La riproduzione dei documenti conservati presso l’Archivio di Stato di Parma è stata autorizzata in data 1 ottobre 2014, prot. n. 3086/V.9.3.
Redazione Leandro del Giudice Grafica Emanuela Nosari In copertina Carlo Mattioli, Papaveri in Versilia, 1979 ISBN 978-88-8103-833-6 © 2014 Edizioni Diabasis Diaroads srl - vicolo del Vescovado, 12 - 43121 Parma Italia tel. 00 39 0521 207547 - info@diabasis.it - www.diabasis.it
Attilio Bertolucci
Il fuoco e la cenere Versi e prose dal tempo perduto A cura di Paolo Lagazzi e Gabriella Palli Baroni
Bertolucci Papers Paolo Lagazzi
È piuttosto strano: stare accanto ad Attilio non era forse come muoversi in sogno? Eppure, mentre nei territori della notte qualcosa spesso mi sorprende e mi espone al risucchio pauroso del vuoto, in quel sogno che era la nostra amicizia ogni incontro scorreva franco, naturale e leggero come le cose che non percepiamo (il sangue in noi, l’aria attorno a noi, il ruotare della terra) ma che sono indispensabili al vivere. Mai e poi mai lui avrebbe assunto con me le pose del grande maestro nei confronti dell’allievo: intessuto di tenerezza e humour, d’infinite sottigliezze e delicatezze, di tratti fluidi e freschi benché non privi di punte, spigoli, aritmie, increspature d’ansia, retroterra d’ombra, il suo insegnamento continuo tendeva a smorzare le differenze tra i nostri punti di vista, a farmi sentire dentro un mondo che si poteva veramente, “umanamente” abitare. Le molte occasioni in cui mi avrebbe schiuso, negli anni, la sua officina creativa invitandomi a seguirlo oltre quella soglia invisibile fra sé e gli altri che ogni autentico artista sa indispensabile alla propria libertà, mi appaiono ancor oggi doni tanto più preziosi in quanto offerti con la nonchalance delle cose fortuite, degli eventi che brillano sul filo inappariscente dei giorni. Tra quei doni ricordo i dattiloscritti e manoscritti (mai, prima, visti da nessuno) contenenti prove, varianti, incunaboli di Sirio, o testi esclusi dalla raccolta, che mi mise a disposizione a Casarola nell’estate del ’79 mentre mi accingevo a scrivere un saggio; i primi trentasei capitoli della Camera da letto, ancora inediti in volume, che mi sottopose nell’estate dell’83, sempre a Casarola, chiedendomi di esprimergli le mie opinioni con la massima schiettezza (autorizzato dalla sua fiducia mi permisi non solo di suggerirgli d’intitolare i capitoli, fino allora indicati da semplici numeri romani, ma addirittura di togliere un verso, che mi pareva 5
un po’ stonato, dal racconto della morte della mamma, e quell’uomo che molti credevano un terribile snob accettò entrambe le proposte con una sorta di esultante pazienza); la lettera che mi scrisse il 15 settembre ’87 poco prima di una seria operazione allo stomaco pregandomi, se non ne fosse uscito, di “prendere in mano quanto resta di inedito di me”; l’allegra adesione, tra il ’91 e il ’92, alla mia proposta di raccogliere le sue carte sparse presso l’Archivio di Stato di Parma; le detection che mi consentì di compiere a questo scopo nella sua casa di Roma, ricerche da cui sarebbero uscite le poesie inedite poi in parte confluite nelle due ultime raccolte, Verso le sorgenti del Cinghio e La lucertola di Casarola. Tutto un fruscìo di carte, un fluttuare di fogli, quadernetti, testi nati nell’arco di una vita e custoditi (si fa per dire) in scatole da scarpe rimaste in qualche ripostiglio segna, dunque, la mia storia accanto ad Attilio, così come, in modi simili e diversi, quella di Gabriella Palli Baroni: ed è da questa stessa vicenda, da questo irradiarsi a onde discontinue di parole nel tempo che è nato anche Il fuoco e la cenere. Le due raccolte che ho appena ricordato, Verso le sorgenti del Cinghio e La lucertola di Casarola, non sono state prodotte