Emanuele Ghisi
Aldo Rossi e Mantova
DIABASIS
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Collana diretta da Paolo Zermani
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Emanuele Ghisi
Aldo Rossi e Mantova
DIABASIS
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I diritti di riproduzione per le immagini delle opere di Aldo Rossi sono stati gentilmente concessi dalla Fondazione Aldo Rossi di Milano: © Eredi Aldo Rossi. I diritti di riproduzione per le fotografie di Luigi Ghirri sono stati gentilmente concessi dagli © Eredi Luigi Ghirri. Le immagini provenienti dall’Archivio di Stato di Mantova sono state rilasciate con autorizzazione n. 43/2013. L’immagine proveniente dall’Archivio Storico del Comune di Mantova è stata rilasciata con autorizzazione n. 6/2013. L’immagine proveniente dalla Biblioteca Baratta è stata rilasciata con autorizzazione n. 4/2013.
L’autore e l’editore ringraziano persone e istituzioni che hanno consentito la riproduzione delle immagini contenute nel libro. Si dichiarano disponibili a far fronte a eventuali aventi diritto.
Coordinamento editoriale Fabio Di Benedetto Redazione Anna Bartoli Leandro del Giudice Progetto grafico Studio Bosio, Savigliano (CN)
ISBN 978-88-8103-811-4 © 2013 Diaroads srl - Edizioni Diabasis vicolo del Vescovado, 12 - 43121 Parma Italia telefono 0039.0521.207547 – e-mail: commerciale@diabasis.it www.diabasis.it
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Aldo Rossi e Mantova
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Ai miei genitori
7 Emanuele Ghisi
Aldo Rossi e Mantova
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Premessa
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I Custodi della Memoria
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Goito: case unifamigliari a schiera
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Pegognaga: case unifamigliari a schiera
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Viadana: progetto di edificio residenziale con negozi
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Mantova: progetto di concorso per l’area Fiera Catena
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San Benedetto Po: progetto di ricostruzione del Monastero Polironiano
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Bibliografia
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L’autore ringrazia il prof. Paolo Zermani per il prezioso contributo critico fornito in fase di ricerca, il prof. Gianni Braghieri e l’arch. Gian Arnaldo Caleffi per i consigli, la gentilezza e la disponibilità a discutere parti di questo lavoro. La Fondazione Aldo Rossi di Milano, in particolare gli Eredi di Aldo Rossi – Vera Rossi e Fausto Rossi – e la dott.ssa Chiara Spangaro, l’Archivio Aldo Rossi del MAXXI di Roma, in particolare le dott.sse Esmeralda Valente ed Elena Tinacci, per la cortesia dimostrata e per aver concesso l’autorizzazione alla consultazione e alla riproduzione di foto e disegni dei progetti di Aldo Rossi. Paola Bergonzoni Ghirri per la gentilezza e la disponibilità, nonché gli Eredi Luigi Ghirri per aver concesso l’autorizzazione alla riproduzione delle fotografie di Luigi Ghirri. Il personale degli Uffici Tecnici dei Comuni di Goito, Pegognaga e San Benedetto Po. Ultima, ma non ultima, Francesca Benevelli per l’incessante supporto.
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Premessa
Questo lavoro riguarda il legame iniziato nel 1979 tra un architetto e la città di Mantova. Una città, fino a quel momento, apparentemente estranea all’interno della sua biografia; padana e lombarda come la città in cui egli è nato, Milano, ma sostanzialmente diversa. L’architetto non considera la città e il suo territorio come un complesso di norme e regole, ma come una forma, un organismo sviluppato per parti, secondo la sua storia, i suoi punti fissi, i suoi monumenti e i segni che l’uomo ha inciso nel terreno e nella pietra. Il suo territorio, nello stridente contrasto tra paesaggio agricolo e paesaggio industrializzato, diviene immagine di questa città e, allo stesso tempo, il suo opposto. Il rapporto tra Aldo Rossi e Mantova durerà quattro anni, dal 1979 al 1983. In questo periodo lo Studio di architettura Aldo Rossi Gianni Braghieri – nonostante vi fossero sui tavoli da disegno alcuni tra i progetti decisivi e certamente più rilevanti, come il Teatro del Mondo e la nuova Porta per la Biennale di Venezia, l’edificio berlinese sulla Friedrick Strasse, il centro direzionale Fontivegge a Perugia, il Teatro San Carlo di Genova – si dedica a cinque progetti, circoscritti all’interno della provincia mantovana, che gli consentono, attraverso l’analisi tipologica, di svelare la specificità insita nella parte meridionale del paesaggio lombardo, poiché ogni sud conserva nel suo abbandono i valori più antichi. Nel 1979 Aldo Rossi e Gianni Braghieri vengono incaricati di progettare alcune case a schiera a Goito e Pegognaga, due comuni di qualche migliaio di abitanti. Nel 1982 lo studio sul tema dell’abitazione in ambito padano viene portato avanti in un progetto non realizzato a Viadana, sulle rive del fiume Po; mentre risale allo stesso anno il progetto di concorso per l’area Fiera Catena di Mantova. In chiusura di questa stagione mantovana vi è il progetto sconosciuto, mai pubblicato all’interno dell’opera completa rossiana, per il completamento del Monastero benedettino di San Benedetto Po. Questo progetto assume all’interno di questo lavoro un’importanza rilevante, non solo perché riguarda un intervento sconosciuto all’interno della letteratura rossiana, ma perché racchiude una serie di riflessioni atte a giustificare e a render ancor più palese il rapporto tra l’architetto e il paesaggio padano.
