Identità dell'architettura n 11 2013

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Identità dell’architettura italiana

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Identità dell’architettura italiana 11° Convegno Firenze, piazza San Marco Aula Magna dell’Università degli Studi 3-4 Dicembre 2013 Il Convegno è organizzato da: Università degli Studi di Firenze DIDA - Dipartimento di Architettura Dottorato di ricerca in Architettura / Progettazione Architettonica e Urbana Con il patrocinio di: Comune di Firenze Casabella Con il sostegno di:

Comitato scientifico: Fabio Capanni, Francesco Collotti, Maria Grazia Eccheli, Fabrizio Rossi Prodi, Paolo Zermani Direttore del Dipartimento: Saverio Mecca Direttore amministrativo: Stefano Franci Responsabile area ricerca: Gioi Gonnella Segreteria organizzativa: Grazia Poli Cura scientifica e redazione del catalogo: Giulio Basili, Lisa Carotti, Chiara De Felice, Salvatore Zocco Le fotografie e i disegni pubblicati sono stati forniti dagli autori dei progetti e delle opere in catalogo. L’editore è a disposizione degli eventuali aventi diritto in base alle leggi internazionli sul copyright Il volume è realizzato da Edizioni Diabasis - Diaroads srl Vicolo del Vescovado, 12 - 43121 Parma ISBN 978-88-8103-815-2 © 2013 4

EDIZIONI DIABASIS


Indice p.

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Paolo Zermani Il nuovo nell’eterno FOTOGRAMMI

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Olivo Barbieri Giovanni Chiaramonte Mauro Davoli Mimmo Jodice Joel Meyerowitz Stefano Topuntoli OPERE E PROGETTI

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Alvisi Kirimoto+Partners Carmen Andriani Anselmi & Associati Arrigoni architetti Barozzi / Veiga Gabriele Bartocci Giulio Basili Enrico Bordogna Gianni Braghieri Nicola Braghieri Alberto Breschi Riccardo Butini Fabio Capanni Massimo Carmassi Francesco Collotti Aurelio e Isotta Cortesi Claudio D’Amato Antonio D’Auria De Leo, Sakasegawa, Volpe Giorgio Della Longa Pietro Derossi Maria Grazia Eccheli e Riccardo Campagnola Alberto Ferlenga Massimo Ferrari Emanuele Fidone Massimo Fiorido Mauro Galantino Giorgio Grassi Vittorio Gregotti Ipostudio architetti Isolarchitetti Labics Vincenzo Latina Caterina Lisini e Francesca Mugnai Liverani/Molteni architetti Carlo Magnani Alberto e Giovanni Manfredini MaP Studio Vincenzo Melluso Bruno Messina Carlo Moccia Monestiroli Architetti Associati Marino Narpozzi Adolfo Natalini Nicola Pagliara Marcello Panzarella Paolo Portoghesi Franco Purini

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Sandro Raffone Luigi Ramazzotti Fabrizio Rossi Prodi Andrea Sciascia Luciano Semerani Laura Thermes Angelo Torricelli Giovanni Tortelli e Roberto Frassoni Werner Tscholl Francesco Venezia Paolo Zermani

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Identità dell’architettura italiana