dalla volontà di stilare un qualsiasi “bilancio” finale. Dopo aver pubblicato La camera da letto, in un certo senso il poeta sentiva di aver concluso la propria parabola, di aver assolto il compito assegnatogli dagli dèi: il romanzo in versi non era forse il suo Temps retrouvé? Eppure il bisogno di esprimersi, il desiderio di sperimentare non si era affatto esaurito in lui, e quelle due raccolte gli avrebbero ancora dato il modo d’incarnarlo in pagine intrecciate di poesie recenti e poesie giovanili, di liriche compiute e composizioni in fieri, di frammenti volatili e di brani di ampio respiro epico esclusi dal romanzo in versi. Anche costruendo Il fuoco e la cenere io e Gabriella abbiamo cercato di realizzare, scegliendo i più belli tra gli inediti custoditi nell’Archivio di Stato di Parma e nei nostri archivi personali, un libro eloquente e palpitante, in grado di rispecchiare in modo vivo la straordinaria creatività 6
bertolucciana, evitando sia lo spirito antiquario sia il gusto celebrativo. Nella lettera dell’87 che ho ricordato prima, il poeta era stato molto chiaro: “Se dopo un esame del materiale ti sembra che solo parte, o niente, sia degno dei tre libri [La capanna indiana, Viaggio d’inverno, La camera da letto] nei quali c’è pubblicato tutto di me che mi rappresenta, sii severo e amico insieme, il più possibile”. Cosa potevamo, dunque, se non leggere e rileggere gli inediti scegliendo quelli capaci di restituire con la maggiore pienezza il timbro inconfondibile di una voce, di una scrittura cangiante negli anni, aperta anche al gioco e all’azzardo ma sempre, a suo modo, fedele alla luce vera delle cose, alla sostanza creaturale del mondo? Come il primo e il secondo libro della Camera e le due ultime raccolte, anche Il fuoco e la cenere ha la struttura di un trittico: la prima parte, che abbiamo chiamato Féerie (il termine era assai caro al poeta: lo dimostra fra l’altro il suo trascriverlo come titolo su una cartelletta rimasta in mio possesso, probabilmente destinata a raccogliere i testi poi ripresi in Verso le sorgenti del Cinghio come Teneri rifiuti), allinea poesie composte in prevalenza dagli anni Venti (prima di Sirio) agli anni Quaranta, ma anche concepite più tardi, fino ai Novanta; la seconda parte, che abbiamo battezzato Vita mobile riprendendo l’espressione da una poesia di Viaggio d’inverno (Viaggiando verso la primavera), raccoglie alcuni bellissimi brani, sequenze o capitoli esclusi dalla Camera da letto, tutti più o meno incentrati su passaggi, spostamenti, fughe, traslochi, escursioni, cammini; la terza parte, quella che intitola il libro, riprende prose di fluida e corrusca qualità poetica composte fra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta, incunaboli degli scritti del grande Bertolucci prosatore raccolti in Aritmie e in Ho rubato due versi a Baudelaire, poi, dopo la sua morte, in Lezioni d’arte e in La consolazione della pittura. (L’emblematica coppia d’immagini del fuoco e della cenere è presente in due di queste prose, Esercizio e Corriera di Parma, oltre che tra i versi di Un triste canto, un dolce e triste canto, mentre la flânerie intitolata Capricci invernali brilla 7
di “un fuoco interno assai dolce” e il racconto Un giorno del ’44 è scosso e striato da fiamme e fumi di guerra). Se, da un lato, questa struttura tripartita distingue con chiarezza i diversi spazi dell’officina di Bertolucci (i suoi tre “tavoli” ideali e reali, potrei dire secondo il celebre modello pascoliano), e se da un altro lato l’ordine cronologico, col quale abbiamo, nei limiti del possibile, cercato di distribuire i testi entro ognuna delle sezioni, potrà aiutare i lettori a seguire alcuni significativi mutamenti dello stile del poeta nel tempo, molti dei temi, delle figure e dei