Il filo della politica

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«Che ho a che fare io con i servi? Piero Gobetti» AA. VV., Lezioni per la Repubblica, a cura di M. Viroli G. Calogero, Le regole della democrazia e le ragioni del socialismo, con una testimonianza di Norberto Bobbio, a cura di Th. Casadei M. Walzer, Il filo della politica. Democrazia, critica sociale, governo del mondo, a cura di Th. Casadei DI PROSSIMA PUBBLICAZIONE

La saggezza del vivere, a cura di A. Sinigaglia P. Bagnoli, Il metodo della libertà. Piero Gobetti, tra eresia e rivoluzione B. Croce, L. Einaudi, Tra la pace e la patria. Il trattato di Parigi del 1947 e il futuro dell’Italia, con saggi di M. Ridolfi, F. Salleo, M. Viroli G. Calogero, La scuola dell’uomo, a cura di P. Bagnoli ALTRI VOLUMI PUBBLICATI NELLA “BIBLIOTECA DI CULTURA CIVILE”

Michael Walzer, fra i pensatori politici più originali e controversi dei nostri giorni, è impegnato da oltre un trentennio in una complessa ricerca che intreccia fra loro diversi ambiti, quali la riflessione teorica, la ricerca storica e sociologica, lo spazio delle tensioni eticocivili. Il volume offre testimonianza di questa pluralità, dal problematico rapporto fra religione e politica al discusso ruolo che l’intellettuale deve avere nelle società democratiche. La sua teoria della democrazia, inserendosi nel dibattito contemporaneo, prende sul serio le posizioni dei teorici della democrazia deliberativa, ma al contempo ne mette in luce limiti e carenze sul piano della prassi politica. È necessario, sostiene Walzer, delineare una politica democratica egualitaria innervata di ragione e passione e ricercare la pace e una maggiore giustizia sociale all’interno delle nuove dinamiche che caratterizzano la globalizzazione.

E. Berti, Soggetti di responsabilità. Questioni di filosofia pratica A. Schlesinger jr., La disunione dell’America F. Mioni, Thomas Jefferson e la scommessa dell’autogoverno. Virtù, popolo e «ward system» nel pensiero di Thomas Jefferson F. Zannoni, La frontiera liquida. La politica di sicurezza italiana nel Mediterraneo AA.VV., Il teatro della politica. Tocqueville tra democrazia e rivoluzione, a cura di F. Mioni J. M. Colombani, Sopravviverà la sinistra ai socialisti?, a cura di M. Brioni F. Morganti, 1945-1995. Una vita impolitica A. Galante Garrone, Piccoli discorsi sulla libertà P. Castagnetti, F. Mioni, L’Europa e la quarta generazione dei diritti R. Petrella, Il bene comune. Elogio della solidarietà AA.VV., Emmanuel Mounier. Attualità del personalismo comunitario, a cura di S. Vento F. Morganti, Partitodemocratico.com. Può la sinistra essere liberale?

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IL FILO DELLA POLITICA

BIBLIOTECA DI CULTURA CIVILE

DEI DOVERI E DELLE LIBERTÀ

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BIBLIOTECA DI CULTURA CIVILE

MICHAEL WALZER

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Michael Walzer

Michael Walzer è professore di Social Science all’Institute for Advanced Study di Princeton. La sua riflessione spazia dalla teoria politica alla filosofia morale e del diritto, dalla sociologia alla storia del pensiero politico, dai problemi di politica internazionale a quelli di politica economica. In queste diverse aree disciplinari ha apportato studi e ricerche fondamentali, che ne hanno fatto uno dei più ascoltati, studiati e discussi intellettuali contemporanei. Tra le sue opere: Esodo e rivoluzione (Feltrinelli 1986), Sfere di giustizia (Feltrinelli 1987), Guerre giuste e ingiuste (Liguori 1990), Che cosa significa essere americani (Marsilio 1992), Sulla Tolleranza (Laterza 1998), Geografia della morale (Dedalo 1999), Ragione e passione (Feltrinelli 2001).

IL FILO DELLA POLITICA

Thomas Casadei è dottorando in Filosofia politica all’Università di Pisa e assegnista di ricerca presso la cattedra di Filosofia del diritto nella facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia. Si è occupato di Dewey, Arendt, Calogero e Walzer, pubblicando numerosi contributi in riviste e volumi collettanei. Attualmente lavora a un progetto di ricerca su Diritti, costituzione e cittadinanza in Thomas Paine. Ha in corso di pubblicazione una monografia su Walzer.

DEMOCRAZIA, CRITICA SOCIALE, GOVERNO DEL MONDO a cura di Thomas Casadei

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B I B L I O T E C A D I C U LT U R A C I V I L E Dei doveri e delle libertà ·3·

S e z i o n e d i r e t t a d a M a u r i z i o Vi r o l i


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La traduzione dei saggi è di Maria Antonietta Marena

Progetto grafico e copertina Studio Bosio, Fossano (CN)

ISBN 88 8103 137 X

Š 2002 Edizioni Diabasis via Emilia S. Stefano 54 I-42100 Reggio Emilia Italia telefono 0039.0522.432727 fax 0039.0522.434047 e-mail redazione@diabasis.it riveroad@diabasis.it


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Il filo della politica Democrazia, critica sociale, governo del mondo a cura di Thomas Casadei

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Il filo della politica Democrazia, critica sociale, governo del mondo

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Fragilità e permanenza della politica: gli itinerari di Michael Walzer, Thomas Casadei

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Bibliografia essenziale delle opere di Michael Walzer

1

Azione politica: il problema delle mani sporche

27

Filosofia e democrazia

55

Critica sociale e teoria sociale

71

L’idea di società civile. Un sentiero verso la ricostruzione sociale

97

“Tracciare la linea”: i confini tra religione e politica

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Governare il mondo: qual è la cosa migliore che possiamo fare?

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Indice dei nomi


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Fragilità e permanenza della politica: gli itinerari di Michael Walzer*

Molte discussioni, molte riunioni, molti consensi e contestazioni: questa è la nostra rappresentazione ideale della politica democratica. M. Walzer, Geografia della morale

I.

Una riflessione costitutivamente politica Michael Walzer ha da sempre proposto nei suoi scritti, e testimoniato nella sua attività di studioso e intellettuale, un vigile e costante engagement nel tessuto della vita morale e politica della società americana; in questa propensione trova origine un pensiero deciso a uscire da un troppo rarefatto rapporto con i testi e i concetti filosofici, e a misurarsi criticamente con problemi e situazioni reali, con le tensioni del vivere associato e della politica. Un tratto saliente dei suoi scritti è la stretta, inscindibile connessione fra il ragionamento, l’analisi, da una parte, e la dimensione storica e sociologica in cui un dato nodo problematico si pone, dall’altra; come ha recentemente affermato «i miei argomenti devono marciare al passo con il mondo reale»1. Del resto è iniziata proprio così l’attività pubblicistica dello studioso ebreo-americano2, poi concretizzatasi in uno stile caratteristico e originale nell’ambito della teoria politica odierna, rivelatore di una “carica intellettuale” che sorprende per la profondità delle intuizioni cui conduce, ma anche per l’empatia umana che sa esprimere. In base a questo peculiare approccio, che conferisce una fondamentale centralità alla “vita activa” rispetto alla filosofia speculativa o strettamente normativa, si spiegano due caratteristiche che accomunano i saggi qui presentati. In primo luogo, in essi Walzer si impegna, per strutturare le sue analisi e le sue proposte, in un confronto serrato con gli aspetti più proix


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saici della dimensione politica: mobilitazioni popolari, marce, congressi, assemblee, dibattiti, campagne, sono tutti termini che definiscono un lessico specifico che difficilmente può rinvenirsi – e soprattutto con questa frequenza – in altri testi di filosofi politici contemporanei. In ogni scritto, più o meno direttamente, si rimanda a una dimensione attiva e partecipata della politica, fino a tratteggiarne minuziosamente gli elementi precipui e le problematiche connesse3. L’attenzione alla concretezza, al dettaglio, rivela l’attitudine di Walzer a muoversi nel particolare, a coglierne le nuances, nonché il suo interesse per le questioni che si generano e si articolano in un determinato tempo e luogo, ma che possono poi rinvenirsi in una pluralità di contesti. D’altra parte, Walzer dimostra una straordinaria capacità di non fermarsi al particolare, ma di sapere allargare la sua prospettiva di indagine in modo flessibile verso dimensioni più ampie, pur senza voler raggiungere soluzioni generalizzanti e onnicomprensive. L’asistematicità, l’insoddisfazione per ogni forma di “platonismo” e di ragionamento astratto, la rinuncia a pretese fondative, se da una parte possono suscitare nei lettori insoddisfazione e anche un certo fastidio, rivelano, dall’altra, la sua profonda sensibilità e la sua disposizione al travaglio intellettuale, nonché alla “sofferenza” che esso comporta. Walzer diffida dei ragionamenti risolutivi e lineari, che quasi con un tratto di penna disegnano ciò che è giusto o razionale, mentre si sforza di risolvere i casi difficili, senza nascondere esitazioni, ansie e dubbi, impegnandosi molto spesso nella ricerca di vie nuove, di inedite sintesi fra posizioni contrapposte e difficilmente conciliabili, sempre muovendosi su sentieri tortuosi e in situazioni di confine. È pertanto un sincero elogio del dubbio4 e del ragionamento laico, aperto a modifiche e revisioni, ad aggiustamenti e ridefinizioni, quello che emerge dai suoi lavori, una visione sancita dalla convinzione che «la ragione dei migliori è temperata dal dubbio o forse dall’umiltà». Tale metodo trova di fronte alle questioni politiche la sua migliore applicazione: in politica, secondo Walzer, le relazioni non sono mai perfette, geometricamente delineate al di là di quelle che possono essere le aspirazioni dei filosofi. È meglio porsi a un livello più basso, e ordinario, tipico dei cittadini cox


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muni – il common man di Thomas Paine – per attuare le proprie analisi e per provare ad articolare le proprie proposte di soluzione di quei problemi che hanno un impatto concreto sull’esistenza degli individui. Walzer è senza dubbio un pensatore critico ma che, paradossalmente, critica nel nome del senso comune, della Lebenswelt, cioè di quel mondo comune in cui tutti noi ci muoviamo e di cui sovente i filosofi riducono complessità e ambivalenza5. La selezione dei saggi qui presentati mette in luce assai bene questo tipo di approccio: in essi si manifesta una costante passione civile e si delinea il metodo walzeriano; proprio attraverso alcune delle più controverse e, per così dire, strutturali tensioni della politica esso si mette alla prova e rivela le sue potenzialità. II.