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Il nuovo nell’eterno

Nel suo libretto La fiamma di una candela Gaston Bachelard ci ricorda come, per molto tempo, sul tavolo di ogni sapiente «accanto agli oggetti prigionieri della loro forma, accanto ai libri che istruiscono lentamente, la fiamma di una candela richiamava pensieri senza misura, evocava immagini senza limite». La similitudine con la fiamma non è soltanto – applicata all’architettura – un esercizio di possibile rêverie. Nella fiamma, come nell’architettura, deve esistere un fuoco doppio, l’uno più forte che divora l’altro, «sulla fiamma che sale vi sono due fiamme: l’una è bianca, e riluce e risplende, con la propria radice azzurra in cima; l’altra è rossa, ed è unita al legno e al lucignolo che essa brucia. La bianca sale direttamente in alto, mentre sotto rimane ferma la rossa, senza abbandonare la materia, fornendo all’altra ciò che di essa fiammeggia e riluce». In questa dialettica dell’attivo e del passivo, dell’attivo e dell’agente, dei participi passati e dei participi presenti, sta il senso della conquista della luce – la luce dell’opera di architettura – che non può vivere, evidentemente, senza un tempo storico e senza una materia. All’interno di un orizzonte di valori che conferisce senso e significato a cose fino ad allora considerate insignificanti, assume senso la trasformazione, non solo temporale, ma sostanziale, della fiamma rossa in fiamma bianca. La fiamma bianca deve giungere a sterminare le materialità che la nutrono e la alimentano. Ecco, ogni volta il nuovo, l’unico nuovo auspicabile. «Questa luce un soffio l’annienta, una scintilla la riaccende. La fiamma è facile nascita e facile morte. Vita e morte possono essere posti qui l’una accanto all’altra». La lezione morale ne consegue. La coscienza morale deve divenire fiamma bianca «bruciando le impurità che alberga. E chi brucia bene brucia alto». Coscienza e fiamma hanno lo stesso destino di verticalità. La semplice fiamma della candela designa bene questo destino, lei che «va deliberatamente in alto e torna al luogo della sua dimora, dopo avere compiuto la sua azione in basso senza mutar mai la sua lucentezza in altro colore che non sia il bianco». È ancora nel chiuso di una stanza che ci trasporta Orhan Pamuk, al fine di spiegare come, ogni volta, per lo scrittore, la letteratura rinasce nella propria carica di novità, notando che «Chi scrive parla di cose che tutti conoscono ma non sanno ancora di conoscere». In La valigia di mio padre egli testimonia del ruolo avuto dal padre, appassionato di letteratura che viaggiava spesso in Occidente, si era costituito una ricca biblioteca e si dilettava segretamente nella scrittura, nella sua formazione di romanziere. Due anni prima di morire, il padre affida al figlio la valigia in pelle contenente i propri scritti e riflessioni, che Pamuk non aprirà per molto tempo nel timore di restare deluso o spiazzato dal suo contenuto. La valigia, ancorchè chiusa, ha però compiuto la propria missione. La vita ha già definito i termini del rapporto tra generazioni e nulla avrebbe potuto impedire la trasmissione di una passione analoga e diversamente vissuta tra padre e figlio. Il vero lavoro «è quello di sedersi al tavolo e di chiudersi pazientemente in sé stessi. Scrivere è trasmettere questo sguardo interiore alle parole, ricercare un nuovo mondo nella propria mente […]. Quando passo giorni, mesi, anni, scrivendo su un foglio bianco, seduto al tavolo, sento di costruire un nuovo mondo, una nuova 8


persona dentro di me, proprio come coloro che costruiscono un ponte o una cupola, pietra su pietra. Le pietre di noi scrittori sono le parole. Le tocchiamo, sentiamo il rapporto che hanno tra loro, qualche volta le guardiamo da lontano, qualche volta le accarezziamo con le dita o con la punta della penna, le pesiamo, le sistemiamo e così, per anni, con determinazione, pazienza e speranza, costruiamo nuovi mondi». La valigia, se aperta, avrebbe potuto svelare allo scrittore un contenuto non necessario, quando in realtà il messaggio del padre era già stato affidato in dote. Ma la valigia, muta nell’angolo della stanza, è l’icona ambigua e decisiva, andata e ritorno,orizzonte e confine, di questa trasmissione che Pamuk, attaccato alle radici di Istanbul, frequentatore letterario dell’Occidente, pone alla base della costruzione del suo nuovo mondo. Flannery O’Connor, riferendosi ancora al concepimento del romanzo, fissa concretamente il concetto insito nella creazione dell’opera d’arte con un efficace paradosso secondo cui «La letteratura può trascendere i propri limiti solo mantenendosi al loro interno». Il presupposto non è dissimile da quello che si pone al lavoro dell’architetto, in cui la condizione di vita e di morte delle cose, il fragile equilibrio che sottende alla genesi e sopravvivenza dell’opera (nell’ordine fisico ma, anche e soprattutto, nel proprio esistere dotato di senso) sono sempre vincolati alla sopraffazione di uno stato precedente. Nella vicenda dello scomparire o di un manifestarsi che brucia il proprio essere precedentemente esistito, culminante con un sacrificio, risiede la possibilità di intravedere l’eterno, attraverso la manifestazione del nuovo. Non ancora di abitarlo, però, non pienamente, non ancora per sempre, perché il processo qualitativo secondo cui l’eterno si manifesta non è legato alla durevolezza delle povere pietre dell’opera, né al suo mostrarsi presente, ma alla capacità dell’opera stessa di collegare un già stato e un’attesa. Le regole che presiedono all’ottenimento di questo stato di attesa sono molto rigide e per questo si può affermare che non si devono trascendere i limiti della disciplina, in architettura, come in letteratura, come in natura. Il piccolo universo di una stanza o di una candela, il minimo atto di modificazione del nostro paesaggio, se vissuti consapevolmente, sono dunque sufficienti per dare alimento al cambio di scala che riporta la materia della vita e il corpo delle cose esistenti alla loro ripetizione diversa, concependo la sostanza del nuovo. Una materia depurata dalla distanza di una temporanea separazione consente di intravedere il contenuto di nuova vita, che comunque genera da un ritrovarsi e non ne può prescindere. Ogni atto del nuovo, più che mai in architettura, costituisce lo strato che un viaggiatore, conosciuto o a volte anonimo, ha consentito prendesse corpo dalla combustione di strati precedenti, su cui la vita si è manifestata, bruciata o fissata. Come la valigia chiusa o la fiamma, così per l’architettura, in questo contesto il nuovo è dunque una assunzione di distanza, una variazione del modo di rappresentare la stessa cosa, di riconoscere in quest’ultima la parte degna di convivere con l’antico che a essa si è offerto. Paolo Zermani 9