tocchi stilistici si richiamano da un capo all’altro del libro con tanta necessità, con tanta forza da indurci a riconoscere in questa, come in tutte le altre raccolte di Bertolucci, una tendenza all’arazzo spontaneo, all’intarsio a distanza dei fili, alla formazione di un paesaggio dei sensi e dell’anima insieme complesso e semplice, innervato tanto da pulsioni di spostamento o di fuga della visione quanto da spinte centripete, da un desiderio lancinante di tornare sempre, di nuovo, ai propri luoghi d’origine, alle proprie immagini predilette. L’originalità di Bertolucci, ha scritto qualcuno, è annidata in una “vertigine psichica”. Questa vertigine segna da cima a fondo anche Il fuoco e la cenere dispiegandosi al modo di un ossimoro permanente: intingendo la scrittura nella luce e nell’ombra; piegandola verso le manifestazioni della bellezza e i risvolti oscuri dell’ansia, dell’apprensione, del tormento; facendo vibrare le partiture del poeta d’allegria e malinconia, di un innocente giubilo adolescenziale e di un irrimediabile spleen; alternando trepide e rigeneranti rêverie a momenti di stanchezza, a velature cinerine, al pensiero ricorrente della morte… Pur imprimendo a molte di queste poesie un tocco di delicato, estatico e un po’ ebbro abbandono alla vita, nemmeno l’intensissimo amore per Ninetta (senza dubbio l’evento cruciale di tutta l’opera sparsa di Bertolucci negli anni tra Fuochi in novembre e Lettera da casa) sembra a tratti poter arginare le tentazioni della prostrazione: “Le mie braccia ricadono, se voglio alzarle, /…/ Le mie gambe non potranno più 8
correre / Nel mattino silenzioso e pieno di sole…”. Eppure basta poco perché l’anima si scuota, si rialzi e torni a levitare: perfino la cadenza delle bacchette d’un materassaio può diventare musica agli orecchi del poeta, e attraverso questa musica, un po’ da batterista, “l’aria / Si fa più leggera, e ride”… Lo spirito dell’ossimoro, il carattere sottilmente paradossale di questa poesia non è solo un fatto profondo ma tocca anche, o anzitutto, le forme, increspa i colori e i timbri della voce, flette o tende le curve del ritmo, organizza il contrappunto delle rime e delle assonanze, sovrintende alle scelte lessicali. Specialmente negli anni d’entre deux guerres molto significativo è il coesistere di versi di palpitante freschezza naturale con altri un po’ preziosistici, di silhouette immaginative assai famigliari e riconoscibili per i lettori di Bertolucci con invenzioni un po’ strane e improbabili, di testi più o meno chiusi, tendenti al madrigale o al sonetto, con altri aperti, liberi nelle effusioni del proprio respiro. A volte il poeta ritaglia dei quadretti brevissimi, di quattro o anche di soli tre versi (“Per tutto un pomeriggio / Il sole ha illuminato / Questo muro sul Parma”), leggibili sia come schizzi su cui tornare, come nuclei da cui irradiare fraseggi più ampi, sia “in sé”, come frammenti di una speciale forza lirica, simili a degli haiku. Altre volte sono veri e propri azzardi “romanzeschi” (Primi appunti per il figliol prodigo, Racconto d’inverno) a dilatare la rêverie molto prima della nascita della Camera da letto. In ogni caso, perfino negli anni in cui è più propensa a dolcezze vagamente neoalessandrine, nutrite di incursioni tra Catullo e Properzio, o è più tentata da esercizi di sottile virtuosismo, come la traduzione del sonetto 18 di Shakespeare, la voce del poeta non è mai, davvero, ipotecata da quella tendenza alla letterarietà che è il filo conduttore del petrarchismo ermetico. Ciò che salva Bertolucci dal cedere alle lusinghe del manierismo novecentesco non è solo la sua grazia intrisa di “sprezzatura” – quella grazia, quella delicatezza fantasiosa e leggera che Luzi saprà riconoscergli recensendo nel ’51 La capanna indiana –, è qualcosa di molto più ampio: 9
