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P I ETR O B AR CELLO NA I L S APER E AF FET T IV O
Pietro Barcellona è una delle più originali figure di intellettuali della contemporaneità. Filosofo e poeta, pittore e commentatore politico, indaga con lo stesso spirito innovativo le dinamiche della psiche e i processi sociali dell’età globale. È stato docente universitario, deputato del PCI e componente del CSM. Tra i suoi libri più recenti: L’oracolo di Delfi e l’isola delle capre, Elogio del discorso inutile, Incontro con Gesù.
e d i z i o n i d ia b a s is
€ 16,00
Questo libro insolito analizza le forme in cui si realizza la cooperazione amorevole, per contrapporsi ai limiti del linguaggio e contrastare la tendenza all’oggettivazione assoluta del sapere scientista. La sfida è proporre un sapere altro, che attiene alle trasformazioni soggettive e alle relazioni, attraverso cui aprirsi a una nuova visione: il “sapere affettivo”. Solo il recupero dell’intima connessione tra parola e affettività può restituire dinamismo creativo a un’epoca divenuta incapace di pensare e di sentire, recuperando l’antica dimensione di tensione interrogante e mistero inspiegabile.
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PIETRO BARCELLONA IL SAPERE AFFETTIVO
Il sapere affettivo
pietro barcellona
nero pantone 363
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Asteroidi
Collana diretta da Pietro Barcellona, Roberto Mancini, Fabio Merlini
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Progetto grafico e copertina BosioAssociati, Savigliano (CN)
ISBN 978-88-8103-754-4
Š 2011 Edizioni Diabasis via Emilia S. Stefano 54 I-42121 Reggio Emilia Italia telefono 0039.0522.432727 fax 0039.0522.434047 www.diabasis.it
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Pietro Barcellona
Il sapere affettivo
D I A B A S I S
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Pietro Barcellona
Il sapere affettivo
Premessa 7
Perché un libro sul “sapere affettivo” Capitolo primo
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Il pilota automatico Capitolo secondo
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La comunicazione affettiva Capitolo terzo
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Crisi dei saperi istituiti Capitolo quarto
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La costruzione di senso Capitolo quinto
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Saperi altri, altri saperi Capitolo sesto
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Le relazioni e le figure dell’anima Capitolo settimo
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Il sapere affettivo
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Premessa Perché un libro sul “sapere affettivo”
In genere, quando provo a mettere per iscritto i miei pensieri, cerco sempre di rendere esplicite le ragioni che mi spingono ad approfondire i temi del mio percorso e di chiarire quale sia il filo che unifica le riflessioni espresse nei miei libri più recenti, da La parola perduta fino a Incontro con Gesù. Dopo essermi confrontato col mio rapporto con l’inaudito evento della nascita di un Figlio dell’Uomo che è anche Figlio di Dio, il sapere affettivo, come dimensione costitutiva della comprensione del mondo da parte dell’essere umano, continua a essere per me un’urgenza su cui interrogarmi e un tema da esaminare con puntiglio analitico. Infatti, sono convinto che l’evento della nascita di Cristo sia l’accadere di una presenza che dà vita a un incontro particolare, incentrato su una comunione amorosa, e che la presenza, in ogni incontro con l’altro, inauguri un processo continuo, che approfondisce sempre di più il problema dell’amore come forma di conoscenza, consentendoci la possibilità di evadere dai limiti e dalle forme del cognitivismo razionale che oggi sembra dominare i discorsi sull’essere umano. Incontrare l’altro non significa tagliare il traguardo della verità, ma continuare la ricerca del modo in cui il proprio rapporto con il mondo si arricchisce di un’altra modalità di comprensione del mistero della vita, che è sempre più sfuggente ed enigmatico, specialmente nell’epoca in cui viviamo. Fare l’esperienza della presenza 7
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rimette inevitabilmente in discussione la questione della relazione tra le persone, fondata non sul mero riconoscimento reciproco ma sulla comunione amorosa del camminare insieme. Tuttavia non voglio limitarmi a ciò. Le motivazioni di questo scritto riannodano la trama della mia vita attorno a una questione che sento con particolare urgenza. Mi sono sempre chiesto cosa significhi per me lo stare al mondo, quale sia il senso del susseguirsi di azioni e pensieri, e quale il rapporto tra i pensieri, le parole che li esprimono, e le motivazioni emotive e affettive che ne hanno stimolato l’insorgenza. L’urgenza di questa, per certi versi banale, domanda sul senso della propria vita, si è acuita in questi ultimi anni, di fronte a una così profonda trasformazione del mondo, delle sue rappresentazioni e dei suoi linguaggi, che arriva fino a mettere in dubbio che sia ancora legittima una domanda sul senso dell’esistenza e sull’esperienza di vita che si fa incontrando gli altri. La legittimità della domanda sul senso della vita non appartiene, infatti, a un ordine diverso da quello che riguarda l’accadere della presenza di Cristo nella storia di una vita; la presenza come attualità e contemporaneità di una relazione amorosa non può estrapolarsi dal contesto e dal momento in cui avviene l’incontro. Sento il momento attuale, come fine di una civiltà e di un modo di essere, profondamente contrapposto alle forme sociali e relazionali precedenti; siamo in piena “narrazione scientifica” del mondo e nella massima oggettivazione dei saperi, che si misurano con tutte le componenti biologiche, chimiche ed elettriche dell’essere umano. Non si tratta più di antiche dispute sul rapporto tra fede e ragione, ma di un profondo mutamento di statuto degli strumenti e delle rappresentazioni che descri8