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Fotogrammi

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Giovanni Chiaramonte

Santuario della Beata Vergine delle Grazie, Stuffone, Ravarino (Modena), 2012 Chiesa di Sant’Egidio Abate, Cavezzo (Modena), 2012 Interno Perduto L’identità del paesaggio italiano, il suo contributo antropologico e culturale nell’attuale momento della storia del mondo, si situa non solo nell’eccezionale singolarità del capolavoro, ma nella totalità dell’orizzonte con cui il capolavoro si relaziona. Avendo abitato per lunghi periodi della mia infanzia e della mia giovinezza a Padova, la campagna veneta ha sempre rappresentato per me l’identità del paesaggio italiano. Ho cominciato a conoscere e ad amare il paesaggio emiliano a sud del Po, soprattutto quello nei dintorni di Modena, ormai trentenne. È stato a metà degli anni Settanta, osservando l’orizzonte della pianura dal finestrino di una lentissima Volkswagen Maggiolino, guidata dall’amico Luigi Ghirri, uno dei più importanti fotografi della mia generazione. Eravamo impegnati nell’esplorazione lungo la via Emilia, alla ricerca dell’originale perduto, attraverso il labirinto esterno alzato dai chilometrici capannoni industriali di cemento e dai nuovi centri direzionali di ferro e vetro. Nell’azzurro crepuscolo di una sera d’inverno, davanti alla chiesa di Cittanova, scattando una foto, Ghirri disse: «Sarebbe bello morire in un posto così». E in un posto così c’è morto davvero, nella grande cascina di Roncocesi, dove dal 1992 è sepolto. La mattina della seconda scossa del terremoto nel 2012, ho capito che valeva anche per me la frase di Gabriel Garcia Màrquez: «non si è da nessuna parte finché non si ha un morto sottoterra». Alla vista delle rovine create dal sisma, ho dovuto prendere atto che anch’io facevo ormai indissolubilmente parte di quella terra emiliana e così mi sono messo a percorrere fotografando le campagne tra Cavezzo, Concordia, Camposanto, San Felice, Crevalcore, Mirandola, cercando di testimoniare la ragione viva di un paesaggio in cui e per cui valesse ancora la pena di vivere e morire.

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Opere e progetti

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Aurelio e Isotta Cortesi

Rinnovo urbano dell’area Marzotto, ex stabilimento industriale, Manerbio (BS) Aurelio e Isotta Cortesi; collaboratore principale Michelangelo Tiefenthaler; collaboratori Sara Belletti, Carlotta Gobbi, Marcello Pagani 2012-2013