Problematiche tensioni Scritti nell’arco di quasi un trentennio – il primo è del 1971, l’ultimo del 2000 – i lavori raccolti in questo volume toccano vari ambiti disciplinari e si inseriscono nel contesto di ampi e cruciali dibattiti, di cui spesso sovvertono e reimpostano i termini stessi. Dalla filosofia morale alla teoria politica, dalla critica sociale alla filosofia del diritto, fino alle questioni di politica internazionale, sono diversi gli strumenti e le prospettive che Walzer adotta per far fronte ai temi che si propone di indagare: l’antico dilemma fra agire politico e morale, che tocca i nervi scoperti del potere; il rapporto fra democrazia e proceduralismo (declinato, nel quadro del più recente dibattito, nelle forme della democrazia deliberativa6); le ragioni della critica sociale e le sue caratteristiche basilari; l’idea e le funzioni della società civile in relazione ad altre fondamentali dimensioni quali l’economia, lo stato, la nazione; le possibilità e le condizioni della vita buona nonché il rapporto fra politica e religione, che, negli ultimi decenni, ha destato nuovo interesse a motivo del revival del comunitarismo e dell’affermazione della “politica della differenza”; le sfide poste dall’epoca della globalizzazione, con le problematiche ad essa inerenti: etnicismo, federalismo, multiculturalismo, nuovi assetti istituzionali – insomma tutte le odierne e complesse questioni della società internazionale o, in altri termini, dello scenario globale. xi


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Azione politica: il problema delle mani sporche*

Alcuni saggi apparsi sulla rivista «Philosophy and Public Affairs» nel 1972, pur trattando delle regole della guerra, richiamavano tuttavia un altro cruciale argomento1. L’argomento effettivo verteva sulla seguente questione: se a un uomo sia o non sia mai dato affrontare un dilemma morale, una situazione ove egli debba scegliere tra due linee di azione, ognuna delle quali sarebbe scorretto per lui intraprendere. Thomas Nagel ha sostenuto, in modo preoccupato, che questo potrebbe succedere e che è successo ogniqualvolta qualcuno è stato costretto a scegliere tra il difendere un importante principio morale e l’evitare qualche calamità incombente2. Richard B. Brandt ha argomentato che non potrebbe assolutamente succedere, poiché vi sono criteri-guida, che potremmo seguire, e considerazioni, che potremmo esaminare, le quali porterebbero necessariamente alla conclusione che l’uno o l’altro modus operandi era quello giusto da compiersi in quelle date circostanze (o che non importava quale avremmo intrapreso). Richard M. Hare ha spiegato come può accadere che qualcuno possa erroneamente supporre di dover fronteggiare un dilemma morale: a volte, egli ha suggerito, i precetti e i principi di un uomo comune, i prodotti della sua educazione morale, vengono in conflitto con le ingiunzioni sviluppate a un livello più alto di discorso morale. Ma questo conflitto è, o dovrebbe essere, risolto al livello più alto; non sussiste un dilemma vero e proprio. Non sono sicuro che la spiegazione di Hare sia del tutto confortante, ma la questione è importante anche se nessuna spiegazione siffatta è possibile, e forse è particolarmente importante se le cose stanno in questi termini. L’argomentazione si riferisce non solo alla coerenza e armonia dell’universo morale, ma altresì alla relativa facilità o difficoltà – o impossibilità 1


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– di vivere una vita morale. Non costituisce, pertanto, un interrogativo meramente filosofico. Se un tale dilemma può sorgere, frequentemente o molto raramente, chiunque fra noi potrebbe un giorno trovarsi ad affrontarlo. In verità, molti uomini l’hanno affrontato, o pensano di averlo fatto, specialmente uomini impegnati nell’attività politica o nella guerra. Il dilemma, esattamente come Nagel lo descrive, è molto discusso nella letteratura sull’azione politica – in romanzi e opere teatrali che trattano di politica e anche nell’opera di teorici. Nei tempi odierni, il dilemma appare assai frequentemente come il problema delle “mani sporche”, ed è emblematicamente formulato dal leader comunista Hoerderer nell’opera teatrale di Sartre intitolata appunto Le mani sporche: «Ho le mani sporche sino ai gomiti. Le ho affondate nel sudiciume e nel sangue. Pensi di poter governare innocentemente?»3. La mia personale risposta è no, non penso che si possa governare innocentemente; né la maggior parte di noi crede che coloro che ci governano siano innocenti – come argomenterò più avanti – nemmeno il migliore fra loro. Ma questo non significa che non sia possibile fare la cosa giusta mentre si governa. Significa che un particolare atto di governo (in un partito politico o nello stato) può essere esattamente la cosa giusta da fare in termini utilitaristici e tuttavia lasciare reo di un torto morale l’uomo che la compie. L’uomo innocente, dopo, non è più innocente. Se d’altro canto egli rimane innocente, cioè sceglie il lato “assolutista” del dilemma di Nagel, egli non solo manca di compiere la cosa giusta (in termini utilitaristici), può altresì mancare di essere all’altezza dei doveri della sua funzione (che gli impone una considerevole responsabilità per le conseguenze e i risultati). La maggior parte delle volte, naturalmente, i leader politici accettano il calcolo utilitaristico; cercano di essere all’altezza. Si potrebbe presentare una quantità di commenti sardonici su questo fatto, il più ovvio essendo quello che dai calcoli che solitamente fanno essi dimostrano le grandi virtù della posizione “assolutista”. Nondimeno, non vorremmo essere governati da uomini che costantemente adottassero tale posizione. La nozione delle mani sporche deriva dallo sforzo di rifiutare l’“assolutismo” senza negare la realtà del dilemma mora2


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le. Sebbene questo possa apparire ai filosofi utilitaristici assommare confusione a confusione, propongo di considerarlo molto seriamente, poiché gli scritti che esaminerò sono il lavoro di uomini seri e spesso saggi, e riflettono, sebbene abbiano anche potuto contribuire a formarlo, il pensiero popolare intorno alla politica. È importante prestare attenzione anche a tale fatto. Farò questo senza presumere, come Hare suggerisce, che il discorso morale e politico quotidiano costituisca un livello distinto di argomentazione, il cui contenuto è largamente una questione di convenienza pedagogica4. Se le opinioni popolari sono contrarie (come sono) all’utilitarismo, vi potrebbe essere qualcosa da apprendere da questo fatto e non soltanto qualcosa da spiegare. I.

Lasciatemi iniziare, allora, con un parere di saggezza convenzionale, secondo il quale i politici sono di gran lunga peggiori, moralmente peggiori, del resto di noi (è la saggezza del resto di noi). Senza avallarla o fingere di dubitarne, spiegherò questa convinzione. Infatti essa suggerisce che il dilemma delle mani sporche è una caratteristica saliente della vita politica, che insorge non soltanto come una crisi occasionale nella carriera di questo o di quel politico sfortunato, ma sistematicamente e frequentemente. Perché è individuato il politico? Non è egli come gli altri imprenditori in una società aperta, che sgomitano, mentono, tessono trame, indossano maschere, sorridono e intanto si comportano da canaglie? Egli non lo è, senza dubbio per svariate ragioni, tre delle quali sono tenuto a considerare. In primo luogo, il politico dichiara di sostenere un ruolo differente rispetto agli altri imprenditori. Egli non soddisfa meramente i nostri interessi; agisce per conto nostro, persino a nostro nome. Ha in mente obiettivi, cause e progetti che richiedono il supporto non solo di ciascuno, ma di tutti, e volgono a beneficio non di ciascuno di noi individualmente, ma di tutti noi insieme. Egli sgomita, mente e tesse trame per noi – o così sostiene. Forse ha ragione, o almeno è sincero, ma noi sospettiamo che agisca anche per se stesso. In verità, non può servire noi senza servire se stesso, poiché il successo gli 3


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arreca potere e gloria, le più grandi ricompense che gli uomini possono ottenere dai loro simili. La competizione per queste due conquiste è accanita; i rischi sono spesso grandi, ma le tentazioni sono ancor maggiori e noi ci immaginiamo come soccombenti. Perché dovrebbero i nostri rappresentanti agire in modo diverso? Anche se volessero agire in modo diverso, probabilmente non possono: poiché altri uomini sono fin troppo solerti a spintonare e a mentire per il potere e la gloria, e sono gli altri a porre i termini della competizione. Spintonare e mentire sono necessità poiché il potere e la gloria sono così desiderabili – vale a dire, così largamente desiderati. E così gli uomini che agiscono per noi e a nome nostro sono necessariamente “trafficoni” e bugiardi. Si pensa altresì che i politici siano peggiori del resto di noi per il fatto che ci governano, e i piaceri del governare sono assai maggiori dei piaceri dell’esser governato. Il politico di successo diviene l’architetto visibile del nostro vincolo. Egli ci tassa, ci autorizza, ci proibisce e ci permette, ci indirizza verso questa o quella lontana meta – tutto per il nostro più grande bene. Inoltre, in vista di un nostro bene maggiore, egli corre rischi che mettono noi, o alcuni di noi, in pericolo. A volte egli pone anche se stesso in pericolo, ma la politica, dopo tutto, è la sua avventura. Non è sempre la nostra. Vi sono indubbiamente circostanze in cui è un bene o una necessità dirigere gli affari degli altri e metterli in pericolo. Ma noi siamo un poco impauriti dall’uomo che persegue, ordinariamente e ogni giorno, il potere di agire in questo modo. E la paura è abbastanza ragionevole. Il politico ha, o finge di avere, una sorta di fiducia nel proprio giudizio, fiducia che il resto di noi sa essere presuntuosa in un qualsiasi altro uomo. La presunzione è specialmente grande in quanto il politico vittorioso usa la violenza e la minaccia della violenza – non solo contro le nazioni straniere in nostra difesa, ma anche contro di noi, e di nuovo apparentemente per il nostro maggiore bene. Questo è un punto enfatizzato e forse soverchiamente enfatizzato da Max Weber nel suo saggio Politics as a Vocation5. A parer mio, questo punto non ha avuto un ruolo palese od ovvio nello sviluppo della situazione convenzionale oggetto della presente disamina. Il personaggio tipo è il poli4