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Insieme al progetto per il porto di Mantova, l’intervento sulla matrice antica del monastero polironiano permette a Rossi di sviluppare, in due architetture, il manifesto della sua poetica sul paesaggio mantovano. Il chiostro, la corte e la piazza sono gli elementi urbani su cui Rossi fonda la sua ricerca. Nel progetto vi è l’incessante ricerca di un’architettura fortemente legata al luogo. Rossi, ricordando l’analisi del Poète, manifesta la volontà di moltiplicare i percorsi del progetto, per poterli connettere con i sistemi preesistenti della città, nel caso di Mantova, e dei chiostri del monastero, nel caso di San Benedetto Po. Se a Mantova Rossi ricostruisce una parte di città attraverso episodi architettonici – la grande corte, il circo romano, il Prato Virgiliano – in stretta relazione con il tessuto preesistente, a San Benedetto Po emerge non soltanto una ricostruzione di parte del complesso monastico, ma una rilettura dell’idea di impianto religioso connesso con l’idea di paesaggio urbano e agricolo. La città e il suo paesaggio divengono essi stessi gli elementi fondanti del progetto. Nel substrato di queste opere vi è un profondo legame intellettuale, e per certi versi affettivo, con Mantova. Questo interesse traspare negli scritti risalenti al periodo ’79-’84, in particolare A Scientific Autobiography (1981): è la ricerca incessante di un’architettura capace di vincolarsi al territorio per mezzo della memoria del luogo – la storia – intrecciata con la memoria personale. I progetti divengono frammenti di luoghi, come i frammenti di edilizia rurale accomunati dalla vicinanza con il fiume Po e le sue incombenti esondazioni. Per questo motivo ritengo sia più corretto parlare di un confronto, un legame, dell’architetto con la città e il suo paesaggio.
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I Custodi della Memoria
Cara pianura che ha per cuore il fiume dei fiumi mai fermo nella sua corsa verso il mare, o per esser più precisi, verso l’infinito. Se ne dubitate, fissatene il corso da un punto qualsiasi delle sue rive e vedrete compiersi il miracolo che state lì immobili non meno dei salici e dei pioppi e intanto liquidamente andate oltre e oltre ancora, al pari della freccia di Zenone (a torto chiamato crudele dal poeta). È un momento sublime, lo scrivo con la preoccupazione di esser sull’orlo della retorica ma lo scrivo, e vorrei potervi rivelare altre sublimità locali, per esempio quella del silenzio che è unico e non la solita assenza di rumori, anzi una sintesi di rumori suoni voci, antichi e odierni, diventati appunto silenzio nell’assommarsi, alla pari del bianco misteriosamente generato dal vortice di tanti colori1.
Sull’argine del Po di Luzzara, Cesare Zavattini descrive il paesaggio oltre il grande fiume: spazi orizzontali, campanili che segnano i piccoli borghi, biciclette che sul crinale degli argini seguono il moto dell’acqua. È un paesaggio caratterizzato da ampie valli, regolarizzate dai solchi dei fossi e dei canali, da campanili di piccoli paesi e di cave di ghiaia lungo il fiume; ma è anche un paesaggio corrotto dalle ciminiere delle fabbriche, dai tralicci della corrente elettrica, dall’autostrada. È il paesaggio della bassa pianura mantovana, con i paesi estesi sino agli argini delle golene del Po: piccoli borghi disabitati durante le esondazioni del fiume in piena, poi ripopolati dai loro abitanti. Vedevo la pianura come una enorme carta assorbente, che, inglobata ogni geografia decifrabile, inghiottiva anche i nostri sogni, pensieri e gesti, il tutto sprofondato e ritornato in superficie in forme distorte e irriconoscibili. Oppure vedevo questa terra come sottile lamina d’acciaio che nulla lascia trapelare, dove tutto rimane sulla superficie, e così i ricordi, i volti, i fatti e le persone si muovono incessantemente sospinti come piccole sfere da ogni piccolo movimento dell’aria in un moto perpetuo tanto da non lasciar mai scampo o riposo. Una grande tavola dove ricordi e memorie non affondano e spariscono ma sono in ogni angolo, riempiono lo spazio, in un movimento incessante e disordinato. Zavattini scrive che la malinconia è originaria del Po, che altrove si tratta di imitazioni, e sottolinea che appena si arriva da queste parti gli sembra di varcare la frontiera del grigio, o meglio di entrare in qualcosa di impreciso. Malinconia e imprecisione. Credo siano proprio questi i termini più appropriati. La malinconia è il cartello indicatore di una geografia cancellata, ed è probabilmente il sentimento della distanza che ci separa da un possibile mondo semplice, sapendo che questo è ormai un aggettivo da coniugare assieme ai ricordi e che l’attesa per qualcosa di nuovo e diverso è un intervallo dove il tempo è segnato da una noia necessaria. Imprecisione. Perché l’orizzonte confonde quasi sempre cielo e terra; le
12 campagne abitano anche la città e i paesi; i campanili non solo vengono avvistati dalla riva del fiume su cui sostiamo ma si raddoppiano, si confondono specchiandosi nell’acqua; i pioppeti anziché costituirsi come natura ci raccontano della ripetizione indistinta; le strade sembrano andare sempre nello stesso punto e quindi da nessuna parte 2.