Gli interventi a scala urbana, come nel caso del riuso di aree recuperate, devono ricercare, in un programma temporale esteso, quegli strumenti tecnici in grado di garantire la continuità di operazioni congruenti e sostenibili rispetto a progetti che, nel tempo, possano anche mutare gli originari indirizzi compositivi. Per questo si sono assunte le linee programmatiche della committenza, volte alla ricerca sull’area del maglificio Marzotto di temi e problemi già sperimentati in loco, del “far grande” e del “vedere oltre”, dell’aggregazione di condizioni funzionali a un quadro dell’esistente che fissa le regole del nuovo insediamento rispetto al carattere dominante del centro urbano di Manerbio. Una città già disegnata nel tempo con alterne vicissitudini, e prescelta strategicamente come polo industriale all’interno di un assestato sistema agricolo. Il “far grande” e il “vedere oltre” di Marzotto, nel Novecento, accompagna l’insediamento della fabbrica alla crescita dei servizi sociali, dando loro un rilievo a scala cittadina, mediante l’ausilio di una appropriata qualità del fare architettura che, strategicamente disposta sul territorio con realismo, riflette sulle operatività dell’avanguardia europea sulle tecniche d’insediamento. Un lavoro attento, dagli esiti lusinghieri, ove l’opera d’architettura dell’autore Francesco Bonfanti appare legata ad un “Novecento” garbato, tributario alla sua frequentazione veneta con Wenter Marini e alla successiva collaborazione con il Giò Ponti della palazzata di piazza San Babila a Milano. Nei suoi interventi a Manerbio, l’enfasi dell’architettura del Novecento è mitigata nella declinazione gentile di una modernità che si integra alle ragioni contestuali dell’esistente – e questo è un tratto originale del suo comporre – per proporsi un itinerario pontiano di un’apologia dell’abitare dai tratti familiari di un’epopea postrazionalista, derivati dall’ambito nord europeo. Dalle sperimentazioni predette, si ricava che gli obiettivi da raggiungere sull’area devono essere condivisi e unitari. La rinnovata integrità del luogo rimanda a un’idea di progetto posto su una piastra sospesa che dà riparo e accoglienza alle funzioni obbligate dei servizi necessari, quali il commerciale, col direzionale e il residenziale, nonché il pubblico-assistenziale. L’intero comparto si collega, in un continuo strategico, alle aree circostanti, ove il permanere delle opere esistenti traccia i confini della nuova dimensione del “far grande” di una città rinnovata, con la creazione di un Parco e di una Piazza, anzi di un Sentierone, quali testi prioritari del percorso pedonale allineato nobilmente, guarda caso, con l’accesso della residenza comitale dei Luzzago di Bagno, ora Palazzo Comunale.

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Pietro Derossi

Nuova manica di accoglienza di Villa della Regina, Torino (TO) Derossi Associati (Pietro, Davide, Paolo Derossi) con Andrea Bogani, Giuseppe Cruciani Fabozzi, Stefania Dassi, Mario Fantozzi, Romana Fantozzi, Cinzia Ferrero, Maria Adriana Giusti, Anna Licata, Massimo Marrani, Marco Sala, Spira s.r.l. 2010

Il tema si pone come completamento del prestigioso restauro delle Villa della Regina, con l’intenzione di rendere il complesso museale più idoneo all’organizzazione e alla promozione delle visite. La collocazione dell’edificio di completamento richiesto assume un ruolo rilevante nel paesaggio architettonico della Villa e si inserisce nel sistema di riferimenti visuali e dei traguardi che legano la Villa alla città. La nostra proposta intende individuare un giusto equilibrio tra la lettura della tradizione ed esigenze di innovazione. La tradizione ci indica delle tracce di cose reali o immaginate: l’immaginazione le interpreta e le conduce a confrontarsi con il linguaggio dell’attualità. Il tema principale del progetto ci riconduce alla progettazione delle pareti che racchiudono il volume e lo pongono come elemento dialogante con il contesto. L’edificio in prima istanza istituisce un dialogo, con le sue quattro “facciate”, tre verticali e una orizzontale che guarda il cielo (il tetto-giardino), con le loro singolarità e le loro relazioni. La facciata sud, che può forse essere definita “facciata principale”, ci impone di ricordare e riportare la sua tradizionale funzione di citroniera. Gli esempi sono innumerevoli nel mondo sei-settecentesco, dove le citroniere costituivano lo sfondo di un giardino formale. Il richiamo alle forme della tradizione è in questo caso evocato dalle strutture esterne leggere in acciaio, disposte a sostegno dei rampicanti sempreverdi (genere ficus repens). La vetrata più esterna sale per costituire il parapetto del terrazzo e per permettere una comoda fruizione visiva del giardino anche dall’alto. La vetrata interna assume una forma sinuosa che accompagna, variando le visuali, il percorso del visitatore. La facciata ovest è costituita da una struttura metallica leggera che può sostenere un parete rivestita di un verde compatto e perenne (ficus repens) e che riprende metaforicamente le forme del palazzo Chiablese di prima maniera e oggi scomparso. Dietro la parete verde al piano terra si estende un porticato delimitato da una vetrata continua che separa dal locale bar-ristorante. La facciata a nord, di limitate estensioni, è anch’essa in muratura con poche aperture verso le zone di servizio. Una parete piena lesenata e rivestita come le altre in lamiera di rame (o bronzo) accompagna la salita ai giardini. La facciata che guarda il cielo è un tetto-giardino accessibile attraverso una scala interna dal piano terreno, ove è situato lo spazio estivo del bar-ristorante. Il giardino si estende nell’area nordest salendo a gradoni lungo i muri ciechi esistenti, ospitando viti ed essenze fiorite.