è il bisogno di evocare il mondo nell’immensità dei suoi eventi anche minimi, è il clinamen spirituale di un ultimo figlio dell’età impressionista chiamato a testimoniare il miracolo e la pena della vita nella dolcezza straziante del suo brillare e del suo incenerirsi. Benché Bertolucci le abbia abbandonate alla corrente del tempo – ma in luoghi in cui fosse possibile, prima o poi, ritrovarle –, le poesie e le prose qui raccolte contengono alcuni gioielli, alcuni passaggi memorabili: ricordo, fra gli altri, il finale di Alla mia giovinezza vibrante di domande in serie in cui il poeta, parlando alla propria età come se fosse una ragazza “triste e sola”, schiude attorno a lei un paesaggio vastissimo di dolce, sospeso, rabbrividente stupore (“Forse hai paura della tua solitudine, / E di quei grandi venti sereni / Che si alzano nel mezzogiorno? / O delle bianche nuvole / Ferme sui campanili rotondi?”); il distico che sigilla Luna e nuvole, con quella luna-lucerna che, splendendo “fra greggi di nuvole / Addormentate”, “solitaria nel cielo”, emana un chiarore quasi leopardiano; il disegno di Avevo dormito a lungo, senza sogni, giocato tra una percezione estremamente tersa della quotidianità “nell’assopirsi lento del giorno” e un tocco onirico di toccante, quieto surrealismo (“Io in piedi ero alto, alto come un pioppo / Tu piangevi come un rivo, allora ti baciai per la prima volta”); l’immagine della casa “Fresca nelle gran sale deserte / Come un sepolcro o una bottiglia” che, nella poesia incompiuta Il rosmarino profuma l’estate, anticipa di lontano alcune tra le evocazioni più arcane della Camera da letto (la “sala da pranzo rinchiusa / come un acquario o una tomba” del capitolo IX, la sala “fresca come una tomba / o una cantina” del capitolo XXI); le “immote / lampade della strada” che vegliano nella silenziosa notte romana come “ardenti vergini prudenti”, o come “testimoni senza palpebre dal nulla”, nella sequenza conclusiva del Viaggio di nozze escluso dal romanzo in versi… Ma il mondo poetico di Bertolucci, come sappiamo, non vive mai solo di attimi speciali, di epifanie, di sortilegi fiammanti; l’importanza di questa estrema raccolta è altrettanto da cogliere nel 10
suo flusso generativo, nel movimento d’insieme. Se l’osserviamo in controluce alla distanza tra i primi componimenti (quelli, vagamente “metafisici”, anteriori a Sirio) e l’ultimo (Ricordando il ’22 di Parma, sorta di tenera e fiera ballata scritta dal poeta tre anni prima della morte per uno degli episodi più commoventi della storia della sua città), questo libro squaderna ai nostri occhi, per frammenti o “esempi”, tutta l’estensione artistica, simbolica e umana della ricerca bertolucciana di verità. Due episodi assai significativi di questa avventura, la prosa L’apprendista poeta e la sequenza per la Camera il cui incipit suona Passano due anni nell’apprendistato, testimoniano il bisogno dell’autore di capirsi, di guardarsi periodicamente allo specchio per cogliere le linee di fondo, i rischi e le chance del proprio “stravagante” carattere e del proprio “singolare” destino. Sebbene scritti a grande distanza reciproca (nel ’33 la prosa, come rivela la confessione dell’autore di avere ventidue anni; probabilmente tra gli anni Sessanta e Settanta la sequenza della Camera), entrambi i testi ci dicono con quanta chiarezza Bertolucci abbia sempre saputo riconoscere la sua vocazione creativa, la necessità della sua poesia nel cuore stesso, aritmico, del proprio farsi. La loro incompiutezza, però, non è forse anche il segno di un limite intrinseco alla consapevolezza del poeta, del suo necessario scontrarsi con un margine irriducibile di mistero? Ha affermato una volta Jankélévitch che, mentre il segreto “designa