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Studi
«L’oggetto del desiderio è il nulla a cui l’essere abbandona l’esistente, mai l’essere pieno e intatto, non scalfito dalla sofferenza: in tal senso, l’amore è oggi poco praticato, raramente vi è passaggio di calore o di luce tra un essere e l’altro, poiché lo si intende per lo più come incontro di due presenze piene, narcisisticamente compiaciute, che mai godranno del privilegio della tenerezza, quello che alimenta una inesausta passione di comunicare. Nell’erotismo il soggetto umano non si afferma, piuttosto si perde; la verità di Eros si manifesta sempre nelle sue lacrime, come un bagliore di luce percepito tra due nubi. L’erotismo è un soggetto cruciale per il pensiero, quello che non teme il contagio delle emozioni, che sperimenta la continua ridefinizione dell’orizzonte del possibile, tende a infrangerne i confini, che fa costante esercizio d’insubordinazione nei confronti di ogni vincolo normativo, esalta lo splendore del superfluo al cospetto della miseria dell’utile, fende l’opacità del mondo con una folgore d’insensatezza, esalta la “smagliatura improvvisa” nella trama dell’ordinamento costituito. Epifanìa del sacro che non teme la vergogna della nudità, gioiosa affermazione di una sovranità che disdegna ogni forma di potere. Impossibile eluderne il vertiginoso richiamo.»
€ 16,00
DIABASIS
Marco Vozza insegna Estetica all’Università di Torino. Tra le sue più recenti pubblicazioni ricordiamo: Esistenza e interpretazione (2001); Georg Simmel (2003); Rendere visibile il dolore (2005); Nietzsche e il mondo degli affetti (2006); A debita distanza (2007) vincitore del Premio Palmi per la saggistica. Collabora alle pagine culturali de «La Stampa» e a numerose riviste italiane e internazionali.
IMPERSCRUTABILE EROS
MARCO VOZZA
SCRITTURE
MARCO VOZZA IMPERSCRUTABILE EROS
DIABASIS
Nella tradizione occidentale, l’esperienza dell’Eros è sempre stata pensata, da Platone ai giorni nostri, nei termini di una logica del desiderio, a carattere proiettivofantasmatico, piuttosto che in termini di relazione tra due persone aventi pari diritti e reciproci scenari del piacere. Avvalendosi di un registro saggistico non accademico, il libro ripercorre le figure (o stanze) di questo itinerario bimillenario, sia filosofico che letterario, ponendo in provocatoria e conflittuale evidenza la possibilità di un diverso approccio all’Eros estraneo alla dispotica ed esclusiva legislazione del desiderio, in vista di una auspicabile e vibrante esplorazione dell’altro. Riprendendo tematiche già affrontate nel precedente A debita distanza, l’autore inserisce in questo nuovo testo sorprendentemente cospicui elementi a carattere etico (quasi utopici) nella compagine estetica da sempre prevalente. I protagonisti di tale avventura sono i grandi filosofi della nostra tradizione di pensiero ma anche sociologi come Simmel e Bauman, registi come Truffaut, psicanalisti come Freud o Lou Salomé e scrittori quali Lucrezio, Stendhal, Constant, Valéry, Duras e soprattutto Proust, colui che ha indagato e narrato con maggior disincanto l’epopea dell’amore.
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SCRITTURE S t u d i .9.
Itinerari di Filosofia estetica e spiritualitĂ moderna diretti da Anna Giannatiempo Quinzio
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In copertina
Progetto grafico e copertina Studio Bosio, Savigliano (CN)
ISBN 978 88 8103 612 7
Š 2009 Edizioni Diabasis via Emilia S. Stefano 54 I-42100 Reggio Emilia Italia telefono 0039.0522.432727 fax 0039.0522.434047 info@diabasis.it www.diabasis.it
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Marco Vozza
Imperscrutabile Eros
D I A B A S I S
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Marco Vozza
Imperscrutabile Eros
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Capitolo primo
Peripezie di un verbo intransitivo 63
Capitolo secondo
Logica del desiderio e logica degli affetti 105
Capitolo terzo
Avventura, civetteria e solipsismo 131
Capitolo quarto
Amore come duplicato interiore
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L’amore rimane nella radice uno e identico: una febbre che ha i suoi buoni motivi per trasfigurarsi, un’ebbrezza che fa bene a mentire su se stessa. Friedrich Nietzsche
I desideri celano a noi stessi la cosa desiderata. Ludwig Wittgenstein
Quel deserto di solitudine e di rimpianto che gli uomini chiamano amore. Samuel Beckett
Non si deve amare chi vuole amare, altrimenti lo si disturberebbe nella sua devozione. Robert Walser
L’amore, da tempo non si parla che di ciò. C’è bisogno di sottolineare che sta al cuore del discorso filosofico? Jacques Lacan
Nessuno ha voglia di parlare dell’amore, se non è per qualcuno. Roland Barthes
