Identità dell'architettura italiana n. 10/2012

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identità dell’architettura italiana

identità dell’architettura italiana 10 Diabasis

€ 20.00

Carmen Andriani Anselmi & Associati Arassociati Olivo Barbieri Gabriele Bartocci Gabriele Basilico Gianni Braghieri Nicola Braghieri Alberto Breschi Riccardo Butini Fabio Capanni Massimo Carmassi Francesco Cellini Giovanni Chiaramonte Stefano Cordeschi Aurelio e Isotta Cortesi Claudio D’Amato Antonio D’Auria De Leo, Sakasegawa, Volpe Pietro Derossi Maria Grazia Eccheli e Riccardo Campagnola Alberto Ferlenga Massimo Ferrari Emanule Fidone e Bruno Messina Mauro Galantino Gregotti Associati International Isolarchitetti Mimmo Jodice Vincenzo Latina Liverani/Molteni architetti Carlo Magnani Alberto e Giovanni Manfredini Vincenzo Melluso Monestiroli Architetti Associati Marino Narpozzi Adolfo Natalini Nicola Pagliara Marcello Panzarella Claudio Parmiggiani Paolo Portoghesi Franco Purini Sandro Raffone Fabrizio Rossi Prodi Andrea Sciascia Luciano Semerani Franco Stella Carlo Terpolilli Laura Thermes Angelo Torricelli Giovanni Tortelli e Roberto Frassoni Werner Tscholl Paolo Zermani


Identità dell’architettura italiana

Diabasis


Identità dell’architettura italiana 10° Convegno Firenze, Piazza San Marco Aula Magna dell’Università degli Studi 5-6 Dicembre 2012 Il Convegno è organizzato da: Università degli Studi di Firenze Facoltà di Architettura Dipartimento di Architettura – Disegno, Storia, Progetto Dottorato di Ricerca in Architettura / Progettazione Architettonica e Urbana Con il patrocinio di: Comune di Firenze “Casabella” Con il sostegno di:

Comitato scientifico: Fabio Capanni, Francesco Collotti, Maria Grazia Eccheli, Fabrizio Rossi Prodi, Paolo Zermani Direttore del Dipartimento: Ulisse Tramonti Direttore amministrativo: Gioi Gonnella Segreteria organizzativa: Grazia Poli Redazione del catalogo: Lisa Carotti, Silvia Catarsi, Francesca Mugnai Le fotografie e i disegni pubblicati sono stati forniti dagli autori dei progetti e delle opere in catalogo. L’editore è a disposizione degli eventuali aventi diritto in base alle leggi internazionali sul copyright Il volume è realizzato da Edizioni Diabasis - Diaroads srl Vicolo del Vescovado, 12 - 43121 Parma ISBN 978-88-8103-788-9 © 2012

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Indice p. 8 Paolo Zermani La forma del silenzio Incipit 12 Claudio Parmiggiani Fotogrammi 16 Olivo Barbieri 18 Gabriele Basilico 20 Giovanni Chiaramonte 22 Mimmo Jodice Opere e progetti 26 Carmen Andriani 28 Anselmi & Associati 30 Arassociati 32 Gabriele Bartocci 34 Gianni Braghieri 36 Nicola Braghieri 38 Alberto Breschi 40 Riccardo Butini 42 Fabio Capanni 44 Massimo Carmassi 46 Francesco Cellini 48 Stefano Cordeschi 50 Aurelio e Isotta Cortesi 52 Claudio D’Amato 54 Antonio D’Auria 56 De Leo, Sakasegawa, Volpe 58 Pietro Derossi 60 Maria Grazia Eccheli e Riccardo Campagnola 62 Alberto Ferlenga 64 Massimo Ferrari 66 Emanule Fidone e Bruno Messina 68 Mauro Galantino 70 Gregotti Associati International 72 Isolarchitetti 74 Vincenzo Latina 76 Liverani/Molteni architetti 78 Carlo Magnani 80 Alberto e Giovanni Manfredini 82 Vincenzo Melluso 84 Monestiroli Architetti Associati 86 Marino Narpozzi 88 Adolfo Natalini 90 Nicola Pagliara 92 Marcello Panzarella 94 Paolo Portoghesi 96 Franco Purini 98 Sandro Raffone 100 Fabrizio Rossi Prodi 102 Andrea Sciascia 104 Luciano Semerani 106 Franco Stella 108 Carlo Terpolilli 110 Laura Thermes 112 Angelo Torricelli 114 Giovanni Tortelli e Roberto Frassoni 116 Werner Tscholl 118 Paolo Zermani


