolare quanto può fare la sfera locale, di cui qualunque sistema globale continuerà ad avere bisogno come complemento di sé stesso. Il possibile epicentro di tale alternativa potrebbe essere considerato proprio la periferia, il sobborgo, attraverso una sua possibile riconsiderazione a partire da una ricomposizione del suo rapporto antitetico a quello della centralità, verso una ridefinizione e ridistribuzione di valori che ne stravolgano la condizione assertiva di dipendenza verso una di maggior integrazione e collaborazione. “Penso che questa frattura sarà causa di ulteriori tensioni, ma evidenzierà anche un'evoluzione in cui i contesti suburbani potranno forse derivare un vantaggio dai propri problemi e, persino, assumere un ruolo di guida nel pensare le strutture sociali per il futuro”. 10 La riconsiderazione della sfera pubblica è quindi la matrice fondante di ogni processo di interazione tanto spaziale quanto sociale. Il margine, la frontiera tra le diversità, acquisisce a questo proposito un ruolo essenziale quale vera possibile zona d'incontro, grazie alla sua caratteristica di convivenza di porosità e resistenza. “E' mia convinzione che si debbano trovare modi di progettazione basati su un'idea della strada come ambiente in cui coesistono porosità e resistenza piuttosto che come spazio senza valore di flusso non impedito”. 11 Assumendo la veste di creatori di città, creiamo infrastrutture che producono il paradosso urbano, secondo la definizione dello stesso Richard Burdett, direttore della mostra veneziana: una composizione equivoca tra confronto e promesse, tensione e alleviamento, coesione sociale ed esclusione, ricchezza urbana e intensa miseria. Attraverso lo studio delle nuove forme di trasporto e di progettazione urbana, le loro possibili conseguenze sulla giustizia e l'equità sociale, esaminando i rapporti fra forma della città e sostenibilità, e soprattutto comprendendo il potenziale coesivo degli spazi pubblici, è possibile una trasformazione radicale della vita della popolazione, egli afferma. Da Barcellona a Bogotà, da Chicago a Caracas, la mostra offre in realtà uno scenario politico-culturale abbastanza contraddittorio, diviso tra la speranza di una possibile risoluzione del paradosso da un lato, incentrata sulla volontà comune di affermazione di una responsabilità etica e oggettiva cui far fronte, ed una profonda incentivazione ed accentuazione consapevole dello stesso dall'altro, a capo del quale movimento spesso sono proprio gli architetti, vittime della smaniosa perdizione per cui “in mancanza di un contesto significativo ci si debba limitare a sfruttare il massimo il budget, il cliente, l'ingegnere e il programma nella speranza di qualcosa di straordinario”. 12 Per chi suona la campana. “Non si sente più parlare di consenso storico-sociale. Suoniamo i campanelli d'allarme!” 13 Una perdita cosciente dei valori fondanti la disciplina architettonica è al culmine del suo processo più selvaggio e incontrollabile, riscontrabile in un'accurata teorizzazione di affermazione ed elogio della tendenza esplosiva e disordinata della città, imposta dal sistema di interesse del mercato iper-capitalista alle necessità collettive. L'ipocrisia di tali teorie soddisfa così un duplice obiettivo: da un lato la possibile proliferazione di un'architettura capricciosa all'infinito, autonoma, liberata da ogni legame di responsabilità con la realtà e le sue esigenze, attraverso una progettazione senza il vincolo della