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può riscattare un’assenza. Nella prospettiva di Barthes, il discorso amoroso riscopre la sua etimologia di discursus: l’innamorato corre qua e là, si muove all’interno di un gioco di figure ricorrenti: l’Attesa, la Dedica, il Disagio, la Gelosia, il Ricordo, la Scenata. Il sentimento amoroso diventa discorso amoroso, puro effetto di linguaggio come la dichiarazione d’amore «Io-ti-amo», espressione sempre vera perché priva di referente all’infuori del suo stesso proferimento. L’innamorato inscena un teatro della Parola in opposizione alla Lingua, sottraendosi al regime dello scambio linguistico: il proferimento d’amore (io-ti-amo) accetta la tautologia (ti-amo-perché-ti-amo) ed esige la ripetizione (Mélisande risponde a Pelléas: ti-amo-anch’io). Il soggetto del discorso amoroso ha deposto le sue istanze di sovranità, di potenziamento del controllo sugli eventi: egli vive nella dimensione evanescente dell’effimero, riceve – come ha insegnato Lacan – la lettera del suo desiderio dall’Altro; l’attesa di una telefonata è la figura consueta, domestica della sua dipendenza. «Il discorso amoroso è oggi di un’estrema solitudine» sosteneva Barthes, trascurato se non deriso dalle ideologie, screditato dall’opinione pubblica che, in nome di una nuova morale, ha accolto il discorso sulla sessualità censurando la sentimentalità dell’amore. Del resto, l’innamorato è refrattario ad ogni stereotipo sociale, a quelle istanze di conservazione che pretendono da lui un atto di volontà che ponga fine a una relazione dagli effetti dolorosi: la voce dell’Intrattabile amoroso si ostina, si fa caparbia, protesta di fronte all’ingenuo realismo che vorrebbe privarlo della creazione più originale del suo Immaginario. François Truffaut ha espresso la protesta d’amore di fronte al coro delle buone ragioni in questa frase riferita a Isabelle Adjani: «non ho nessuna voglia di convincere qualcuno su qualcosa che la riguardi». Proprio Truffaut, con il film Adèle H., ha scritto la storia esemplare dell’innamoramento, la rivelazione del suo mistero. La protagonista è perdutamente innamorata di una scialba figura di giovane tenente senza esserne ricambiata. Lo insegue dovunque, studia ogni artificio per possederlo, ma quando finalmente lo incontra non lo riconosce. Il regista asseconda l’odissea di questa donna conquistata da un’idea fissa, incomunicabile, la cui realizzazione è preclusa: seguendo una liturgia che approda alla desolazione della follia, Adèle persegue con abnegazione un télos inattingibile, consapevole che la dualità in amore è finzione. È ancora Barthes a teorizzare, dopo Lacan, quanto Truffaut ha saputo rendere trasparente in una storia d’amore: «io
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desidero il mio desiderio e l’essere amato non è più che il suo accessorio» (Roland Barthes, Frammenti di un discorso amoroso). L’intera opera di Truffaut appare volta a dar forma, a tradurre in immagini quella che Heidegger – nella sua analitica esistenziale – ha chiamato Befindlichkeit, quella modalità di approccio al mondo esterno che precede ogni articolazione categoriale, ogni tentativo di imbrigliare il fluire magmatico e contraddittorio della vita in un coerente e univoco sistema di concetti. L’amore, come espressione della tonalità affettiva dell’uomo in termini di dolcezza luttuosa, è l’oggetto a cui è stata costantemente rivolta l’attenzione narrativa e speculativa del regista francese. La dedizione amorosa che Jules e Jim rivolgono a Catherine, la donna che riproduce il sorriso enigmatico di una statua (segno aurorale della subordinazione parassitaria della realtà effettuale nei confronti della prefigurazione immaginale) si rivela come l’occasione narrativa per mostrare il desiderio di reinventare la vita ad ogni istante, di affermare i diritti del principio di piacere in una sfida, protratta fino all’estremo delle proprie risorse psichiche, al fittizio ordine delle convenzioni. «Abbiamo giocato con le sorgenti della vita e abbiamo perduto» − conclude Jim; l’immane forza del negativo si stempera nella strenua resistenza del principio di conformità, mentre lo spazio della trasgressione viene progressivamente eroso dall’incedere imperioso della legge, la cui sovranità viene ripristinata con la morte di chi ha inteso violarla. Se in Adèle H. veniva svelata la natura intransitiva dell’innamoramento in condizioni idealtipiche (poiché l’oggetto del desiderio non era né oscuro né ambivalente, bensì inattingibile, inappropriabile), ne L’uomo che amava le donne la transitività è pura apparenza, inganno dei sensi, fugace consolazione: Bertrand incontra effettivamente le donne che desidera; vengono esibite date, indirizzi, numeri telefonici, targhe automobilistiche, schede di identità, circostanze dettagliate. In realtà, i soggetti perseguono configurazioni fantasmatiche del desiderio che ricevono dal partner tutt’al più una complicità occasionale: Fabienne, la giovane insegnante di solfeggio, prende congedo da Bertrand rimproverandogli, con malcelato risentimento, di non desiderare l’amore, ma solo l’idea dell’amore. La continuità, la mediazione, la permanenza – come trascorrere insieme la notte − sono modalità di relazione che penalizzano le istanze del desiderio, neutralizzando il potere di seduzione. Anche Véra, la révenante con cui Bertrand sembra aver intrattenuto una relazione di non trascurabile entità,