Il paesaggio mantovano è in gran parte agricolo, costituito da ampi lembi di terreno segmentati da antiche matrici centuriali. È la misura della terra, conservata e custodita, tanto da costituire il volto, in prospettiva, di questo scenario, dove natura e l’opera dell’uomo convivono in un secolare equilibrio. Ermanno Rea, nel suo viaggio lungo il Po, scrive: Dopo Sermide, l’argine maestro [sinistro] torna a farsi balcone, terrazzo: accompagna il fiume dall’alto in maniera lineare, rettilinea. Lungo la strada avanza un prete. La sua tonaca svolazza sullo sfondo azzurro del cielo. [...] Il primo pomeriggio è forse l’ora più bella, l’ora in cui il paesaggio è tutto un susseguirsi di lampi, di bagliori accecanti che decadono improvvisamente in fosche zone d’ombra, in coni di buio fitto. L’occhio sussulta nel gioco degli aspri contrasti, vaga di qua e di là senza pace, eppure felice di tutti questi eccessi cromatici che magari non aiutano a leggere il paesaggio nei suoi dettagli ma che aiutano certamente a goderlo nel suo insieme3.
L’acqua del fiume Po è l’elemento che, per il suo fluire lento e magmatico, ci ricorda la transitorietà della vita umana: un fluido che periodicamente esonda e allaga i piccoli borghi che giaciono sulle sue rive, costringendo la popolazione che vi abita ad abbandonare la propria casa e, successivamente, a farvi ritorno. L’elemento dell’acqua ritorna nei fiumi, nei canali che dissetano il terreno delle campagne della provincia e nei laghi che circoscrivono la città. È l’acqua dei laghi e dei fiumi a generare la nebbia; essa confonde la pietra di cui è composta la città, sospendendola in una dimensione onirica. Una fotografia di Luigi Ghirri, Formigine 1985, ritrae l’ingresso a un podere: le due possenti colonne del cancello inquadrano un lembo di paesaggio immerso nella nebbia. Non sappiamo, con certezza, cosa vi sia oltre quella soglia. Tutto è indefinito, impreciso, poiché la nebbia confonde, non cancella. Il tempo è sospeso, nell’attesa che quel manto candido di umidità si dissolva per svelare la scena. Possiamo intuirla, non immaginarla, poiché la nebbia è congiunta alla memoria: oltre quella soglia, siamo certi che la strada conduca a un podere, del quale non sappiamo nulla. È noto l’amore di Ghirri per il mondo definito: le linee dei campi – geografia dello spazio agricolo – con la linea spezzata dell’orizzonte, sono le costanti alle quali il fotografo ricorre per raccontare la poetica del mondo reale. È forse per questo motivo che gli scatti sui paesaggi di nebbia
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Fig. 1 Ingresso di casa colonica (foto di Luigi Ghirri). Fig. 2 Chiusa di un canale nella pianura mantovana nei pressi del Po (foto di Gabriele Ghisi).
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determinano quella condizione di infinitezza proprio della malinconia, poiché le nebbie di Ghirri conservano un grado di trasparenza proprio nel loro essere opalescenti: «non giungono a nascondere , ma preludono a un apparire»4. Oppure potrebbe significare la metafora di un paesaggio contemporaneo nel quale la nebbia coincide col tempo cronologico: un tempo che tutto divora, confonde, in un malinconico abbraccio. E il tempo è connesso con la memoria: Nel romanzo di Umberto Eco La misteriosa fiamma della regina Loana (2004) la nebbia, oltre ad avvolgere i ricordi e a rievocare tempi lontani, sta a indicare, con valore metaforico o addirittura allegorico, lo stato di confusione e di oblio, e forse anche di ovattato isolamento umano, in cui si trova il protagonista. E però, per lui che sta cercando di diradare i confusi ricordi del passato, la nebbia si rifiuta di svolgere una funzione di memoria vissuta, e si presenta come grande contenitore di memoria archiviata, depositata nelle soffitte e nei ripostigli dell’infanzia, insieme con schedari, libri di scuola e di lettura, raccolte di fumetti e figurine: i repertori accumulati in modo quasi maniacale negli anni, che contengono tra l’altro un’impressionante quantità di testi nebbiosi 5.