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vono il rapporto fra l’essere umano, la natura e l’intero universo: la narrazione scientifica si propone di offrire una descrizione analitica di tutto ciò che accade nella mente umana, riconducendolo a meccanismi neurofisiologici automatici, da cui viene espulso ogni profilo di soggettività e individualità, di unicità e irripetibilità. La narrazione scientifica post-umana è una nuova ideologia che finisce per riproporre come mitico il fondamento della conoscenza umana; ma, paradossalmente, il tentativo di fornire una spiegazione totale di ogni comportamento e sentimento umano, proprio per i suoi caratteri di totalità, si sottrae persino a ogni possibile verificabilità empirica propria del metodo scientifico. I risultati del processo totalizzante e oggettivante della narrazione scientifica sono ormai evidenti nel linguaggio e nel senso comune, persino nella percezione di se stessi e del proprio benessere fisico e mentale, influenzata da continui messaggi divulgativi: quante volte, anziché chiederci per quale incontro o per quale perdita il nostro umore si tinge di rosa o di nero, analizziamo il nostro comportamento (non farsi la barba, vestire sciattamente, dimenticare un appuntamento, ecc.) alla ricerca di conferme o smentite di sintomi dei tanti test offerti in pasto al pubblico da psichiatri alla moda, sui giornali e nelle trasmissioni divulgative. Le spiegazioni sistemiche e funzionali di tutto ciò che sappiamo, sentiamo o proviamo, eliminano ogni possibilità di interrogarsi sul “carattere” e sulla personalità dell’essere umano agente e parlante. L’oggettività della narrazione scientifica ha prosciugato gli spazi mentali delle rappresentazioni di affetti, considerate, a detta dei più gettonati opinionisti, residui superstiziosi di vecchie concezioni che fanno riferimento alla inammissibile concezione dello spirito o dell’anima. 9
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Negli ultimi secoli della tradizione occidentale c’è stato un timore tale di apparire oscurantisti di fronte ai successi della scienza moderna che non si è osato proclamare ad alta voce l’incompatibilità radicale tra una visione scientifica dell’universo e quella tradizionale cristiana. Dove si trovano i cieli in uno spazio newtoniano? Che senso ha l’Assunzione di Maria in corpo e anima? Quale presenza nell’Eucarestia? Che significano gli angeli e gli arcangeli, i troni e i cherubini che cantano la gloria di Dio? La stessa Resurrezione di Cristo è una semplice assurdità se si accetta la concezione scientifica del corpo umano. Certamente il cristianesimo aveva disprezzato la ragione e aveva identificato la fede con una seria di credenze, più o meno superstiziose, aveva abusato del suo potere e da qui il suo complesso di colpa più o meno cosciente che poi cerca di redimere passando all’estremo opposto, inglobando acriticamente la cosmovisione scientifica1.
Come afferma Raimon Panikkar, è quasi paradossale che ci siano “uomini di fede” che, mentre accettano senza perplessità il nuovo lessico in cui il tempo è diventato flusso e l’incontro si è tramutato in un rispecchiarsi di neuroni tra due cervelli distinti, continuano a parlare dell’amore di Cristo e dell’imitazione del suo Vangelo, come se non ci si dovesse porre il problema della compatibilità fra ciò che parla dell’essere umano, della società e della politica in termini più o meno meccanicistici, e un linguaggio in cui il mistero della vita e del suo senso viene evocato con parabole, metafore e forme poetiche. Se tutto si risolve nell’oggettività neurologica e neuroscientifica, non esiste la poesia, non esiste alcun intervento soggettivo che attribuisca un plusvalore alle parole, oltre il descrivere ciò che viene sempre ridotto a mero fatto. E se non c’è spazio per la poesia, non c’è spazio né per l’amore appassionato di un’altra persona, né per l’interesse a partecipare al governo della città e all’educa10
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zione dei figli. Prassi e teoria coincidono e non c’è alcuno spazio per parlare della poieis. L’integrale oggettivazione dell’esperienza umana, proposta dal discorso scientifico come definitivo “scioglimento” delle forme con cui è stata rappresentata la soggettività umana – libertà, volontà, desiderio –, si risolve nella totale disponibilità e manipolabilità dell’essere umano. Se, dietro l’apparenza dell’agire libero e intenzionale, la scienza mostra come tutto ciò che esprimiamo con le parole si possa descrivere con formule matematiche che rappresentino il funzionamento di meccanismi elettrici e biochimici, allora non c’è più nulla che consenta di parlare dell’irriducibilità dell’essere umano, come originale costituzione di un particolare rapporto tra la psiche umana ed il mondo esterno. La narrazione scientifica che, in questi termini, dà una visione totalizzante dell’accadere e dei suoi meccanismi causali, è talmente pervasiva che anche il tentativo di opporre argomenti a favore di forme espressive dell’irriducibilità umana, come l’arte, la poesia o la religione, si presta a essere “spiegato” come mera formazione di illusioni, temporaneamente utilizzate nel processo evolutivo ma destinate a essere riassorbite nella descrizione del funzionamento cerebrale come selettore delle informazioni ambientali. Come cercherò di mostrare, sono convinto che tutto ciò che appartiene alla dimensione emotivo-affettiva e alle imprevedibili dinamiche che si sviluppano a partire dal radicamento di questa sfera nell’esperienza originale e individuale di ogni essere umano resti fuori da ogni possibile comprensione scientifica. Tutto ciò che non si lascia spiegare nei termini del discorso scientifico è espressione della sfera più peculiare di ogni essere 11
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umano: amore e odio, invidia e generosità, rancore e gratitudine, sono i grandi registi della nostra vita interiore, che cerca immagini e parole per farle vivere nella concretezza delle esperienze. Ovviamente, la mia convinzione non può certo essere concettualizzata negli stessi termini del discorso scientifico che, per vocazione, non può che risolvere nell’oggettività della coerenza logica e della verificabilità empirica ogni affermazione. Se il sapere affettivo venisse concettualizzato, in una compiuta oggettivazione delle sue forme e dei suoi contenuti, entrerebbe totalmente nella “ordinaria amministrazione” della conoscenza scientifica del mondo e, paradossalmente, per aver cercato di concettualizzare in modo rigoroso gli indicatori della sua “esistenza”, ci ritroveremmo a negarlo nella sua specificità. Mettere in campo il sapere affettivo espone a contraddizioni ed aporie, poiché si cerca implicitamente di “raccontare” il non raccontabile, di rendere visibile il non visibile. Per fare un esempio dell’inevitabile paradossalità di questa ricerca, basterebbe confrontare sommariamente la logica del sogno e quella del discorso con cui si racconta un evento onirico: ci si rende subito conto che si tratta di logiche profondamente diverse ma, se si vuole parlare del sogno, non si può fare a meno di ricorrere al linguaggio diurno, che lo traduce in un altro genere di comunicazione. Analogamente, nelle esperienze estatiche l’identità cosciente viene travolta in uno stato di simbiosi in cui non ci sono più confini, né spazio, né tempo, e tuttavia il fatto che se ne possa parlare denota una profonda connessione tra il sapere di sé del soggetto parlante e l’esperienza caotica ed indescrivibile dello sfondamento mistico dell’orizzonte umano.