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tico mendace, non assassino, – sebbene l’assassino si celi insospettato nell’ombra, comparendo per lo più sotto l’aspetto del rivoluzionario o del terrorista, molto raramente come un magistrato o un funzionario ordinario. Tuttavia, il semplice peso della violenza ufficiale nel corso della storia umana suggerisce il tipo di potere al quale i politici aspirano, il tipo di potere che essi vogliono esercitare, e può penetrare nell’intimo della nostra semi-cosciente antipatia e del nostro inconfessato disagio. Gli uomini che agiscono per noi e a nome nostro sono spesso assassini, o sembrano diventare assassini troppo velocemente e troppo facilmente. Pur sapendo tutto ciò o la maggior parte di ciò, le persone buone e rispettabili, tuttavia, intraprendono la vita politica, mirando a qualche specifica riforma o perseguendo un generale rinnovamento. Viene dunque richiesto loro di apprendere la lezione che Machiavelli in primis si propose di insegnare: «come non essere buoni»6. Alcuni di loro sono incapaci di apprendere; molti di più dichiarano di essere incapaci. Ma essi non avranno successo se non apprendono, poiché sono entrati a far parte della terribile competizione per il potere e la gloria; hanno scelto di operare e lottare, come Machiavelli asserisce, in mezzo a «così tanti che non sono buoni». Non possono fare nulla di buono essi stessi se non vincono la lotta, cosa che è improbabile che riescano a fare, a meno che non siano disposti a impiegare i mezzi necessari e capaci di servirsene. Pertanto noi nutriamo dei sospetti persino nei confronti del migliore tra i vincitori. Il fatto di pensare che loro siano soltanto più scaltri degli altri, non è segno della nostra perversione. Non hanno vinto, dopo tutto, per il fatto di essere buoni, o non solo a cagione di questo, ma anche perché non erano buoni. Nessuno ha successo in politica senza sporcarsi le mani. Questa è nuovamente saggezza convenzionale, e nuovamente non intendo insistere che sia vera incondizionatamente. Lo ribadisco solo per mettere in luce il dilemma morale inerente alla situazione convenzionale. Poiché a volte è giusto cercare di aver successo, e allora deve altresì essere giusto sporcarsi le mani. Ma le mani si sporcano con il compiere ciò che è scorretto. E come può essere scorretto compiere ciò che è giusto? O come possiamo sporcarci le mani facendo ciò che dovremmo fare? 5


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II.

È meglio ricorrere subito a qualche esempio. Ne ho scelti due, uno relativo alla lotta per il potere e uno relativo al suo esercizio. Dovrei sottolineare che in entrambi questi casi gli uomini che affrontano il dilemma delle mani sporche hanno scelto, a ragion veduta, di agire così; i fatti non ci dicono nulla su come sarebbe, per così dire, trovarsi nel dilemma; né io dirò alcunché su tale argomento in questa sede. I politici spesso sostengono che non hanno alcun diritto di mantenere le loro mani pulite, e questo può anche essere vero per quanto li riguarda, ma non è così chiaramente vero per il resto di noi. Probabilmente noi abbiamo diritto di evitare, se possiamo, quelle posizioni nelle quali potremmo essere forzati a compiere azioni terribili. Questo può essere considerato l’equivalente morale del nostro diritto legale a non incriminare noi stessi. Gli uomini onesti non avranno fretta di rinunciarvi, sebbene vi siano talvolta ragioni per farlo, e tra queste vi sono o potrebbero esservi le ragioni che gli uomini onesti hanno per entrare in politica. Ma immaginiamo un politico che non sia d’accordo con questo: egli vuole fare il bene solo facendo il bene, o almeno è certo che può fermare di colpo gli usi più corrotti e brutali del potere politico. Tale certezza è messa subito alla prova. Che cosa pensiamo dunque di lui? Egli vuole vincere le elezioni, qualcuno asserisce, ma non vuole sporcarsi le mani. Questo è inteso come una critica, sebbene significhi altresì che l’uomo che viene criticato è il tipo di uomo che non mentirà, non imbroglierà, non mercanteggerà alle spalle dei suoi sostenitori, non urlerà assurdità nelle pubbliche assemblee, non manipolerà altri uomini e donne. Supponendo che questa particolare elezione debba essere vinta, è chiaro, ritengo, che la critica è giustificata. Se il candidato non voleva sporcarsi le mani doveva restarsene a casa; se non può sopportare il calore, deve uscire dalla cucina, e così via. La sua decisione di candidarsi rappresentava un impegno (per chiunque ritenga che le elezioni siano importanti) a cercare di vincere, vale a dire, a compiere entro limiti ragionevoli qualunque azione sia necessaria per vincere. Ma il candidato è un uomo morale. Egli ha dei principi e una storia di aderenza a questi principi. Questa è la ragione per 6


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cui lo sosteniamo. Forse quando egli rifiuta di sporcarsi le mani, sta semplicemente persistendo nell’essere il tipo di uomo che è. E non è lui il tipo di uomo che vogliamo? Esaminiamo più da vicino questo caso. Per vincere le elezioni il candidato deve raggiungere, con un capo di circoscrizione disonesto, un accordo implicante la concessione di contratti per l’edificazione di scuole nel corso dei prossimi quattro anni. Dovrebbe egli stipulare il patto? Bene, almeno non dovrebbe essere sorpreso dall’offerta, come probabilmente si direbbe (un esempio di sarcasmo convenzionale). Ed egli dovrebbe accettare o meno, esattamente secondo quello che v’è in palio nelle elezioni. Ma questa non è l’opinione del candidato. Egli è estremamente riluttante persino a prendere in considerazione l’accordo, tiene a bada i suoi collaboratori quando glielo rammentano, rifiuta di calcolare i suoi possibili effetti sulla campagna. Ora, se egli agisce in questo modo perché il pensiero stesso di venire a patti con quel particolare capo di circoscrizione lo fa sentire sporco, la sua riluttanza non è molto interessante. I suoi sentimenti in se stessi non sono importanti. Ma egli può altresì avere delle ragioni per la sua riluttanza. Può sapere, per esempio, che alcuni dei suoi sostenitori lo sostengono precisamente perché essi credono che egli sia un uomo probo, e questo significa per loro un uomo che non stipula simili patti. O può dubitare delle sue stesse motivazioni che lo spingono a considerare il patto, chiedendosi se è la campagna politica o la sua stessa candidatura che rende la trattativa, in conclusione, allettante. O può credere che, se stipula ora accordi di questo tipo, può non essere più in grado successivamente di raggiungere quelle mete che rendono la campagna utile, e può non sentirsi in diritto di correre tali rischi con un futuro che non è solo il suo, personale, futuro. O può semplicemente pensare che l’accordo sia disonesto e pertanto sbagliato, tale da corrompere non solo lui stesso, ma tutte quelle relazioni umane nelle quali egli è coinvolto. Siccome ha scrupoli di questo tipo, noi sappiamo che è un uomo probo. Ma consideriamo la campagna elettorale da una certa ottica, valutiamo la sua importanza in un certo modo, e speriamo che egli superi i suoi scrupoli e stipuli l’accor7


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do. È importante sottolineare che non vogliamo semplicemente chiunque a stipulare l’accordo; vogliamo che sia lui a farlo, esattamente perché egli ha scrupoli in proposito. Sappiamo che egli sta agendo rettamente quando stipula l’accordo, poiché sa che sta agendo disonestamente. Non intendo semplicemente dire che egli si sentirà a disagio o molto a disagio una volta stipulato l’accordo. Se egli è l’uomo buono che immagino sia, si sentirà colpevole, vale a dire, si riterrà colpevole. Questo è ciò che significa avere le mani sporche. Tutto questo può diventare più chiaro se prendiamo in considerazione un esempio più drammatico, poiché noi siamo, forse, un poco cinici per quanto riguarda le trattative politiche e poco inclini a preoccuparci troppo per l’uomo che ne stipula una. Perciò considerate un politico che ha approfittato di una crisi nazionale – una protratta guerra coloniale – per cercare di raggiungere il potere. Egli e i suoi sostenitori ottengono l’incarico, impegnati nella decolonizzazione e nella pace; essi sono onestamente impegnati in ambedue questi scopi, sebbene non privi di una qualche consapevolezza dei vantaggi che l’impegno comporta. In ogni caso, essi non hanno alcuna responsabilità della guerra; si sono fermamente opposti a essa. Immediatamente, il politico si reca nella capitale coloniale per aprire dei negoziati con i ribelli. Ma la capitale è alle prese con una campagna terroristica, e la prima decisione che il nuovo leader si trova a dover affrontare è questa: gli viene chiesto di autorizzare la tortura di un leader ribelle, che è stato catturato, il quale conosce o presumibilmente conosce l’ubicazione di un certo numero di bombe, nascoste in condomini in ogni parte della città, programmate per esplodere entro le prossime ventiquattro ore. Egli ordina che l’uomo venga torturato, nella convinzione che deve agire così per amore della gente, che potrebbe altrimenti morire nelle esplosioni – sebbene egli creda che la tortura sia sbagliata, invero abominevole, non solo a volte, ma sempre7. Egli aveva espresso questa convinzione spesso e con veemenza durante la sua personale campagna; la maggior parte di noi l’ha interpretato come un segno della sua bontà. Come dovremmo considerarlo ora? (Come dovrebbe egli considerare se stesso?) 8