preesistenza e il peso dell'identità. Dall'altro, l'adesione ad uno sconcertante programma politico di considerazione dello spazio pubblico come di un fattore d'agglomerazione sociale e identitaria e pertanto pericolosa secondo una filosofia conservatrice distorta di convivenza in libertà.14 Ci troviamo di fronte ad un sistema subdolo di disonestà intellettuale dalle proporzioni sconsiderate e dalle conseguenze catastrofiche. Accantonato il ruolo di costruttore del mondo, l'architetto diventa imprenditore di sé stesso, mercante della propria poetica. E' il segreto degli architetti di Manhattan rivelatoci da Koolhaas, ovvero una sublimazione da parte di una generazione di architetti di un'esigenza strettamente e semplicemente speculativa. Ben lontani dall'identificare alcuna indicazione reale possibile in merito alla natura da attribuire alla città, se non addirittura arrivando a mascherarla secondo fini programmatici puramente autoreferenziali, le star del merchandising architettonico si preoccupano solo della propria architettura, talmente intrinseca di un ridondante valore di falsa spettacolare innovazione puramente formale, per cui, gettandola nell'acqua, inevitabilmente si ritrovano ad ottenere la schiuma necessaria perché il meccanismo funzioni e continui a funzionare. Il pericolo è duplice: una crisi di percezione del naturale confronto con il ben più ampio ambiente urbano, attraverso irrilevanti mutazioni rispetto all'enorme estensione generale della creazione urbana; la perdita di una possibile familiarità tra l'uomo e il suo luogo, legata alla memoria e all'identità comune. “Sono strutture che ci riducono alla condizione di voyeur”. 15 Solo una piccola percentuale della produzione edilizia è legata all'architettura. E dovrebbe essere proprio quella piccola percentuale a disegnare la via per la definizione di uno Zeitgeist capace di ispirare una cosciente, consapevole e responsabile produzione minore. La convinzione è quella di una città che a fatica rimane in piedi in seguito ai bombardamenti dell'architettura dello spettacolo, tesi a demolirne l'essenza stessa del suo essere, il suo riconoscersi nel monumento, nella permanenza, nella sua natura di opera d'arte della collettività. 16 La violenza della sua estetica, che la ritrae in oscurità, cupa, silente come fosse in costante attesa di un'apocalisse purificatrice, prolifera nella perversa ripetizione delle visionarie intuizioni del fantascientifico Blade Runner di Ridley Scott, fino alla rappresentazione dell'alienazione della natura umana a replicante di sé stessa. Ma l' origine da un fluido generico della città di Koolhaas crolla proprio di fronte alla forza identitaria di cui egli ha dichiaratamente bisogno di doversi disfare. La città ha una natura intrinsecamente umana, non secondo un'idea legata a chissà quale organicismo, ma secondo una presenza mutevole e indissolubile di un'identità in costante evoluzione. E' un formicaio di identità dato dal fatto stesso che è l'uomo stesso a produrla. Come nella vita di un individuo, essa cresce, cambia, muta, magari arrivando a dissolversi salvo poi riapparire sotto altre forme. Può arrivare persino a perdere la percezione di sé stessa forse. Ma la collettività del fatto urbano, artificiale nel senso più poetico del termine, ovvero umano, perdura e rimane, cambia, e se muore si riproduce. Il ruolo dell'architetto non è che d'interpretazione di questa identità, a volte vocativa, altre costruita, altre ancora in continua mutazione. Dalla sua figura dipende soprattutto la soddisfazione di due bisogni fondamentali dell'uomo: l'esigenza collettiva e l'esigenza di spazio pubblico, per i quali altrimenti l'individuo lotterà autonomamente fino a riappropriarsene. “Existe una respuesta colectiva que se presenta regularmente en la historia de la ciudad y del urbanismo cuando las formas del crecimiento urbano o la evoluciòn de la ciudad existente dan prioridad a la edificaciòn y/o a la vialidad, cuando los espacios se especializan debido a la segregaciòn social o a la zonificaciòn funcional, cuando la ciudad pierde cualidad de autorrepresentaciòn. Es una reacciòn social y cultural de retorno al espacio pùblico”. 17


Rievoluzione. “En la ciudad no solo existen las facilidades para buscar y encontrar, sino también la de encontrar sin buscar (...) se trata de una acumulacion productiva, de una confluencia incluso conflictiva; si se quiere, de un auténtico sistema ecologico (...). (...)¿no creemos que los hombres y las mujeres poseen por naturaleza una condiciòn que los hace tender al agrupamiento, a las estructuras tribales? (...) La ciudad, quizà mas que la naciòn, es la culminaciòn de unas nuevas identidades de grupo indispensables para pasar de la vida 'barbara' a la vida 'civilizada' ”. 18 Le affermazioni di Bohigas suonano come l'apoteosi dell'affermazione del principio di una possibile riappropriazione della condizione di benessere naturale, oggi sempre più smarrita. E' il ritorno alla visione poetica. Mai come oggi è fondamentale riconsiderare la città come di una fatta di luoghi. Ma condizione previa necessaria è assumersi la responsabilità di una riconsiderazione dell'interstiziale, del residuo, del “non luogo”. Sarebbe assurdo infatti tornare ad un equazione tra la città e la gente senza prima averne risolto le contraddizioni. Come già detto, l'economia globale e con lei la città globale, non può permettersi di addentrarsi nello specifico lasciando un campo enorme all'informale, cui spesso spetta il compito, peraltro non facile, della creazione di spazi che rafforzino l'identità e al tempo stesso riconoscano le differenze. La necessità è quella di considerare come primari quelli spazi, che per la loro stessa natura si presentano come spazi di generica negazione. La via è presto tracciata, e consiste in una collaborazione reciproca tra architetti o urbanisti o designer urbani che siano, con quella stessa politica informale di cui solo la città si sa vestire, che poi non è altro che il potere della gente. L'equilibrio è però sottile, tra una proliferazione di spazi urbani iper-disegnati e la totale vacuità dello spazio stesso. Abbandonando la matita, l'architetto dovrebbe essere capace di ascoltare lui stesso in primis le necessità della comunità, prima ancora delle esigenze della committenza quando non della propria matrice poetica. Il principio è quello di una partecipazione il più possibile democratica, verso un totale ritorno al coinvolgimento dell'uomo nei suoi principi legati alla memoria e l'identità, con la complicazione di un sempre maggiore sistema di “diversi”, emarginati sociali, razziali, culturali, sessuali, politici, da prendere in considerazione come valore aggiunto. L'assertività di una struttura gerarchica di potere va sostituita da una nuova, in cui il potere è dato dall'influenza sugli altri in una rete di integrazione che è l'unica maniera di concepire un modo di vivere realmente sostenibile. 19 Solo attraverso un profondo cambio di paradigma sociale, avremo modo di ricomporre la crisi di percezione che ci ha reso beceri servi del potere economico in tutte le nostre forme del fare. Da qui la necessità di una fondamentale, quasi dogmatica, riconsiderazione della disciplina: non più solo a partire da imposizioni dall'alto, come oggi tanto di moda, quanto dallo strato fisico più calpestato, la terra, la strada, la pietra. I cittadini. E' quasi un ritorno alle origini. Il dovere è quello di non smettere mai di creare cultura, anche di fronte alla più becera negazione della stessa, e la capacità deve essere quella di una continua rete di trasmissione e scambio con la base. Una cultura partecipativa. Lontani da discorsi elitari fini a sé stessi, c'è bisogno di istruire una nuova coscienza sociale attraverso una riaffermazione del ruolo dell'intellettuale, a metà tra la critica e l'operatività, tra il totale rifiuto all'asservimento al potere e l'interpretazione reale, tangibile, del proprio tempo attraverso gli uomini del proprio tempo. E' una ri-evoluzione.