Cos’è un paesaggio, se non un repertorio accumulato in modo maniacale negli anni? Charles Dickens, soggiornando a Milano, e anticipando, in un certo senso, le parole di Zavattini e Ghirri, scrive: «La nebbia qui era così fitta che il pinnacolo del famosissimo Duomo, per quel che si riusciva a scorgerne, poteva anche trovarsi a Bombay»6. Lo stato confusionale, imposto dal candido velo bianco nebbioso, è qui portato all’eccesso. Non vi è soltanto l’indefinita immagine connessa con lo scorrere del tempo, ma anche una perdita, seppure temporanea, del luogo. Memorabile è, in tal senso, la scena del film Amarcord nella quale Federico Fellini mette in scena, nella nebbia del rigido inverno riminese, il nonno di Titta che si perde davanti alla casa dove abita: «Ma dov’è che sono? Mi sembra di stare in nessun posto. Ma se la morte è così, non è un bel lavoro. È sparito tutto: la gente, gli alberi, gli uccellini per aria, il vino»7. Tuttavia, questo senso straniante implica una sensazione di protezione: La nebbia è uterina. Ti protegge. Legioni di esseri umani desidererebbero tornare nell’utero (di chiunque, come diceva Woody Allen). La nebbia ti realizza questo sogno impossibile. Ti concede una felicità amniotica. Hai la sensazione che forse un giorno uscirai dalla vagina e dovrai affrontare il mondo, ma per il momento sei salvo. E siccome la nascita è l’inizio del percorso che ti porterà inesorabilmente alla morte, la nebbia è la garanzia (ahimé virtuale) che alla morte forse non perverrai. Basterebbe fermarsi lí. Ma proprio perché non sai dove sei, nella nebbia tendi a muoverti per uscirne (che è stolida follia e folle stolidità). Chi ha ventura di starci, vuole venirci fuori. Per questo tutti gli uomini sono mortali 8.
Dopotutto, Alberto Savinio scriveva che «quando i milanesi parlano di nebbia hanno l’aria di dolersene, ma in fondo sono contenti della
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“loro” nebbia. [...] La nebbia mobilia le città, raccoglie i discorsi degli uomini e li conserva»9. La nebbia è l’elemento primario di questo paesaggio, poiché appartiene sia alla terra che al cielo, sfuma l’orizzonte fino a renderlo invisibile: un «oceano di latte frappato», che restringe i confini del mondo a quelli dell’aia10. Virgilio, il sommo poeta tanto amato da Rossi, canta la pianura di Andes, sua città natale nei pressi di Mantova11, il lento scorrere delle acque del Mincio, le nebbie e i colori sfumati della sua terra. Il canto virgiliano è fortemente autobiografico; in esso vi è il rapporto con la natura intesa non come sfondo generico ma come reinterpretazione soggettiva dei propri sentimenti. Nonostante Virgilio adotti il modello greco dell’Arcadia (Omero, Teocrito, Apollonio Rodio), nel Libro delle Bucoliche il paesaggio è quello padano, autunnale, pervaso di malinconia e imprecisione. Che poi vi s’intruda l’autobiografia o la storia non è che un segno della genuinità della sua ispirazione e del valore che vi era annesso. È indubbio che i pastori bucolici non sono dei veri pastori “socialmente parlando”; ma il loro mondo ha tutta la necessaria pienezza e autenticità di un ideale cui il poeta aderisce e che almeno ai suoi occhi pareva realizzarsi sui prati e tra i boschi lambiti dalle larghe anse del Mincio-colore-d’erba e bianco di cicogne, o in Arcadia: gli unici luoghi ove si potesse sostare per scoprire e organizzare poesia e umanità12.
Hermann Broch, nel libro La morte di Virgilio, narra, in modo soggettivo, le ultime ore di vita del poeta a Brindisi. Il romanzo è incentrato sul concetto di memoria: La memoria stessa diventa con ciò spazio; Virgilio poco prima di morire, contrapporrà alla realtà del ricordo lo “spazio del non ricordo” accogliendo in sé regioni sempre più ampie dello “spazio del ricordo” eppure resterà sempre in questo spazio del ricordo: “Anzi, i due spazi si unirono sempre più intimamente in un secondo spazio del ricordo posto entro il primo, in uno spazio di più alta trasparenza della memoria”13.
Il ricordo della sua terra natale prende la forma del fanciullo Lisania: «Dall’Epiro, dalla Grecia... però tu parli la lingua di Mantova». Di nuovo sorrise il fanciullo: «È la tua lingua» «La lingua di mia madre» «La lingua, nella tua bocca, si è fatta canto».
E più avanti: «Vieni da Andes? Conduci ad Andes?». Non sapeva se avesse pronunciato realmente la domanda a voce alta, sapeva soltanto che non voleva udire nessuna risposta, né affermativa, né negativa, perché il fanciullo non doveva essere originario di Andes, né doveva non esserlo, sarebbe stata troppo terribile la prima risposta, troppo assurda la seconda14.
Il fanciullo Lisania accompagna Virgilio nel suo viaggio interiore. Broch non ci rivela chi veramente esso sia: forse è l’immagine stessa del ricordo – il Virgilio bambino – incarnato nella figura di un contadinello; oppure egli funge da psicopompo che accompagna il moribondo verso il grande Tutto15.