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Identità dell’architettura italiana


La forma del silenzio

Che significato ha oggi chiedere silenzio? La cosa non corrisponde a un’aspettativa di mutismo, né a una generica rivendicazione minimalista. Il paesaggio italiano non è mai stato storicamente muto, piuttosto composto da tante voci, capaci di esprimere un insieme e realizzare un’esecuzione esemplare perché costituita da diversità, materie che hanno trasferito nel coro i significati più veri, trasposti dai tempi lunghi e dagli strati ove, solo, risiede il silenzio. Lo storico francese Henry-Irenée Marrou, fingendo, nel 1940, un trattatello di ricostruzione erudita del pensiero di S. Agostino (Traitè de la musique selon l’ésprit de S. Augustin) fissa icasticamente il valore del silenzio nell’arte contemporanea parlando di una “musica silenziosa”, che ancora molti attendono. Il tema costituito dalla “anticipazione dell’eterno” che l’arte deve contenere è tale per cui “la musica sonora che il movimento delle mie dita sulla tastiera realizza è dunque soltanto un’imitazione della musica silenziosa che vive nella mia mente”. Ne deriva che “il Direttore d’orchestra si sforza di costringere all’obbedienza l’équipe di lavoratori che dirige (o lo strumento che suona) e di fare in modo che essi realizzino un’imitazione così prossima, così il più possibile perfetta, della musica silenziosa ch’egli reca all’interno di sé e che contempla in ispirito.” Marrou ricorda peraltro come il ricorso a una nozione così specificamente agostiniana di una memoria del presente non sia sufficiente allo scopo finale in quanto percezione e ricordo possono apparentarsi, ma l’attualità più intensa non appartiene che alla sola percezione e si contrappone al ricordo. Egli sottolinea che la lenta conquista realizzata dal musicista, se interpretata in senso unicamente platonico, rappresenterebbe solo lo stesso sforzo di reminiscenza dello schiavo che ritrova, “scintillanti nel fondo della penombra, le verità eterne della geometria”. Mentre per Agostino quella reminiscenza testimonia del carattere spirituale della musica (dell’arte), del fatto che essa appartiene al mondo silenzioso che non è proprio solo dell’intelligibile, ma dell’anima, cioè di Dio”. “Dal vago schizzo iniziale nel quale tutto era caos, mescolanza e confusione, faccio sgorgare dal silenzioso santuario della memoria un’immagine musicale di una purezza, di una bellezza, di una perfezione ideali.” “Così l’esecuzione strumentale non è che un mezzo, subordinato come il suo fine, a una musica interiore che risiede nella parte più segreta del cuore, in seno a un misterioso silenzio.” “Alla tua altezza – scrive Agostino nelle ‘Confessioni’ – la bassezza della mia lingua confessa che tu hai creato il cielo e la terra, questo cielo che scorgo e la terra che calpesto, da cui anche viene questa terra che mi porto addosso; tu li hai creati. Ma dov’è Signore il cielo del cielo..? Dov’è il cielo che non vediamo, rispetto al quale tutto ciò che vediamo è terra? Così l’intera massa della materia, che non è dovunque per intero, assunse anche nelle sue ultimissime parti, il cui fondo è costituito dalla nostra terra, un aspetto attraente, ma di fronte a quel cielo del cielo, lo stesso cielo della nostra terra è terra.” Vista dal mondo terreno anche la volta del cielo è dunque parte della materia, ma si dispiega come temporanea illusione di cielo, già arricchita dalla presenza di luce, emendata cioè da quella natura invisibile e confusa che era in origine un’entità informe e priva di qualunque aspetto, prima che la materia stessa ricevesse una forma ordinata di colore, figura, corpo e spirito. Anche se è altro dal cielo del cielo la materia come grumo informe improvvisamente si illumina e si dispone secondo ordine e forma. Il percorso da svolgere, nel dare forma e ordine alla materia, consegue l’ineluttabilità della presenza del silenzio, elemento che segna, attraverso la cronologia delle cose, l’intersecarsi della materia con la vicenda umana fissandone le sovrapposizioni, sofferenze, strappi, illusioni.