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Ancora una volta, non sembra sufficiente dire che egli dovrebbe sentirsi molto male. Ma perché no? Perché egli non dovrebbe provare sentimenti simili a quelli del mesto soldato di Sant’Agostino, il quale comprese sia che la sua guerra era giusta sia che l’uccidere, anche in una guerra giusta, è una azione terribile da compiersi?8 La differenza è che Agostino non credeva che uccidere in una guerra giusta fosse sbagliato; era solo triste, o perlomeno una cosa di cui l’uomo buono si sarebbe rammaricato. Ma egli avrebbe probabilmente ritenuto che fosse sbagliato torturare in una guerra giusta, e successivamente i teorici cattolici lo hanno certamente ritenuto sbagliato. Inoltre, il politico che io sto immaginando lo ritiene sbagliato, come ritengono molti di noi che lo hanno appoggiato. Sicuramente abbiamo il diritto di aspettarci ora qualcosa di più della semplice mestizia da parte sua. Quando ordinò che il prigioniero fosse torturato, egli commise un crimine morale e accettò un onere morale. Ora egli è un uomo colpevole. La sua disponibilità a riconoscere e ad addossarsi la colpa (e forse a pentirsi e a far penitenza per questo) è la prova, ed è la sola prova che egli possa offrirci, sia del fatto che egli non è troppo buono per la politica sia del fatto che egli è buono a sufficienza. Qui è il politico morale: è dalle sue mani sporche che noi lo conosciamo. Se egli fosse un uomo morale e nient’altro, le sue mani non sarebbero sporche; se egli fosse un politico e null’altro, egli farebbe finta che fossero pulite. III.

L’argomentazione di Machiavelli circa la necessità di apprendere come non essere buono implica chiaramente che vi sono azioni riconosciute come assolutamente sbagliate, a prescindere dalle immediate circostanze nelle quali sono compiute o non compiute. Egli indica un assetto distinto di metodi politici e di stratagemmi che gli uomini buoni devono studiare (leggendo i suoi libri), non solo perché il loro impiego non avviene naturalmente, ma altresì perché sono esplicitamente condannati dagli insegnamenti morali che gli uomini buoni accettano – e la cui accettazione serve a sua volta a definire gli uomini come buoni. Questi metodi sono 9


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passibili di condanna, poiché sono ritenuti contrari alla legge divina o all’ordine della natura o al nostro senso morale, o perché nel prescrivere la legge a noi stessi noi li abbiamo proibiti individualmente o collettivamente. Machiavelli, però, non si pronuncia su tali questioni, e nemmeno lo farò io, se lo posso evitare. Gli effetti di queste opinioni divergenti sono, almeno in un senso cruciale, i medesimi. Ci sottraggono il costante compito di attaccare etichette morali a metodi machiavelliani quali l’inganno e il tradimento. Tali metodi sono semplicemente malvagi. Essi costituiscono il tipo di azione che gli uomini buoni evitano, almeno sino a che non hanno appreso come non essere buoni. Ora, se non vi è una tale categoria di azioni, non vi è alcun dilemma delle mani sporche, e l’insegnamento machiavelliano perde ciò che Machiavelli sicuramente intendeva che avesse, il suo carattere inquietante e paradossale. Si può dunque intendere che egli asserisca che gli agenti politici devono talvolta vincere le loro inibizioni morali, ma non che essi debbano talora perpetrare crimini. Io lo intendo nel senso che i filosofi utilitaristici vogliono anch’essi giungere a mettere in pratica la prima di queste asserzioni e negare la seconda. Dal loro punto di vista, il candidato che stipula un accordo di corruzione e il funzionario che autorizza la tortura di un prigioniero devono essere descritti come uomini retti (dati i casi così come io li ho specificati), i quali dovrebbero, forse, essere onorati per aver preso la decisione giusta quando si trattava di una decisione difficile da prendere. Vi sono tre modi di sviluppare questa argomentazione. In primo luogo, si potrebbe dire che ogni scelta politica dovrebbe essere fatta solamente nei termini delle particolari e immediate circostanze in cui è necessaria – nei termini, vale a dire, delle alternative ragionevoli, della conoscenza disponibile, delle probabili conseguenze, e così via. Allora l’uomo retto affronterà scelte difficili (quando la sua conoscenza di opzioni e risultati è radicalmente incerta), ma non può accadere che egli debba affrontare un dilemma morale. In verità, se egli prende sempre delle decisioni in questo modo, e gli è stato insegnato dall’infanzia ad agire così, egli non dovrà mai superare le sue inibizioni, qualunque cosa egli compia, poiché come 10


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potrebbe avere acquisito delle inibizioni? Supponendo, inoltre, che egli soppesi le alternative e valuti le conseguenze seriamente e in buona fede, non può commettere un crimine, sebbene possa certamente commettere un errore, anche un errore molto serio. Anche quando egli mente e tortura, le sue mani saranno pulite, poiché ha compiuto ciò che doveva fare nel miglior modo che gli era possibile, trovandosi solo in un momento preciso di tempo, costretto a scegliere. Questa è per certi aspetti una attraente descrizione del processo decisionale morale, ma è altresì una descrizione assai improbabile. Poiché mentre uno qualsiasi tra noi può trovarsi solo, quando prendiamo questa o quella decisione, noi non siamo isolati o solitari nelle nostre vite morali. La vita morale è un fenomeno sociale, ed è costituita almeno in parte da regole, la cui conoscenza (e la cui formazione) noi condividiamo con i nostri simili. L’esperienza di dover fare i conti con queste norme, sfidando le loro proibizioni, e giustificando noi stessi nei confronti di altri uomini e donne, è così comune e così ovviamente importante che nessun resoconto di un processo decisorio morale può verosimilmente evitare di affrontarla. Da qui deriva la seconda argomentazione utilitaristica: tali norme in verità esistono, ma non sono in realtà proibizioni di azioni illecite (sebbene assumano, forse per ragioni pedagogiche, quella forma). Esse sono criteri-guida morali, sintesi di precedenti considerazioni. Facilitano le nostre scelte nei casi ordinari, poiché possiamo limitarci a seguire le loro ingiunzioni e fare ciò che è stato trovato utile nel passato; in casi eccezionali servono quali segnali che ci mettono in guardia contro il compiere troppo precipitosamente o senza la più attenta disamina ciò che non è stato ritenuto utile nel passato. Ma non compiono più di questo; non hanno altro scopo, e pertanto non si dà il caso che sia o anche possa essere un crimine non prenderle in considerazione9. Né è necessario sentirsi colpevoli quando si agisce così. Ancora una volta, se è giusto infrangere la norma in qualche caso difficile, dopo essersi coscienziosamente preoccupati di ciò, l’uomo che agisce (specialmente se egli sa che molti dei suoi simili si limiterebbero a preoccuparsi anziché agire) può legittimamente sentirsi orgoglioso dei risultati raggiunti. 11


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Ma questa opinione, mi sembra, si impadronisce della realtà della nostra vita morale in modo non migliore di quella precedente. Può ben essere corretto affermare che le norme morali dovrebbero avere il carattere di principi informatori, ma sembra che di fatto non lo possiedano. O almeno, noi difendiamo noi stessi quando contravveniamo alle norme come se esse possedessero un qualche status interamente indipendente dal loro precedente utilizzo (e raramente ci sentiamo orgogliosi di noi stessi). Le giustificazioni che normalmente adduciamo non sono semplicemente giustificazioni; sono anche scuse. Ora, come afferma Agostino, questi due termini possono sembrare assai vicini l’uno all’altro – in verità, suggerirò che possono apparire fianco a fianco nella stessa frase – ma sono concettualmente distinti, differenziati sotto questo aspetto fondamentale: una scusa è tipicamente una ammissione di colpa; una giustificazione è tipicamente una negazione di colpa e una asserzione di innocenza10. Considerate una famosa difesa tratta dall’Amleto di Shakespeare, che è spesso riapparsa nella letteratura politica: «Debbo essere crudele solo per essere gentile»11. Le parole sono pronunciate in una occasione in cui Amleto è effettivamente crudele nei confronti della madre. Tralascerò la possibilità che ella meriti di sentire (o di essere costretta a sentire) ogni crudele parola che egli pronuncia, poiché Amleto stesso non sostiene questo – e se ella invero meritava quel trattamento, le parole di Amleto potrebbero non essere crudeli o egli potrebbe non essere crudele per il fatto di pronunciarle. «Debbo essere crudele» contiene la scusa, dal momento che sia ammette una colpa sia suggerisce che Amleto non abbia altra scelta che il commetterla. Egli sta facendo ciò che deve fare; non può evitarlo (dato il comando del fantasma, la pessima condizione in cui si trova la Danimarca, e così via). Il resto della frase è una giustificazione, poiché suggerisce che Amleto intenda e si aspetti che la gentilezza sia il risultato delle sue azioni – dobbiamo supporre che egli intenda una più grande gentilezza, gentilezza nei confronti delle persone giuste, o un concetto consimile. Non è, tuttavia, una giustificazione così esaustiva il fatto che Amleto sia in grado di asserire che egli non è realmente crudele. «Crudele» e «gentile» hanno esattamente la stessa posizione; 12