ciò che è precluso ai profani e riservato ai soli iniziati”, il mistero è una realtà essenziale, un fatto d’ordine naturale o spirituale. Anche se non coglie, forse, tutta la verità, questo pensiero può aiutarci a mettere a fuoco la radicale differenza tra il Novecento orfico, chiuso nell’esoterismo di segreti per pochi eletti, e la lirica di Bertolucci, votata naturalmente al mistero. Certo nel poeta di Parma c’è anche quella disposizione al segreto che non è se non pudore, solitudine protetta, gelosa custodia dei propri affetti, umanissima difesa della propria libertà; il nocciolo della sua verità, però, sta nella capacità di cogliere la luce, la trasparenza delle cose, 11
la vita semplice e quotidiana come mistero. Non è affatto un caso se il rintocco iniziale di tutta la sua opera, l’incipit di Sirio, è un ossimoro quale “Divina misteriosa / chiarezza”. Anche nelle poesie qui da noi riprese il mistero – leitmotiv esplicito nel secondo dei testi intitolati Poema (“Radura, chiara radura /… / Misterioso pesante sonno dei meriggi”), in Tentenna graziosamente il tuo capo (“il sole pare … una mobile e viva / Acqua, un mistero…”) e in Alla mia giovinezza (“Quale incantesimo ti tiene / Di frescura e mistero avvolta…”) – è il riverbero d’ineffabile inscritto nel gioco stesso, luminoso dei momenti, è quel quid di magia che non ha bisogno di essere velato per custodire il proprio fondo insondabile. A volte Bertolucci è tentato di esplorare il mistero in una distanza, attraverso la fuga della fantasia in un altrove: in questi momenti la sua rêverie può spingerlo a schizzare piccoli miti o fiabe sui generis (anche alcuni disegnini che costellano i suoi manoscritti sembrano escursioni nei regni del bizzarro) o ad evocare degli Orienti ipotetici come quello che increspa di ricciute, colorite e pastose immagini da Mille e una notte i versi di Racconto d’inverno. Perfino la sua lettura della Recherche palpita di questo ardore immaginativo, come ci mostrano gli appunti di Proust e la féerie. Ma il richiamo del “qui e ora”, o della luce delle cose intrise di tempo, rese vere dai loro limiti creaturali, e proprio per questo preservate nel loro mistero, rovescia sempre, prima o poi, la fuga in un ritorno alle radici. Così, nel capitolo per la Camera sul viaggio di nozze a Roma, “A.” e “N.” sanno riconoscere in una celebre tavola del Correggio, la Danae custodita nella Galleria Borghese, non solo la patina sognante delle “favole antiche” ma, “in un lontano di paese / inventato dal vero”, “proprio l’aria della plaga / fra la città e la collina / dove inevitabile / si svolgerà la loro vita”. Mentre l’anonimo protagonista del Carteggio Aspern di James si trova di fronte a un segreto invalicabile – lettere del suo poeta prediletto custodite in luoghi inaccessibili, resi tali da un’ambigua e feroce strategia di occultamento –, Attilio, come ho già detto, non ha mai fatto nulla per impedirmi l’accesso all’“altro lato” del 12
suo specchio, non mi ha mai nascosto le carte disperse della sua ricerca, i segni e le tracce del suo cammino nel mondo. Proprio questa apertura della sua dimora intima mi ha sempre gettato con forza contro l’evidenza del suo mistero. Le “lettere” erano là, disponibili al tocco un po’ sudato delle mie mani e alla presa del mio sguardo, eppure, mentre le sfogliavo, mentre le voltavo e rivoltavo cercando di carpirne il vero significato, esse mi resistevano dolcemente: come la lettera rubata di Poe era resa invisibile dal suo essere totalmente in mostra, così la loro prossimità me le sottraeva, ne spostava il senso dove non sarei mai riuscito a raggiungerlo… Fra tutte le poesie del Fuoco e la cenere, Come lucciola allor ch’estate volge ha una risonanza molto particolare nel mio cuore, e non solo perché, durante