Note. 1

Koolhaas, Rem - 1978: “Delirious New York”. Barcelona: Gustavo Gili 2 Koolhaas, Rem - 1997: “The Generic City” . Domus 791 3 vd. Maturana, Humberto R. - 1995: “La realidad: ¿objectiva o construida? I.Fundamentos biologicos de la realidad.” Barcelona: Anthropos. 4 Steiner, George - 1971: “ Nel castello di Barbablu”. Milano: SE 5 Koolhaas, Rem - 1978: “Delirious New York”. Barcelona: Gustavo Gili 6 Robbrecht, Paul in: AA. VV. - 2006: “Città, Architettura e Società” vol. I e II. Venezia: Marsilio Editori 7 Koolhaas, Rem - 1978: “Delirious New York”. Barcelona: Gustavo Gili 8 Burdett, Richard in: AA. VV. - 2006: “Città, Architettura e Società” vol. I e II. Venezia: Marsilio Editori 9 Sassen, Saskia in: AA. VV. - 2006: “Città, Architettura e Società” vol. I e II. Venezia: Marsilio Editori 10 Hertmans, Stefan in: AA. VV. - 2006: “Città, Architettura e Società” vol. I e II. Venezia: Marsilio Editori 11 Sennett, Richard in: AA. VV. - 2006: “Città, Architettura e Società” vol. I e II. Venezia: Marsilio Editori 12 Chipperfield, David in: AA. VV. - 2006: “Città, Architettura e Società” vol. I e II. Venezia: Marsilio Editori 13 Robbrecht, Paul in: AA. VV. - 2006: “Città, Architettura e Società” vol. I e II. Venezia: Marsilio Editori 14 vd. Bohigas, Oriol (introduzione a): Borja, Jordi - 2001: “L’espai public: ciutat y ciutadania”. Barcelona: Diputaciò, Oficina Tecnica de Cooperaciò. 15 Chipperfield, David in: AA. VV. - 2006: “Città, Architettura e Società” vol. I e II. Venezia: Marsilio Editori 16 Rossi, Aldo - 1966: L'architettura della città. Milano: CittàStudi. 17 Borja, Jordi - 2003: “La ciudad conquistada.” Madrid: Alianza Editorial. 18 Bohigas, Oriol - 2004: “Contra la incontinencia urbana. Reconsideraciòn moral de la arquitectura y la ciudad.” Barcelona: Electa 19 vd. Capra, Fritjof - 1998: La trama de la vida. Editorial Anagrama, S.A., Barcelona.


Per una critica operativa UTOPIA? Non è forse il ‘sicuro’, il ‘reale’ l’utopia che nuota sullo stagno dell’illusione e della pigra abitudine! Non è forse il contenuto del nostro desiderio il vero presente che poggia sulla roccia della fede e della conoscenza! Si può disegnare la FELICITA’?...!...? Noi – tutti – la possiamo sperimentare – e COSTRUIRE. Bruno Taut, La dissoluzione delle città, 1920 E’ difficile parlare oggi, nell’era postmoderna e della post-cultura di utopia. Quando Taut scriveva, nel 1920, la civiltà stava subendo dei cambi strutturali profondi, e l’intellettuale si trovava questa parola tanto significante a portata di mano; parlare di un altro luogo, utopos, non significava parole nel vuoto. Oggi la memoria collettiva connette l’utopia a tutta una serie di promesse non mantenute, di “altri luoghi” mai realizzati, ma solamente esistiti nelle parole di intellettuali della classe colta della società. E tuttavia credo che la portata di questa altero-topia non sia da abbandonare. Ciò che dovremmo leggere in Taut oggi, non è tanto la ricerca di una pace e armonia definitiva dell’essere umano, di una perfezione sociale dove tutte le parti componenti la società stessa sono accontentate e vivono in un paradiso in terra costruito su valori assoluti ed universali. Al contrario dovremmo essere capaci di recepire proprio oggi quella forza sperimentale che l’architetto radicava nella parola: “Si può disegnare la FELICITA’?...!...? Noi – tutti – la possiamo sperimentare – e COSTRUIRE.” E’ vero, le grandi costruzioni filosofiche del Novecento che ponevano la felicità, la libertà e la realizzazione di tutti gli uomini, sono in parte fallite, nelle loro attuazioni del secolo passato si sono rivelate carenti. Tuttavia questo non può significare nichilismo. Si può ancora parlare di alternative alla realtà, anzi direi che è nostro dovere farlo. Registrare le problematiche del mondo nel quale viviamo, criticare la povertà del sistema socio-politico-economico nel quale ci troviamo è assolutamente necessario, ma ciò che è vitale è riconoscere che è possibile cercare delle alternative, sperimentarle, costruirle. Nelle arti come nell’architettura, nelle scienze come nell’economia, nelle lettere come nel giornalismo, nella filosofia come nella politica è necessaria una critica che non sia tuttavia distruttiva, annichilente. Il negare un modello ordinatore deve avvenire attraverso la proposta di una alternativa reale, della costruzione di una utopia già in corso. Definisco critica attuale e contemporanea, quella critica che sappia e possa essere al tempo stesso operativa. Carlos Martì Arìs scrive che la migliore critica di architettura è un progetto: oggi, presa coscienza del fatto che è avvenuto il crollo di tutti i valori assoluti, per cui ogni valore risulta relativo, onestà intellettuale significa saper agire secondo responsabilità, seppur consci della relatività della propria proposta, sempre pronti a migliorarsi e ricredersi. La tesi che intendo proporre assume dunque il carattere di progetto: con questo scritto voglio provare a rielaborare alcune conoscenze recentemente acquisite in modo che esse possano avere nella mia esperienza un riscontro pratico, e contemporaneamente approfondire in questo modo la loro portata teorica. Esperienza e realtà, teoria e pratica devono confluire nel tentativo di apportare il contributo individuale. Gli studi sullo sviluppo di una città globale - o meglio delle città del globo -, in molte delle sue problematiche e contraddizioni, sono elementi che mi portano a rifiutare radicalmente le proposte teoricoarchitettoniche dello star-system attuale, ossia la accettazione indifferente degli avvenimenti in corso e anzi l’avvallare e il controfirmare questo delirio di una città generica