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entrambi seguono il verbo «essere», e così rivelano perfettamente il dilemma morale12. Quando le regole non sono tenute in alcun conto, noi non parliamo o agiamo come se esse fossero state messe da parte, cancellate o annullate. Esse continuano a essere valide e sortiscono almeno questo effetto: il fatto che sappiamo di avere compiuto qualcosa di sbagliato, anche se ciò che abbiamo compiuto era la cosa migliore da compiersi, tutto sommato, date le circostanze13. O almeno sentiamo in questo modo, e tale sentimento è esso stesso una caratteristica fondamentale della nostra vita morale. Ne consegue pertanto la terza argomentazione utilitaristica, la quale riconosce l’utilità della colpa e cerca di spiegarla. Vi sono, sembra, buone ragioni per «sopravvalutare» come pure per «scavalcare» le norme. Poiché le conseguenze potrebbero essere davvero molto gravi se le norme fossero infrante ogni volta che la considerazione morale sembra in conflitto con loro. Probabilmente sarebbe meglio se la maggior parte degli uomini non facesse valutazioni troppo precise in merito, ma seguisse semplicemente le norme: in questo modo sarebbero meno inclini a compiere errori, tutto sommato. E pertanto un uomo retto (o almeno un uomo retto comune) rispetterà le norme molto più di quanto farebbe se egli le ritenesse meramente dei criteri-guida, e si sentirà colpevole quando le scavalca. In verità, se non si sentisse colpevole, «egli non sarebbe un uomo così retto»14. È dai suoi sentimenti che noi lo conosciamo. A causa di tali sentimenti, egli non avrà mai fretta di infrangere le norme, ma aspetterà sino a che non vi sia scelta, agendo solo per evitare conseguenze che sono imminenti o quasi certamente disastrose. L’ovvia difficoltà di questa argomentazione è che è improbabile che il sentimento, la cui utilità stiamo spiegando, sia provato da qualcuno che è convinto solo della sua utilità. Egli infrange una norma utilitaristica, diciamo, per valide ragioni utilitaristiche: ma può egli allora sentirsi colpevole, anche per valide ragioni utilitaristiche, quando non ha alcun motivo di credere che è colpevole? Immaginate un filosofo morale che espone la terza argomentazione a un uomo che effettivamente si sente colpevole o al tipo di uomo che è in13


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cline a sentirsi colpevole. O l’uomo non accetterà la spiegazione utilitaristica quale spiegazione del suo sentimento in merito alle norme (probabilmente il miglior risultato da un punto di vista utilitaristico) o egli la accetterà e poi cesserà di nutrire quell’(utile) sentimento. Ma io non voglio escludere la possibilità di una sorta di ansietà superstiziosa, la possibilità, vale a dire, che alcuni uomini continuino a sentirsi colpevoli anche dopo che è stato loro insegnato, e si sono trovati consenzienti, che essi non possono assolutamente essere colpevoli. È meglio affermare soltanto che più pienamente essi accettano la spiegazione utilitaristica, meno sono inclini a provare quell’(utile) sentimento. La spiegazione utilitaristica non è per nulla utile, allora, se gli agenti politici la accettano, e questo può aiutarci a comprendere perché, come Hare ha fatto notare, sostiene una parte di così scarsa importanza nella nostra educazione morale15. IV.

Un ulteriore commento in merito alla terza argomentazione: vale la pena di sottolineare che sentirsi colpevoli significa soffrire, e che gli uomini i cui sensi di colpa sono qui definiti utili sono essi stessi innocenti secondo la giustificazione utilitaristica. Così sembriamo esserci imbattuti in un altro caso in cui la sofferenza degli innocenti è permessa e persino incoraggiata dal calcolo utilitaristico16. Ma sicuramente un uomo innocente che ha compiuto un’azione dolorosa o dura (ma giustificata) dovrebbe essere aiutato a sfuggire al senso di colpa o a evitarlo; egli potrebbe ragionevolmente aspettarsi l’assistenza dei propri simili, persino dei filosofi morali, in una tale evenienza. D’altro canto, se noi intuitivamente pensiamo che sia vero che egli debba sentirsi colpevole nei confronti di qualche altro uomo, allora dovremmo essere in grado di specificare la natura della sua colpa (e se egli è un uomo retto, ottenere il suo consenso). Ritengo di poter affrontare un caso che, solo con una leggera variazione, può evidenziare ciò che è differente in queste due situazioni. Considerate la comune pratica di distribuire fucili caricati a salve ad alcuni dei membri di un plotone d’esecuzione. Ai singoli uomini non viene detto se le loro armi sono letali, e 14


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così sebbene tutti loro sembrino carnefici alla vittima che sta loro di fronte, nessuno di loro sa se realmente è o meno un carnefice. Lo scopo di questo stratagemma è sollevare ciascun uomo dalla sensazione di essere un assassino. Può difficilmente liberarlo da qualsivoglia responsabilità morale in cui egli incorra servendo in un plotone d’esecuzione, e quello non è il suo scopo, poiché l’esecuzione non è intesa (e ammettiamo che questo sia il caso) come un atto immorale o illecito. Ma l’inibizione nei confronti dell’uccidere un altro essere umano è così forte che gli uomini, persino se ritengono che sia giusto ciò che stanno compiendo, continueranno a sentirsi colpevoli. L’incertezza sul loro ruolo effettivo apparentemente riduce l’intensità di questi sentimenti. Se le cose stanno così, lo stratagemma è perfettamente giustificabile, e ci si può solo rallegrare in ogni caso in cui sortisce il suo effetto – poiché ogni successo sottrae uno dal novero degli uomini innocenti che soffrono. Ma sentiremmo differentemente, ritengo, se immaginassimo un uomo che crede (e supponiamo in questo contesto di crederlo anche noi) o che la pena capitale sia sbagliata o che questa particolare vittima sia innocente, ma che nondimeno sia d’accordo a partecipare al plotone d’esecuzione per una qualche prevalente ragione politica o morale – non cercherò di suggerire quale possa essere tale ragione. Se egli è confortato dallo stratagemma con i fucili, allora possiamo essere ragionevolmente certi che la sua opposizione alla pena capitale o la sua fede nell’innocenza della vittima non è moralmente seria. E se è seria, non si sentirà meramente colpevole, saprà di essere colpevole (e anche noi lo sapremo), sebbene egli possa anche credere (e noi possiamo essere d’accordo) di avere buone ragioni per addossarsi la colpa. I nostri sensi di colpa possono essere raggirati quando sono isolati dai nostri convincimenti morali, come nel primo caso, ma non quando sono collegati a questi, come nel secondo. Le credenze stesse e le norme che sono credute possono solo essere infrante, un doloroso processo che costringe un uomo a soppesare l’errore che è disposto a compiere al fine di compiere ciò che è giusto, e che si lascia alle spalle il dolore, e così dovrebbe fare, anche dopo che la decisione è stata presa. 15


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V.

Questo è il dilemma delle mani sporche così come è stato sperimentato dagli agenti politici e come se ne è scritto nella letteratura sull’azione politica. Senza dubbio noi possiamo sporcarci le mani anche nella vita privata, e a volte, senza dubbio, dovremmo. Ma la questione è posta in modo sommamente drammatico nella vita politica per le tre ragioni che rendono la vita politica il tipo di vita che essa è, poiché sosteniamo di agire per gli altri, ma serviamo altresì noi stessi, governiamo sugli altri, e usiamo la violenza contro di loro. È facile sporcarsi le mani in politica ed è spesso giusto farlo. Ma non è facile insegnare a un uomo retto come non essere retto, né è facile giustificare un tale uomo a se stesso una volta che egli ha commesso qualsivoglia crimine gli sia richiesto. Almeno, non è facile una volta che ci siamo trovati d’accordo a impiegare la parola ‘crimini’ e a vivere (poiché non abbiamo scelta) con il dilemma delle mani sporche. Eppure l’accordo è abbastanza comune, e sulla sua base si sono sviluppate tre ampie tradizioni esplicative, tre modi di pensare intorno alla questione delle mani sporche, che derivano, in qualche modo molto generico, da prospettive neoclassiche, protestanti e cattoliche sulla politica e sulla moralità. Voglio cercare di dire qualcosa molto brevemente su ciascuna di esse, o piuttosto su un esempio rappresentativo di ciascuna di esse, poiché ciascuna mi sembra parzialmente corretta. Ma non penso di poter mettere insieme la visione composita che potrebbe essere totalmente giusta. La prima tradizione è meglio rappresentata da Machiavelli, il primo uomo, per quanto mi consta, ad asserire il paradosso che sto esaminando. L’uomo retto che aspira a fondare o a riformare una repubblica deve, ci dice Machiavelli, compiere terribili azioni per raggiungere la sua meta. Come Romolo, deve uccidere suo fratello; come Numa, deve mentire alla gente. A volte, tuttavia, «quando l’atto accusa, il risultato scusa»17. Questa frase, tratta dai Discorsi, è spesso intesa a significare che l’inganno e la crudeltà del politico sono giustificati dai buoni risultati che ne derivano. Ma se essi fossero giustificati, non sarebbe necessario apprendere ciò che Machiavelli sostiene di insegnare: come non essere buono. Sa16