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Qual è l’altra metà del paesaggio? Quale l’acqua in cui la materia si specchia? Quale il cielo e quale il cielo del cielo? Il destino dell’immagine è sempre nel suo riflettersi, ma anche l’acqua e il cielo appartengono alla terra. Non è evitabile all’arte un passaggio nella cultura materiale, prima di manifestarsi. Ma riferendosi alla trasformazione e illuminazione della materia invisibile e confusa, anche Agostino, nella sua speculazione prodotta a partire dalla materia terrena per giungere al centro del sacro, evocando le parole “Sia fatta la luce e la luce fu fatta”, si stupisce: “Quante cose ho scritto per poche parole, quante cose davvero!”. A fronte del naufragio del paesaggio che il Novecento ha introdotto e che noi viviamo, in cui la materia complessiva, per colpa dell’uomo, torna a farsi analogamente impercettibile e priva di forma, nuove cose urgenti devono essere scavate, scritte e ordinate dall’arte, per ammetterle a una zona di sospensione, sobriamente illuminata, che attribuisca misura e senso alla realtà e ne insegua la verità superiore. Il silenzio a cui vogliamo riferirci, riguardo all’architettura, non è una questione di forma, anche se investe la forma. Appare infatti, per l’architetto, la necessità di conferire al silenzio una forma, per costringerlo a parlare, ma la forma non è il fine nostro. Il rumore da cui siamo stati aggrediti da oltre un secolo, cresciuto fino a divenire assordante negli ultimi decenni, non è più soltanto quello evocato da D.H. Lawrence in visita al Lago di Garda ancora intonso: “Le regioni industriali si allargavano come una macchia nera su tutto il mondo, orribili e alla fine distruttive. E il Garda era così bello sotto il cielo luminoso di sole. Che oppressione! Perché via via lontano, al di la delle Alpi nevose iridescenti di ghiaccio eterno, c’era quella nera Inghilterra arida e sporca, consumata, quasi distrutta nell’anima”. Lawrence tuttavia comprende sin da allora che l’avvento della tecnica e della industrializzazione avrebbe prodotto, anche in Italia, insieme alla morte del paesaggio, il prosciugamento delle fonti e il rivolgersi a stimoli e sollecitazioni di superficie avrebbe toccato da vicino e inaridito il terreno dell’arte, portandola a seminare piante fragili e sovraesposte. Non vogliamo ora sostenere semplicemente la necessità di silenzio rispetto al frastuono delle forme vuote da cui l’architettura sembra investita, in una gara folle verso l’esibizione della gratuità e dei segni di superficie, dei tatuaggi evanescenti o permanenti. Ma proprio il principio di sospensione, di distanziamento dal processo in atto, espresso con gli scabri materiali dell’oggi, costituisce la fondamentale condizione critica del progetto, che qualifica, per converso, il suo stare nella realtà presente. Non è un caso che al silenzio si riferisca – storicamente – l’atto di costruzione del tempio, in ogni religione ed epoca e lo stato di sospensione evochi la necessaria consapevolezza che ogni nostro atto è sacro. Improvvisamente il silenzio appare e la sua presenza non si impone alla ingiustificata frenesia delle nostre parole, ma forse ha qualcosa da dire. Come l’ombra sostiene la luce, il silenzio sostiene le parole necessarie. “Sforzo indubbiamente paradossale – scrive ancora Marrou – che pretende di unire la totalità, la complessa unità del ricordo virtuale e la presenza immediata, la coscienza scintillante della sensazione-percezione; sforzo disperato per strappare l’anima alla durata, per offrirle, già su questa terra, il godimento di un presente che sia qualcosa di diverso dall’istante che vacilla, limite pericolante dell’inesistente futuro e del passato abolito.” Paolo Zermani