la parte “civile” del funerale di Bertolucci, il 17 giugno 2000, a Parma, la lessi in pubblico rabbrividendo. Questa poesia non è soltanto, nel senso più alto, struggente: ha in sé qualcosa che davvero sorprende. Malgrado il suo nitore “classico” e la sua dolce, lirica musicalità madrigalesca, anticipa di mezzo secolo una delle immagini più tragiche e desolate dell’opera bertolucciana, quelle lucciole “sfinite”, di cui le “foglie amare” di un giugno “ventoso” sono “imbrattate”, che conclude la Canzone triste in tre parti della Lucertola di Casarola, il testo di commiato del poeta al mondo. Forse mai come mentre leggevo quei versi in pubblico fui trafitto dalla forza e dal mistero della poesia di Attilio. “Tutta” la sua voce vibrava in quei pochi versi, ma qualcosa in essi – come potrei chiamarlo, il dolore della bellezza? – continuava a incantarmi e a sfuggirmi. La “lucciola” della sua verità era a un passo da me, eppure persa chissà dove nella notte; anche conclusa la lettura continuavo a vederla palpitare dove non sarei mai arrivato col pensiero, dove la fiammella della vita che muore diventa un fuoco fatuo, la scia d’una cometa, un pulviscolo di stelle senza nome.
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Nota all’edizione
Nel 1993 Attilio Bertolucci, pubblicando la sua penultima raccolta Verso le sorgenti del Cinghio, intitolò Teneri rifiuti alcune poesie giovanili ritrovate tra le sue carte e riprese nel libro e nel 1997 approvò la piccola raccolta Schizzi e abbozzi del Meridiano Opere, composta di testi pubblicati sparsamente e dimenticati. Il fuoco e la cenere si colloca su questa via segnata dal poeta raccogliendo liriche, prose, sequenze e capitoli della Camera da letto inediti o pubblicati in riviste, giornali e plaquette dopo la sua scomparsa. Gli originali dei testi, perlopiù autografi e qualche volta in copia dattiloscritta, sono, come indicano le note collocate in fondo, conservati presso l’Archivio di Stato di Parma o affidati ai curatori della sua opera. Possono presentare diverse stesure con varianti significative. In questi casi si è cercato d’individuare l’ultima stesura secondo la volontà dell’autore; in casi di incertezza dello stesso poeta, o di un’elaborazione testuale rimasta aperta a diverse soluzioni, si è scelta quella che appariva più pregnante dal punto di vista linguistico e più risolta sul piano poetico. Si è deciso tuttavia, non essendo questa un’edizione critica, di non appesantire le note con un elenco completo di tutti i testi consultati, indicando solo la collocazione attuale di quelli qui raccolti e i luoghi dove siano già stati eventualmente pubblicati. Nelle note ai testi e nell’indice generale tutti i titoli indicati dall’autore e i sei proposti dai curatori – Imitato da Shakespeare (sonetto 18), N. a Casarola, Il viaggio di nozze, Nella casa di Pea: la tempesta, Dal terzo libro e Frammenti di diario – sono riportati in tondo; in mancanza di intitolazioni si utilizza, sempre nell’indice e nelle note, l’incipit del testo in corsivo. Si sono eliminati i numeri romani che segnano le sequenze e 14
i capitoli della Camera, numeri spesso provvisori o indicativi di una fase particolare dell’elaborazione del romanzo in versi, poi modificata nell’edizione definitiva. Per quanto riguarda gli a capo dei versi, seguendo una convenzione tipografica un tempo vigente, Bertolucci ha usato per molti anni la maiuscola, alternandola talvolta con la minuscola in modo impreciso. Trascrivendo le poesie singole, le sequenze e i capitoli della Camera da letto abbiamo sempre rispettato le scelte dell’autore limitandoci a uniformarle. Le date in calce alle poesie sono state uniformate col nome del mese sempre minuscolo. Si sono infine corretti alcuni errori ortografici e sviste.