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Nel corso della narrazione la memoria è il filo rosso su cui si sviluppano le riflessioni del poeta: il ricordo dell’infanzia, ossia la condizione del mondo contadino padano, è posto in contrapposizione alla condizione servile della massa all’interno dell’Impero di Augusto16: «Il contadino ama la pace e colui che porta la pace. Il contadino ti ama per quell’uomo che sei. E il contadino rappresenta il vero popolo». Per un istante, per un battito del cuore, ahimè, per un solo doloroso respiro scomparvero l’eclissi del sole, la luna scialba e il disegno del paesaggio, scomparve l’oscillante immobilità, senza propriamente scomparire, bensì per lasciare il posto all’immagine della pianura mantovana; egli rivide i campi cinti dalla penombra dei monti e dalle voci dell’infanzia, distesi sotto la luce del sole, per tutte le stagioni della vita»17.
Connessa al Tempo, nella sua definizione cronologica e atmosferica, l’architettura nel paesaggio mantovano è fortemente vincolata agli elementi naturali: il profilo turrito e fortificato di Mantova si specchia nelle acque dei laghi che la circondano, generate dal fiume Mincio; gli edifici, al suo interno, mostrano la patina del tempo deposta dalle nebbie invernali. Ma la nebbia è l’elemento padano che, più di ogni altro, sancisce una crisi tra spazio interno e spazio esterno. L’architettura mantovana si è sempre rapportata a questo duplice stato, in cui la soglia – il confine tra esterno e interno – assume uno stato indefinito, sfumato. Questa condizione si verifica nelle grandi fabbriche gonzaghesche. Palazzo Te, residenza estiva dei Gonzaga, si articola in un sistema di corti. Giulio Romano pensa a un’architettura, in parte, aperta sul paesaggio: la grande esedra che cinge il giardino è aperta sul lago e, in origine, era ideata per inquadrare la rigogliosa vegetazione. La loggia sul giardino (memore della loggia della raffaellesca Villa Madama a Roma) costituisce una soglia per l’esterno ma anche per l’interno: lo spazio è indefinito poiché gli affreschi conferiscono una dimensione più intima. Questo carattere di imprecisione torna all’interno del palazzo dove scene di vita campestre, affrescate sulle pareti, evocano paesaggi bucolici immersi nell’azzurro del cielo: gli spazi esterni sono interni; gli spazi interni sono esterni. Come, del resto, nelle Pescherie: un ponte porticato sul Rio che divide la città in due parti18, o in uno dei cortili del Palazzo Ducale. Le finestre del grande Palazzo inquadrano l’azzurro del lago, ma anche l’azzurro del cielo, come la corte circolare della Casa del Mantegna. La grande fabbrica del Palazzo Gonzaga è un insieme di sovrapposizioni architettoniche avvenute nel corso del tempo: oggi costituiscono un monumento padano di valore straordinario. Il primo nucleo del palazzo e il castello medioevale costituiscono i due fulcri intorno ai quali si innestano corti, terrazze a giardino pensili e disposti su più livelli, loggiati, torri, congiunti da una trama di percorsi che ne fanno un unicum in ambito padano lombardo. Oggi il “Castello di Mantova” é in gran parte spoglio dal momento che, a partire dai primi decenni del Seicento, un cospicuo numero
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Figg. 3-4 Vedute di Mantova dal Lago Inferiore.
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di opere della Collezione dei Gonzaga, una delle raccolte d’arte più prestigiose del Rinascimento italiano, venne venduta da Vincenzo II a Carlo I Stuart, re d’Inghilterra. Il potere di Mantova declinò con l’indebolirsi della famiglia Gonzaga fino a trasformarsi, da una delle capitali più ricche del Rinascimento, a una città decadente e povera. Sono i diari di viaggio di letterati e poeti che ci tramandano la visione di una città sospesa tra le acque dei laghi e l’azzurro del cielo. Charles Dickens, venerdì 15 novembre 1844, giunge a Mantova da Verona: Mi chiedo meravigliato se a quel tempo la strada per Mantova fosse così bella! Si snodava amenamente attraverso terreni da pascolo così verdi, con gli stessi rapidi torrenti e cosparsa di vivaci macchie d’alberi leggiadri! Di certo anche allora quelle montagne purpuree si adagiavano sull’orizzonte; e le vesti di quelle giovani contadine – che portano dietro i capelli con un grande pettine d’argento, ornato di nodi come un bastone inglese da difesa – non possono essere cambiate di molto. Il sentimento colmo di speranza di un mattino così luminoso e un sorgere del sole così vivo non poteva esser ignoto al cuore di un amante esiliato, e la stessa Mantova – con le sue torri, le mura e la sua acqua – dovette apparirgli aggraziata, per quanto ordinario possa essere vederla da una carrozza pubblica, percorrendo forse le medesime serpentine tortuose e le brusche curve sopra due ponti levatoi che rimbombano; passò attraverso un lungo ponte di legno, coperto, e lasciandosi alle spalle le acque stagnanti si avvicinò alla porta arrugginita della città palustre19.