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rebbe solo necessario imparare a essere probo in un modo nuovo, più difficile, forse tortuoso. Questa non è l’argomentazione di Machiavelli. I suoi giudizi politici sono invero consequenziali nel carattere, ma non lo sono i suoi giudizi morali. Se la crudeltà è impiegata bene o male risulta dai suoi effetti nel corso del tempo. Ma che è male usare la crudeltà lo sappiamo in qualche altro modo. Il politico crudele e disonesto è scusato (se i suoi progetti vanno a buon fine) solo nel senso che il resto di noi concorda nell’ammettere che, visti i risultati, ne “valeva la pena” o, con maggiore probabilità, noi dimentichiamo semplicemente i suoi crimini quando lodiamo il suo successo. È importante sottolineare il personale impegno di Machiavelli nei confronti dell’esistenza di principi morali. Il suo paradosso dipende da tale impegno come dipende dalla generale stabilità dei principi – che egli ribadisce nel suo costante impiego di parole quali buono e cattivo18. Se egli auspica che i principi siano trascurati dagli uomini buoni più spesso di quanto lo siano, egli non ha nulla con cui rimpiazzarli e nessun altro modo di riconoscere gli uomini buoni tranne dalla loro fedeltà a quegli stessi principi. È straordinariamente raro, egli scrive, che un uomo retto sia disposto a impiegare mezzi disonesti per diventare un principe19. Lo scopo di Machiavelli è di persuadere una tale persona a fare il tentativo, ed egli offre le supreme ricompense politiche, il potere e la gloria, all’uomo che agisce così e ha successo. L’uomo retto non è ricompensato (o scusato), tuttavia, soltanto per la sua disponibilità a sporcarsi le mani. Egli deve compiere bene le azioni cattive. Non v’è ricompensa per compiere male azioni cattive, sebbene esse siano compiute con la migliore intenzione. E pertanto l’azione politica necessariamente implica il correre un rischio. Ma dovrebbe esser chiaro che ciò che si rischia non è la rettitudine personale – quella è gettata via – bensì il potere e la gloria. Se il politico ha successo, egli è un eroe; lode eterna è la suprema ricompensa per non essere buono. Quali siano le penalità per non essere buono, Machiavelli non lo dice, ed è probabilmente per questa ragione soprattutto che la sua sensibilità morale è stata così frequentemen17


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te posta in discussione. Egli è sospetto non perché dice agli agenti politici che devono sporcarsi le mani, ma perché non specifica lo stato mentale consono a un uomo con le mani sporche. Un eroe machiavelliano non ha interiorità. Che cosa pensa di se stesso noi non lo sappiamo. Immagino, unitamente alla maggior parte dei lettori di Machiavelli, che egli si crogioli nella sua gloria. Ma poi è difficile spiegare la forza della sua originaria riluttanza ad apprendere come non essere buono. In ogni caso, è il tipo di uomo che è improbabile tenga un diario e perciò non possiamo scoprire ciò che pensa. Tuttavia vogliamo sapere; soprattutto, vogliamo un documento della sua angoscia. Questo è un segno della nostra stessa coscienza e dell’impatto su di noi della seconda tradizione di pensiero, che io desidero esaminare, nella quale l’angoscia personale a volte sembra la sola scusa accettabile per i crimini politici. La seconda tradizione è meglio rappresentata, io ritengo, da Max Weber, il quale delinea le sue caratteristiche essenziali con grande intensità proprio alla fine del suo saggio Politics as a Vocation. Per Weber, l’uomo retto con le mani sporche è ancora un eroe, ma è un eroe tragico. In parte, la sua tragedia è che sebbene la politica sia la sua vocazione, egli non è stato chiamato da Dio e pertanto non può essere giustificato da Lui. L’eroe di Weber è solo in un mondo che sembra appartenere a Satana, e la sua vocazione è interamente una sua scelta. Egli vuole ancora ciò che i magistrati cristiani hanno sempre voluto, sia fare il bene nel mondo sia salvare la sua anima, ma ora queste due aspirazioni sono pervenute a una acuta contraddizione. Esse sono contraddittorie a causa della necessità di violenza in un mondo ove Dio non ha istituito la spada. Il politico impugna lui stesso la spada, e solo agendo così è all’altezza della sua vocazione. Con piena consapevolezza di ciò che sta facendo, egli compie il male per fare il bene, e rinuncia alla sua anima. Egli «espone se stesso», Weber asserisce, «alle diaboliche forze che sono latenti in tutta la loro violenza». Forse Machiavelli intendeva altresì suggerire che il suo eroe rinuncia alla salvezza in cambio della gloria, ma egli non lo dice esplicitamente. Weber è assolutamente chiaro: «Il genio o demone della politica vive 18


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in una tensione interiore con il dio dell’amore… [il quale] può in ogni momento portare a un insanabile conflitto»20. Il suo politico esamina questo conflitto, quando si verifica, con un duro realismo, non finge mai che possa essere risolto con un compromesso, sceglie ancora una volta la politica, e si allontana definitivamente dall’amore. Weber scrive di questa scelta con una appassionata nobiltà d’animo, che fa sembrare un interesse per la propria anima non più elevato di un interesse per la propria carne. Tuttavia il lettore non dubita mai che il suo maturo, magnificamente addestrato, inflessibile, spassionato, responsabile e disciplinato leader politico non sia altresì un servo sofferente. Le sue scelte sono dure e dolorose, ed egli paga il prezzo non solo mentre le compie, ma per sempre nel tempo a venire. Un uomo non perde la propria anima un giorno e la ritrova il giorno successivo… Le difficoltà inerenti a questo punto di vista risulteranno chiare a chiunque abbia mai incontrato un servitore sofferente. Qui vi è un uomo che mente, complotta, manda a morire altri uomini – e soffre. Egli compie quello che deve compiere con un peso sul cuore. Nessuno di noi può sapere, egli ci dice, quanto gli costi compiere il suo dovere. In verità noi non possiamo saperlo, poiché egli stesso fissa il prezzo che paga. E questo è il problema inerente a tale idea del crimine politico. Noi sospettiamo il servitore sofferente o di masochismo o di ipocrisia o di entrambi, e mentre abbiamo torto spesso, non abbiamo torto sempre. Weber cerca di risolvere il problema delle mani sporche interamente entro i confini della coscienza individuale, ma io sono incline a pensare che questo non sia né possibile né desiderabile. L’auto-consapevolezza dell’eroe tragico è ovviamente di grande valore. Noi vogliamo che il politico abbia una vita interiore, rassomigliante almeno un po’ a quella che Weber descrive. Ma talvolta la sofferenza dell’eroe necessita di essere socialmente espressa (poiché al pari della punizione, conferma e rinforza la nostra consapevolezza che certi atti sono sbagliati). E, cosa ugualmente importante, necessita talvolta di essere socialmente limitata. Non vogliamo essere governati da uomini che hanno perduto le loro anime. Un politico con le mani sporche necessita di un’anima, ed è meglio per tutti noi se egli ha qualche 19


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speranza di salvezza personale, qualunque sia il modo in cui la si intende. Non corrisponde a verità il fatto che, quando egli fa il male per fare il bene, consegna se stesso per sempre al demone della politica. Egli commette un determinato crimine, e deve pagare un determinato prezzo. Quando abbia fatto questo, le sue mani saranno nuovamente pulite, o pulite quanto le mani umane possono essere. Così la chiesa cattolica ha sempre insegnato, e questo insegnamento è centrale nella terza tradizione, che desidero prendere in esame. Ancora una volta, mi riferirò a un rappresentante emblematico e non contemporaneo della tradizione e prenderò in considerazione Les justes di Albert Camus. Gli eroi di questo dramma teatrale sono terroristi all’opera nella Russia del diciannovesimo secolo. Lo sporco sulle loro mani è il sangue umano. E tuttavia l’ammirazione di Camus nei loro confronti, egli ci dice, è totale. Noi ammettiamo di essere criminali, afferma uno di loro, ma non vi è nulla di cui chiunque possa rimproverarci. Qui abbiamo il dilemma delle mani sporche in una forma nuova. Gli eroi sono innocenti criminali, legittimi assassini poiché, avendo ucciso, essi sono pronti a morire – ed essi moriranno. Solo la loro esecuzione, da parte delle stesse dispotiche autorità che essi stanno attaccando, completerà l’azione nella quale essi sono impegnati: morire, essi non hanno bisogno di presentare le proprie scuse. Questa è la fine della loro colpa e del loro dolore. L’esecuzione non è tanto punizione quanto auto-punizione ed espiazione. Sul patibolo essi si lavano le mani sino a farle diventare pulite e, a differenza del servitore sofferente, muoiono serenamente. Ora l’argomentazione dell’opera teatrale quando viene presentata in una forma così radicalmente semplificata può sembrare un tantino bizzarra, e forse è danneggiata dall’estremismo morale della politica di Camus. «L’azione politica ha dei limiti», egli dice nella prefazione al volume contenente Les justes, «e non vi è buona e giusta azione tranne quella che riconosce tali limiti e se deve superarli, almeno accetta la morte»21. Sono meno interessato qui alla violenza di quell’«almeno» – che altro ha egli in mente? – che non alla dottrina sensata che esaspera. Tale dottrina potrebbe essere meglio descritta attraverso una analogia: l’assassinio giusto, vo20


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glio suggerire, è come la disobbedienza civile. In entrambi i casi gli uomini violano un insieme di norme, si spingono oltre un limite morale o legale, al fine di fare ciò che credono di dover fare. Al contempo, essi riconoscono la loro responsabilità nella violazione accettando la punizione o facendo penitenza. Ma vi è altresì una differenza tra le due situazioni, che concerne la differenza che intercorre fra legge e moralità. Nella maggior parte dei casi di disobbedienza civile le leggi dello stato sono infrante per ragioni morali, e lo stato impartisce la punizione. Nella maggior parte dei casi riguardanti le mani sporche le regole morali sono infrante per ragioni di stato, e nessuno decreta la punizione. Raramente vi è un carnefice zarista che aspetta, pronto a intervenire, i politici con le mani sporche, anche chi più se lo merita tra loro. Le norme morali non sono solitamente imposte al tipo di agente che io sto considerando, in larga misura perché egli agisce in una funzione ufficiale. Se tali norme fossero imposte, le mani sporche non sarebbero assolutamente un problema. Noi ci limiteremmo a onorare l’uomo che ha fatto il male al fine di fare il bene, e allo stesso tempo lo puniremmo. Noi lo onoreremmo per il bene che ha fatto, e lo puniremmo per il male che ha compiuto. Noi lo puniremmo, vale a dire, per le stesse ragioni per le quali puniamo chiunque altro; non è mio scopo in questa sede difendere una qualsivoglia opinione particolare in merito alla punizione. In ogni caso, sembra non esservi alcun modo per stabilire o impartire la punizione. Tranne che al prete e al confessionale, non vi è alcuna autorità alla quale potremmo affidare il compito. Io sono nondimeno propenso a ritenere il modo di vedere di Camus il più attraente dei tre, se non altro perché ci obbliga almeno a immaginare una punizione o una penitenza che si addica al crimine e pertanto a esaminare da vicino la natura del crimine. Le altre non necessitano di questo. Una volta che egli ha lanciato la sua carriera, i crimini del principe di Machiavelli sembrano soggetti solo al controllo prudenziale. E i crimini dell’eroe tragico di Weber sono limitati solo dalla sua capacità di soffrire e non, come dovrebbero essere, dalla nostra capacità di soffrire. In nessuno dei due casi vi è qualche esplicito riferimento che riporti al codice morale, una 21