attualmente in corso, secondo la filosofia del surfare l’onda, come disse Rem Koolhaas durante una intervista. Preferisco tornare ad un pensiero più strutturato, alla consapevolezza che “la città è la società inscritta nel suolo” 1 ossia è una produzione dell’uomo, costruita a partire dalle regole politico-economiche che governano la società, e che dunque nella migliore delle ipotesi dovrebbe essere un luogo per lo più pubblico, dove sia emancipata la vita dell’uomo in comunità, dove dovrebbe essere la società civile tutta – intendo per società civile l’insieme di tutte quelle minoranze, donne, bambini, movimenti sociali esistenti e di recente formazione, popolazioni indigene, ambientalisti, immigrati, etc. che insieme dovrebbero convergere a costituire la totalità o la maggioranza della popolazione 2 – a governare la sostanza di interscambi e di vita pubblica in essa presente. Milano 2015 Il campo di applicazione del progetto che mi sono preposta è Milano, della quale sono cittadina, che peraltro si presta particolarmente ad essere esempio di città “avanguardista”, ossia città globale, figlia di una cultura di annullamento delle identità, della crescita incontrollata, della prevaricazione del privato sul pubblico, dell’allontanamento delle istituzioni dai cittadini, della silenziosa cancellazione del diritto di partecipazione del singolo. Trascurerò volutamente una analisi della evoluzione storica della città, per non addentrarmi nel merito della critica a quella architettura dimentica della reale e primaria identità morfologica della città. Secondo quanto dichiarato a chiare lettere da Sofocle agli Ateniesi nell’Antigone, la città è la gente, e ovviamente il drammaturgo non intendeva in termini quantitativi di numeri o densità, quanto piuttosto come concentrazione più o meno grande, più o meno eterogenea di persone. Tale fondamento logico di realtà, oggi tuttavia è sempre più trascurato secondo il principio per cui la cittadinanza - e qui invece si focalizza il mio interesse - ossia la parte fondante la città stessa, sta completamente perdendo le sue caratteristiche di società civile attiva. Città scelta come futura sede dell'Expo del 2015, Milano sta vivendo e ancor maggiormente vivrà un'occasione di profonda rinnovazione, le cui premesse però appaiono tutt’altro che positive. I progetti di trasformazione della città oggi in atto, su tutti la riqualificazione dell’ex zonaFiera, i risanamenti di Milano S. Giulia e dell'ex area Falck del limitrofo comune di Sesto San Giovanni, rispecchiano infatti in pieno la prassi ormai sistematica di una rete chiusa di collaborazione interessata tra le istituzioni, i grandi gruppi immobiliari e architetti di fama mondiale. La rete è facilmente destrutturabile: l’istituzione politica semina consenso in nome di un’innovazione urbana fondata sul riecheggiare di nomi dello star-system del sempre più produttivo spettacolo architettonico, a loro volta liberi di esporre a cielo aperto e senza limite alcuno le loro ultime novità formali, simulacro di un benessere sociale privilegiato sponsorizzato dall’investimento di capitale dei predatori immobiliari. La dichiarata connivenza e partecipazione tra pubblico e privato non è che una favola presto disincantata. Con l’inaugurazione del Nuovo Polo Fiera fuori città, firmato Massimiliano Fuksas, lo storico quartiere Fiera ha lasciato spazio ad una riqualificazione urbana di 255m2, ridisegnato a partire da tre punti caratterizzanti così descritti: “un ampio parco di impronta naturalistica, anello indispensabile per la salvaguardia del verde tra San Siro e il Parco Sempione, un corso d’acqua che raccorda le due estremità del parco, e le Tre Torri, che costituiscono il simbolo forte della trasformazione.” Non serve continuare per smascherare ciò che si cela dietro questo pittoresco ridisegno bisognoso di un ritorno alla natura.