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dichiara che probabilmente i due amanti non si sono raccontati o non hanno vissuto la stessa storia: in ogni caso la scrittura del libro (che non è mai pura duplicazione dell’esistente, ma riappropriazione allucinatoria del vissuto) ristabilisce le distanze tra Bertrand e le donne che ha incontrato, approntando quella disposizione tassonomica (il Catalogo) che nulla concede all’autonomia del mondo esterno, riaffermando in tal modo il solipsismo, sovrano quanto luttuoso, che caratterizza il soggetto del discorso amoroso. Ne L’uomo che amava le donne, l’amore si configura come nostalgia di un’unità perduta (e forse mai esperita), postulando l’incessante riproposizione del desiderio, unitamente alla redazione di un catalogo capace di catturare e di sciogliere, mediante un’improbabile classificazione delle esperienze vissute, il mistero insondabile della donna. L’eros melanconico di Bertrand Morane esige la propria duplicazione nel libro, concepito come schedario di una collezione, registro di contabilità affettiva, censimento delle prede, elenco dettagliato dei possibili narrativi costituiti dagli incontri amorosi. Se il desiderio di Adèle sembra inscriversi nella regione dell’impossibile, quello di Bertrand raggiunge prede possibili, ma fatalmente equivalenti nel rivelarsi inadeguate compensazioni della mancanza originaria: perciò l’istanza del desiderio non istituisce un regno di possibilità ma predispone la contrada del virtuale, eternamente riproposto come inappropriabile nella sua peculiare qualità d’assenza. Un desiderio che si afferma pertanto come infinita libertà: libero da qualsiasi principio di selezione ma anche dall’oggetto stesso del desiderio. Nella sospensione tra l’oggetto d’amore perduto e l’oggetto di seduzione virtuale si instaura la libido melanconica che accompagna le avventure di Bertrand Morane. Se l’ubi consistam del protagonista appare irreperibile, le sue occasioni amorose, più che attestare una configurazione avventurosa del Dasein, conseguono un effetto di temporanea neutralizzazione dell’inquietudine corrosiva, implacabile perché generata e riprodotta nello stato deiettivo dell’esistenza, entro il quale le prede, sedotte e censite, non accedono mai alla modalità progettuale. L’ipercompensazione che Bertrand oppone alla sottrazione dell’affetto materno e alla perdita di Véra − l’oggetto a causa del desiderio (e della scrittura) − è invariabilmente destinata a risultare ipocompensatoria, difettiva (come l’effetto placebo di un ansiolitico), una strategia votata allo scacco come suggerisce l’exitus vitae del protagonista, che apre e
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chiude il cineromanzo, che non deve essere riduttivamente considerato alla stregua della classica endiade Eros e Thanatos. L’uomo che amava le donne si rivela un’opera di ascendenza pascaliana, perché dominata dal tema del divertissement (nel senso etimologico di devertere, volgere altrove) attraverso il quale Pascal, dopo Montaigne, analizza la condizione umana: «Ho scoperto che tutta l’infelicità umana deriva da una sola causa, quella cioè di non saper restarsene quieti in una camera» (già evocata da Truffaut ne La Peau douce); «condizione dell’uomo: incostanza, noia, inquietudine»; gli uomini «non sanno che perseguono non già la preda, ma la caccia». Questi pensieri di Pascal potrebbero ben figurare come epigrafi alle peripezie amorose di Bertrand Morane. Nello scarto tra differenza e ripetizione, Bertrand esperisce la transitorietà delle forme oggettuali, la disseminazione del desiderio che non trova requie in un referente univoco; sviluppa un’ostinata flânerie che gli restituisce solo parziali epifanie della donna, tracce effimere di evanescenti imago oggettuali, delle quali tuttavia egli intraprende la rappresentazione simbolica, avvalendosi di una percezione micrologica o onnipervasiva; tra le maglie di questo nomadismo sentimentale, si avverte in Bertrand un orizzonte di legalità affettiva che si esprime nel linguaggio del codice civile, nella sistematica e singolare richiesta che gli venga preliminarmente concesso il diritto di possedere il corpo, o almeno un frammento, della donna amata.
Il vagito dell’ineffabile A chi persegue un ideale, etico quanto dianoetico, di condotta razionale nella vita della mente, l’affettività e l’eros devono inevitabilmente apparire motivo di inestinguibile inquietudine, la cui forza sembra in parte neutralizzata soltanto dalla scrittura, capace di operare una trasfigurazione filosofica del vissuto: così Paul Valéry affida al laboratorio dei suoi quaderni la magmatica e ingovernabile sostanza di cui è costituito il mondo degli affetti e dell’erotismo. Nel 1900 il giovane poeta-filosofo è già consapevole del profondo dissidio che sussiste tra vita e pensiero, dell’accentuato contrasto che subentra tra l’immediatezza del sentire e la successiva elaborazione concettuale, dello iato che si avverte tra i dati immediati della coscienza e l’après coup interpretativo: «È chiaro che lo sviluppo, l’approfondimento di un pensiero al di là di un certo
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punto si oppone alla vita. Se alla vita si sottrae l’imprevisto, essa si altera. Trasformare tutto in problema o in legge, è volersi opporre a certi effetti che richiedono sorpresa, cattura, visione, spontaneità. Certe cose hanno bisogno del silenzio del pensiero − Come il pensiero ha bisogno del silenzio di certe cose − Che fare tra queste due necessità? Si noti, per inciso, che fra queste cose ci sono sentimenti − Così − da un lato sentimenti, dall’altro − pensiero attivo − e reciproca contrapposizione. Forse il sentimento si produce proprio nelle fenditure del pensiero interrogante e chiaro» (Paul Valéry, Quaderni. Affettività-Eros-Theta-Bios). È dunque proprio la sfera dei sentimenti ad istituire il polemos tra vita e pensiero, a decretarne la reciproca estraneità, costretta per affermarsi a trovare un varco nelle fenditure del logos. Gli affetti sono incommensurabili, privi di misura e pertanto ingovernabili, anche se la mente esige la loro comprensione, il loro adattamento a schemi nomotetici: «Non che i sentimenti, le passioni ecc. non siano “interessanti”, ma se li ho