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Paolo Zermani

Chiesa, Gioia Tauro (RC) Paolo Zermani, Eugenio Tessoni; strutture: Paolo Martino 2008-2013

Il tempio costituisce l’elemento di trasmissione della religiosità anche attraverso la rovina, la lenta dissoluzione dell’organismo architettonico di cui si appropria, da sempre, un’altra fede. Gioia Tauro conserva oggi, della sua antica appartenenza alla Magna Grecia, soltanto il nome e la percezione lontana del mito. La città, dopo aver inseguito il miraggio di una negata ambizione industriale, è un grande porto di containers, forse il più grande del Mediterraneo. Guido Piovene osserva, già tra il 1953 e il 1956: «A Capo Colonna, sta l’unico relitto architettonico interessante anche per un profano che la civiltà greca abbia lasciato lungo il litorale calabro. È la splendida colonna dorica, unica nella solitudine, testimoniante il Tempio di Hera Lacinia, che fu il più grande della costa tra Reggio e Taranto, ornato dagli affreschi di Zeusi, stipato da immensi tesori, ma saccheggiato da Annibale e dai romani, devastato dagli uomini e più tardi dai terremoti, finché anche le colonne vennero adoperate ai principi del Cinquecento nei lavori del porto. Il culto di Hera Lacinia si è prolungato in quello, ricco di ricordi pagani, della Madonna Nera, cui si chiede la fecondità». Il mito resta, oltre le epoche, l’unico termine di raccordo possibile tra tempi diversi, qui come in tutta la Calabria. Non un tempio è sopravvissuto. Piovene lo spiega ricordando un periodo di decadenza troppo lungo delle città greche, segnato da guerre e spoliazioni, ma anche di edifici costruiti da grossi blocchi privi di malta, spesso di pietra tenera, che le alluvioni – le stesse che oggi fanno franare i villaggi – non risparmiarono, lacerando e disperdendo gli edifici, trasportandone il materiale lontano dal luogo dove era stato adoperato. La diaspora di quel lontano e disperso significato di tempio non è tanto distante dalle rovine erratiche del nostro tempo. La nuova chiesa, inserita nella maglia ortogonale della città, affacciata sulla via principale, è disposta con una inclinazione di circa trenta gradi, rivolta con l’abside a est. La pianta dell’edificio è data dall’accostamento di grandi blocchi parallelepipedi, quasi colossali parti di basamento. Essi, secondo il mito, potrebbero sostenere il cielo. Il più grande di questi corpi in pietra contiene l’aula, illuminata da un taglio verticale da terra a soffitto posto sulla parete est, in luogo dell’abside, verso cui tende il percorso processionale, in direzione dell’altare, della Luce. Qui lo spazio si incastra con un vuoto perpendicolare al percorso principale per definire un principio di transetto, formando una croce latina inserita nella longitudinalità dell’ordine insediativo iniziale. Il secondo corpo contiene funzioni che afferiscono all’aula (vi si incastra anche parte del transetto) e l’abitazione del parroco. Il terzo corpo contiene le funzioni pastorali.

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Alvisi Kirimoto+Partners Carmen Andriani Anselmi & Associati Arrigoni architetti Olivo Barbieri Giulio Basili Barozzi / Veiga Gabriele Bartocci Giulio Basili Enrico Bordogna Gianni Braghieri Nicola Braghieri Alberto Breschi Riccardo Butini Fabio Capanni Massimo Carmassi Giovanni Chiaramonte Francesco Collotti Aurelio e Isotta Cortesi Claudio D’Amato Antonio D’Auria Mauro Davoli De Leo, Sakasegawa, Volpe Giorgio Della Longa Pietro Derossi Maria Grazia Eccheli e Riccardo Campagnola Alberto Ferlenga Massimo Ferrari Emanuele Fidone Massimo Fiorido Mauro Galantino Giorgio Grassi Vittorio Gregotti Ipostudio architetti Isolarchitetti Mimmo Jodice Labics Vincenzo Latina Joel Meyerowitz Caterina Lisini e Francesca Mugnai Liverani/Molteni architetti Carlo Magnani Alberto e Giovanni Manfredini MaP Studio Vincenzo Melluso Bruno Messina Carlo Moccia Monestiroli Architetti Associati Marino Narpozzi Adolfo Natalini Nicola Pagliara Marcello Panzarella Paolo Portoghesi Franco Purini Sandro Raffone Luigi Ramazzotti Fabrizio Rossi Prodi Andrea Sciascia Luciano Semerani Laura Thermes Stefano Topuntoli Angelo Torricelli Giovanni Tortelli e Roberto Frassoni Werner Tscholl Francesco Venezia Paolo Zermani


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