Mantova, agli occhi dello scrittore inglese, appare decadente, povera ; una città che ha perduto, forse per sempre, il carattere nobiliare che la contraddistinse nei secoli passati. All’interno delle Pictures from Italy Dickens, come lui stesso avverte, privilegia la descrizione dei luoghi a scapito dell’arte21. Emblematica, in tal senso, è la pagina di diario in cui egli descrive le anatre starnazzanti in un aia dinnanzi a una galleria di quadri, omettendo completamente la parte inerente le opere artistiche22. A Mantova, però, lo scrittore sente maggiormente l’incanto del paesaggio dei laghi e della vegetazione naturale che circondano la città. Il momento culminante del suo soggiorno coincide con la visita a Palazzo Te: 20
Il segreto della lunghezza degli orecchi di Mida sarebbe stato molto più conosciuto se quel suo servo che lo sussurrò alle canne fosse vissuto a Mantova, dove di canne e giunchi ce n’è a sufficienza per divulgarlo a tutto il mondo. Palazzo Te sorge su una palude tra questo tipo di vegetazione ed è davvero uno dei posti più singolari che io abbia visto. Non per la sua tristezza, sebbene sia assai triste. Non per l’umidità, sebbene sia umidissimo. Non per lo stato di desolazione, sebbene sia tanto desolato e abbandonato quanto è possibile che lo sia un edificio. Ma principalmente per gli inesplicabili incubi con cui il suo interno è decorato (tra gli altri soggetti di più piacevole esecuzione) da Giulio Romano23.
Sessantasei anni dopo, Vernon Lee, scrittrice inglese di formazione cosmopolita, ribadisce il legame della città con il suo paesaggio24: ne emerge una descrizione pacata in cui l’acqua dei laghi insieme con la pietra rossa degli edifici costituiscono lo scenario sul quale si forma
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Figg. 5-6 L’esedra di Palazzo Te e la loggia sul giardino.
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lo spirito e il carattere della città. Lo scritto sui “laghi di Mantova” fa parte della raccolta di viaggio pubblicata in un libro dal titolo eloquente: Genius loci. Lo spirito del luogo (2007). Il genius loci per Vernon Lee si identifica con una codificazione identitaria; ogni località possiede una sua memoria nascosta. Attilio Brilli, nell’introduzione al libro, parla di momenti della giornata che consentono la percezione di una consonanza coincidente con lo spirito del luogo: «Allora il luogo può rivelarsi nella sua estatica essenza, in un’epifania dolente che condensa lo spazio e annulla il tempo»25. La stessa scrittrice distingue radicalmente un ricordo di un luogo – un rapporto pratico e accidentale – dallo spirito del luogo: Genius Loci. Una divinità, di sicuro, grande o piccola a seconda dei casi, che merita una silenziosa adorazione. Ma per carità, non una personificazione; non un uomo o una donna con tanto di corona e di attributi e una definita e detestabile storia come le terribili signore che siedono intorno Place de la Concorde. Pensare ad un luogo o ad un paese in forma umana è, a dispetto dell’abitudine dei retori, non pensarci affatto. No, assolutamente no. Il Genius Loci, come tutte le divinità degne di venerazione, ha la sostanza del nostro cuore e della nostra mente; è una realtà spirituale. E quanto all’incarnazione visibile, è il luogo stesso o il paese; e le fattezze e il linguaggio che gli sono propri sono la configurazione del terreno, la pendenza delle vie, il suono delle campane o delle chiuse d’acqua, e sopra tutto, forse, quella combinazione che colpisce in maniera strana, colta da Virgilio, di fiumi che scorrono intorno alle antiche mura delle città: Fluminaque antiquos subter labentia muros. [...] e questo mi ricorda che, sebbene ciò che chiamo Genius Loci non possa esser personificato, può accadere di sentirlo più vicino e più intenso in qualche singolo monumento o in qualche tratto del paesaggio26.
In questo senso, si può dire che Vernon Lee anticipi Aldo Rossi. L’architetto milanese, nell’Architettura della città, rileva come il locus sia una delle componenti fondamentali per lo studio di una città; questo coincide con il rapporto singolare tra una situazione locale e le sue costruzioni, i suoi monumenti. Per Rossi è fondamentale l’apporto del locus nella progettazione e nello studio della città e del paesaggio27. Certamente, si tratta di due visioni differenti: da un lato vi è il pensiero di una scrittrice in viaggio nell’Italia di fine Ottocento; dall’altro vi sono le riflessioni di un architetto. Entrambi partono dalla figurazione antica della divinità locale che presiede a ogni evento all’interno della comunità, per arrivare a concepire lo spirito del luogo come fatto interiore al paesaggio ma disgiunto dalla memoria, poiché se essa racchiude sincronicamente la storia e gli eventi passati, lo spirito, attraverso il tempo presente, narra l’essenza stessa del luogo stesso. Nel diario di Vernon Lee l’architettura di Mantova è parte del paesaggio: La città mantiene molte tracce dell’antico splendore, sebbene da quando i fastosi Gonzaga furono costretti a cedere il Ducato all’Austria, sia stata spogliata più di ogni altra dei suoi dipinti, tanto da arredare tutte le gallerie d’Europa. […] Tutti gli edifici hanno assunto un colore bianco slavato per l’umidità e i tetti e le torri sono di un pallido rosa, quasi sbiadito, in contrasto con il cielo sempre acquoreo e azzurro. Ma ciò che colpisce a Mantova è l’incredibile combinazione, il fantastico
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Figg. 7-8 Veduta del cortile della Casa del Mantegna e del Lago Inferiore dal Cortile della Cavallerizza nel Palazzo Ducale.