conosciuti, voglio rivederli soltanto in una forma che mi consenta di superarli, e di comprenderli. E mentre cerco ancora questa forma, questo nuovo sguardo, non posso occuparmi di loro». L’aporia è data dalla pretesa di comprendere l’imperscrutabile, di abbracciarlo col pensiero, anziché abbandonarsi ad esso: affidare l’esuberanza della vita affettiva alla propensione analitica della vita della mente significa estinguerne l’energia, deprivarla d’intensità, convogliarla verso ciò che la nega e la sostituisce; anche ad un razionalista sarà pur sempre lecito domandarsi con beneficio di dubbio metodico: «È desiderabile l’affievolirsi della facoltà di produrre visioni e atti chiari?», magari intorbidando proficuamente quello specchio in cui la nostra ragione è solita riconoscere la propria solipsistica immagine, a costo di rilevare non più pensieri ma «gli oscuri bagliori della distruzione di una sostanza intelligente». L’insorgere di un affetto determina innanzitutto la perdita del criterio di separazione delle sfere razionalmente connesse: «Sfere del presente, del passato e del futuro; sfere dell’io e del non io; sfere delle domande e delle risposte; sfera della successione regolare dall’ordine al disordine; sfere delle sensazioni additive e di quelle isolate; sfera del personale e dell’impersonale − Tutte queste sfere a volte si mescolano. Si produce una confusione». Come Karl Kraus, anche Valéry prova l’orrore della mescolanza, esperisce l’impurità della ragione, il suo essere esposta ad una contaminazione percettiva che soggioga ogni dispositivo categoriale, at-
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traverso la confusione o il disordine che si crea tra fisico e psichico: come l’intelletto interpretante di cui parla Nietzsche una sola volta in Gaia scienza, la facoltà analitica viene ad estrinsecarsi come capacità di selezionare ed elaborare gli stimoli, di produrre nel soggetto modificazioni sensibili nonché reversibili, ripristinando un parziale controllo egemonico nei confronti della disordinata e riottosa varietà del molteplice. Percezioni vaghe e indistinte, sensazioni indefinite, mescolanza di tempi e di valori, di soggetto e oggetto, di piacere e dolore pressoché indiscernibili, instabilità perpetua, modificazione illimitata e non compensata o mal assorbita, discontinuità nel regime percettivo e sensoriale, energia dissipata e degradata: «tutta la vita psichica è mescolanza», dominio dell’inesplicabile, sistematico turbamento della peculiare geometria della coscienza, inquietudine della mente, scacco della conoscenza metodica, «impossibilità di esprimere il sentimento con la riga e il compasso». E tuttavia, fertilità e necessità del sentimento: un evento mi procura un’emozione perché non posso pensarlo adeguatamente, perché imprigiona una mente resa impotente, perché si presenta singolarmente secondo le modalità del caso se non dell’assurdo, senza la possibilità di attribuirgli un’imputazione causale o di ricondurlo ad una legge di copertura, ad un principio di ragion sufficiente; laddove anche Pascal aveva tentato una conciliazione tra sfere eterogenee d’esperienza, Valéry sostiene che «non ci sono “ragioni del cuore”, ma pressioni e decisioni mute», piuttosto forze che la ragione sembra non conoscere. Nella sfera inferiore e vile delle emozioni, considerate alla stregua di «mescolanze impure, caotiche», emerge l’esperienza del dolore che paralizza la mente, tanto che «Descartes avrebbe fatto meglio a scrivere: Soffro, dunque sono». Il cogito diventa insolvente e indifeso al cospetto del dolore, alla sua inesplicabile realtà che vanifica ogni enunciato sulla verità, ogni senso proferito dalla parola. Lo scandalo della sofferenza è il suo imporsi all’attenzione, il togliere al pensiero la sua libertà di autodeterminazione: «il male parla senza intermediario», la mente può soltanto fargli eco, entrare in risonanza: «Il dolore provocato da una causa qualunque sembra l’apertura di un terribile tesoro di vita insopportabile, di orrenda e acuta o pesante vita, di presenza che scaccia ogni presenza, − crea il bisogno di divorare il tempo, il corpo, la conoscenza, il mondo». Cercando di fronteggiare tale deriva del controllo razionale sugli eventi legata all’incoercibile potere del corpo, Valéry vagheggia l’invenzione di anestetici differenziali capaci di abolire
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quella sensibilità affettiva che offende la vita della mente, pur conservando intatta la sensibilità intellettuale. Esposti al dolore, ci accorgiamo dell’indice di passività della nostra esistenza, della dipendenza dell’atto del pensare da circostanze esterne, spesso indesiderate; se la nostra costituzione è biopatica e se il «cuore consiste nel dipendere», allora il nucleo della vita affettiva sarà l’esperienza erotica, la più radicale e irrazionale forma di dipendenza conosciuta dall’homo sapiens, il limite di ogni sua capacità esplicativa: «Amare è il vagito dell’ineffabile. − Io amo è il suo mormorio». Il progetto del filosofo cartesiano consiste allora nel rendere operativo “l’intelletto d’amore”, nel render ragione di ciò che, innanzitutto e per lo più, gli appare assurdo, incomprensibile, a cominciare dal fatto che l’amore «consiste nella strana idea che un solo determinato essere possa soddisfare un altro essere. È l’istituzione di una singolarità». Ecco la patologia della scelta: isolare una singolarità in modo esclusivo, un’esagerazione ingiustificata, un’iperbole