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Incipit


Claudio Parmiggiani

Senza titolo Collège des Bernardins, Parigi, 2008

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Fotogrammi


Olivo Barbieri

Dolomites Project 2010 Olivo Barbieri racconta le montagne come architetture progettate, dove il rischio e il limite di sostenibilità è lo stesso che già nel 1986 spinse Jean Baudrillard a scrivere “Ho cercato la catastrofe futura e passata del sociale nella geologia, in quel rivolgimento degli abissi testimoniato dagli spazi striati, dai rilievi di pietra e di sale, dai canyon lungo i quali scendono i fiumi, fossili, da quello spostamento lento, abissale, remoto che è l’erosione, e la geologia, fin nella verticalità delle metropoli.” I paesaggi marini, le grandi cascate, le montagne, i centri storici sono fragili parchi a tema. L’intrattenimento ha virtualmente sostituito il sublime. Il vedutismo delle megalopoli può per dimensione e considerazione competere per importanza, nell’immaginario umano, con la natura. Le Dolomiti sono forme simboliche in movimento la cui storia è iniziata duecentocinquanta milioni di anni orsono, il materiale che le compone viene da abissi oceanici e ne ricorda il disegno, quasi una storia della terra capovolta.

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Gabriele Basilico

Vista dal Ponte Sisto verso Nord , Roma 2007 Colosseo, Roma 2000 Ci sono edifici che, grazie alla sapienza di chi li ha progettati e alla visione di chi li fotografa, svelano una forma antropomorfa. Nelle architetture sono nascosti occhi, nasi, orecchie, labbra, volti che aspettano la parola, e la parola sembra poter nascere solo se essi vivono l’evento rivelatore della luce, nella condizione limite che è l’assenza dell’uomo dal quadro dell’immagine. Ma basta la presenza di un uomo a ridare all’architettura il valore di sfondo, a dare al vuoto il senso drammatico di un’assenza, mentre l’assenza dell’uomo toglie al vuoto la dimensione d’angoscia e fa del vuoto quello che veramente è. Questo perché il vuoto riempie se stesso e diventa soggetto in sé. Non penso di fotografare il vuoto nel senso di una mancanza di presenza, ma fotografo il vuoto come protagonista di se stesso, con tutto il suo lirismo, con tutta la sua forza, con tutta la sua umanizzante capacità di comunicazione, perché il vuoto nell’architettura è parte integrante, persino strutturale del suo essere. (da A. Lissoni, Gabriele Basilico. Architetture, citta, visioni. Riflessioni sulla fotografia, Milano 2007)