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volta che esso, a grande prezzo personale senza dubbio, è stato messo da parte. L’interrogativo posto dall’Hoerderer di Sartre (che io sospetto essere un servitore sofferente) è retorico, e la risposta è ovvia (io l’ho già data), ma la caratteristica piazza pulita di entrambi è sconcertante. Dal momento che riguarda solo quei crimini che dovrebbero essere commessi, il dilemma delle mani sporche sembra escludere questioni di grado. La crudeltà immotivata o eccessiva non è oggetto di discussione più di quanto lo sia la crudeltà diretta a fini malvagi. Ma l’azione politica è così incerta che i politici necessariamente corrono dei rischi sia morali sia politici, commettendo crimini che solamente loro pensano sia necessario commettere. Essi infrangono le norme senza avere mai la certezza di aver trovato il modo migliore per ottenere i risultati che sperano di attingere, e noi non vogliamo che facciano questo troppo velocemente o troppo spesso. Pertanto è importante che le poste morali siano molto alte – il che equivale a dire, che le norme siano correttamente valutate. Questa è, suppongo, la ragione dell’estremismo di Camus. Senza il giustiziere, tuttavia, non vi è nessuno che fissi le poste o mantenga i valori tranne noi stessi, e probabilmente non vi è nessun modo per fare entrambe le cose tranne che attraverso la reiterazione filosofica e l’attività politica. «Noi non aboliremo la menzogna col rifiutarci di dire bugie», dice Hoerderer, «ma impiegando ogni mezzo a disposizione per abolire le classi sociali»22. Ho il sospetto che non aboliremmo affatto la menzogna, ma potremmo fare in modo che venissero dette meno bugie se trovassimo il modo di negare il potere e la gloria ai più grandi bugiardi – tranne, naturalmente, nel caso di quei pochi fortunati i cui straordinari risultati ci fanno dimenticare le bugie che hanno detto. Se Hoerderer riuscisse a abolire le classi sociali, forse si unirebbe allo sparuto gruppo dei fortunati. Nel frattempo, egli mente, raggira e uccide, e noi dobbiamo assicurarci che paghi il prezzo. Non saremo capaci di fare ciò, tuttavia, senza sporcare le nostre stesse mani, e allora dobbiamo trovare un qualche modo di pagare noi stessi il prezzo.

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Note * Una prima versione di questo saggio fu letta all’incontro annuale della Conference for the Study of Political Thought, tenutasi a New York nell’aprile 1971. Sono in debito nei confronti di Charles Taylor, il quale all’epoca si assunse le funzioni di commentatore e mi incoraggiò a pensare che le argomentazioni dell’articolo potevano essere valide [il saggio è stato poi pubblicato in «Philosophy and Public Affairs», 2, 1973, pp. 160-180, n.d.c.]. 1. «Philosophy and Public Affairs», 2, 1972. [Gli scritti cui Walzer si riferisce sono rispettivamente: Th. Nagel, War and Massacre (pp. 123-144), R. B. Brandt, Utilitarianism and the Rules of War (pp. 145-165) e R. M. Hare, Rules of War and Moral Reasoning (pp. 166-181). La prima frase del saggio è stata leggermente modificata, d’accordo con l’autore, per ragioni espositive, n.d.c.]. 2. Per la descrizione di Nagel di un eventuale «alleato moralmente cieco», si veda pp. 123-124. Bernard Williams ha dato un suggerimento simile, sebbene senza riconoscerlo del tutto come suo: «Molte persone possono riconoscere il concetto che un certo modus operandi è, in verità, la miglior cosa da farsi nel complesso, secondo le circostanze, ma che perseguirlo implica fare qualcosa di scorretto» (Morality: An Introduction to Ethics, Harper & Row, New York 1972, p. 93 [trad. it., La moralità. Un’introduzione all’etica, Einaudi, Torino 2000]). 3. J. P. Sartre, Dirty Hands, in No Exit and Three Other Plays, trad. di L. Abel, Vintage Books, New York s.d., p. 224 [trad. it., Le mani sporche, Einaudi, Torino 1964, 19775]. 4. Si veda R. M. Hare, Rules of War and Moral Reasoning, cit., pp. 173178, spec. p. 174: «I semplici principi del deontologo… hanno la loro collocazione a livello della formazione, del carattere (educazione morale ed autoeducazione)». 5. In From Max Weber: Essays in Sociology, a cura di Hans H. Gerth e C. Wright Mills, Routledge, New York 1946, pp. 77-128. 6. Si veda The Prince, cap. XV; cfr. The Discourses, libro I, capitoli IX e XVIII. Cito dalla edizione della Modern Library College delle due opere (New York 1950), p. 57. 7. Tralascio la questione concernente il fatto che il prigioniero sia o meno responsabile in prima persona della campagna terroristica. Forse egli l’ha osteggiata nelle riunioni dell’organizzazione ribelle. In ogni caso, sia che meriti di essere punito sia che non lo meriti, egli non merita di essere torturato. 8. Altri scrittori argomentarono che i cristiani non dovrebbero mai uccidere, nemmeno in una guerra giusta; e vi fu anche una posizione intermedia, che suggerisce le origini dell’idea delle mani sporche. Così Basilio il Grande (vescovo di Cesarea nel quarto secolo d.C.): «Dai nostri padri è stata operata una distinzione tra l’uccisione in guerra e l’assassinio… non-

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dimeno, forse sarebbe bene che coloro le cui mani sono sporche si astenessero dalla comunione per tre anni». Qui “mani sporche” significa una sorta di impurità o indegnità, che non equivale a colpa, sebbene strettamente correlata ad essa. Per una valutazione generale di queste ed altre opinioni di cristiani, si veda R. H. Bainton, Christian Attitudes Toward War and Peace, Abingdon Press, New York 1960, spec. capp. 5-7 [trad. it., Il cristiano, la guerra, la pace: rassegna storica e valutazione critica, P. Gribaudi, Torino 1968]. 9. Le norme di Brandt non appaiono essere del tipo che può non essere preso in considerazione – tranne forse da parte di un soldato il quale decida che proprio non ucciderà più alcun civile, non importa quale causa venga servita – dal momento che tutto ciò che esse esigono è un’attenta disamina. Ma io intendo nel senso che le norme di diversa tipologia, che hanno la forma di ingiunzioni e proibizioni ordinarie, possono figurare e spesso figurano in ciò che è designato con l’appellativo di “utilitarismo normativo”. 10. J. L. Austin, A Plea for Excuses, in Philosophical Papers, a cura di J. O. Urmson e G. J. Warnock, Oxford University Press, Oxford 1961, pp. 123-152 [trad. it., Saggi filosofici, Guerini, Milano 1990]. 11. Amleto, atto III, scena IV, v. 178. 12. Paragonate i seguenti versi tratti dalla poesia di Bertold Brecht To Posterity: «Alas, we / Who wished to lay the foundations of kindness / Could not ourselves be kind…» («Ahimè, noi / che cercammo di apprestare il terreno alla gentilezza / noi non si poté essere gentili…») (Selected Poems, trad. H. R. Hays, Harcourt, New York 1969, p. 177). Questo è più di una scusa, meno di una giustificazione (la poesia costituisce una apologia). 13. R. Nozick discute alcuni dei possibili effetti che lo scavalcare una norma comporta nel suo Moral Complications and Moral Structures, «Natural Law Forum», 13, 1968, pp. 34-35 e note. Nozick suggerisce che ciò che può rimanere dopo che uno ha infranto una norma (per buone ragioni) è un «dovere di fare ammenda». Egli non chiama questo «colpa», sebbene le due nozioni siano strettamente correlate. 14. R. M. Hare, Rules of War and Moral Reasoning, cit., p. 59. 15. Vi è un’altra possibile posizione utilitaristica, suggerita in Humanism and Terror di M. Merleau-Ponty, trad. di J. O’Neill, Beacon Press, Boston 1970 [trad. it., Umanismo e terrore, SugarCo, Milano 1978]. Secondo questa opinione, i sentimenti di agonia e di colpa sperimentati dall’uomo che prende una decisione “da mani sporche” derivano dalla sua radicale incertezza circa l’effettivo risultato. Forse la terribile azione che egli compie sarà compiuta invano; i risultati a cui egli aspira non avranno luogo; l’unico risultato sarà il dolore che egli ha causato o l’inganno che egli ha favorito. Allora (e solo allora) egli invero avrà commesso un crimine. D’altro canto, se il bene atteso giunge, allora (e solo allora) egli può abbandonare i suoi sensi di colpa; può dire, ed il resto di noi deve acconsentire, che egli è giustificato. Questo è una sorta di utilitarismo ritardato, in cui la giustificazione è una questione di risultati effettivi e niente affatto previsti. Non è inverosi-