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In questa sede non mi interessa trovare spiegazioni causali dello stato di sogno o dello stato estatico, ma registrare la differenza di qualità che presiede alla logica del sogno rispetto a quella della veglia. La differenza tra ciò che costituisce indizio di una sfera emotivo-affettiva e la logica del discorso è di per sé sufficiente a mostrare come la complessità delle dimensioni mentali non sia riducibile a un unico modo di funzionamento. Parlare del sapere affettivo implica, quindi, un procedere che sfugge alla concettualizzazione scientifica. Il paradosso è questo: se volessi obiettare al sapere scientifico l’esistenza della sfera emotivo-affettiva dovrei argomentare scientificamente con lo stesso metodo di coloro che voglio contestare, ma inevitabilmente mi troverei a negare l’irriducibilità del sapere affettivo al sapere scientifico; se, viceversa, mi limitassi a opporre alla descrizione del funzionamento cerebrale il resoconto dell’esperienza di situazioni non scientificamente spiegabili, mi condannerei a fare un discorso meno rigoroso e meno coerente del discorso scientifico che intendo criticare. Posto in questi termini sembrerebbe un vicolo senza sbocco ma non intendo accettare la premessa che tutto ciò che riguarda l’umano sia riducibile a un unico tipo di discorso, né tanto meno che tra i tanti tipi di discorso si possa istituire una gerarchia rispetto al grado di “verità”. Nota 1. R. Panikkar, Vita e parola, Jaca Book, Milano 2010.
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Capitolo quarto La costruzione di senso
Rappresentare i significati Il senso è l’investimento affettivo, la costituzione del desiderio e delle passioni che permettono di costruire obiettivi e mete ideali, è la relazione fra l’io e il mondo delle persone e delle cose. La domanda di senso spinge fuori da se stessi alla ricerca dell’amicizia e dell’amore, spinge a conoscere noi e gli altri, ad apprendere a pensare e guardare oltre la superficie degli eventi. Dov’è finita la vita nelle metropoli dilatate senza centro e periferia, intasate di individui frettolosi che si scontrano senza incontrarsi? Chi siamo noi, che ci agitiamo come vermi in un movimento senza senso, né scopo? Siamo gli esponenti di quella specie che si è autodefinita Homo Sapiens, per sottolineare che, a differenza degli altri esseri viventi, ci facciamo guidare nelle nostre azioni dalla ragione e dalla conoscenza. L’essere umano ha usato la sua “ragione” per analizzare e descrivere i fenomeni del mondo e anche se stesso; ha isolato, mediante la capacità di astrazione, le funzioni di ogni particella della natura e del corpo, per studiarne la composizione e cercare di riprodurla secondo i suoi scopi; la sua ossessione è divenuta il dominio della natura e la sua illimitata riproducibilità. Il linguaggio con cui si rappresenta il mondo è mutato, e con esso anche il modo di intendere la nostra stessa identità di soggetti; il tipo di mondo in cui viviamo si traduce per ciascuno in un linguaggio che lo rappresenta: il 96
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linguaggio alfabetico trasmette il linguaggio storico della tradizione, mentre il linguaggio dei media audiovisivi trasmette il linguaggio dell’immediatezza e dell’istantaneità. La mia generazione ha acquisito una memoria storica fondata su un’intelligenza alfabetica; pensiamo la successione delle lettere come successione di fatti e ragioniamo in termini di causa ed effetto, di volontà e di progetti che determinano l’accadere degli eventi; continuiamo a usare il linguaggio dell’identità storica, della biografia e della narrazione fondato sull’articolazione del tempo in passato, presente e futuro, pensando che la storia e la vita di ciascuno abbiano un senso perché esprimono la continuità dei vissuti. Nella contemporaneità in cui siamo immersi, invece, l’intelligenza alfabetica, fondata sulla logica della sequenza causa-effetti, è stata sostituita dall’intelligenza della contestualità delle immagini, che non consente di articolare il prima e il dopo dell’accadere. Nell’istante dell’immagine mediatica le cose sono così come sono e non si pone neppure la domanda sul se potrebbero essere altrimenti. La logica alfabetica, legata alla lettura, è una maniera di porsi di fronte al mondo e all’accadere degli eventi come un processo che viene dal passato e va verso il futuro. La logica simultanea esclude, invece, ogni idea di processo e di storia e riduce la comprensione alla mera registrazione della contemporaneità delle immagini trasmesse, producendo un’informazione sulla simultaneità degli eventi che non legittima alcuna domanda sulle loro relazioni e sul perché del loro accadere. La contestualità delle immagini è un’evidenza, la sequenza delle proposizioni è un’argomentazione plausibile. Passare da un linguaggio a un altro implica un diverso modo di funzionamento dell’intelligenza e una diversa configura97
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zione della personalità: la personalità storica è strutturata dalla logica consequenziale, mentre la personalità mediatica è strutturata dalla logica istantanea. Oggi ci troviamo di fronte a un mutamento radicale del funzionamento mentale e della configurazione lessicale del mondo che richiederebbe un approccio completamente nuovo alla strategia d’analisi della realtà; c’è uno scarto linguistico che rischia la rottura della comunicazione fra generazioni che vivono in diversi universi linguistici: la società si è disintegrata sotto l’azione dei mutamenti epocali che vengono rappresentati come globalizzazione e pensiero unico, ma che ancora non sono compresi in un’adeguata rappresentazione del mondo. La personalità istantanea, educata all’adesione immediata al godimento effimero e momentaneo, non riesce a elaborare i propri vissuti nelle forme della durata e stabilità del desiderio e della passione: vive in una sorta di universo gelato dove non può esserci lo spazio-mentale per una coscienza critica e per un progetto di cambiamento. Legame sociale e rappresentazione Abbiamo perduto il senso della vita perché abbiamo confuso, forse intenzionalmente, la ragione con il pensiero e la conoscenza con la comprensione. La ragione ha distrutto il pensiero e la cognizione ha soppresso l’intesa affettiva; il dominio della razionalità logico-matematica ha cancellato ogni traccia dell’intelligenza emotiva che è alla base della costituzione degli esseri umani e delle loro spinte affettive. Il senso comune, sostenuto dai saperi dominanti, continua tenacemente a rimuovere ciò che appartiene alla sfera della passionalità e dell’affettività e a imporre stili di 98