22 duetto del palazzo e del lago. Naturalmente si visita prima la parte antica, il castello di mattoni rossi dei Marchesi di un tempo in una delle cui grandi torri quadrate ci sono i meravigliosi affreschi del Mantegna: affascinanti cupidi, simili a soffici nuvole trasformate in puttini che giocano nel più bel cielo azzurro tra ghirlande di ortaggi, di aranci e di limoni che formano degli archi trionfali con i Marchesi di Mantova e tutti i giovani spavaldi Gonzaga. L’intera decorazione, dove predominano l’azzurro, il bianco e il verde smaltato, è delicata seppur fredda nel suo splendore, ma di certo è la più integralmente godibile rispetto alla gran parte delle opere del Mantegna. Tuttavia le finestre della torre incorniciano qualcosa di più bello e delizioso: uno dei laghi! Le acque di pallido azzurro orlate di canne verdi, i pioppi e i salici della retrostante pianura, la vaghezza bluastra delle Alpi e il tutto unito dal lungo ponte del castello con le torri di mattoni color geranio chiaro. Si deve passare attraverso immensi cortili per arrivare da quest’ala fortificata al resto del Palazzo, o Corte Nuova, come viene chiamata. [...] Di tutti i palazzi in rovina che ho visitato in Italia, questo di Mantova è nel peggiore stato che si possa immaginare. All’inizio è questa l’unica sensazione che si prova. Ma a poco a poco, mentre ci si aggira per miglia e miglia di solenne desolazione, si scopre che, a differenza di altri luoghi in simile stato, esso ti si imprime nella mente28.
Infine è il paesaggio intorno ai laghi, vibrante di profumi e colori, è Mantova, città sospesa tra acqua e cielo, avvolta nei suoi umidi mattoni, specchiata sull’azzurro del lago, che genera l’immagine dell’indissolubile rapporto secolare dell’architettura con il luogo. Ma tutto intorno c’è un verde lussureggiante e fiumi dall’aspetto inglese serpeggiano con l’acqua a livello del terreno fra i grandi salici. Lasciammo Palazzo Te dietro di noi e ci dirigemmo a Pietole, il luogo natale di Virgilio. Ma rimanemmo stregati dalla magia di uno dei laghi. Sedemmo sui meravigliosi e verdi argini che erano già stati fortificazioni degli austriaci, con gli alberi che si immergevano nell’acqua e il delizioso odore, fresco e maturo, delle foglie e dei fiori bruciati dal sole e notammo la folta presenza di grossi pesci nell’ombra verde del ponte ferroviario. Di fronte a noi, sotto le mura rossastre della città, s’estendeva un immenso campo di bianche ninfee, e più oltre, tra l’acqua azzurra lievemente increspata, si ergevano le torri, le cupole e i bastioni del palazzo dei Gonzaga, del più pallido rosa che si possa immaginare, inconsistente, del tutto irreale nella calura vibrante del mezzogiorno29.
Guido Piovene inizia il suo Viaggio in Italia nel dopoguerra (19531956). Anch’egli, come Charles Dickens e Vernon Lee, giunge a Mantova da Verona dove, scendendo verso sud, il Veneto si mischia con l’Emilia per giungere, infine, nella bassa Lombardia. La pianura mantovana, paragonata all’Olanda, è vista come il «regno delle acque, del latte, delle colture uniformi e testarde»30. Il suo destino è legato alla bonifica delle terre per proteggersi dalle acque dei fiumi, che qui abbondano. Piovene descrive Mantova come una fortezza chiusa in se stessa: la città è uno scrigno di segreti che solo un visitatore attento può scoprire31. Lo scrittore si addentra nella città e sottolinea immediatamente il rapporto con il paesaggio agricolo; persino il centro urbano, che nei
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secoli precedenti visse lo sfarzo di una delle più importanti famiglie italiane, ha l’aria di un grande borgo32, se escludiamo la grandezza della basilica di Sant’Andrea. Lo stupore sovviene all’interno del Palazzo dei Gonzaga: Se penetriamo nel palazzo, ecco invece la meraviglia, la sorpresa teatrale; è, dentro Mantova, un’altra città nascosta. Perciò il palazzo suggerisce la fantasia del labirinto e del gioco di specchi. Si può vagabondare a lungo per quelle sfilate di sale fastose, scoprire piccoli appartamenti geniali, imbattersi in giardinetti circondati da architetture, partecipare al gioco dell’appartamento dei nani, con scale, porte,stanze e nicchie adatte alla loro statura; e fermare il vagabondaggio nella Camera degli Sposi affrescata da Andrea Mantegna33.