In primis la stessa base di concorso si fonda su criteri quantomeno discutibili. Una volta garantito il proprio dovere alla cittadinanza istituendo generiche dimensioni di uso del suolo, l’istituzione pubblica si chiama fuori dall’assegnazione del concorso secondo la più democratica e oggettiva delle scelte imprenditoriali. La busta chiusa, ovvero, naturalmente a patto di rispettare i “restrittivi” limiti prestabiliti, semplicemente e in poche parole: chi paga di più vince, per la gioia dei clienti (il Comune e la Fondazione Fiera). Poco importa se l’enorme superficie verde si estende in realtà come spazio semi pubblico di pertinenza dell’intorno abitativo - nemmeno dichiarato tra i principi caratterizzanti il progetto - di cui esso stesso permette una densità evidentemente maggiore rispetto all’intorno esistente. Poco importa quindi la qualità di un progetto rispetto ad un altro possibile, a maggior ragione se le firme che prevalgono poi sono quelle di architetti di lusso come Zaha Hadid, Daniel Libenskind e Arata Isozaki, architettonicamente meritevoli di appartenere al gruppo finanziario più forte. La città, il suolo pubblico dei cittadini, in tutto questo mai interpellati e completamente abbandonati persino dalla loro stessa amministrazione, viene venduta in nome dei tre simboli – tre Torri e non tre Grattacieli “che si rifanno alla tradizione che in Italia ha prodotto esempi di grande efficacia e di forte presenza urbana come il grattacielo Pirelli e la Torre Velasca nella stessa Milano” - che rappresenteranno il progetto figlio della più becera speculazione edilizia che impone le proprie leggi socio-architettonico-culturali al bene comune. La chiamano partecipazione tra pubblico e privato. Il progetto S. Giulia, invece, “restituirà alla città” la vasta area occupata fino agli anni ’60 dallo stabilimento Montedison e dalle acciaierie Redaelli nella zona sud orientale di Milano e a sud-est del quartiere di Rogoredo, vicino all'aeroporto di Linate e quindi fisicamente legata al sistema infrastrutturale di connessione milanese. “Il più grande progetto urbanistico d’Europa e il più importante intervento di riqualificazione urbana effettuato in Italia dal dopoguerra a oggi” (1.200.000 m2), vedrà la nascita di una nuova “città ideale” sponsorizzata dall’immobiliare Luigi Zunino nelle vesti della società Risanamento SpA, e firmato da Sir Norman Foster: “Nel progetto di Milano Santa Giulia ho voluto far confluire non solo le mie conoscenze e le esperienze del mondo dell’architettura, ma la mia visione della città del XXI secolo, un nuovo stile di vita, un futuro che nasce con una forte radice nel passato”. L’obiettivo dichiarato è naturalmente quindi quello di “rendere i gesti quotidiani dell’abitare e del lavorare un’esperienza sempre più piacevole, sposando un’estetica moderna ed elegante”. Foster sposa questo modello di vita futura, sostenibile, immersa nel verde, ricca di attività sportive e ricreative, autosufficiente però correlata con un sistema di infrastrutture privilegiato alla città, di cui rispetta la unica e inconfondibile tradizione urbana (vedi Milano 2 e Milano 3 promosse da tal Silvio Berlusconi), sviluppata secondo il più attuale mix funzionale e un immancabile grande parco, polmone verde della “città nella città”. Un sogno. “Milano Santa Giulia accoglierà edifici residenziali per soddisfare ogni necessità nel rispetto dei canoni della massima modernità e tecnologia”. Nemmeno il Berlin Britz di Taut fu capace di tanto. Ogni necessità. Ogni necessità o quasi, diciamo. Proprio proprio economica popolare no. “Un giardino privato protetto viene creato naturalmente dalla forma ellittica dell’architettura, dal livello rialzato degli edifici rispetto al parco, dagli ingressi controllati e dai sentieri esterni.” La nuova città ideale, chiusa in sé stessa però restituita alla città, per ogni necessità a partire da una normale ricca considerazione di possibilità minime di potere d’acquisto, introversa, limitata, vigilata, dispersa. Però con un grande parco. “Milano Santa Giulia è tutto questo. Milano Santa Giulia è una grande opportunità, sia dal punto di vista sociale che individuale. Per Milano rappresenta uno straordinario volano di sviluppo ed è la vera alternativa per chi ha una nuova idea di città”. La città privatizzata.