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comportamento misurabili unicamente sulle classificazioni logico-matematiche delle capacità intellettuali. Si dimentica, però, che la passione di vivere, la resistenza alle potenze distruttive che ci assediano, è l’unica risposta ai contraddittori impulsi del venire al mondo, miscela di disperazione e gioia, di morte e vita, provata da ciascun essere vivente. La passione di vivere può nascere solo dall’amore e non dalla logica, o meglio, dalla logica dell’amore, che non è la logica astratta che cancella la vita. Il pensiero è lo spazio in cui questa esperienza si struttura come desiderio e rappresentazione dell’oggetto, è la straordinaria occasione di vedere con gli occhi dell’anima aprendosi alla differenza. Il pensiero è, quindi, un rapporto generativo, che si autorappresenta in un miracoloso distanziamento dall’immediatezza delle sensazioni e che apre la mente alle diverse forme che il sapere dei fenomeni assume all’interno di ogni cultura. Il pensiero “crea” la coscienza di sé, ma non rientra negli schemi della logica deduttiva, se dico: “sono triste perché non mi ami”, non esprimo alcuna verità logica, ma una “verità” esistenziale, cui non si può aver accesso senza il registro dell’affettività, altrimenti, come spiega Panikkar: tutto diventa allora oggettivazione, idee, dottrine che si possono discutere, ma che lasciano il cuore vuoto e la mente sempre insoddisfatta. È la stessa cosa quando uno comincia a domandare: perché mi ami? Se io posso dare un perché, perché ti amo, non ti amo più; amo le ragioni dell’amore. Ti amo perché sei bella? Il giorno che smetti di essere bella, non ti amo più. Ti amo perché sei buona? Il giorno che me ne fai una, divorzio. Ti amo perché sei ricca? Se arriva la sfortuna, ti saluto. Se c’è un perché a qualsiasi atto umano reale non viviamo autenticamente, viviamo per il perché, per le altre cose: è l’inizio dell’alienazione dell’uomo1.
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Sono profondamente convinto che lo specifico spazio umano si sia costruito sulla base della relazionalità fra un sé alla ricerca di un’identità e un “altro” che ne ha saputo mettere in scena le emozioni e i sentimenti. Così, il soggetto delle pulsioni diventa il soggetto del linguaggio, attraverso l’amore e l’educazione di un altro. Ma se l’essere umano, accecato dall’onnipotenza della scienza, distrugge lo spazio delle relazioni affettive, il mondo rischia di diventare un deserto. La vita umana è resa possibile dall’originale costituzione dello spazio mentale che unisce e separa il bambino dalla donna che lo ha partorito: è lo spazio della rappresentazione, in cui gli oggetti del mondo esterno vengono investiti dall’affettività, attraverso la mediazione della madre. L’apprendimento del piacere e del dolore avviene tramite queste rappresentazioni affettive, che segneranno le vie per districarsi nel mondo delle pulsioni; questo processo, indescrivibile nei termini della razionalità logica, è l’inaugurazione della condizione esistenziale dell’essere umano, della sua dimensione temporale, del suo discorso e della sua capacità di interrogare il mondo esterno. Lo spazio umano sottrae il destino della specie al determinismo della mera evoluzione e alla necessità di un’eternità senza divenire. Il motore dell’istituzione dello spazio umano è l’amore della madre per il figlio, che apre la monade psichica alla ricerca del mondo esterno; nell’esperienza della nascita è depositato il segreto della nostra civiltà, che né la scienza, né la filosofia hanno cercato di cogliere. La nascita è l’esperienza umana che inaugura la storia di ciascuno di noi e che chiede di essere interrogata per dar senso e significato al nostro essere al mondo, è la condizione che, come afferma María Zambrano, fa 100
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di una persona un essere speciale e unico, destinato a riflettere sulla vita come sulla propria carne2. Oggi si sta verificando una sorta di sfaldamento dello statuto antropologico tradizionale dell’individuo; è venuto meno quello che caratterizza una società, ossia il legame sociale. L’esperienza concreta è fatta di vincoli, di una trama di rapporti, è un’esperienza di doverosità, ma anche di temporalità: vi è un inizio e una fine, una storia del legame. La modernità, che invece si pensa come pura forma, non può immaginare di dipendere dal legame, perché non può neanche immaginare la propria storia, nasce con l’idea che tutto sia già incluso nelle proprie premesse, che vanno sviluppate e attuate. Se ci pensassimo in relazione al legame, ci dovremmo pensare mortali, esseri naturali, all’interno di uno spazio e di un tempo. La modernità, invece, non si può pensare superabile, ha come unico vincolo la realizzazione di una libertà senza limiti e senza legame sociale. Il legame sociale appartiene al fondamento sacro della coesistenza umana: la comunione che si determina quando si attivano le relazioni umane; una madre non potrebbe parlare a un bambino se non all’interno di un discorso collettivo, che esprime la storia, gli affetti, le stratificazioni del gruppo umano cui appartiene. Rappresentazione e desostanzializzazione Fino a quando gli esseri umani restano legati alla “decisione” della libertà infinita, non è possibile sottrarsi alle conseguenze che ne derivano. Con la globalizzazione il cerchio si è chiuso: il primato dei mezzi sui fini ha neutralizzato ogni contenuto di valore, la modernità ha metabolizzato la propria premessa emancipativa. Il di101