irrazionale, che trasforma l’idea di una possibilità, un incontro fugace e contingente all’interno di un tessuto di relazioni disponibili, in un bisogno o in una mancanza. Tutto si fonda su un doppio occultamento, attraverso il quale l’altro è ignoto e ignorato nella sua alterità ed io stesso mi nascondo nell’immagine che ho costruito: «Ciò che è amato è, per definizione, in qualche modo sconosciuto. Io ti amo, dunque, non ti conosco. − Dunque ti costruisco − ti faccio; e tu ti disfi. Faccio la mia dimora, la mia tela, il mio nido, un tessuto di immagini per viverci, per nascondervi ciò che credo di aver trovato, per nascondermi a me stesso». Fagocitazione proiettiva che annichilisce, in un buon regime di reciprocità, entrambi i soggetti della relazione amorosa, i quali pur sperimentano un incremento di vitalità a causa dell’energia liberata per effetto della sintonizzazione, cioè un’intensificazione del sistema psicomotorio, spinozianamente un potenziamento della nostra sensazione di essere. L’amore passionale è dunque un succedaneo dei processi conoscitivi, una malattia mentale venerata come un tempo veniva onorata la follia, quell’inabissarsi della ragione che comporta altresì una sensazione di perdita dell’ubi consistam individuale: «Nell’amore c’è un non so che di fine del mondo, un elemento di disperazione pressoché infinita, allo stato puro, e come appagato − sguardo di naufrago su una zattera, frammenti stellari, più soli pur essendo in due, sguardo che si spinge fino al tenebrore del vuoto chiuso, ai confini dell’essere, e da questo sentimento rico-
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nosco gli amori più profondi». Quella di Valéry è la posizione di un razionalista arcipuro, che vuol ricondurre l’emotivo al cognitivo, ma al contempo è consapevole di possedere una sensibilità da mistico, che lo espone all’esaltazione del desiderio e al dissolvimento della ratio; soltanto tale sensibilità oltremetafisica può cogliere l’essenza ineffabile dell’amore, la sua arcana profondità, la cui genesi è simile alla rosa che sboccia senza un perché: «L’Amore cresce come una pianta, e quel che se ne vede, ossia le foglie e i fiori e i frutti e lo stelo, non è nulla senza quel che non si vede, le radici. Nessuno le conosce con esattezza, né conosce la loro estensione, la loro profondità, il loro preciso percorso, il loro stato. Non si può immaginare infatti di spiegare la forza di penetrazione, la vitalità, lo sviluppo di questa pianta attraverso gli aspetti manifesti della sua natura. Ogni amore che possa ridursi ad alcune cose che si possono enumerare, descrivere, comprendere, prevedere è una piccola pianta senza importanza. Ma dove l’Albero è cresciuto, là attorno la terra è estenuata, e quando è morto, è morta anch’essa». Nel caso di Valéry, la concezione mistica dell’eros appare del tutto compatibile, se non addirittura isomorfa, con il nichilismo solipsistico che impronta la scelta d’amore, la sua effimera pretestuosità, il suo infondato carattere occasionale; egli sostiene, suffragando così il connubio inestricabile di eros e mistica, che «in realtà non si ama affatto qualcuno a causa delle sue qualità intrinseche, a causa di aspetti universali ed elencabili presenti in lui − e che attraggono, ma, al contrario, a causa della sua inesplicabilità. Amare al più alto grado è amare inesplicabilmente, a dispetto di questo e di quello − è creare da sé i motivi che si crede di dover avere per amare quell’essere. La gioia di questa creazione, la sua manifesta fragilità, che tuttavia ha ragione dell’evidenza». Evidenza inesplicabile – come aveva già intuito il Kierkegaard scettico di In vino veritas.
La sensazione di esistere L’analisi di Valéry svolta nei suoi straordinari Quaderni filosofici si inserisce in quella grande, egemonica tradizione occidentale che considera l’eros una proiezione fantasmatica, un costrutto intransitivo, un prodotto di cristallizzazione, un effetto di selezione prospettica che trascende l’esplorazione dell’alterità in quanto tale. Nell’amore si ha sempre a che fare con l’imago trasfigurata
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dell’altro, mai con la sua effettività ontico-esistentiva, anche perché «il vero è incompatibile con l’attrattiva»; così in noi «si ama un’illusione che produciamo senza volerlo, e che alimentiamo per civetteria, per vanità, e per quel gusto di essere amati che è il gusto del potere arbitrario. Non sono io quello che voi amate − (E che cos’è io?). Non è, intendo dire, quell’io che mi attribuisco, − è un essere prodotto soltanto dalla vostra aspettativa e da alcuni aspetti di me stesso. Ciò è ben visibile nel seguito del vostro amore, dove si può osservare che vi struggete a negare e a cancellare tutti i volti e gli aspetti di me in disaccordo con quell’Idea così conforme al vostro bisogno». La fallacia erotica consiste nell’attribuzione di un’idea ad un essere, poi erroneamente considerato causa della stessa. Valéry appare in piena, implicita, sintonia con Stendhal ma diverso è il lapidario disincanto con il quale considera tale ossimorico pharmakon: «L’intossicazione è immagine più feconda che la cristallizzazione». Del resto, fin dal Medioevo, l’amore è sempre stato paragonato ad una creazione artistica, ad un artificio poetico, ed è in tal senso che va tuttora valutata la sua fecondità: «L’essere che più si fa amare è quello che concede di più all’invenzione, che stimola l’invenzione, che si fa creare e ricreare