CHIUSURA DEL MANICOMIO L'occupazione sancì la fine dell'ospedale psichiatrico di Colorno

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CHIUSURA DEL MANICOMIO L'occupazione sancì la fine dell'ospedale psichiatrico di Colorno C'erano 860 degenti rinchiusi Nel 1970 arrivò come direttore Basaglia che sarà il padre della legge 180 «Per la sorveglianza di circa 400 ricoverati maschi si dispone di 41 infermieri, costretti a lavorare in turni continuativi di 24 ore; non migliore la situazione dei reparti femminili che ospitano circa 500 ammalate… gli ambienti sono ibridi con le caratteristiche della caserma e dell’ambiente carcerario. L’impianto idrico è praticamente inesistente e nessun reparto è dotato di un proprio bagno…gli ammalati sono così stipati che l’infermiere non riesce a passare fra i due lettini»: non sono parole di un pericoloso rivoluzionario, bensì di Luigi Tomasi, direttore dell’Ospedale Psichiatrico dal 1948 al 1970, quando venne sostituito da Franco Basaglia. E’ una relazione in cui il direttore, in verità poco amato dai riformatori, descrisse ciò che aveva trovato. Con l’arrivo di Mario Tommasini come assessore provinciale, nel 1965, cominciò a squarciarsi il velo sul lager che si nascondeva all’interno della Reggia. Nel 1968 nacque il movimento “Nuova Assistenza”, che aveva trovato anche l’adesione di una trentina di operatori del servizio psichiatrico. Le rivendicazioni erano chiare: togliere tutti i minori dagli istituti fuori provincia e riportare a casa i bambini creando i servizi necessari e riconoscere potere decisionale ai familiari nella gestione degli istituti psichiatrici. Nell ’aprile del ‘68 si radicalizza lo scontro fra Provincia e Prefettura, che boccia l’assunzione di 40 infermieri, assunti dalla Provincia per garantire la gestione dell’Istituto Montagnana (dove erano stati accolti i ragazzi provenienti da Sospiro di Cremona) e per la riorganizzazione dei servizi psichiatrici. In quell’occasione, per la prima volta gli infermieri scesero in sciopero e sfilarono per le strade della città denunciando le condizioni di vita dei pazienti a Colorno. Nell’estate dello stesso anno nacque la Fattoria di Vigheffio che- come scrivono Braidi e Fontanesi nel libro “Se il barbone beve” – “rappresenta per i suoi contenuti innovatori una oggettiva rottura verso l’esterno del fronte, apparentemente impenetrabile, costituito dal blocco manicomiale”. In questo clima arriva, il 2 febbraio del ’69, l’occupazione dell’Ospedale Psichiatrico, dove erano “reclusi” 860 degenti, messa in atto da un gruppo di studenti di Medicina, a conclusione del convegno “Medicina e Psichiatria” con Franco Basaglia: «L’azione – si dice nel documento da loro stessi divulgato – è stata decisa all’interno di un’assemblea di reparto, trovando l’appoggio di familiari, infermieri e amministratori presenti». Il documento denuncia la “discriminazione economica e di classe dei ricoverati (Manicomio dei poveri)”, il mancato scopo terapeutico, la permanente violenza perpetrata ai danni dei ricoverati e l’assenza di ogni controllo su ciò che succede all’interno dell’Ospedale. L’occupazione durò 35 giorni, con decine di assemblee e dibattiti, che portarono l’attenzione dell’opinione pubblica sulle condizioni di vita dei ricoverati di Colorno, con l’aperto appoggio dei partiti di sinistra (PCI e PSI) e della Camera del Lavoro, i distinguo della DC e di CISL e UIL, la forte opposizione del MSI (che parlò di “ragli degli asini rossi”. Anche la Gazzetta di allora si schierò apertamente sul fronte contrario, fino al punto di scrivere: “Però in un mondo così folle e bislacco non è detto che il governo della cosa pubblica affidato ai pazzi debba proprio andar peggio di quel che già non vada così”. Anche i degenti furono coinvolti con le loro rivendicazioni, utili, se non altro, migliorare la loro quotidiana vita di reclusi: eliminazione della sveglia alle sei, permessi per uscire, niente più suore alle feste da ballo e accendisigari a disposzione. Vi fu anche una controccupazione, che durò poco più di un’ora, orchestrata da alcuni medici e suore e messa in atto da un gruppo di infermieri “allergici” al cambiamento. “Io ero dentro 24 ore al giorno – ebbe a dichiarare Mario Tommasini – sono stati i 40 giorni più belli della mia vita”. Dopo un mese ci fu anche un blitz notturno (Favorito da qualcuno all’interno dell’Ospedale) da parte di un gruppo di fascisti armati di bombe molotov, spranghe e lanciarazzi, che devastarono la portineria e incendiarono alcuni mobili, ferendo alcuni dei pochi occupanti presenti, che ripresero in mano la situazione grazie all’aiuto determinante di tanti studenti, operatori e militanti di sinistra. Una settimana dopo l’occupazione ebbe termine, ma lasciò un’eredità importante, aprendo la strada alle azioni che portarono alla creazione di servizi esterni e alla graduale riduzione, fino alla definitiva chiusura, dell’Ospedale Psichiatrico di Colorno e con esso dei ghetti in cui erano reclusi i pazienti con problemi psichiatrici, o per lo meno giudicati tali: così Amelia, Anna, Gioacchino, Adelmo, Teresa, Rocco, Fiorella, Giulia, Irma, Sergio e mille altri poterono tornare a vivere nel mondo dopo decenni di una reclusione che sarebbe stata un ergastolo senza giudizio. ANTONIO BERTONCINI Gazzetta di Parma 28/08/2018 pag. 12


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