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spositivo tecnico della modernità, la ragione strumentale, ha fatto del soggetto kantiano un mero centro formale di imputazione, una funzione di individuazione dell’ordinamento, senza sostanza e senza qualità. La democrazia è diventata una tecnologia per ottenere consenso sociale alle scelte economiche, la sostanza etica della libertà è diventata un mero “poter fare”; l’emancipazione è diventata conquista del benessere economico, possesso di beni di consumo. Il mondo si è desostanzializzato e derealizzato, fino a perdere il discrimine tra la realtà virtuale e la realtà effettiva. Le parole chiave con cui la modernità aveva annunciato il proprio avvento, il soggetto, il popolo, lo Stato, si sono dissolte; la sovranità è divenuta un attributo del sistema normativo, i diritti sono regole del gioco. L’assenza di fondamenti, di valori, ha consegnato la modernità al funzionalismo e al primato della tecnica, in un villaggio globale che determina la decomposizione delle categorie spazio-temporali. Lo spezzarsi definitivo del rapporto fra ragione strumentale e ragione pratica, fra tecnica e politica, implica una metamorfosi dei soggetti dell’agire collettivo e individuale, appare, così, sulla scena il fantasma di un dispotismo tecnocratico: al posto di comando si è insediato l’apparato tecnico-scientifico. Ma la tecnica non può saturare il bisogno di senso che è legato al significato delle cose, perché la creazione dei significati non soggiace alla logica della necessità. Il fare creativo di senso è prima di ogni funzione e di ogni destino, il significato coincide, infatti, con il modo d’essere di un gruppo umano e di un individuo in un determinato contesto storico-sociale, è la possibilità di riferire a sé, è qualcosa del mondo esterno che altrimenti sarebbe inaccessibile e incomprensibile, è un processo attraverso cui 102
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è possibile selezionare fra le cose e riferirle al sistema di affetti che sono la trama della vita degli esseri umani. Il processo di creazione dei significati è l’unico vincolo che gli esseri umani hanno rispetto all’assenza di senso. Per esistere, ogni società crea il proprio mondo e lo carica di significati, gli attribuisce una direzione, ma improvvisamente altri significati irrompono e cambiano “l’ordine delle cose”. Il mondo esterno, il mondo pre-sociale, è un limite del pensiero e sta sempre come un fondo inesauribile di opacità, perché è di per sé insensato. Il senso, infatti, è un investimento affettivo sempre originario, mediante cui si istituisce la relazione – costitutiva della socializzazione – fra il mondo interno e il mondo esterno, il mondo privato e il mondo pubblico, il prima e il dopo che caratterizzano il modo d’essere dell’esperienza storico-sociale. Su questo snodo del rapporto fra apparato tecnicoscientifico e mondo storico-sociale non posso concordare con le conclusioni estreme di Severino: da quale luogo è possibile parlare della non-verità, dell’alienazione originaria che segna il destino nichilistico dell’Occidente, se non nello stesso linguaggio nel quale tale tragica deviazione prende corpo e diventa “senso comune”? Il linguaggio non è solo riducibile a mera epifania dell’essere, non è solo forma dell’alienazione totale, ma anche apertura ad altre possibilità di significazione e, anche se queste possibilità non indicano la verità dell’essere, sono una speranza che è presente anche nell’opacità attuale della parola. Alcune affermazioni di Severino mi sembrano, però, aprire paradossalmente uno spiraglio a un approccio diverso, poiché evidenziano come l’essere cosa delle cose si dia sempre all’interno delle signifìcazioni di ciascuna epoca storica. Se ci riferiamo a una cosa qualsiasi, possiamo compiere un certo insieme di azioni, e non altre, in 103
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relazione all’oggetto. L’“esser bottiglia” di una bottiglia, ovvero il senso costituito da una bottiglia, è ciò che determina il modo in cui si agisce in relazione a essa. Questa osservazione può essere applicata al martello, alla vanga, alla casa, all’albero, al pesce, a qualsiasi cosa. Il senso dell’“esser vanga” determina, ad esempio, l’insieme delle operazioni del contadino che si serve della vanga. Ma la vanga è soltanto vanga o è vanga proprio perché, innanzitutto, è una cosa? La vanga è vanga perché è una cosa. È chiaro che non ci può essere una cosa che non sia vanga o bottiglia, ma la vanga è un esser cosa, ed è vanga proprio perché è una cosa. Se affermiamo che un gruppo di azioni è guidato e stabilito dal senso di ciò a cui si riferisce – ad esempio dal senso dell’“esser vanga” della vanga –, allora il senso dell’“esser cosa” guida la totalità delle azioni di un’epoca storica, ovvero dell’epoca in cui domina quel certo senso dell’“esser cosa” delle cose. Usando parole diverse si pensano significati diversi; poiché il senso dell’“esser cosa” della cosa accentra e richiama su di sé “la totalità” delle azioni, le guida, le stabilisce, ne fissa il senso, quando muta il significato dell’“esser cosa” delle cose variano anche le epoche storiche. Il significato della “cosa”, il senso del mondo, infatti, non è determinato una volta per tutti, ma appartiene all’esperienza del nesso che unisce una configurazione del mondo ad una configurazione dell’ente. La cosa si dà sempre insieme al suo significato in un contesto storico-sociale, dunque anche la tecnica, nella misura in cui appartiene ad un linguaggio, non può avere un significato in sé, ma appartiene al contesto storico-sociale della creazione dei significati attraverso cui si istituisce la relazione fra gli esseri umani e il loro mondo, appartiene, insomma, al contesto di senso dell’organizzazione capitalistica della società. 104