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Giovanni Chiaramonte

Belvedere sul Klausberg, Park Sanssouci, Potsdam, 2011 Belvedere sul Pfingstberg, Potsdam, 2011 Et In Arcadia Ego Nello spettacolo sempre nuovo e diverso della natura, come nell’incessante cambiamento della scena urbana, l’atto del fare silenzio che l’uomo impone a se stesso comporta una pausa del pensare, una sospensione nell’agire, un distacco dalla continuità vitale dell’esistenza, una sorta di paradossale ma effettiva uscita dal mondo. E proprio qui, nel silenzio che fa tacere il mondo, sembra situarsi il vero luogo di nascita di ogni uomo a se stesso. In questa uscita dal mondo si apre la porta d’ingresso verso l’identità personale dell’io. Nell’atto della riflessione, l’uomo può finalmente contemplarsi nello specchio della coscienza, scoprirsi corpo, vedersi come immagine e così cominciare a costruire finalmente il luogo del proprio abitare nel mondo. L’esperienza del silenzio per l’uomo è sempre l’attraversamento di una morte apparente al mondo esterno e l’operare nel mondo, a partire dall’atto muto della riflessione, si pone sempre come una morte apparente rispetto al proprio mondo interno: in questa contraddittoria e dinamica polarità pare situarsi la realtà dell’uomo. Nei dipinti di Guercino e Poussin, un teschio e un sarcofago ricordano che la morte è presente anche in Arcadia, nel luogo dove, ogni uomo nato a se stesso, una volta è stato. Questa esperienza si è situata per me, all’inizio della mia avventura nella fotografia d’architettura, lavorando nel 1984 su indicazione di Oswald M. Ungers e Marco De Michelis nel parco di Glienicke, all’estremo limite della foresta che circonda Berlino. Da allora, questa è un’esperienza che cerco di ripetere appena possibile: alzarmi nell’ultima parte della notte e uscire dalla città al sorgere del sole e quindi camminare nell’ombra umida del bosco sino al cancello del parco e da lì inoltrarmi nel giardino, dove le pietre di architetture morte portate dall’Italia edificano un luogo dove nessuno ha mai abitato davvero e mai abiterà. Per godere la bellezza prospettica dei viali e sentieri che da Glienicke si aprono verso Potsdam, il Pfingsberg e il Klausberg è necessario uscire dal mondo in cui si vive, sospendere ogni pensiero, morire a ogni preoccupazione, respirare profondamente, per contemplare in silenzio l’armonia che si trova di fronte a sé e dentro di sé. Attraverso il silenzio, oltre il silenzio, il corpo può fare esperienza della vita attraverso la morte, oltre la morte: Sanssouci.

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Opere e progetti


Gianni Braghieri

Concorso per un asilo nido e scuola materna, Roncofreddo (FC) Gianni Braghieri con Christian Casadei, Martina D’Alessandro e Alessandro Pretolani; consulenza per gli aspetti della psicologia infantile: Emanuele Valgiusti 2009

Il grande patrimonio architettonico che la storia ci ha tramandato nella costruzione di centri urbani sulle colline del territorio della Romagna diventa l’origine del nostro intervento che cerca di ritrovare un senso nell’adattarsi agli scoscesi pendii dell’area assegnata alla costruzione del progetto. Il progetto si vuole identificare come parte autonoma, come una piccola città dei bimbi, riconoscibile nella sua chiarezza compositiva e nella forma che si adagia sulle pendici della collina, ritrovando ai diversi livelli i collegamenti con le aree coltive all’intorno che diventano un grande parco didattico dove l’agricoltura ed il verde a prato e boschivo confermano la natura propria del territorio. L’architettura che ridisegna i nuovi spazi è l’architettura della storia dove le forme, i materiali e le strutture che la compongono sono quelle che la tradizione della grande architettura dei centri minori ha tramandato nei secoli. La nostra idea è quella di permettere la crescita dei bambini all’interno di spazi e percezioni che sono quelle che hanno costruito nei secoli il nostro paese. Abbiamo pensato di comporre il nostro progetto con una serie di padiglioni che riportassero il senso e la misura dell’architettura della quotidianità cercando nello stesso tempo di rinverdire i significati propri dell’architettura. Abbiamo volutamente enfatizzato gli spazi di ingresso, di accoglienza e collettivi, usando una proporzione e una forma che restituisca l’aulicità di quegli spazi. Abbiamo pensato alla lunga scala posta al centro del complesso e al centro dell’asse distributivo come ad una strada che segue l’andamento del terreno e che ripercorre al suo interno i valori ed i significati dello spazio esterno. La semplicità e razionalità del percorso centrale collega su due livelli l’atrio di ingresso (con le aule dell’asilo nido) alla sala collettiva dei giochi della scuola materna che si affaccia attraverso una porta finestra alla valle coltiva del parco. Al piano superiore, al fianco della grande scala, una sequenza di spazi per gli insegnanti e per i genitori con i relativi servizi si conclude in una sala che si affaccia sul grande spazio collettivo dei giochi della scuola materna. Al centro dello spazio quattro piccole case, che si possono comporre in un quadrato o essere poste ai lati della grande sala, ribadiscono, con il semplice disegno della casa primordiale, il significato proprio che il bambino ha della casa fatta di una porta, di una finestra e di un tetto a due falde. Tutte le aule e gli spazi dell’asilo nido si affacciano su spazi verdi esterni, ombreggiati, protetti e sicuri ma nello stesso tempo aperti alla campagna.