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mile immaginare un agente politico che aspetta ansiosamente il “verdetto della storia”. Ma supponiamo che il verdetto sia in suo favore (supponendo che vi sia un verdetto finale o uno statuto di termini di prescrizione su possibili verdetti): egli sicuramente si sentirà sollevato – ancor più, senza dubbio, del resto di noi. Non vedo alcuna ragione per cui, tuttavia, egli dovrebbe ritenersi giustificato, se egli è un uomo buono e sa che ciò che ha compiuto era sbagliato. Forse le vittime del suo crimine, vedendo il felice risultato, lo assolveranno, ma la storia non ha poteri di assoluzione. In verità, la storia è più incline a giocare dei brutti scherzi al nostro giudizio morale. Si pensa almeno che i risultati previsti siano conseguenti alle nostre stesse azioni (questa è la predizione), ma i risultati effettivi quasi certamente hanno una moltitudine di cause, la combinazione delle quali può ben essere accidentale. Merleau-Ponty sottolinea i rischi del processo decisionale politico così pesantemente che egli trasforma la politica in un gioco d’azzardo con il tempo e le circostanze. Ma l’ansietà del giocatore d’azzardo non riveste un grande interesse morale, né costituisce una gran barriera, come il libro di Merleau-Ponty rende anche troppo chiaro, al compimento dei più terribili crimini. 16. Cfr. i casi suggeriti da D. Ross, The Right and the Good, Clarendon, Oxford 1930, pp. 56-57, e da E. F. Carrit, Ethical and Political Thinking, Oxford University Press, Oxford 1947, p. 65. 17. The Discourses, libro I, capitolo IX (p. 139). 18. Per un approccio totalmente diverso a Machiavelli, si veda I. Berlin, The Question of Machiavelli, in «The New York Review of Books», 4, Novembre 1971. 19. The Discourses, libro I, capitolo XVIII (p. 171). 20. Politics as a Vocation, cit., pp. 125-126. Ma a volte un leader politico sceglie il lato “assolutista” del conflitto, e Weber scrive che è «immensamente commovente quando un uomo maturo… consapevole di una responsabilità inerente alle conseguenze della propria condotta… perviene a un punto ove egli asserisce: “Eccomi qui; non posso spingermi oltre”» (p. 127). Sfortunatamente, egli non suggerisce proprio dove quel punto sia o anche ove potrebbe essere. 21. Caligula and Three Other Plays, Vintage Books, New York 1958, p. X [l’edizione originale dell’opera citata nel testo è: Les justes, Gallimard, Paris 1950, n.d.c.]: la prefazione è tradotta da J. O’Brian, le opere teatrali da S. Gilbert. 22. J. P. Sartre, Dirty Hands, cit., p. 223.

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Ackerman, Bruce xv, 53 Adorno, Theodor W. 59, 65, 69 Agostino, d’Ippona 9, 12 Ambrosi, Elisabetta xli, li Amleto 12, 13, 25 Amos 57, 104 Arato, Andrew xliv Arendt, Hannah xix, xxi, xxiii, xxxviii, xl, 75, 108, 123 Auden, William H. 31, 52 Audi, Robert 122 Austin, John L. 25 Baccelli, Luca xl, xliii, xlv Bainton, Richard H. 25 Baroncelli, Fabio xlix Barry, Brian xliv Basilio, vescovo di Cesarea 24 Belvisi, Francesco xli,l Bellah, Robert 122 Bellamy, Richard xliv, xlv Berlin, Isaiah 26 Bernstein, Eduard xxv Besussi, Antonella xliv Bianchi, Stella l Bolaffi, Angelo l Bonazzi, Tiziano xliii, l Bortolini, Matteo xlvii Bosetti, Giancarlo xlvi Bound, Elisabeth M. 122 Bourne, Randolph xix Brandt, Richard B. 1, 24, 25 Brecht, Bertold 25 Brewer, David J. 122 Brinton, Crane 106, 123

Caffi, Andrea xlii Camus, Albert xiii, xlii, 20-22, 58 Carnevali, Giorgio li Carrino, Agostino xlvii, lii, xlix Carrit, Edgar Frederick 26 Carter, Stephen L. 123, 124 Caruso, Sergio xli Casadei, Thomas xliv, xlv, xlvi, l Casalini, Brunella xlviii Castelli, Jim 122 Casula, Clementina xlvii Ceppa, Leonardo xlvi Chambers, Simone xliv Cohen, Jean xliv Cerutti, Furio xlvi, xlviii Coser, Lewis xlvi Costa, Paolo xli, xli, xliv D’Andrea, Dimitri xlvi, xlviii Descartes, René 28-30, 52 Dewey, John xviii, xix, xxv, xli, xliii Dover, Kenneth J. 52 Dunne, Michael xliii Dworkin, Ronald xv, xliii, 53, 54 Elster, John xlvi Ely, Richard 53, 54 Engels, Friedrich 77 Fabbrini, Sergio xlvi Feuerbach, Ludwig 57 Ferrara, Alessandro xliv Ferrarese, Maria Rosaria xlix Finnis, John l


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Fiss, Owen 53, 54 Forster, Edward M. 81 Galeotti, Anna Elisabetta xlv, xlviii Galli, Carlo l Galston, William A. xlii Geertz, Clifford xlii, l, li Gerth, Hans H. 24, 67 Giuliani, Massimo xlviii Glemp, Jozef 101 Granaglia, Elena xlv Gutmann, Amy 54, 123 Habermas, Jürgen xv, xxxv, xlvi, 54, 62 Hampshire, Stuart xxxviii, xlii Hare, Richard M. 1, 3, 14, 24, 25 Harrington, Michael xxv Hartogh den, Govert xlvii Hegel, George Wilhelm Friedrich 38, 72, 107 Hirschman, Albert xlii Hirst, Paul xlvii Hobbes, Thomas 30, 52, 126, 127 Honneth, Axel xliv Horkheimer, Max 59, 60, 61, 67, 69 Howard, Michael W. xlviii Howe, Irving xxv, xlvi, xlvii Hume, David 123 Isaia, profeta 56, 57 Jones, Albert 53 Kallen, Horace xix Kant, Immanuel 126, 128, 130, 136, 138 Karsson, M. xliv Kavafis, Konstantinos 30, 51 Keats, John 31, 52 King, Martin Luther 104 Konrad, George 88 Kramnick, Isaac 122, 23 Kymlicka, Will xliv, xlviii Lalatta, Marina xli Laslett, Peter 53 La Torre, Massimo xlii, xliii

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Lenin, Vladimir 38 Lewy, Guenter 123 Locke, John 87 Lorberbaum, Menachem xlviii, liii Loretoni, Anna xlix Lutero, Martin 58 Machiavelli, Niccolò xii, xiii, xlii, 17-18, 22, 26, 122 MacIntyre, Alasdair xxiii, xlvii, 123 Maffettone, Sebastiano xli, lii Markovic, Mihailo 61 Marramao, Giacomo l Mattarelli, Sauro xlv Mayer, Robert xlvi McConnell, Michael W. 123 McCarthy, Eugene xli Merleau-Ponty, Maurice 25, 26 Michelman, Frank 53, 54 Miegge, Mario lii Mill, John Stuart 58, 59, 64, 73 Miller, David xlvii, liii Milosevic, Slobodan 61 Moore, Laurence R. 122, 123 Mouffe, Chantal 95 Nagel, Thomas xlii, 1, 2, 24 Neuhaus, Robert John 122, Nozick, Robert 25 Numa Pompilio 17 Nussbaum, Martha C. xlii, l Paine, Thomas xi Palombella, Gianluigi xliii Pariotti, Elena xlix Pasquino, Gianfranco xliii Passerin d’Entrèves, Maurizio li Pastore, Baldassarre 143 Peczenik, Alexander xliv Petev, Valentin xliii Pirni, Alberto li Platone 29, 32, 39, 52 Raz, Joseph xliv, xlv, xlvi, xlviii, l Ricoeur Paul li


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Robertson, Pat 122 Romolo 17 Rosati, Massimo xl, xli, xliv Ross, David 26 Rosselli, Carlo xxv, xlvii Roth, Joel 124 Rousseau, Jean-Jacques 33-34, 41, 50, 52, 53, 58, 73, 74, 84, 92, 122 Rule, James B. xlv Runciman, W. G. 53 Rustin, Michael xlvii Sartre, Jean-Paul 2, 22, 24, 26, 58 Savonarola, frĂ Girolamo 106 Scanlon, Thomas M. 53 Schorske, Carl 123 Scott, Joan 22 Secor, Laura 69 Seligman, Adam xliv Shakespeare, William 12 Shelley, Percy B. 50 Silone, Ignazio xxv, xlvii Socrate, 29 Sorauf, Frank J. 124 Stangherlin, Marco xl, xlix Talmon, Jacob 123 Tasioulas, John xliv Taylor, Charles xli, xlv, 24 Taylor, Harriet 64 Tawney, Richard H. xxv, xlvii, 98

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Teodori, Massimo xli Testa, Italo xliv Thompson, Dennis 123 Thoreau, Henry David 58 Tito, (Josip Broz) 61 Urbinati, Nadia xli, xlii, xliii, xlv, xlvii, liii Urmson, James O. 25 Valera, Gabriella xli Vertone, Saverio lii Viroli, Maurizio xlii, xlix Vitale, Ermanno xlvi Voltaire 58 Wallach, John R. xlv Warnke, George xliv Warnock, Geoffrey J. 25 Weber, Max xiii, 4, 18-20, 24, 26, 67 Williams, Bernard 24 Williams, Melissa S. xliii Wittgenstein, Ludwig 27, 28, 30, 52 Wolin, Sheldon S. 52 Wollheim, Richard 53 Wright Mills, Charles 24, 67 Yeats, William B. 52 Zanetti, Gianfrancesco xl, xlii, xliii, xlv, l, li Zohar, Noam J. xlviii, liii Zolo, Danilo xlv, xlix, l


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Studio sui modi e sui temi che tramano il tessuto della convivenza sociale civile e del mondo sul fragile e permanente bisogno della politica di comprendere e di governare fra ragione e passioni questo libro di Michael Walzer composto nel carattere Simoncini Garamond viene stampato per conto di Diabasis su carta Arcoprint delle cartiere Fedrigoni dalla tipografia Grafitalia di Reggio Emilia nell’ottobre dell’anno duemila due


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