Un profondo grazie agli eredi del poeta, Bernardo Bertolucci e Lucilla Albano, che hanno autorizzato e condiviso questo libro, e inoltre a Graziano Tonelli, direttore dell’Archivio di Stato di Parma, a Valentina Bocchi, instancabile custode del fondo bertolucciano in esso raccolto, e alla famiglia Mattioli che ha concesso di riprodurre in copertina un quadro di Carlo Mattioli. P. L. e G. P. B.
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Alla mia giovinezza
O mia giovinezza ardente e triste … Gli ippocastani si sono messi I loro bianchi pennacchi, Già la rosa odora, E nelle fresche notti L’usignuolo riempie l’aria Delle sue note chiare e scure; Già nella luce volteggiano Le folli farfalle, E tu non ti vuoi svegliare. Quale incantesimo ti tiene Di frescura e mistero avvolta, O dolcissima, o triste e sola? Forse hai paura della tua solitudine, E di quei grandi venti sereni Che si alzano nel mezzogiorno? O delle bianche nuvole Ferme sui campanili rotondi?
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Indice
5 Bertolucci Papers, Paolo Lagazzi 14 Nota all’edizione
Féerie 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 32 33 34 35 36 37 38 39
Nessuna grazia m’offusca Come una rupe Te cerco, silenziosa acqua di Lete Poema Poema Poema Poema Caffè Un triste canto, un dolce e triste canto A una ballerina di tango Il ritorno A una nuvola Novembre Arrivammo a fresche acque correnti Rovaio Endimione Questo è il caro autunno O anni lontani… Alla mia giovinezza Primavera e Morte
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40 43 44 45 46 47 48 49 50 51 52 53 54 55 56 59 60 61 62 63 64 65 66 67 68
Primi appunti per il figliol prodigo A Ninetta Tentenna graziosamente il tuo capo Come al mattino Ti ho sognata Epigramma Felici, rondini portate dal vento Al pomeriggio radioso Monologo Il passero Sole d’inverno Luna e nuvole Avevo dormito a lungo, senza sogni Soccorrimi mio Dio Racconto d’inverno – Fantasticheria incompiuta – A Ninetta O verde e tetra primavera Fine stagione Per tutto un pomeriggio La tua dolce pazienza s’animava L’alba celeste del muro Di quale luce, di qual miele d’oro Come lucciola allor ch’estate volge Luna nel vento La bellezza del fiore Imitato da Shakespeare (sonetto 18)
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Il rosmarino profuma l’estate Il materassaio Già nel freddo crepuscolo s’allegra Mai l’allodola vide nel suo alato Frammento Come l’inverno addolcisce rapido Le luci alle finestre accese prima È giugno il mese del fieno tagliato I due gatti Io penso a voi che vedeste con me Ricordando il ’22 di Parma
Vita mobile 83 84 85 88 90 98 99 106 110 118 120
C’è un’ora fra l’estrema luce utile L’incantevole Parma dell’inverno 1923 Frammento escluso da Oziosa giovinezza Passano due anni nell’apprendistato N. a Casarola La colazione del mattino lascia Il viaggio a Bologna L’estate fu bella e lunghissima Il viaggio di nozze Nella casa di Pea: la tempesta Dal terzo libro
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Il fuoco e la cenere 125 127 129 130 131 132 134
L’apprendista poeta. Prefazione Esercizio Proust e la féerie Frammenti di diario Corriera di Parma Capricci invernali Un giorno del ’44
137 Note ai testi 157 Per un libro imprevisto, Gabriella Palli Baroni
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Come l’inverno addolcisce rapido Quest’anno, non è ancora finito Gennaio eppure la luce s’attarda Sulle tenere cime delle case Ad augurarci presto un tempo di Crepuscoli raggianti… Oh cuore, quando Sarà quel tempo
ISBN 978-88-8103-833-6
€ 20,00