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Ciò che credo di poter obiettare a Severino, prendendo spunto dalla sua affermazione che “l’essere cosa della cosa” sia pensato in forma diversa nelle varie epoche, è che il “pensare che caratterizza l’epoca” non può coincidere con l’essere. L’erranza che caratterizza il pensiero non può coincidere con l’immobilità dell’essere. Si può, dunque, ipotizzare, non solo che pensiero e essere non coincidano, ma che il pensiero sia, nelle sue forme – ad esempio, come pensiero filosofico – storicamente istituito. Se il pensiero è storicamente istituito, nel contesto delle varie forme di vita, ne consegue, però, che non possa oltrepassare la soglia del proprio orizzonte storico, né attingere la totalità dell’essere. Inoltre, se il pensiero del divenire è l’espressione della volontà di potenza – ovvero di un’intenzione orientata al poter fare o non fare – deve assumersi la non coincidenza fra istintività e volontà, fra biologia e cultura, poiché la volontà trova i propri scopi nel contesto in cui avviene la socializzazione di ogni vivente umano. D’altra parte, la non coincidenza di pensiero e essere e la non coincidenza di natura e cultura mettono in dubbio l’idea, da cui muove Severino, che la logica possa contenere l’esperienza di siffatte non coincidenze e che la pensabilità sia legata al principio di non contraddizione. Certo, affinché una società possa esistere e un linguaggio possa funzionare, è necessario disporre di operazioni logiche che consentano di ricondurre a unità oggetti rappresentati come distinti e definiti, ma la rappresentazione di tali oggetti, di ciò che li accomuna e di ciò che li oppone, è istituita socialmente e non logicamente. Il modo in cui una società distingue e oppone certi termini e non altri, in certi modi piuttosto che in altri, non significa che i termini e l’opposizione procedano esclusivamente dalla 105
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logica adoperata e siano già inclusi in essa in modo esaustivo: gli oggetti delle rappresentazioni non sono il prodotto del sistema categoriale adoperato, anche se non possono darsi al di fuori di esso, ma, al tempo stesso, un sistema categoriale non può essere pensato come significativo se non in rapporto a oggetti socialmente determinati. L’operazione di astrazione che presiede alla comparazione degli oggetti prodotti dall’attività degli esseri umani in termini di valore di scambio non è né una controfigura della realtà, né una mera costruzione mentale; è un’operazione necessaria e coerente all’interno dei significati istituiti dell’organizzazione capitalistica della società, che diviene un’aberrazione e un “delirio sistematico” quando l’astrazione del valore viene assunta come vera e unica fonte della sintesi sociale, come forma universale attraverso cui si realizza la connessione esistenziale di una pluralità di esseri umani. Tale delirio sistematico si è realizzato con l’autonomizzazione, da ogni riferimento alla realtà storico-sociale, della razionalità parziale dell’“intelletto astratto” e del simbolismo del linguaggio, che con la rivoluzione borghese ha costruito le forme storiche del nichilismo: la soggettività senza contenuti – l’uomo senza qualità di Musil – e il capitalismo come continua creazione/distruzione di ricchezza sganciata dai bisogni reali. Realizzando l’astrazione del soggetto, fondata sulla separazione dei mezzi dai fini, la modernità non assegna ai fini una dignità ontologica, considerandoli soltanto la contingenza cui ciascuno può liberamente affidarsi, in un politeismo dei valori equivalente e privo di senso. Quello che conta sono i mezzi, che nella loro crescita esponenziale consentono la realizzazione di tutti gli scopi. Il trionfo della tecnica e l’avvento del regno dei mezzi determinano, insieme alla separazione dell’econo106
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mia dalla società, la nascita della “megamacchina” tecnico-economica, che sussume la società dentro di sé e riduce gli esseri umani a pura appendice, mero residuo cui gettare in pasto la massa dei beni di consumo prodotti. È avvenuta una lenta ma costante colonizzazione dell’immaginario individuale e collettivo, che riduce il mondo a un meccanismo di scambio, in cui tutto può essere pagato ed è riducibile a formula monetaria. Il bene, il bello, il vero sono rapidamente scomparsi dall’orizzonte della razionalità, che si è trasformata in procedura di calcolo; l’individuo “separato” è divenuto un polo di attrazione di diritti riferiti al “singolo egoista”, senza alcun riferimento a doveri che nascano nell’ambito della relazione con l’altro; la vita è chiusa in un’autoreferenzialità circolare. Così, il mondo si è consegnato al destino della tecnica, al trionfo del paradigma tecnoscientifico: La scienza e la tecnica – che raccorciano lo spazio e velocizzano il tempo, che alleviano il dolore e allungano la vita, che mobilitano e sfruttano le risorse del pianeta – forniscono una guida assai più efficace e coercitiva dell’agire di quanto non possa fare la morale. Impongono obbligazioni che vincolano più di tutte le morali scritte nella storia dell’umanità, rendendo superfluo, d’ora in avanti, ogni altro imperativo. La scienza e la tecnica organizzano la vita sul pianeta con l’ineluttabilità di uno spostamento geologico. Al loro cospetto l’etica e la morale hanno ormai la bellezza di fossili rari3.