dall’altro»; come una donna brutta che soltanto un uomo d’ingegno può trasfigurare, come un’autentica nullità che, per assurgere al rango dell’interessante, richiede una cospicua integrazione di fantasia e benevolenza. Nessuno ama l’altro in quanto altro, per quello che è, per la sua singolarità storico-effettuale: «Si esigono modificazioni, giacché si ama sempre soltanto un fantasma. Ciò che è reale non può essere desiderato, perché è reale… Forse il colmo dell’amore condiviso consiste nella furia di trasformarsi l’un l’altro, di abbellirsi l’un l’altro in un atto che diventa paragonabile a un atto artistico”. In quanto fantasma del desiderio, l’amore non può che realizzarsi come paradossale condivisione di un inappagabile Kunstwollen, inteso come reciproca facoltà d’invenzione. La produttività dell’amore va misurata sia in termini specificamente estetici, sia più generalmente vitali, in un’ascendenza larvatamente nietzscheana come accrescimento qualitativo della volontà di potenza: «Tutto il valore dell’amore è nella qualità dell’energia che suscita nell’individuo». Noi non amiamo tanto l’altro quanto la sensazione di potenziamento delle risorse vitali che l’altro riesce a suscitare in noi e, reciprocamente, amiamo constatare nell’altro analogo effetto verosimilmente prodotto da noi
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stessi, o perlomeno dal nostro surrogato fantasmatico. Se da un lato dunque l’amore appare come l’esito di un’intossicazione (che altri chiamarono cristallizzazione), dall’altro agisce come stimolante, sensibilizzatore, iperestesizzante; pertanto utile al fine di potenziare l’esercizio delle facoltà mentali così come di incrementare la propensione all’azione. Valéry mostra così di condividere con Nietzsche e Leopardi una visione utilitarista-pragmatista circa il ruolo delle passioni, in base alla quale esse risultano utili al conseguimento degli interessi o al potenziamento delle risorse vitali. Nel pensiero di Leopardi si avverte il senso di tale strategia non tanto come rivalutazione della sfera emotiva quanto come sua funzione razionale rispetto allo scopo: se vogliamo conseguire qualche risultato di natura anche razionale, politico o morale, non possiamo affidarci direttamente alla ragione, in ossequio ad una presunta conformità tra mezzi e scopi, poiché «la ragione non è forza viva né motrice»; pertanto, l’uomo privo di passioni è destinato all’indifferenza e all’inattività, soprattutto in merito alle sue presunte finalità razionali. In Nietzsche si consolida il modello di valorizzazione pragmatica a sfondo utilitaristico delle passioni: «Utilizzare le passioni come il vapore per le macchine. Superamento di se stessi»; in questo frammento del 1884 si trova la precisa indicazione di trasformare le passioni in energia motrice, in carburante e propellente, insieme alla suggestione secondo la quale questa valorizzazione delle passioni costituisce un superamento dinamico della nozione di soggetto. «Quantum di potenza del cuore» che promuove la «trasmutazione dei valori» − decreta Valéry, rivelando esplicitamente la matrice filosoficamente più pregnante del suo pensiero. L’amore come rara e peculiare sensazione di esistere, procurata da alter ma che ego ha provveduto a creare per incantesimo, come perenne immagine del desiderio: «Io sono, lei disse, l’Essere reale di cui quello che tu conosci, che ami, che costruisci in te, quello che ti strazia e ti incanta − è soltanto il sogno. Svegliati. Dissolvi il mio fantasma. Vedrai come sono». Incredulità dell’amante al cospetto del correlativo oggettivo, reale, incarnato, tangibile, di quanto si è sempre soltanto immaginato: occorre fede per conferire il predicato d’esistenza all’oggetto assente, vagheggiato ma mai esplorato nella sua autonoma sussistenza; «c’è qui un singolare misticismo», in questo sentimento dell’impossibilità d’esistenza dell’essere amato − annota Valéry. Come già per l’Adolphe di Constant, l’eros risiede soltanto nel potere dell’assenza, capace co-
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m’è di generare l’immagine, di conferirle valore crescente, inesauribile, incommensurabile e pertanto inconfutabile. Pochi anni prima − nel suo straordinario Frammento sull’amore −, Simmel aveva scritto che l’esperienza d’amore si consuma nell’autosufficienza dell’interiorità, in cui l’altro raggiunge il punto limite zero coincidendo esclusivamente con la rappresentazione del soggetto: ora Valéry deve constatare che «l’amore dell’Altro è un travestimento dell’amore del Medesimo». Il desiderio dapprima prefigura o configura la presenza, poi sopravvive ad essa, per incontrollabile effetto di risonanza, secondo la scansione ciclica dell’intossicazione; tuttavia, prima o poi, nell’amante subentra un profondo disincanto allorché deve constatare l’evanescenza dell’intero processo quando egli «smette di sovvenzionare l’opera psichica», essendosi ormai avveduto che «le relazioni, quando non le forniva di tutto, non erano niente». L’amore è simulacro del Nulla, l’esperienza nichilistica per eccellenza; processo essenzialmente mimetico, perché amare è imitare sentimenti appresi altrove; come già aveva suggerito La Rochefoucault, «le passioni si nutrono di cliché. La maggior parte delle emozioni sono di origine convenzionale»; così, amore è idiota, destituzione deiettiva della mente, funesta dipendenza, «ma è il solo mezzo per sentirsi l’intelligenza della vita», la sua generosa quanto insidiosa esuberanza.