Infine il progetto Ex Area Falck, nella città di Sesto San Giovanni, comune adiacente a Milano sullo storico asse della città a Nord-Est, ovvero dove la infrastruttura ferroviaria unita al collegamento con le risorse minerarie delle Alpi permise al Capoluogo di avere un braccio produttivo. “Sesto San Giovanni è stata la città delle fabbriche. (…) Mi piacerebbe restasse fabbrica: una fabbrica di idee”. dichiara Renzo Piano, architetto incaricato del progetto (dopo che una serie di vicissitudini economico-politiche hanno fatto cadere altri progetti presentati). “Vedo dei centri di ricerca, vedo delle università, vedo dei giovani al lavoro e un vivaio di imprese in un contesto di nuovi mestieri” . Purtroppo l’architetto ci lascia all’oscuro dalle sue visioni, e mentre vede tutto questo paradiso di innovazione disegna sulla carta un progetto fatto di residenze, negozi e, naturalmente, “un grande parco”. E così oggi mentre le fabbriche di Sesto, dismesse dalla fine degli anni Ottanta, vengono abbattute, mentre sull’enorme terreno restante si iniziano a costruire le “Case Alte” firmate Piano, i cittadini di Sesto San Giovanni si dovrebbero domandare del loro futuro. Nella realtà Sesto si sta trasformando in una periferia benestante di Milano, tutto il patrimonio costituito dalla popolazione, ossia maestranze specializzate si andrà perdendo, e anzi molto probabilmente buona parte di questa stessa popolazione sarà costretta a lasciare la sua città a causa del caro prezzi sulle abitazioni che seguirà da qui a pochi anni. Opera aperta Il panorama dei progetti in corso non termina qui, ma tuttavia questi tre maggiori sono sufficienti a rendersi conto del disastro. Ma le proteste? Sporadiche, quando non praticamente assenti. Perché? Perché, come mi disse una volta un Sindaco, (seppur facente parte di una coalizione di sinistra), citandolo a braccio, “bisogna saper scendere a compromessi con il privato”. Bene, questi non mi sembrano affatto compromessi, quanto piuttosto una ritirata, una arresa. E' emblematico quanto indiscutibile: a Milano, la sfera pubblica soffre di un sentimento come di impotenza di fronte all'operatore privato. Se da un lato sembra evidente che la risposta pubblica non possa essere certo trovata a partire dalle istituzioni, se è vero che è proprio la sostanza dell'intera società civile a dover essere riformata, una possibile ripartenza invece, potrebbe offrirla l’ambiente universitario, ultimamente sempre più abituato a stare ai margini delle questioni, giudicandole e dissentendo da lontano, ma purtroppo senza quasi mai sporcarsi le mani della propria pura coscienza intellettuale. Non si tratterebbe certo di un rifiuto agli insegnamenti impartiti tra le mura universitarie, che anzi fondano un importante e sempre più raro strumento di lettura critica degli avvenimenti circostanti. Le esperienze trasmesse dal corpo docente sono anzi preziosi e fondamentali tasselli di quel mosaico individuale che ciascuno di noi dovrebbe costruirsi come personale cultura. Tuttavia, il continuo e pedissequo ripercorrere sempre gli stessi passi già percorsi quaranta o trenta anni fa, corre il rischio di diventare accademia. Affinché ciò non accada, i nostri discorsi, le azioni, i progetti non possono rimanere autoreferenzialmente chiusi nella ristrettezza dell'ambito della Facoltà stessa, quanto invece sapersi insinuare e riaprire al mondo esterno. Dobbiamo imparare ad ascoltare. Ed ecco che a questo punto si inserisce il progetto. Non si tratta di un programma di intervento completamente definito da mettere in pratica. Si ispira invece piuttosto ad un'idea di opera aperta, come direbbe Eco, della quale questo scritto vuole solo mettere nero su bianco una prima idea, il cui indirizzo di sviluppo tuttavia deve essere collettivo, progressivo, e quindi appunto aperto. L’obbiettivo finale risulta quindi la riconquista dello spazio pubblico, a partire dalla


concezione secondo cui lo spazio non è una entità data ma piuttosto è “prodotto e riprodotto attivo delle innumerevoli relazioni sociali” 3. Ci possiamo proporre dunque di “ricreare il concetto di cittadino, come soggetto della politica urbana, il quale si fa cittadino intervenendo nella costruzione e nella gestione della città” 4. Come studenti, assumendoci il ruolo di intermediari tra le istituzioni amministrative e la società civile, possiamo trovare e costituire una rete di informazione che, rendendo coscienti i cittadini, dia loro gli strumenti per intervenire attivamente nei dibattiti sulla progettazione della loro stessa città. Non si tratta di un desiderio rivoluzionario di ribaltamento della realtà in atto, quanto piuttosto di una ri-evoluzione 5 che parta dal basso, ovvero dalle piccole e concrete attività collettive. Riferimenti Ad ulteriore supporto ed esplicazione del sistema concepito, potrei mostrare gli esempi di quanto recentemente appreso in merito alle strutture partecipative formate da gruppi di artisti che lavorano in questo stesso senso di riconcezione e riconciliazione dello spazio pubblico al cittadino. Gli esempi sono svariati, ma un accenno particolare desidererei farlo in merito all'esperimento di Park fiction, ovvero all'iniziativa di un gruppo di artisti ad Amburgo, che, prendendo spunto dagli scritti di Lefebvre e dalle attività dei situazionisti, ha istituito un progetto partecipativo per la riappropriazione da parte del quartiere di Sankt Pauli di uno spazio libero per disegnare il suo parco urbano ideale; oppure l'esperienza dei Docklands di Londra dove un quartiere produttivo della città, con una storia popolare assimilabile a quella di Sesto San Giovanni è stato trasformato in un nuovo centro direzionale della città, senza considerare affatto il destino degli abitanti del quartiere stesso: anche qui, negli anni Ottanta, alcuni artisti hanno operato per una campagna di sensibilizzazione e dissenso da parte dei cittadini culminata in una parata fino a Westminster; o ancora un gruppo irlandese che ha saputo ridare identità ad abitanti di case popolari che vedevano a rischio il proprio destino, a partire dall’incisione di una canzone e che ha reso possibile che la collettività partecipasse attivamente al ridisegno urbanistico del quartiere stesso. Sono tutte esperienze che possono risultare utili quali riferimenti per lo studio di un intervento possibile, accomunate dal significato di una radicale, ma non sovversiva, riconsiderazione di una progettazione di città a partire dal basso, dalla sua struttura più basilare, la cittadinanza appunto. Un progetto partecipativo per Milano La volontà è quella di una possibile proposta di un sistema operativo per la Facoltà di Architettura Civile di Milano Bovisa, basata sull’idea di creare un gruppo di discussione, ricerca, dibattito e divulgazione interno all'università stessa, aperto alla popolazione milanese per ogni dubbio, ascolto o spiegazione, in continuo e attento contatto con le realtà istituzionali. Le primissime questioni sono da considerarsi parallele. 1. Innanzitutto la primordiale formazione di suddetto gruppo di ricerca, inteso non come un gruppo chiuso ed elitario ma aperto a tutti, architetti e non, studenti e non, capace di ascoltare chiunque e partecipare con esso. 2. Entrando già nel merito pratico, poi è necessaria : - La comprensione delle dinamiche effettive che dirigono i progetti attualmente in corso e quelli futuri a Milano: a partire da tutti gli strumenti a nostra disposizione, dalla bibliografia disponibile alle pubblicazioni in internet, attraverso una rassegna stampa di quotidiani e periodici e le opinioni critiche, indagare quali sono gli attori economico-politici che