Il nichilismo della modernità non è l’alternativa tra essere e nulla del pensiero filosofico antico, non è un’inevitabile conseguenza della ragione inaugurata dai Greci, come sostiene Heidegger, né, come invece argomenta Husserl, il “tradimento” del logos, poiché persino con i Sofisti si era mantenuto il carattere tragico dell’interroga107
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zione sull’essere e il non essere. Il nichilismo della modernità è la negazione di ogni valore, il trionfo della terribile vocazione mortifera dell’occidente e del capitalismo. Crisi del soggetto e distruzione del desiderio L’astrazione riflessiva della modernità ha imposto uno statuto “cognitivo” anche nei processi lavorativi: se per cognitivo intendiamo una produzione di conoscenza legata alla revisione delle procedure organizzative del proprio lavoro, risulta evidente come l’attività cognitiva, motore generativo di conoscenza, negli ultimi decenni ricalchi le strategie di accumulazione del capitale: una parte dell’attività lavorativa, erogata in maniera informale e non codificata, è volta alla trasformazione delle regole e delle procedure, in una dinamica autoreferenziale che incide non solo sulla forma della socializzazione dell’attività lavorativa, ma anche sull’oggetto del comando da parte del capitale, ovvero l’attività mentale di ogni singolo lavoratore. Attraverso la gestione dell’innovazione tecnologica e della produttività, il sistema capitalistico ha strutturato un potere enorme, sottratto ai vincoli della democrazia politica; l’estrema frammentazione delle prestazioni lavorative è stata una delle forme della razionalizzazione, che ha trovato il proprio trionfo nella rivoluzione informatica, rivoluzionando l’organizzazione del lavoro e dei rapporti sociali. Il capitale si è ristrutturato in un sistema globale integrato di economia e società, dotato di una potenza pervasiva che chiude lo spazio a ogni soggettività e relazionalità, non solo dei lavoratori ma di ogni individuo. La globalizzazione capitalistica, fondata su una logica sistemica, segna il passaggio da un sistema di interdipendenze a un 108
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sistema “autoriflessivo”, in cui le connessioni si trasformano da relazioni strutturali in processi tecnico-funzionali, non più mediati da luoghi e identità fisiche ma da comunicazione informatica e spazi virtuali. Se Marx aveva anticipato l’evoluzione macchinistica del capitalismo e aveva previsto la tendenziale predominanza del lavoro morto sul lavoro vivo, fino a ipotizzare la superfluità del lavoro operaio e umano, oggi ci troviamo di fronte a un nuovo problema: come concettualizzare l’introduzione del “cervello artificiale” nel processo produttivo e la pervasiva trasformazione della sfera riproduttiva a nuova frontiera dell’accumulazione capitalistica, attraverso la manipolazione della vita e le biotecnologie. Si tratta di una trasformazione radicale, poiché attraverso l’incorporazione della scienza il sistema capitalistico autocrate afferma un dominio che si estende contestualmente al processo di globalizzazione e che designa processi reali, modificando profondamente la società e imponendo l’idea della produzione del bisogno come prius rispetto alla produzione della merce. Il desiderio continuo di beni risponde ormai a un’istanza legata soltanto all’istante del consumo, come cercavo di spiegare un quarto di secolo fa4, sostenendo che nel momento in cui un principio organizzativo diventa sistema e si spersonalizza, può essere messo in crisi soltanto dalla sofferenza, e bisognava, perciò, continuare ad affermare che il lavoro è alienante e diffondere la coscienza dell’asimmetria esistente nella società. Tuttavia, affermavo che il significato di una simile situazione non potesse essere colto metastoricamente, ma riacquisito nella determinazione storica di un mondo che si organizza per vincere una lotta contro il suo possibile antagonista: ben prima della globalizzazione, ero già convinto 109
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che l’imborghesimento della classe operaia non solo non l’avrebbe condotta in paradiso, ma l’avrebbe precipitata nell’inferno del nichilismo consumistico. L’economia del consumo è, infatti, l’annichilimento dell’economia del desiderio, prodotta dall’egemonia esercitata dai discorsi tecnoscientifici nel senso comune, che cancella ogni spazio simbolico da cui potrebbe rinascere una nuova ricerca di senso. La società del godimento immediato distrugge il desiderio, nella sua insaturabilità, nel suo non poter essere soddisfatto che costituisce una spinta in avanti per la sua realizzazione; nel godimento immediato è implicita la morte del desiderio, ucciso dal consumo che ne fa scomparire l’oggetto, distruggendo la possibilità di differire il momento del piacere ed eliminando temporalità e soggettività. Siamo di fronte a processi di trasformazione così drammatici da rendere necessari nuovi paradigmi interpretativi: nella “scomparsa” della realtà, siamo diventati satelliti alla deriva, corpi contigui ma incapaci di comunicare, punti di una rete virtuale. Tutto è stato fatto per ridurre la realtà a pura costruzione mentale e la vittoria che se ne celebra non è che l’orgia della libertà incondizionata e la fine dei “condizionamenti” che consentivano finora di ipotizzare un oltre dove dirigere aspettative e desideri di futuro. Tutto ciò che ci resta da fare è simulare il ritorno di fatti già accaduti, goderceli nel nostro immaginario fantasmatico, in cui possiamo realizzare a piacere i mondi virtuali in cui desideriamo vivere: la simulazione, per dirla con Jean Baudrillard, sembra dominare la scena dell’esperienza, anticipando perentoriamente tutto ciò che il futuro può riservare e sopprimendo il divenire reale5. Siamo destinati a un mondo di finzione perpetua, in cui nulla accade se non il mutamento del flusso delle imma110