Il desiderio nel deserto Nella letteratura, nella musica, nelle arti, le emozioni hanno pieno diritto di cittadinanza: in queste attività vi è l’implicita consapevolezza che esse, pur venendo alla luce da un vortice irrazionale, agiscono cognitivamente, incrementano cioè il nostro patrimonio d’esperienza. Nella filosofia invece, da Platone in poi, tra la razionalità e le passioni esiste un acerrimo disaccordo. Almeno dagli Stoici fino a Kant, il Logos si rende immune dall’altro da sé, dall’insidiosa ingovernabilità di desideri e passioni, affetti ed emozioni. L’analisi del concetto di desiderio, condotta sul crinale che separa e unisce filosofia e psicoanalisi, richiede di inoltrarsi in un terreno impervio, «in questo campo abbandonato − scriveva Lacan −, questo campo screditato, questo campo escluso dalla filosofia, perché non padroneggiabile, non accessibile alla sua dialettica». La prima filosofia del desiderio – come già sappiamo − è stata quella di Platone: da un lato, nel Simposio l’identità del filosofo
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viene individuata nella componente erotica che si esprime nell’anelito al bello, seppur dissociato dall’integrità dell’esperienza sensibile; dall’altro, soprattutto nella Repubblica, viene istituita una netta opposizione tra la ragione e la sfera del desiderio, aprendo così la strada alla secolare condanna filosofica del desiderio. Eros scaturisce dalla mancanza, dal rimpianto, dalla nostalgia di un’unità perduta e irreperibile: pertanto il desiderio si manifesterà sempre come eccesso, sovrabbondanza, flusso disordinato, ipercompensazione narcisistica. Già in Aristotele è possibile avvertire i primi segni di una «promozione ontologica» del desiderio sotto l’egida del principio di ragione, inteso non più come mancanza ma come piacere del passaggio da potenza ad atto, seppur orientato a quella temperanza che lo rende legittimo, un appetito ragionevole depurato della sensualità, come accade nell’amicizia. Dopo secoli di demonizzazione del desiderio, di esonero dalle perversioni della concupiscenza e dalle abiezioni della carne, il desiderio viene sottratto al dualismo di anima e corpo ed elevato al rango di potenza affermativa da Spinoza, che lo intende finalmente come conatus vitale, perseveranza di ogni cosa nel proprio essere, fedeltà alla propria natura, condizione affettiva che persegue il proprio bene, incremento di potenza avvertito con gioia, esuberanza esistenziale: «Il desiderio è l’essenza stessa dell’uomo − si legge nel III° libro dell’Etica −, nella misura in cui è concepita come determinata, da una qualunque affezione di se stessa, a fare qualcosa». Tuttavia, anche per Spinoza, la passione è una rappresentazione inadeguata del desiderio perché ci abbandona ad un’esperienza di passività che va riscattata mediante un’idea chiara e distinta, capace di riaffermare il carattere attivo e positivo dei nostri desideri, fino a raggiungere la beatitudine dell’amore intellettuale di Dio. Sarà poi Nietzsche ad assumere compiutamente nel proprio pensiero, affrancato dal paradigma razionalista, la forza affermatrice del desiderio, come fondamento di una volontà di potenza che non è più mera autoconservazione della vita bensì suo costante incremento ottenuto attraverso l’utilizzo di energia affettiva. Se Apollo ci protegge dalla violenza degli affetti, Dioniso è l’emblema di questa volontà affermativa dell’esistenza: «ci siamo fusi con quella sconfinata, originaria gioia di vivere e, in dionisiache estasi, abbiamo il presentimento dell’indistruttibilità e dell’eternità di questa gioia di vivere». Dopo secoli di ascetismo metafisico fondato sulla denigrazione della vita e sul fraintendimento del cor-
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po, Nietzsche intende restituire il desiderio alla pienezza dell’esperienza, all’esuberante innocenza del corpo, ai piaceri dell’apparenza, alle lusinghe della seduzione, a quella ritrovata sensualità che è all’origine della trasvalutazione di tutti i valori finora egemoni, i quali hanno generato il nichilismo della vita declinante. Dopo Nietzsche, l’abbandono di retromondi metafisici è l’orizzonte entro il quale si muove il pensiero contemporaneo, da Freud che individua una inestinguibile pulsione di morte all’interno della libido, a Lacan che tematizza una «mancanza ad essere» come istanza ultima di un desiderio alimentato inconsciamente dal discorso dell’Altro; da Sartre, che identifica la verità del desiderio con quella della libertà, a Deleuze che delinea una geografia del desiderio disseminato in zone d’intensità, concepisce sovversive macchine desideranti e critica la psicanalisi che persiste platonicamente nel fondare il proprio discorso sulla mancanza, mentre invece «il desiderio non manca di nulla»: se Freud aveva colpevolizzato Edipo, possiamo ritrovare l’eroe tragico a Colono, innocente e fiero della propria forza di trasgressione. Al termine di un’ampia e originale ricognizione di tematiche quali l’amore narcisistico, quello oblativo, l’ambivalenza dei sentimenti, la perversione e la sublimazione, nella sua monografia sul desiderio Camille Dumoulié offre un’immagine suggestiva, richiamando dapprima l’attenzione sul carattere atopico, senza fissa dimora, inoggettivabile, del desiderio e poi rievocando la conclusione di Teorema, il film di Pasolini in cui il protagonista corre tra la sabbia di un deserto battuto dal vento, così come fa Marlene Dietrich al termine di Marocco: l’esilio, la privazione d’identità, sembra essere la verità del desiderio, che ci rende inafferrabili e ci consegna al deserto dell’inappartenenza.