partecipano, le leggi che regolamentano, i progetti alternativi proposti e possibili, con un particolare occhio di riguardo al 2015 e all'occasione imperdibile della possibilità di riappropriazione di una città migliore. - Ma non solo: fondamentale è anche creare una mappatura della cittadinanza, ossia fare in modo che dal tessuto urbano non emergano solo i luoghi pubblici ufficiali come biblioteche, musei, università, scuole, o le circoscrizioni6 ma che sia invece il tessuto stesso ad emergere, a mostrarsi: lo scopo è arrivare a cogliere quel congiunto di identità che forma la società civile e conoscere in quali istituzioni, anche non ufficiali, queste persone si riconoscono per provare ad entrarne in contatto. In questo modo ci si aprirà un insieme di interlocutori possibili ai quali rivolgerci per provare a diffondere criticamente l’oggetto di studio7. 3. Perché il gruppo di ricerca abbia molteplici rapporti sarà poi necessaria una divulgazione delle attività in atto anche all'interno dell'università stessa, con tavole esplicative, l’apertura di un blog come punto di riferimento e contatto virtuale, sede di possibili proposte e commenti, in attesa della possibile assegnazione di uno spazio fisico che diventi luogo di ritrovo e dibattito e, a lungo termine, centro informativo e divulgativo dell'interazione possibile tra i livelli. L'eventuale organizzazione di dibattiti e piccole esposizioni alternative, aperte e non sostitutive alle lezioni accademiche, nelle quali il tema possa svariare dalla teoria alla pratica, dalla città al quartiere, lasciando democraticamente la parola e l'ascolto a chiunque, diventerebbe occasione di discussione e possibile intraprendenza di un congiunto di idee verso una possibile ma difficile invenzione e sviluppo di un'attività pratica parallela ad esso. Chissà, magari un progetto legato all'Expo del 2015, un Padiglione dei cittadini e della loro visione della città. Appendice C’è un racconto di Raymond Carter intitolato Cattedrale – peraltro opera della collettività per eccellenza, dal Medioevo sino a Feininger – nel quale ritengo si esprima a fondo questa necessità di ricominciare a credere nella possibilità di agire e nel dialogo. Ne cito parte della conclusione, significativa, invitando però a leggere il racconto intero: “ ‘Mi dovrai scusare’, gli ho detto. ‘Ma non riesco proprio a spiegarti com’è fatta una cattedrale. Non ne sono proprio capace. Non posso fare meglio di così’. Il cieco è rimasto seduto immobile e mi ascoltava con la testa abbassata. Ho detto: ‘Il fatto è che le cattedrali non è che significhino niente di speciale per me. Niente. Le cattedrali. Sono solo cose da vedere in tv la sera tardi. Tutto lì.’ E’ stato a quel punto che il cieco si è schiarito la gola. … Poi ha detto: ‘ Ho capito fratello. Non è un problema. Capita. Non stare a preoccupartene troppo’, così ha detto. ‘Ehi, stà a sentire. Me lo fai un favore? Mi è venuta un’idea. Perché non ti procuri un pezzo di carta pesante? E una penna. Proviamo a fare una cosa. Ne disegniamo una insieme ...’. ... Ha trovato la mia mano, con quella penna. Ha chiuso la sua mano sulla mia. ‘Coraggio, fratello, disegna’ ha detto. ... E così ho cominciato. ... Roba da matti. (…) ‘Benone’, ha detto lui. ‘Magnifico. Vai benissimo’ ha detto. ... ‘E adesso chiudi gli occhi ... non fermarti, continua a disegnare’. … ‘Mi sa che ci siamo. Mi sa che ce l’hai fatta. Dà un po’ un’occhiata. Che te ne pare?’ ... Tenevo gli occhi ancora chiusi. Ero a casa mia. Lo sapevo. Ma avevo come la sensazione di non stare dentro a niente. ‘E’ proprio fantastica’, ho detto.”


Note 1.

2.

3.