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Paolo Portoghesi

La “torre dell’angelo” - sede dell’Istituto di Ricerca Pediatrica per la Fondazione Onlus “Città della Speranza” a Padova Paolo Portoghesi; collaboratori: Roberto Chiatti e Pierluigi Pedicelli 2008-2012

Tra le proposte presentate al committente le due che riscossero il maggiore interesse erano basate sulla rotazione l’uno sull’altro dei dieci piani destinati ad ospitare i laboratori e i locali di accesso. La prima ripeteva un modello sperimentato nel 1957 per una torre di appartamenti a Santa Marinella, nella quale ogni piano era costituito da due rettangoli fusi in una sagoma di farfalla. La rotazione dei piani l’uno sull’altro attorno al cilindro verticale della scala era di 15° e l’effetto dinamico e avvolgente della volumetria appariva assai promettente. Anche il secondo modello si basava su un nucleo centrale cilindrico con due ali composte di elementi ruotanti in modo da configurare un insieme simmetrico. La rotazione di 5° consentiva di risolvere più facilmente il problema dei cavedi per la collocazione degli impianti e per il funzionamento dei servizi. La minore superficie esterna e il conseguente risparmio energetico portò alla scelta della soluzione che, con pochissime varianti, è diventata quella definitiva. Perché la rotazione e perché un ritorno al tema di un progetto che risale al 1966? Innanzitutto per l’emozione che provai quando venni a conoscenza, alla fine degli anni cinquanta, della scoperta della “doppia elica” del DNA. Molto prima, nel 1914, Th. A. Cook aveva scritto “The Curve of life” identificando nella spirale e nell’elica la curva presente in forma visibile o invisibile nella materia vivente e l’elica del DNA sembrò interpretare nella forma più alta e universale il carattere simbolico della geometria dando alle ricerche in questo campo, strutturalmente vicino all’architettura, un nuovo pregnante significato teorico. La rotazione dei volumi sovrapposti replica in qualche modo la disposizione delle molecole nell’elica del DNA, ma anche il progetto ridolfiano della torre dei ristoranti (1927), esposto alla prima Mostra dell’Architettura Razionale, e le colonne vitinee del Baldacchino di San Pietro di Gian Lorenzo Bernini, al quale aveva collaborato anche il giovane Francesco Borromini. Insieme alle eliche virtuali che si ottengono congiungendo i punti di innesto dei diversi volumi rotanti è apparso appassionante nel modello geometrico il dinamismo variabile, il senso di contrazione e dilatazione prodotto dal mancato allineamento degli spigoli, una evocazione di diastole e sistole del respiro che ha suggerito, durante la evoluzione del progetto, di invertire il movimento rotatorio nei quattro strati finali della volumetria che coincidono con gli ultimi quattro piani. Da questa inversione è nata la sagoma che richiama le ali di un angelo, congeniale riferimento figurale per una architettura in cui risplende lo spirito della carità.

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Questo libro è stampato nel carattere Simoncini Garamond su carta R 400 Burgo dalla Tipografia La Colornese di Colorno, Parma per conto di Diabasis nel dicembre 2012

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