Transustanziazione del piacere Eros e civiltà, l’opera più conosciuta di Herbert Marcuse, rappresenta un’originale compenetrazione teorica di materialismo storico e psicanalisi freudiana. Schilleriano, nietzscheano e neofreudiano appare il proposito di Marcuse di rendere compatibili eros e civiltà, riattivando politicamente mediante una teoria estetica, all’interno della società opulenta, le esigenze biologiche di una sessualità polimorfa, gli istinti repressi dall’organizzazione capitalistica della società: «mettere l’uomo in condizione di ap-
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prendere la gaia scienza, l’arte cioè di utilizzare la ricchezza sociale per modellare il mondo dell’uomo secondo i suoi istinti di vita, attraverso una lotta concertata contro gli agenti di morte». Secondo Freud la civiltà è fondata sulla sistematica e irreversibile repressione degli istinti umani, sulla rinuncia alla felicità e sul differimento del godimento; la cultura richiede il sacrificio metodico della libido e la deviazione sublimata dalla sua meta pulsionale. L’equiparazione freudiana di civiltà e repressione − si domanda Marcuse − è davvero inconfutabile e soprattutto irreversibile? Principio di realtà e principio di piacere sono davvero inconciliabili al punto di richiedere una modificazione inibitoria della struttura istintuale dell’uomo? Non sarà invece possibile concepire l’avvento di una civiltà non repressiva che abolisca gradualmente quella che Schiller considerava la mutilazione psichica dell’individuo moderno? L’interpretazione originaria della psicanalisi freudiana identifica dunque l’affermazione di una civiltà con la progressiva sovrapposizione del principio di realtà al principio di piacere, un adattamento di quest’ultimo che non lo detronizza bensì lo salvaguarda dal potere distruttivo della soddisfazione istintuale, sempre legata all’istinto di morte. Questa colonizzazione traumautica del desiderio, riscontrabile tanto a livello filogenetico quanto sul piano ontogenetico, che Marcuse chiama «transustanziazione del piacere», se trasforma l’apparato psichico in conformità alle norme vigenti nella società, lascia tuttavia inalterata la fantasia, che permane entro la giurisdizione del principio di piacere. Se l’istanza civilizzatrice comporta a livello cosciente una rinuncia al piacere e una sublimazione della felicità, a livello inconscio prevale l’impulso verso la soddisfazione integrale dei bisogni vitali: «L’inconscio custodisce gli obiettivi dello sconfitto principio del piacere. Fatta deviare dalla realtà esterna, o perfino incapace di raggiungerla, la piena forza del principio del piacere non soltanto sopravvive nell’inconscio, ma incide anche in vari modi su quella realtà che aveva soppiantato il principio del piacere. Il ritorno del represso costituisce la storia ostracizzata e sotterranea della civiltà». Marcuse ravvisa dunque nella teoria di Freud una tensione inconciliata che andrebbe dissipata in senso emancipativo, privilegiando il potere unificante dell’Eros, la cui libertà nella soddisfazione del piacere non ostacolerebbe «rapporti civilizzati duraturi nella società». Questo rifiuto dell’organizzazione iperrepressiva propria del tardocapitalismo si rende quanto mai urgente a fron-
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Secondo libro di un dittico filosofico e amoroso sull’Eros come relazione umana e viva esplorante l’altro oltre dominio e possessione utopia di carne e di pensiero questo Imperscrutabile Eros viene stampato nel carattere Simoncini Garamond su carta Arcoprint delle cartiere Fedrigoni dalla tipografia Sograte di Città di Castello per conto di Diabasis nel febbraio dell’anno duemila nove
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SCRITTURE
TESTI
«Apocalisse» di Giovanni, con un saggio sulla musica della fine del mondo Super Apocalypsim musica, a cura di G. Garrera F. Rosenzweig, Il filosofo è tornato a casa. Scritti su Hermann Cohen, a cura di R. Bertoldi A. Camus, Metafisica cristiana e neoplatonismo, a cura di L. Chiuchiù A. Camus, La devozione alla croce, a cura di L. Chiuchiù C. Michelstaedter, L’anima ignuda nell’isola dei beati. Scritti su Platone, a cura di D. Micheletti Davar n. 1 «Solitudini», a cura di A. Giannatiempo Quinzio Davar n. 2 «Paradisi», a cura di A. Giannatiempo Quinzio Davar n. 3 «La bellezza e il nulla», a cura di A. Giannatiempo Quinzio Davar n. 4 «L’io e la scrittura», a cura di A. Giannatiempo Quinzio STUDI
M. Vozza, A debita distanza. Kierkegaard, Kafka, Kleist e le loro fidanzate M. Susman, Il senso dell’amore, a cura di A. Czajka Friedrich Hebbel, Diari, a cura di L. Rega, prefazione di C. Magris IN ALTRE COLLANE
A. Czajka, Tracce dell’umano. Il pensiero narrante di Ernst Bloch I. Kant, Guerra e pace: politica, religiosa, filosofica. Scritti editi e inediti (1775-1798), traduzione e cura di G. Cunico H. Küng, L’intellettuale nell’Islam, a cura di G. Cunico, introduzione di D. Venturelli H. Küng, La mia battaglia per la libertà