È da una delle tante finestre del Castello di San Giorgio affacciate sul lago che Mantegna dipinse La morte della Vergine34. La finestra della sala in cui i Santi vegliano il corpo della Madre di Cristo inquadra il lago, con il ponte di San Giorgio che conduce dalla città ai campi agricoli padani: il ponte fortificato – un edificio coperto a più piani – costituisce una protesi della città estesa verso la campagna antistante. Lo stato di decadente ricchezza insito all’interno del complesso gonzaghesco scatenò la fantasia dei romantici e di coloro che videro in Mantova una città, come la definì Dante, immersa in terre paludose. Aldous Huxley la definì la città più romantica del mondo35. L’incanto prosegue allontanandosi dal centro: «In tempi meno militari, il piacere di vivere ruppe la scorza e dilagò alle porte di Mantova. Qui sorse il Palazzo Te, una delle molte decine di ville che i Gonzaga fecero costruire, e che serviva soprattutto di scuderia per i loro cavalli. [...] La fantasia mantovana finisce in un’opera di cultura che consuma se stessa al servizio della voluttà»36. Passano trent’anni e il paesaggio muta profondamente. Guido Ceronetti racconta di un luogo desolato, deprimente: il suo apocalittico e pungente (Un) viaggio in Italia (1981-1983) narra la distruzione del paesaggio padano per mezzo della mano dell’uomo e dell’avvento dell’industrializzazione: non un paesaggio in cartolina, dunque, ma una spietata e lucida narrazione dello svuotamento culturale per mezzo di una modernizzazione che ha prodotto, e produce, macerie. La vecchia legge dell’orrore del vuoto vale anche nella storia delle civiltà umane. Se si crea un vuoto nella vita agricola, gli sottentra un orecchio, un’unghia dell’Estensione industriale, deserto molle, zuccherato, che piace. La Bestia porta denaro; s’instaura la paura... Così l’espiazione per la colpa di esser nati non ha mai fine... È l’enigma morale del mondo. [...] Finché esisteranno frantumi di bellezza, qualcosa si potrà ancora capire del mondo. Via via che spariscono, la mente perde capacità di afferrare e dominare37.
Ad Andes La strada si biforca, una va al Mincio, l’altra si chiama via Virgiliana... Campi di mais e indecenti villini (non c’è più il generale Miollis a proibire l’indecenza) ornati di assurde conifere. La visione del Mincio, in fondo alla strada, tra i canneti, potrebbe essere sublime; è infernale, perché sulla sponda opposta c’è la Zona Industriale mantovana, dominata dal Petrolchimico, le mura di Dite.
24 Sulla riva qua e là straripata c’è qualche pescatore. Tre o quattro pesciolini buttati lí da un vecchio che dice di essere venuto a pescare per la prima volta: «Ma ne prendete»? «Pochi». (È afono. Molti gli afoni, da queste parti). «Di sicuro è avvelenato. Non vedi cosa c’è laggiù?» «Non so...». (Gli altri tacciono: non gli piace sapere che pescano veleno). Ma certamente lo sanno; e restano lì, a far spenzolare la canna sull’acqua torbida...38
La visione di una città agricola e rurale descritta da Piovene è soltanto un ricordo: la città ora si è sviluppata in contraddizione alla sua natura secolare. Fuori Mantova, nel paesaggio padano, Sabbioneta – la città monumento – appare «come una tomba ben curata, piena di targhe. Non si vede un solo abitante. Le strade senza voci. [...] Il Rinascimento è un cimitero di Dei, un carnaio scoperchiato e messo in profumi, un crematorio di nomi e di immagini dileguate che una rete ha catturato per sacrificare a un Dio impersonale e fastoso, amante delle pitture, delle sculture e dei labirinti ma senza occhi»39. La gloriosa città di Vespasiano Gonzaga è ridotta, tutt’ora, a uno splendido tentativo di città ideale privo dell’anima. Viadana invece «è un borgo bruttissimo, per fortuna c’è il Po, per annegarsi»40. La penna pungente e sarcastica dello scrittore mette in risalto una condizione sociale di assoluta semplicità: gli abitanti non sono interessati a nulla; a loro basta ritrovarsi in riva al grande fiume a giocare a carte o a pescare. La pianura mantovana sembra tutta avvolta in una dimensione onirica, come Mantova. «Passeggiata notturna per Mantova semibuia, tra scorci e apparizioni fantastici, mentre la pioggia ha tregua, vedo i sogni entrare nelle vecchie piccole case (2 ottobre, mezzanotte)»41. Forse Ceronetti si è accorto che la città, di notte, conserva quella magia che le è stata privata con l’avvento soffocante dell’industrie: la città del sogno. È intitolata a Mantova una raccolta di saggi di Yves Bonnefoy. In Un sogno fatto a Mantova, tornando dalla Grecia alla Francia passando per l’Italia, egli decide di fare sosta a Mantova per far visita alla grande mostra sul Mantegna. Durante il sogno notturno, l’interno della “casa dell’immortalità” abitata da fanciulle («“Ma che cosa dovremmo farne – mi dissero – Siamo le fate, non ci occorre niente. Cuciniamo per divertirci. Questa è la casa d’immortalità”») rivelerà al poeta l’essenza stessa del reale nel suo rapporto con il tempo, fino a fargli scoprire, una volta tornato a Parigi, che la realtà sia nient’altro che sogno. Non era forse la nostra esistenza, quella che il mio sogno d’Italia aveva già voluto significare, nel suo essere illusorio, con la sparizione finale di tutte le apparenze? Una frase variabile, dalle cancella-
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Fig. 9 Basilica di Sant’Andrea: particolare del fronte (foto di Gianni Braghieri).