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gini, cui ciascuno può abbandonarsi. Finito il viaggio nel mondo dell’agire e del patire, dell’esperienza del sé e dell’altro, resta il viaggio dell’immaginario fantasmatico che mette a disposizione infiniti mondi virtuali. La derealizzazione del mondo è radicata nella metamorfosi del valore, che diviene legge strutturale e istituisce il codice della simulazione. La circolarità del rapporto fra produzione, bisogni e consumo assoggetta la vita alla legge del valore di scambio, cancellando ogni rilevanza del valore d’uso, trascinando via la possibilità di immaginare il desiderio e di intessere relazioni. In questo contesto, l’apparente paradosso di Baudrillard svela il suo significato: la genialità della merce contemporanea è l’indifferenza rispetto all’utilità; parafrasando Baudrillard, lo stesso potrebbe dirsi per la comunicazione contemporanea, virtuale, simulata, anello della catena di simulacri in cui si struttura la società. La legge del valore di scambio si è rivoltata in una logica della commutazione generale senza referenti: i segni si scambiano fra loro senza scambiarsi con qualcosa di reale, realizzando l’autonomizzazione fantastica del valore; gli individui vivono il rapporto con l’immaginario non più come un proprio prodotto, ma come un’oggettività estraniata che prende il posto del reale. La società alienata vive le proprie relazioni nel registro dell’immaginario e non riesce più ad articolare alcuna distinzione fra immaginario e simbolico. Un mondo di segni si apre davanti all’individuo “separato”, che non diventa più soggetto perché non entra più realmente in relazione con l’altro; segni che hanno perso ogni riferimento simbolico al reale e funzionano unicamente per veicolare immagini. Sostituendo i legami simbolici con la logica sistemica, il capitale globale afferma il proprio dispotismo tecnocra111
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tico, ma, nonostante tutto, la tecnologia non può saturare definitivamente il bisogno di senso legato alla costruzione dei significati, ed è per questo che bisogna ricominciare a produrre un senso comune differente. La crisi che profondamente avvertiamo è la drammatica estinzione della passione di vivere. Una società vive non solo perché si inventa futuri possibili, ma perché possiede uno “statuto antropologico”, una rappresentazione di cosa sia l’essere umano, che la nostra società ha perso e senza la quale è impossibile ricostruire senso. Siamo vittime e prigionieri di una forma allucinata di godimento che rompe ogni legame, non fa più vedere l’insieme, rende invisibili le relazioni e rescinde, giorno per giorno, il legame con la vita. La profezia di Alexander Mitscherlich, di una società senza padri6, si è avverata, mostrandoci una società frantumata in atomi senza nascita, individui senza desideri né passioni. Di fronte alla frantumazione del legame sociale, il problema è cominciare a rendersi conto che se un individuo resta isolato, pensa meno ed è meno creativo. Soltanto in rapporto con gli altri l’individualità non si mortifica, ma si esalta, perché il soggetto costruisce senso nell’essere in relazione. Ma, se dal punto di vista teorico se ne parla quotidianamente, con una certa retorica dell’“altro”, nella pratica gli individui sembrano incapaci di aprirsi davvero a un’esperienza di differenza. Solo nella relazione si può ritrovare un senso collettivo, ricostruire un legame sociale e superare il modello individualistico meschino che ci distrugge. L’istante, della nostra “triste allegria” ottusa e istantanea, può trasformarsi in durata, sia a livello personale che collettivo, attraverso il gruppo, che mette in gioco una trascendenza umana storica e permette di provare emozioni, 112
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attivate dall’esperienza dei rapporti plurali, che non si potrebbero sperimentare da soli e che uno spazio mentale solitario non potrebbe suscitare. Nel gruppo si dilata la propria mente, per comprendere uno spazio più grande di quello che si può sperimentare individualmente; senza questa dinamica che produce senso comune, non è possibile nemmeno produrre senso soggettivo. Note 1.R. Panikkar, Religione o cultura. Come l’occidente è caduto nella trappola del dualismo, in «Il margine», 6, 1995. 2. Cfr. M. Zambrano, L’uomo e il divino, Edizioni Lavoro, Roma 2001. 3. F. Volpi, Il nichilismo, Laterza, Roma-Bari 1996. 4. P. Barcellona, L’individualismo proprietario, Bollati Boringhieri, Torino 1987. 5. Cfr. J. Baudrillard, La scomparsa della realtà. Antologia di scritti, Lupetti, Milano 2009; Id., La società dei consumi. I suoi miti e le sue strutture, Il Mulino, Bologna 1976. 6. A. Mitscherlich, Il feticcio urbano, Einaudi, Torino 1972.
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Piccola intensa riflessione filosofica di un maestro che troppo tardi abbiamo amato tra politica religione socialità questo libro è stampato nel carattere Simoncini Garamond su carta Arcoprint delle cartiere Fedrigoni dalla tipografia Sograte di Città di Castello per conto di Diabasis nel marzo dell’anno duemila undici