H. Lefebvre “El pensamiento postmoderno se encuentra muy cómodo ante esta situación, interpretándola como (...) el fin de los sistemas y de las grandes estructuras, con las correspondientes explicaciones de conjunto. Todo eso es reemplazado por la historia inmediata, la intervención del individuo en su entorno directo, la multiplicación de los "pequeños relatos", es decir de las iniciativas particulares. En reacción a una modernidad prometeica, a un discurso totalizante, se cae en una lectura atomizante de la realidad, que se percibe como fragmentada, inexplicable en su génesis, insignificante con relación a un conjunto histórico o contemporáneo, en resumen, una sociedad civil que es una suma de movimientos y organizaciones, para la cual la simple multiplicidad sería suficiente para enfrentar un orden totalitario de naturaleza política o económica. Que suerte para el capitalismo mundializado que ha logrado construir las bases materiales de su globalización como sistema gracias a las tecnologías de la comunicación y de la informática, ver como se desarrolla una ideología que anuncia el fin de los sistemas. Nada podría resultarle más funcional. Por muy fundamental que sea la crítica de la modernidad promovida por el capitalismo, el aporte del postmodernismo no puede ayudarnos a analizar la Sociedad Civil contemporánea, ni contribuir a dinamizarla como fuente de resistencia y de luchas eficaces. La fragmentación de estas últimas revela a la vez consecuencias y estrategias del sistema capitalista. (...) Entonces surge la pregunta: ¿que sociedad civil queremos promover, cuales espacios públicos reivindicamos frente a la mundialización de las relaciones sociales capitalistas? (...)La primera es la búsqueda de una acción sistemática, que reagrupe todos aquellos que en diversos dominios de la vida colectiva contribuyen a construir una economía diferente, una política diferente, una cultura diferente, con altas y bajas, con éxitos y fracasos, aciertos y errores. (...) Un segundo componente de la Sociedad Civil "de abajo" es que esta es portadora de utopías, las cuales movilizan, reavivan la esperanza, se construyen en el terreno concreto de las luchas sociales, que no se agotan por sus traducciones concretas y que se mantienen como un faro tanto en la existencia de las colectividades como en la de los individuos. (...)En tercer lugar, la Sociedad Civil "de abajo" debe caracterizarse por la búsqueda de alternativas a todos los niveles, tanto el de la grandes conquistas políticas como el de la vida cotidiana, el de las organizaciones internacionales y las Naciones Unidas. (...)El cuarto aspecto es la conquista de los espacios públicos. Esto es, la articulación con la política. Sin esta última, la acción queda estéril o al menos limitada. (...) En fin, quinta perspectiva, las convergencias. Mundializar las resistencias y las luchas es un objetivo inmediato. No de manera abstracta y artificial, sino muy concreto. La gran multiplicidad de movimientos, su fragmentación, puede ser un obstáculo, en la medida en que estos están atomizados, pero puede ser una fuerza si en lugar de constituir una simple suma, entran en una convergencia funcional, como sucedió en Seattle, en Washington, Bangkok, Praga, Niza y Davos. (...) En conclusión, podemos decir que la afirmación de la sociedad civil pasa en primer lugar por su definición, la "de abajo". Ella sólo podrá ser mundializada en la medida en que exista localmente, pues las convergencias suponen una previa existencia. Las modalidades concretas de la acción son numerosas a nivel local e internacional. Ellas sólo podrán ser definidas por los actores comprometidos en diversos campos, el de la organización de las relaciones sociales, el de las comunicaciones, el de la cultura, el del medio ambiente.” Francoise Houtart, La sociedad civil y espacios publicos, 2002 vd. Ava Bromberg, Interrogating Public Space, 2008

4. vd. Jordi Borja, “La ciudad conquistada.” 2003 (P131) 5. termine coniato qualche anno fa, come possibile titolo di periodico da diffondere in università. 6.

7.

I consigli di zona rappresentano degli organi di decentramento del Comune, ad elezione diretta dei cittadini, con le funzioni di partecipazione, di consultazione e di gestione di servizi di base. Hanno in realtà potere limitato soprattutto considerando che i fondi che gestiscono sono molto scarsi. Alcuni esempi : Esterni ossia una associazione di designers creata nel 2005 che si occupa di organizzare eventi alternativi nella città; oppure Radio Popolare, nata nel 1976, è sempre stata ed è tuttora un mezzo di diffusione dell’ informazione libera e comunicazione indipendente, perché autonoma da entità editoriali e politiche, ed inoltre organizza anch’essa eventi di importante rilevanza per la creazione di una cittadinanza responsabile come la ExtraFesta ossia gli extracomunitari di Milano per due giorni invitano i Milanesi a mangiare i loro cibi, ascoltare le loro canzoni in uno dei Palazzetti dello Sport più grandi della città; e così via.


Bibliografia. AA. VV. - 2006: “Città, Architettura e Società” vol. I e II. Venezia: Marsilio Editori Bohigas, Oriol - 2004: “Contra la incontinencia urbana. Reconsideraciòn moral de la arquitectura y la ciudad.” Barcelona: Electa Borja, Jordi - 2003: “La ciudad conquistada.” Madrid: Alianza Editorial. - 2001: “L’espai public: ciutat y ciutadania”. Barcelona: Diputaciò, Oficina Tecnica de Cooperaciò. Capra, Fritjof - 1998: La trama de la vida. Editorial Anagrama, S.A., Barcelona. Houtart, Francoise - 2002: “Sociedad civil y espacios publicos”. Porto Alegre: www.forumsocialmundial.org.br Koolhaas, Rem - 1997: “The Generic City” . Domus 791 - 1978: “Delirious New York”. Barcelona: Gustavo Gili Maturana, Humberto R. - 1995: “La realidad: ¿objectiva o construida? I.Fundamentos biologicos de la realidad.” Barcelona: Anthropos. Rossi, Aldo - 1966: L'architettura della città. Milano: CittàStudi. Steiner, George - 1971: “ Nel castello di Barbablu”. Milano: SE Taut, Bruno - 1920: “La dissoluzione delle città.” Faenza: Faenza Editrice.


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